Trattamento fisioterapico conservativo dell`instabilità. Silvano Ferrari

Transcription

Trattamento fisioterapico conservativo dell`instabilità. Silvano Ferrari
9e CONGRÈS DE LA SIRER - PIACENZA 2004
LES INSTABILITÉS LOMBAIRES
TRATTAMENTO FISIOTERAPICO CONSERVATIVO DELL’INSTABILITÀ
SILVANO FERRARI*, CARLA VANTI**
* Milano
** Bologna
La stabilizzazione lombare è uno degli obiettivi del trattamento del paziente con instabilità clinica e/o anatomica.
Basandosi sugli studi di Bergmark (1989), Janda (1986), Hodges, Hides, Jull e Richardson (University of Queensland,
Australia), Comerford ha approfondito le caratteristiche peculiari dei muscoli stabilizzatori della colonna, che si diversificano,
sia sul piano istologico che su quello biomeccanico, dai muscoli mobilizzatori (2001). Comerford suddivide i muscoli in tre
categorie: stabilizzatori locali (più profondi), stabilizzatori globali (intermedi) e mobilizzatori globali (più superficiali).
Gli stabilizzatori locali presentano una maggior percentuale di unità motorie lente o toniche (di tipo I, rosse), che hanno una
frequenza di scarica bassa, vengono attivate per prime, hanno una velocità di contrazione lenta, sviluppano poca forza ma
molta resistenza. Il loro reclutamento avviene ad una bassa percentuale rispetto alla massima capacità di contrazione (inferiore
al 25%); sono deputate al controllo sia dell’attività posturale, sia di movimenti funzionali con carico minimo. Questa
attività serve a garantire una stiffness articolare fisiologica e quindi ad evitare l’eccessivo movimento fisiologico e traslatorio,
soprattutto nella zona neutra articolare (Panjabi, 1992), zona in cui la stabilizzazione passiva offerta dalla capsula e dai
legamenti è minima. L’attività di questi muscoli aumenta, in modo anticipatorio, già prima di un carico o di un movimento,
consentendo così di proteggere e sostenere l’articolazione (Hides, 1996). Quindi la loro contrazione, che è continua ed
indipendente dalla direzione del movimento, non produce movimento, ma provoca una sorta di irrigidimento del sistema.
Infine, questi muscoli forniscono un importante input propriocettivo sulla posizione articolare e sul movimento, input
fondamentale perché il sistema nervoso centrale possa modulare correttamente il reclutamento delle diverse unità motorie.
I muscoli collocati in posizione intermedia sono gli stabilizzatori globali: essi hanno la duplice funzione di generare il
movimento e provvedere al controllo eccentrico dell’escursione articolare durante tutto il range di movimento, oltre che
decelerare i movimenti con carico minimo (rotazione), particolarmente a livello del tronco e dei cingoli. La loro attività non
è continua e dipende dalla direzione di movimento.
I mobilizzatori globali invece, più lunghi e superficiali, hanno la funzione principale di produrre e/o accelerare il movimento,
soprattutto in flesso/estensione. Anche la loro attività non è continua e dipende dalla direzione di movimento.
Questa classificazione inquadra sul piano chinesiologico i principali muscoli coinvolti nella statica e nella dinamica di tutti
i segmenti corporei. A livello lombare, sono stabilizzatori locali il multifido profondo, il trasverso addominale, i fasci
profondi dello psoas e quelli dell’obliquo interno, sono stabilizzatori globali il multifido superficiale, gli spinali, gli obliqui
addominali e il medio gluteo; sono mobilizzatori globali l’ileo costale, il gran dorsale, il retto addominale e gli ischiocrurali.
Sul piano funzionale, la muscolatura sia posteriore che anteriore del tronco è organizzata con caratteristiche simili. I muscoli
posteriori superficiali (ileo-costale e gran dorsale) sono estensori a vocazione cinetica e volontaria, mobilizzatori globali,
quindi utilizzati per il raddrizzamento dalla flessione; i muscoli dello strato intermedio (multifido superficiale e spinali)
sono stabilizzatori globali, utilizzati per frenare il movimento di flessione; i muscoli dello strato profondo (multifido profondo)
sono stabilizzatori locali, quindi controllano prevalentemente la posizione neutra articolare.
I muscoli anteriori più superficiali (retti addominali) sono mobilizzatori globali, quindi utilizzati per la flessione antigravitaria;
gli obliqui addominali sono stabilizzatori globali, particolarmente coinvolti nel controllo della rotazione del tronco; il
trasverso addominale è uno stabilizzatore locale, che si attiva anticipatamente rispetto ai movimenti del tronco e degli arti
(Hodges, 1996).
Questa impostazione costringe a rivedere il classico approccio terapeutico impostato sul rinforzo di muscoli volontari e
superficiali, per una funzione che invece è automatica e in carico.
La funzione stabilizzatrice muscolare deve infatti rispondere ad alcuni requisiti (Bergmark, 1989; Comerford, 2001; Hodges,
1996, 1997, 1999):
•
•
•
•
•
il timing di attivazione deve anticipare il movimento;
il reclutamento deve essere appropriato (né insufficiente, né troppo forte);
la rigidità muscolare volta al controllo segmentale non deve interferire con il movimento;
l’attività deve essere continua durante tutto il movimento;
deve sussistere l’invio di input propriocettivi per la posizione articolare, l’ampiezza e la velocità del movimento. A
livello lombosacrale, la maggiore concentrazione di fusi muscolari nei muscoli monosegmentali spinali (Cholewicki,
1996) confermerebbe proprio l’importanza del loro ruolo propriocettivo (Bogduk, 1997; Crisco 1991).
Diversi studi hanno documentato che in seguito ad un trauma articolare si riscontra un deficit della risposta neuromotoria
nei muscoli periarticolari, deficit che può essere efficacemente recuperato con strategie di rieducazione mirata (Davies,
1993; Grelsamer 2001; Hewett, 1999; Ihara, 1986; Jerosch, 1996; Lephart, 1997, 1998; Rozzi, 1999; Wojtys, 1996).
- 90 -
9 e CONGRÈS DE LA SIRER - PIACENZA 2004
LES INSTABILITÉS LOMBAIRES
A livello lombo-sacrale, è importante segnalare che:
• il reclutamento dei muscoli stabilizzatori è ritardato nei soggetti con dolore lombare (Cholewicki, 2002; Hodges, 1996,
1999; Radebold, 2001);
• nei soggetti con lombalgia la capacità di mantenere il corretto posizionamento pelvico e la funzione posturale stabile
sono ridotte (Alexander, 1998; Gill, 1998; Radebold, 2001);
• il deficit di stabilizzazione può continuare anche quando il dolore è cessato (Hides, 1994,1996; Cholewicki, 2002).
A supporto di quest’ultima considerazione, la ricerca effettuata da Cholewicki (2002) ha evidenziato una latenza nella
risposta stabilizzatrice del tronco persino in atleti che sono tornati alla piena attività, confermando quanto già emerso in
lavori analoghi (Roy, 1989; White, 1996).
Da questi studi si evince la possibilità del sistema muscoloscheletrico di espletare performance elevate, sopperendo al
deficit funzionale specifico degli stabilizzatori locali tramite l’utilizzo della muscolatura più superficiale. Quest’ultima
però è meno adatta a svolgere il compito richiesto, quindi, in caso di instabilità clinica, l’utilizzo di muscoli che tendono ad
affaticarsi precocemente comporta un controllo meno fine e preciso, provocando uno stress maggiore sulle strutture e un
progressivo accorciamento miofasciale dei muscoli superficiali.
Questa condizione può essere alla base dei dolori lombosacrali che si manifestano quando la performance è terminata, dopo
alcune ore o il giorno successivo. Il deficit degli stabilizzatori locali potrebbe spiegare anche alcuni eventi clinici quali: la
presenza, in soggetti non allenati, della continua dolenzia nelle comuni attività della vita quotidiana; l’insorgere di dolore
acuto senza sforzi apparenti; il perpetuarsi delle recidive.
L’instabilità può essere anatomica o clinica.
L’instabilità anatomica rientra nell’ambito delle disfunzioni strutturali, in quanto caratterizzata prevalentemente dalla perdita
della contenzione da parte del sottosistema passivo, come nel caso di spondilolistesi, instabilità post chirurgiche o esiti di
frattura.
L’instabilità clinica è una situazione diversa, che viene definita da Panjabi (1992) come “una significativa diminuzione
della capacità del sistema stabilizzatore a mantenere la zona neutra vertebrale nei limiti fisiologici. Ciò può sviluppare una
perdita di stabilità funzionale che può tradursi in dolore e disabilità”. I principali segni e sintomi dell’instabilità clinica
sono correlabili al mancato controllo della zona neutra vertebrale: dolore al cambiamento di posizione e/o dopo attività
dinamiche intense, diminuita resistenza alle posizioni statiche mantenute, sensazione di insicurezza, miglioramento con
una contenzione passiva. Il range di movimento è normale o ridotto, la qualità del movimento scarsa e il paziente manifesta
difficoltà o impossibilità nel passaggio tra movimenti opposti, come il ritornare in stazione eretta dopo essersi flesso in
avanti (movimento che viene spesso compiuto “arrampicandosi” con le mani lungo gli arti inferiori).
Clinicamente, è possibile valutare la capacità del paziente di eseguire semplici compiti funzionali in maniera armonica e
coordinata (ad esempio, si richiede al soggetto il passaggio del carico sul pallone o su superfici oscillanti), o si richiedono
compiti con gli arti che presuppongono una capacità stabilizzatrice anticipatoria del tronco (ad esempio, il calciare una
palla o lanciarla con le mani contro una parete). Test specifici, che si possono avvalere del biofeedback a pressione (Fig. 1),
sono in grado di rilevare un deficit di attivazione del multifido, dei fasci profondi dello psoas o del trasverso addominale.
In accordo con i concetti espressi, molte ricerche hanno recentemente supportato l’efficacia di un training volto al corretto
reclutamento neuromuscolare e quindi alla stabilizzazione lombare (Jull, 2000; O’Sullivan, 1997, 2000; Hagins,1999;
Richardson, 1999).
Le procedure di stabilizzazione non sono eseguite mediante i classici esercizi di rinforzo, ma tramite una specifica rieducazione
funzionale, in grado di rispettare la fisiologia dei gruppi muscolari e correggere le disfunzioni presenti, che possono essere
di attivazione, timing, tono, resistenza, lunghezza muscolare.
La rieducazione si articola in diverse fasi (Ferrari, 2002):
• controllo della posizione neutra articolare (riallenando l’attivazione tonica, a bassa soglia, dei muscoli stabilizzatori
locali);
• controllo dinamico nella direzione dell’instabilità (stimolando il soggetto a compiere i movimenti che riproducono i
sintomi, controllando il cedimento articolare);
• controllo dinamico della totalità dell’escursione articolare (con un’esercitazione prevalentemente in eccentrica per
migliorare la coordinazione con gli stabilizzatori globali);
• allungamento attivo o inibizione dei muscoli mobilizzatori globali accorciati.
Man mano che il controllo viene riattivato, si deve migliorare la capacità di stabilizzare mediante l’esecuzione di movimenti
controresistenza, esercizi aerobici, compiti che richiedono velocità di esecuzione, ecc. Trovano quindi ampio spazio gli
esercizi di propriocezione della colonna e quelli percettivo-motori, secondo gli stessi concetti utilizzati nella rieducazione
dopo traumi alla caviglia, al ginocchio o alla spalla.
- 91 -
9e CONGRÈS DE LA SIRER - PIACENZA 2004
LES INSTABILITÉS LOMBAIRES
Il training di stabilizzazione non si limita a coinvolgere i muscoli stabilizzatori locali, in quanto occorre considerare anche
il ruolo del diaframma e del pavimento pelvico nel mantenere una corretta pressione intraddominale. Occorre quindi integrare
la co-contrazione della muscolatura della parete addominale (trasverso addominale, parte profonda dell’obliquo interno e
multifido) con la respirazione ed il controllo del pavimento pelvico (O’Sullivan, 2000 e 2002).
Le tecniche utilizzate possono essere varie, da quelle segmentarie che utilizzano il feedback pressorio (Fig.1), a quelle più
complesse e globali. Gli esercizi devono essere ovviamente proposti in diverse posture (supino, in posizione quadrupede,
seduto, in piedi, ecc.).
A titolo di esempio, riportiamo il training per il trasverso addominale utilizzato da Hagins nel suo studio (1999), che si
propone non solo di riattivare il muscolo, ma anche di ripristinarne il corretto timing e la resistenza (Fig.2). Il training inizia
con la presa di coscienza dei muscoli addominali e la corretta attivazione del trasverso addominale (A e B) ed è composto
da sette livelli di difficoltà crescente, gli ultimi dei quali riservati a soggetti che devono espletare un notevole controllo di
stabilizzazione (atleti, ballerini, ecc.). Ogni sessione comprende tre esercizi, che saranno ripetuti dal soggetto a domicilio.
Man mano che il paziente riesce a raggiungere un livello successivo, si abbandona quello iniziale (A-B-1, poi B-1-2, poi 12-3, poi 2-3-4 e così via).
Fig. 1 – Valutazione del trasverso addominale mediante un biofeedback a pressione.
Lo stesso strumento può essere impiegato per il reclutamento muscolare.
Fig. 2 - Il livello 1 è un esercizio in grado di stimolare il lavoro segmentario degli
stabilizzatori locali. Può essere effettuato anche mediante il biofeedback a pressione,
chiedendo al paziente incavare gli addominali, aumentando la pressione da 40 a
50mmHg e mantenerla per tre respirazioni senza produrre compensi. La
prosecuzione del programma prevede un aumento progressivo dei carichi: il
paziente esegue esercizi sempre più impegnativi mantenendo il controllo dell’unità
interna (traverso addominale, multifido, diaframma e pavimento pelvico). ( da “
Riabilitazione Integrata delle Lombalgie”, Ferrari, 2002)
Appena possibile, si inserisce l’attivazione del trasverso nel contesto funzionale dell’unità interna, mantenendo la sinergia
con il multifido, il diaframma e il pavimento pelvico.
Anche il multifido può essere reclutato segmentariamente: uno specifico esercizio per la co-contrazione del multifido e del
trasverso addominale è illustrato nella Fig. 3.
Lo schema di trattamento proposto da O’Sullivan (2000) mostra che nella progressione del training si progredisce stimolando
l’attivazione del sistema muscolare globale, mentre il paziente mantiene il controllo della co-contrazione locale (Fig.4): in
questa seconda fase si ricerca l’integrazione funzionale tra le unità motorie più profonde e quelle più superficiali. Inizialmente
si utilizzano esercizi con bassi carichi e si incrementano le difficoltà tramite il lavoro degli arti, poi si inseriscono esercizi
con le resistenze, contro gravità ed in carico.
Fondamentali gli esercizi propriocettivi, attuati sul pallone o su superfici instabili, che permettono di ripristinare in modo
inconscio il controllo dinamico. Lo stesso scopo può essere raggiunto anche mediante altri approcci (Tai Chi, Alexander,
Klein-Vogelbach, Feldenkrais, Pilates, ecc.), a condizione che ogni strategia sia eseguita senza l’evocazione dei sintomi e
controllando la qualità e la precisione del gesto, l’assenza di cedimenti, di restrizioni, di asimmetrie.
Nella terza ed ultima fase il soggetto viene allenato a mantenere la stabilizzazione durante l’esecuzione di attività funzionali,
che comportano sollecitazioni sempre più intense e veloci, risposte a carichi improvvisi, esecuzione di gestualità proprie
della vita lavorativa, sportiva o ricreativa del paziente.
- 92 -
9 e CONGRÈS DE LA SIRER - PIACENZA 2004
LES INSTABILITÉS LOMBAIRES
Fig. 3 Reclutamento del muscolo multifido profondo. Il fisioterapista invita il
paziente a “resistere” alla spinta del segmento interessato verso il lettino
(direzione postero-anteriore) controllando che il compito venga eseguito con
un’azione di irrigidimento segmentario e senza l’attivazione dei muscoli
superficiali.
Fig 4 – Training del trattamento proposto da O’Sullivan (da “ Riabilitazione
Integrata delle Lombalgie”, Ferrari, 2002)
La verifica dell’outcome del trattamento considera sia il miglioramento soggettivo, sia quello oggettivo:
• la capacità del soggetto di riprodurre senza dolore le attività che prima risultavano sintomatiche;
• il miglioramento qualitativo e quantitativo dei movimenti funzionali;
• il miglioramento del punteggio nei questionari relativi al dolore e alle attività funzionali.
BIBLIOGRAFIA:
1. ALEXANDER K.M., LA PIER T.L. Differences in static balance and weight distribution between normal subjects and subjects with chronic unilateral
low back pain. JOSPT 28(6): 378-83, 1998.
2. BOGDUK N. Clinical anatomy of the lumbar spine and sacrum. 3th edition. Churchill Livingstone, 1997
3. BERGMARK A. Stability of the lumbar spine. A study in mechanical engineering. Acta
Orthopaedica Scandinavica 230 (60):20-24, 1989
4. CHOLEWICKI J., MCGILL S.M. Mechanical stability of the in vivo lumbar spine: implications for injury and chronic low back pain. Clin Biomech.
11(1):1-15,1996
5. CHOLEWICKI J., GREENE H.S. ET AL. Neuromuscular function in athletes following recovery from a recent acute low back injury. JOSPT 32(11): 56875,2002.
6. COMERFORD M.J., MOTTRAM S.L. Functional stability re-training: principles and strategies for managing mechanical dysfunction. Man Ther 6(1),
15-26, 2001.
7. CRISCO J.J., PANJABI M.M. The intersegmental and multisegmental muscles of the lumbar spine. A biomechanical model comparing lateral
stabilizing potential. Spine 16(7):793-799, 1991.
8. DAVIES G.J., DICKOFF-HOFFMAN S. Neuromuscular testing and rehabilitation of the shoulder complex. JOSPT 18:449-58, 1993.
9. FERRARI S., PILLASTRINI P., VANTI C. Riabilitazione Integrata delle Lombalgie. 2° edizione Masson Ed. Milano 2002.
10. GILL K.P., CALLAGHAN M.J. The measurement of lumbar proprioception in individuals with and without low back pain. Spine 23(3):371-77, 1998.
11. GRELSAMER R.P., MCCONNELL J. La rotula. Approccio d’equipe. Masson, Milano, 2001.
12. HAGINS M., ADLER K. Effects of practice on the ability to perform lumbar stabilization exercises. JOSPT 29(9): 546-55, 1999.
13. HEWETT T.E., LINDENFELD T.N. ET AL. The effect of neuromuscular training on the incidence of knee injury in female athletes. Am J Sport Med
27:699-706, 1999.
14. HIDES J.A., RICHARDSON C.A. ET AL. Multifidus muscle recovery is not automatic after resolution of acute first-episode low back pain. Spine
21(23):2763-69, 1996.
15. HODGES P.W.; RICHARDSON C.A. Inefficient muscular stabilization of the lumbar spine associated with low back pain: a motor control evaluation
of trasversus abdominis. Spine 21(22): 2640-50, 1996.
16. HODGES P.W., BUTLER J.E. ET AL. Contraction of the human diaphragm during rapid postural adjustments. J Physiol (Lond) 505 (Pt2):539-48,
1997
17. HODGES P.W., RICHARDSON C.A. Altered trunk recruitment in people with low back pain with upper limb movement at different speeds. Archives
of Physical Medicine and Rehabilitation, vol. 80, 1999
18. IHARA H., NAKAYAMA A. Dynamic joint control training for knee ligament injuries. Am J Sport Med 14:309-315, 1986.
19. JANDA V. Muscle Weakness and inhibition (pseudoparesis) in back pain syndromes. In: Grieve G.P. (ed) Modern Manual Therapy of the vertebral
column. Churchill Livingstone, Edinburgh, 1986,pp197-201
20. JEROSCH J., PRYMKA M. Proprioception and joint stability. Knee Surg Sports Traumatol Arthrosc 4:171-179, 1996.
- 93 -
9e CONGRÈS DE LA SIRER - PIACENZA 2004
LES INSTABILITÉS LOMBAIRES
21. JULL G.A, RICHARDSON C.A. Motor control problems in patients with spinal pain: a new direction for therapeutic exercise. J Manipulative Phys
Ther 23 (2):115-117, 2000
22. LEPHART S.M., PINCIVERO D.M. ET AL. The role of proprioception in the management and rehabilitation of athletic injuries. Am J Sport Med
25:130-137,1997
23. LEPHART S.M., PINCIVERO D.M. ET AL. Proprioception of the ankle and knee. Sport Med 25:149-1555, 1998.
24. O’SULLIVAN P.B., TWOMEY L.T. ET AL. Evaluation of specific stabilizing exercise in the treatment of chronic low back pain with radiologic
diagnosis of spondylolysis or spondylolisthesis. Spine 22 (24); 2959-67, 1997.
25. O’SULLIVAN P.B. Lumbar segmental “instability”: clinical presentation and specific stabilizing exercise management. Manual Therapy 5(1):212, 2000.
26. O’SULLIVAN P.B., DARREN J.B. ET AL. Altered motor control strategies in subjects with sacroiliac joint pain during the active straight leg raise test.
Spine; 27: E1-E8, 2002.
27. PANJABI M.M. The stabilizing system of the spine. I: function dysfunction, adaptation and enhancement. Journal of Spinal Disorders 5(4): 383389, 1992.
28. RADEBOLD A., Cholewicki J. et al. Impaired postural control of the lumbar spine is associated with delayed muscle response times in patients with
chronic idiopathic low back pain. Spine 26(7):724-30, 2001.
29. RICHARDSON C., JULL G. ET AL. Therapeutic exercise for spinal segmental stabilization in low back pain. Churchill Livingstone, Edinburgh, 1999.
30. ROY S.H., DELUCA C.J. ET AL. Lumbar muscle fatigue and chronic low back pain. Spine 14: 992-1001, 1989.
31. ROZZI S.L., LEPHART S.M. ET AL. Balance training for person with functionally unstable ankle. JOSPT 29:478-486, 1999.
32. WHITE A. H. Rehabilitation of athletes with spinal pain. In: WATKINS R.G. (ed) The spine in sports. Mosby, St.Louis 1996, pp264-65.
33. WOJTYS E.M., HUSTON L.J. ET AL. Neuromuscular adaptations in isokinetic, isotonic, and agility training programs. Am J Sport Med 24:187-192,
1996
TRAITEMENT KINÉSITHÉRAPIQUE DE L’INSTABILITÉ LOMBAIRE
S. FERRARI, C. VANTI
La stabilisation lombaire est un des objectifs du traitement du patient présentant une instabilité clinique et/ou anatomique.
En se basant sur les études de Dergmark...., Comerford à étudier les caractéristiques particulières des muscles stabilisateurs
de la colonne qui se diversifient aussi bien sur le plan histologique que sur le plan biomécanique des muscles moteurs.
Comerford subdivise les muscles en 3 catégories :
• stabilisateurs locaux (les plus profonds)
• stabilisateurs globaux (intermédiaires)
• moteurs globaux (les plus superficiels.)
Les stabilisateurs locaux présentent un pourcentage majeur d’unités motrices lentes ou toniques (de type 1, rouge) qui ont
une fréquence de décharge basse, sont activées en premier, ont une vitesse de contraction lente, développant peu de force
mais beaucoup de résistance. Leur recrutement survient à fréquence basse par rapport au maximum de capacité de contraction (moins de 25%). Elles sont dédiées au contrôle de l’activité posturale et aux mouvements sous charge minime. Cette
activité sert à garantir une raideur articulaire physiologique et ainsi à éviter un excès de mouvement dans le plan fonctionnel et en translation surtout dans la zone neutre articulaire, zone où la stabilisation passive capsulaire et ligamentaire est
minime. L’activité de ces muscles augmente en anticipant un mouvement ou une mise en charge permettant ainsi une
protection et un soutien articulaire, ainsi leur contraction continue et indépendante de la correction du mouvement ne
produit pas de mouvement mais provoque un enraidissement du système. Enfin ces muscles fournissent une importante
afférence proprioceptive sur la position articulaire et sur les mouvements, afférence fondamentale que le système nerveux
central pourra moduler correctement dans le recrutement des diverses unités motrices.
Les muscles localisés en position intermédiaire sont des stabilisateurs globaux, c’est à dire qu’ils ont la double fonction de
générer le mouvement et de pourvoir au contrôle excentrique du déplacement articulaire durant toute l’amplitude du mouvement ainsi que décélérer les mouvements à charge minime (rotation) particulièrement au niveau du tronc et des ceintures.
Leur activité n’est pas continue et dépend de la direction du mouvement. Les mobilisateurs globaux au contraire, plus longs
et superficiels ont pour fonction principale de produire et/ou d’accélérer le mouvement surtout en flexion/extension. Comme
précédemment leur activité n’est pas continue et dépend de la direction du mouvement. Cette classification regroupe sur
le plan kinésithérapique les principaux muscles concernés par la statique et la dynamique de tous les segments corporels.
Au niveau lombaire sont stabilisateurs locaux : le multifidus profond, le transverse abdominal, les faisceaux profonds du
psoas et les fibres internes des obliques.
Sont stabilisateurs globaux : le multifidus superficiel, les spinaux, les obliques abdominaux et le moyen fessier.
Sont mobilisateurs globaux : les ilio-costaux, le grand dorsal, le droit de l’abdomen et les ischio-cruraux.
Sur le plan fonctionnel la musculature postérieure et antérieure du tronc est organisée selon des caractéristiques semblables.
- 94 -
9 e CONGRÈS DE LA SIRER - PIACENZA 2004
LES INSTABILITÉS LOMBAIRES
Les muscles postérieurs superficiels (ilio-costaux et grand dorsal) sont extenseurs à vocation dynamique et volontaire,
mobilisateurs globaux, c’est à dire utilisés pour le redressement à partir de la flexion. Les muscles intermédiaires (multifidus
superficiel et spinaux) sont stabilisateurs utilisés pour freiner le mouvement de flexion. Les muscles profonds (multifidus
profond) sont stabilisateurs locaux, c’est à dire contrôlent surtout la position neutre articulaire.
Les muscles antérieurs plus superficiels (grand droit de l’abdomen) sont mobilisateurs globaux, c’est à dire utilisés pour la
flexion active ; les obliques de l’abdomen sont stabilisateurs globaux spécialement affectés au contrôle de la rotation du
tronc. Le transverse de l’abdomen est un stabilisateur local qui s’active en anticipant le mouvement du tronc et des membres.
Cette classification oblige à revoir l’approche thérapeutique classique basée sur le renforcement des muscles volontaires et
superficiels alors que leur fonction est au contraire automatique et en charge. La fonction stabilisatrice musculaire doit en
fait répondre à quelques principes :
•
•
•
•
•
leur activation doit anticiper le mouvement,
leur recrutement doit être adapté (ni insuffisant ni trop fort),
la rigidité musculaire liée au contrôle segmentaire ne doit pas interférer avec le mouvement,
l’activité doit être continue durant tout le mouvement,
il doit subsister l’envoi d’afférences proprioceptives à partir de la position articulaire, de l’amplitude et de la vitesse du
mouvement.
Au niveau lombo-sacré la concentration importante de fuseau neuromusculaire dans les muscles mono segmentaires spinaux confirme l’importante de leur rôle proprioceptif.
Plusieurs études ont montré qu’à la suite d’un traumatisme articulaire on note un déficit de la réponse neuromotrice des
muscles péri articulaires, déficit qui peut être récupéré efficacement par une stratégie rééducative adaptée.
Au niveau lombo-sacré il est important de signaler :
• que le recrutement des muscles stabilisateurs est retardé chez lez lombalgiques,
• que chez ces mêmes sujets lombalgiques, la capacité de maintenir un positionnement du bassin correct et une stabilité
posturale fonctionnelle sont réduites,
• que le déficit de stabilisation peut se poursuivre même si les douleurs ont disparues.
Dans cet ordre idée la recherche effectuée par Cholewicki a montré une latence dans la réponse stabilisatrice du tronc même
chez des athlètes qui ont repris une pleine activité confirmant des travaux analogues. De ces études on peut déduire la
possibilité pour le système musculo-squelettique d’atteindre des performances élevées en suppléant le déficit fonctionnel
spécifique des stabilisateurs locaux grâce à l’utilisation de la musculature plus superficielle. Cette dernière cependant, est
moins adaptée à remplir ce rôle et en cas d’instabilité clinique l’utilisation de muscles qui ont tendance à se fatiguer
précocement implique un contrôle moins fin et moins précis provoquant un stress majeur sur les structures et un raccourcissement progressif neo-fascial des muscles superficiels.
Cette situation peut être à l’origine de douleurs lombo-sacrées qui se manifestent lorsque la performance est achevée, après
quelques heures ou le jour successif. Le déficit des stabilisateurs locaux peut aussi expliquer quelques situations cliniques
parmi lesquelles : la douleur continue dans les activités de la vie quotidienne chez des sujets non entraînés, l’apparition de
douleurs aiguës sans effort apparent, et la survenue de récidive.
L’instabilité peut être anatomique ou clinique.
L’instabilité anatomique rentre dans le cadre des dysfonctions structurales caractérisées par la perte de la contention du
système passif comme dans le cas du spondylolisthésis, de l’instabilité post-chirurgicale ou des séquelles de fracture.
L’instabilité clinique est une situation différente qui a été défini par Panjabi comme une diminution significative de la
capacité du système stabilisateur à maintenir la zone neutre vertébrale dans les limites physiologiques. Ce qui peut développer une perte de la stabilité fonctionnelle se traduisant par douleurs et déstabilisation. Les principaux signes et symptômes
de l’instabilité clinique sont corrélés au défaut de contrôle de la zone neutre vertébrale :
douleur aux changements de position et/ou après l’activité dynamique intense, moindre résistance dans les positions statiques de maintien, sensation d’insécurité, amélioration par une contention passive. L’amplitude du mouvement est normale
ou réduite, la qualité du mouvement est mauvaise et le patient présente des difficultés ou une impossibilité dans le passage
d’une position extrême à l’autre comme par exemple se remettre debout après une flexion du tronc en avant (mouvement
qui sera réalisé souvent avec le soutien des mains qui remontent le long des membres inférieurs).
Cliniquement il est possible d’évaluer la capacité du patient à réaliser des tâches simples de manière harmonieuse et
coordonnée, par exemple (on demande au patient le transfert de la charge sur un ballon ou sur un plateau oscillant.) ou on
demande une tâche avec les membres qui présuppose une capacité stabilisatrice anticipatoire du tronc par exemple (le shoot
- 95 -
9e CONGRÈS DE LA SIRER - PIACENZA 2004
LES INSTABILITÉS LOMBAIRES
dans un ballon ou le lancer avec les mains contre le mur.)
Les tests spécifiques sont fondés sur un bio feed back par pression (figure 1) et sont en mesure de révéler un déficit
d’activation du multifidus, des faisceaux profonds du psoas ou du transverse abdominal. En accord avec les concepts cidessus, de nombreuses recherches sont orientées sur l’efficacité de l’entraînement dédié au recrutement neuromusculaire
correct et ainsi à la stabilisation lombaire. Les procédures de stabilisation n’utilisent plus les classiques exercices de renforcement mais une rééducation fonctionnelle spécifique en mesure de respecter la physiologie des groupes musculaires et à
corriger les dysfonctions présentes au niveau de l’activation, de la chronologie, du tonus, de la résistance et de l’allongement musculaire. La rééducation s’articule en différentes phases :
• contrôle de la position neutre articulaire (en ré entraînant l’activité tonique à seuil bas des muscles stabilisateurs locaux),
• contrôle dynamique dans le plan de l’instabilité en demandant au sujet de réaliser les mouvements qui reproduisent les
symptômes douloureux tout en contrôlant le dysfonctionnement articulaire,
• contrôle dynamique de la totalité de l’amplitude articulaire (avec un travail de préférence excentrique pour améliorer la
coordination des coordinateurs globaux),
• allongement actif ou inhibition des muscles mobilisateurs globaux raccourcis.
Au fur et à mesure que le contrôle sera réactivé, on doit améliorer la capacité de stabilisation durant l’exécution des
mouvements contre résistance, exercices en métabolisme aérobie, tâche qui demande vitesse d’exécution... On trouve ainsi
un grand espace pour les exercices de proprioception du rachis et les exercices perceptivo-moteurs selon les mêmes concepts utilisés dans la rééducation après traumatisme de le cheville, du genou ou de l’épaule. L’entraînement de stabilisation
ne se limite pas à recruter les muscles stabilisateurs locaux, en effet il faut également considérer le rôle du diaphragme et du
plancher pelvien dans le maintien d’une pression abdominale correcte. Il faut ainsi intégrer la co-contracture de la musculature de la paroi abdominale (transverse abdominal, partie profonde de l’oblique et multifidus) avec la respiration et le
contrôle du plancher pelvien. Les techniques utilisées peuvent être variées, depuis les techniques segmentaires qui utilise le
feed back à pression jusqu’au plus complexe et global. Les exercices doivent être évidemment proposés dans diverses
positions (décubitus dorsal, quadrupédie, assis, debout...)
A titre d’exemple nous rapportons l’entraînement du transverse abdominal utilisé par Hagins dans son étude qui se propose
non seulement de réactiver les muscles mais également de rétablir la chronologie et la résistance correcte. L’entraînement
commence par une prise de conscience de la musculature abdominale et l’activation correcte du transverse de l’abdomen
avec 7 niveaux de difficulté croissante, les derniers réservés aux sujets qui ont besoin d’un important contrôle de haut
niveau (athlète, danseurs...)
Chaque session comprend 3 exercices qui seront répétés par le sujet à domicile. Dès que le patient réussit à atteindre le
niveau successif, on abandonne l’exercice précédent.
Dès que possible on intègre l’activation du transverse dans le contexte fonctionnel global en maintenant la synergie avec le
multifidus, le diaphragme et le plancher pelvien.
Même le multifidus peut être recruté de façon segmentaire.
Un exercice spécifique pour la contraction du multifidus et du transverse de l’abdomen est expliqué par la figure 3.
Le schéma thérapeutique proposé par O.Sullivan montre que dans la progression de l’entraînement on stimule l’activation
du système musculaire global, pendant que le patient maintient le contrôle de la co-contraction locale. Dans cette seconde
phase on recherche l’intégration fonctionnelle entre les unités motrices plus profondes et celles plus superficielles, initialement on utilise des exercices à faible charge et on augmente la difficulté à travers le travail des membres, puis on insère les
exercices contre résistance, contre pesanteur et en charge. Les exercices proprioceptifs sont fondamentaux, réalisés sur
ballon ou plan instable qui permettent de reproduire de manière inconsciente le contrôle dynamique. Le même objectif peut
être atteint à travers d’autres approches à condition que chaque stratégie soit réalisée sans reproduire les symptômes et en
contrôlant la qualité et la précision du geste, sans ressaut, sans limitation, sans asymétrie.
Dans la 3ème et ultime phase le sujet sera entraîné à maintenir la stabilisation durant l’exécution de l’activité fonctionnelle
qui comportera des sollicitations toujours plus intenses et rapides, réponse à des charges aléatoires, reproduction de gestes
spécifiques à l’activité professionnelle, sportive ou récréative du patient.
L’évaluation du traitement sera effectuée de manière subjective mais aussi objective :
• capacité du sujet à reproduire sans douleur les activités initialement douloureuses,
• amélioration qualitative et quantitative des mouvements fonctionnels,
• amélioration des tests relatifs à la douleur et à l’activité.
- 96 -

Documents pareils