Brigitte Paulino-Neto, Giulio Paolini, in “Beaux

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Brigitte Paulino-Neto, Giulio Paolini, in “Beaux
Brigitte Paulino-Neto, Giulio Paolini, in “Beaux-Arts Magazine”, n. 25, Parigi, giugno
1985, pp. 36-41.
BPN: Per lei è la stessa cosa partecipare alla Biennale, realizzare una mostra antologica – come l’anno scorso al
Nouveau Musée a Lione – e presentare un’esposizione personale in una galleria?
GP: La Biennale è il tipo di manifestazione che mi piace di meno, per la sua struttura, la sua estensione
e l’implicita difficoltà di poter vedere bene le opere. Mi dà l’impressione – senza volerne giudicare i particolari –
di un rituale collettivo dei tempi moderni, di una grande riunione propiziatoria, necessaria sul piano dell’informazione
ma nello stesso sostanzialmente inutile. Preferisco le mostre personali, che permettono alle opere di manifestarsi
meglio. La mostra al Nouveau Musée a Lione è stata un’occasione unica di presentare la mia attività, in una chiave
di interpretazione del tutto personale. Sono molto contento che una pubblicazione abbia potuto conservare una
traccia di quel lavoro. Del resto, se è pur vero che non lavoro nella prospettiva di una mostra specifica,
è altrettanto vero che intendo l’esposizione non come una selezione arbitraria di opere, ma come una sorta di
messinscena del mio lavoro. Di conseguenza, il luogo che accoglie questa scenografia non può essermi
indifferente.
BPN: La problematica della rappresentazione continua a prevalere sul soggetto rappresentato?
GP: Non propongo nessun messaggio attraverso il soggetto dell’opera. Il punto per me è capire come l’opera,
in termini assoluti, possa essere immaginata. Quel che importa non risiede nel risultato dell’opera compiuta, ma
nell’intenzione che presiede alla sua concezione. Si tratta di creare le condizioni di una vibrazione percettiva, che
riguarda qualche cosa di assente, qualche cosa di presente in termini virtuali e ancora da scoprire. Gli oggetti
sono presenti solo per rendere visibile questa situazione potenziale. Non mi interessa dare all’immagine una
destinazione esclusiva, bensì dare al quadro la struttura di un’immagine potenziale. Mi succede, allora, di
cercare un elemento complementare all’immagine. A volte lo trovo nel titolo, a volte nelle brevi note con cui
accompagno il mio lavoro. Sono elementi che non vanno intesi né come didascalie né come interpretazioni
dell’opera, bensì come un itinerario parallelo all’immagine, altrettanto fondamentale. Sono l’espressione di una
rinuncia, l’immagine non è l’unica portatrice del senso di ciò che rappresenta: il senso si articola fra il titolo, le note
di accompagnamento e l’immagine stessa. Un quadro, per me, è sempre qualche cosa che, di per sé, non c’è. Un
quadro deve lasciar trasparire la verità di quello che potrebbe essere al di là di se stesso. Senza peraltro che tutto
questo abbia a che fare con le teorie dell’astrazione. Il quadro non si costituisce attraverso la sua materialità, ma
attraverso la prospettiva che suggerisce qualche cosa che sta oltre la linea d’orizzonte del nostro sguardo.
BPN: Quali sono i rapporti tra il suo lavoro e la storia dell’arte?
GP: I miei riferimenti alla storia della pittura non dipendono da un partito preso. Credo che lo sguardo che
rivolgiamo alla pittura sia costituito da una memoria visiva, nutrita di informazioni e cultura. Non mi propongo di
analizzare il passato, di fare dell’esegesi. Sono io stesso prigioniero di un inventario di immagini, al quale però non
attingo deliberatamente. Come qualche volta emerge un ricordo dalla nostra memoria, così affiorano anche delle
immagini. Non utilizzo l’iconografia del passato in modo sistematico. Mi muovo liberamente tra le tecniche e le
immagini, che hanno ognuna una sua storia. In generale mi trovo a confronto con immagini di artisti che si ha
l’abitudine di chiamare “classici”: artisti che avevano un atteggiamento molto vicino al mio nei confronti
dell’immagine: più che proporle, le aspettavano. Fra Angelico, Lorenzo Lotto, David, Poussin attendevano l’opera:
anziché parlare, si ponevano in ascolto. Essere classico, per me, significa questo. Non nel senso di un
atteggiamento passivo, ma nel senso di una distanza.
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BPN: Come si situa in rapporto alle correnti dell’“Arte povera” e dell’“Arte colta”?
GP: Appartengo alla stessa generazione degli artisti dell’Arte povera. Ho partecipato ad alcune loro mostre, più
per classe d’età che per affinità. Lavoravo già prima che questo movimento si fosse definito come tale e già
a quell’epoca ero più concettuale degli artisti dell’Arte povera. Più tardi, quando è apparsa la tendenza
dell’“Anacronismo” o della cosiddetta “Arte colta”, mi è stata assegnata la paternità di questo movimento, rispetto
al quale vi sono però delle differenze sostanziali: il recupero della pittura come mezzo non mi interessa, anche se
occasionalmente può restare una possibilità plausibile. Gli artisti “colti” si impegnano a porre in evidenza un certo
clima visivo che mi è del tutto estraneo. Per esempio: quando metto, uno di fronte all’altro, due esemplari identici
di una stessa scultura antica, non intendo tanto rappresentare queste due figure, quanto il vuoto che le separa.
Mentre i pittori “colti” recuperano e, di fatto, ridipingono temi propri dell’iconografia classica, a me interessa
lasciare intatta la distanza che ci separa da queste immagini, ma che, nello stesso tempo, ce le rende visibili.
BPN: Lei ha espresso l’ipotesi secondo la quale non avrebbe mai realizzato alcun altro lavoro al di fuori del suo
primo quadro.
GP: Dal momento che non conosco né posso sapere quale sarà il mio ultimo quadro, posso però almeno
immaginare, come ultimo, il primo. Quando affermo di non essere mai andato oltre quel primo lavoro, non lo
intendo, ovviamente, sul piano pratico. La questione potrebbe essere formulata in questi termini: se è vero che
non ho mai realizzato un’immagine compiuta, definitiva ed esaustiva, allora non ho mai realizzato nessuna
immagine. Il mio primo quadro mi ha dato la possibilità di immaginare delle immagini. Era una dichiarazione di
intenti. Era come dire: “ecco la mia opera!”. Sono partito da lì, ed è lì che oggi continuo a restare. Non credo né
a uno sviluppo né a un’evoluzione all’interno del lavoro. Credo invece a una disposizione di fondo, che rimane
immutata attraverso le esperienze successive e che sempre si rinnova, come se ogni volta fosse la prima volta.
Nel catalogo della Biennale ho spiegato, per esempio, che l’opera esposta è la versione più recente del mio primo
quadro. Nei disegni che costituiscono questo lavoro, i nove personaggi che offrono misteriosi oggetti si trovano in
corrispondenza dei nove punti di Disegno geometrico, appunto il mio primo quadro. Pur avendone dimenticato
l’immagine, quel quadro continua a riaffiorare e a deporre le sue tracce.
BPN: Nel suo lavoro risalta una sorta di espulsione del colore.
GP: Nella misura in cui non mi preme definire l’immagine in quanto tale, non insisto nemmeno su una sua
definizione cromatica. Il colore è un elemento che definisce con precisione un’immagine, è qualcosa di molto
esplicito. Non ho bisogno di arrivare fino a quel punto, di “attestare” l’opera. Bisogna essere consapevoli della
relatività del linguaggio visuale, del fatto che non è universale. La difficoltà sta nel trovare un segno che sia
consapevole di essere tale, ma che non si rappresenti come un segno.
BPN: “Melanconia ermetica” è il titolo di una delle opere presentate da Maeght-Lelong.
GP: La mostra comprende dodici lavori recenti. Melanconia ermetica è il titolo dell’opera più recente, oltre che più
importante, realizzata appositamente per questa occasione. È il lavoro che determina lo spirito generale della
mostra. Il titolo è ripreso da un dipinto di De Chirico, nel quale compaiono un busto di Hermes e un segno
geometrico. Indipendentemente dal riferimento dechirichiano, il significato letterale dei due termini rende bene lo
spirito di questo lavoro: qualcosa che non si spiega, ma che nello stesso tempo esprime la consapevolezza dei
limiti della sua stessa presenza.
BPN: I riferimenti a De Chirico sono frequenti.
GP: Sono attratto perfino dalle sue opere che in generale vengono disprezzate dalla critica, ossia quelle
successive al periodo metafisico. È un pittore che ha sempre lavorato per se stesso, indifferente alle critiche e alle
irrisioni che il suo lavoro suscitava. Ha saputo giocare il suo destino d’artista con molta eleganza. Forse non tutti
i suoi quadri sono dei capolavori, ma ha saputo dare una definizione della figura dell’artista moderno che soltanto
lui ha vissuto in tutta la sua dimensione.
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BPN: Qual è questa figura dell’artista?
GP: In primo luogo, è De Chirico, un artista inclassificabile. Ammetto che è una risposta di gusto un po’ romantico,
ma la intendo seriamente. Credo che l’artista sia qualcuno che si esprime meno degli altri. Il suo destino
presuppone, al contrario delle apparenze, un’assenza dalla scena. Siamo abituati a pensare che l’artista sia
sempre nel pieno potere dell’espressione. Personalmente, penso che sia presente senza esserlo.
(traduzione dal francese: M. Disch)
Ripubblicato in G. Paolini, Voix off, Éditions W, Mâcon 1986, pp. 169-174; G. Paolini, Ancora un libro, a cura di B. Corà, I
libri di A.E.I.U.O., Editrice Inonia, Roma 1987, pp. 37-41, in francese; Giulio Paolini. La voce del pittore - Scritti e interviste
1965-1995, a cura di M. Disch, ADV Publishing House, Lugano 1995, pp. 213-217, in italiano.
Versione originale
BPN: Est-il, pour vous, indifférent d’être présent à la Biennale, d’exposer seul, comme l’année dernière au
Nouveau Musée de Lyon, ou de réaliser une exposition personnelle dans une galerie ?
GP: De par sa structure, sa taille, la difficulté qu’il y a à bien voir les œuvres, la Biennale est, en général, le style
de manifestation qui me plaît le moins. Je retire, sans la juger dans le détail, l’impression d’un rituel collectif des
temps modernes, d’une grande réunion propitiatoire, aussi nécessaire pour l’information que fondamentalement
inutile. Je préfère les expositions personnelles. Les œuvres s’y manifestent mieux. Quant à ce que j’ai réalisé au
Nouveau Musée de Lyon, c’était une occasion presque unique de montrer toute mon activité, avec une clef
d’interprétation que j’ai moi-même donnée. Je suis très content qu’un livre ait pu conserver la trace de ce travail.
Cela dit, s’il est vrai que je ne travaille pas dans la perspective d’une exposition précise, il est également vrai que
je ne conçois pas celle-ci comme une sélection arbitraire mais aussi comme une sorte de mise en scène de mon
travail. En conséquence, le lieu où cette scénographie prend forme ne m’est pas indifférent.
BPN: La problématique de la représentation prime-t-elle toujours sur le représenté ?
GP: Je ne propose pas de message à travers le sujet de l’œuvre. Pour moi, la question est de savoir comment
l’œuvre, dans l’absolu, peut être imaginée. Ce qui est important, par conséquent, réside moins dans le résultat
de l’œuvre aboutie que dans l’intention qui a présidé à sa conception. Il s’agit, avant tout, de produire les
conditions d’une vibration perceptive concernant quelque chose qui n’est pas là. Virtuellement là, peut-être,
mais encore à découvrir. Aussi les objets ne sont-ils présents que pour rendre visible cette situation virtuelle.
Ce qui m’intéresse n’est pas de donner à l’image une destination exclusive, mais de donner au tableau la
structure d’un possible. Il m’arrive, alors, de chercher quelque chose comme un élément complémentaire de
l’image. Je le trouve parfois dans le titre, parfois dans les petites notes qui accompagnent mon travail. Il ne faut
comprendre ces éléments ni comme des didascalies, ni comme une interprétation de l’œuvre, mais comme une
voie parallèle à l’image, aussi fondamentale qu’elle. C’est l’expression d’un renoncement : l’image ne porte pas
intégralement le sens de ce qu’elle représente. Celui-ci est distribué entre le titre, les notes d’accompagnement et
l’image elle-même. Pour moi, un tableau, c’est toujours quelque chose qui, en soi, n’est pas là. Un tableau doit
donner la vérité de ce qu’il pourrait être au-delà de lui-même. Sans que cela ait un rapport quelconque avec les
théories de l’abstraction. Ce qui constitue le tableau n’est pas sa matérialité, mais la perspective qui suggère ce qui sera,
au-delà de ce qui est donné à voir.
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BPN: Quels rapports votre travail entretient-il avec l’histoire de l’art ?
GP: Mes références à l’histoire de la peinture ne relèvent pas d’un parti pris. Je crois que le regard que nous
portons sur la peinture est fait d’une mémoire visuelle, nourrie d’informations et de culture. Je ne me propose pas
d’analyser le passé, de faire de l’exégèse. Je suis moi-même prisonnier d’un inventaire d’images, dans lequel je
ne puise pas délibérément. Mais, comme un souvenir émerge, parfois, de notre mémoire, des images en
surgissent aussi. Je n’utilise pas systématiquement l’iconographie du passé. Je me promène en toute liberté entre
différentes techniques, différentes images qui ont leur histoire. En général, je me retrouve confronté à des images
d’artistes qu’on a l’habitude d’appeler « classiques ». Sans doute ces artistes avaient-ils un sentiment proche du
mien à l’égard des images : ils les attendaient plus qu’ils ne les proposaient. Des artistes comme Fra Angelico,
Lorenzo Lotto, David, Poussin, attendaient l’œuvre. Ils écoutaient plutôt qu’ils ne parlaient. Être classique, pour
moi, c’est cela. Non pas la passivité, mais une certaine distance.
BPN: Comment vous situez-vous par rapport aux courants de l’« Arte Povera » ou de l’« Art Cultivé » ?
GP: Je suis de la même génération que les artistes de l’« Arte Povera ». J’ai d’ailleurs participé avec eux
à certaines de ses expositions, moins par affinité que par classe d’âge. Je travaillais déjà avant que ce mouvement
ne soit défini comme tel et j’étais déjà à cette époque plus conceptuel que les artistes de l’« Arte Povera ». Après
cela, lorsque le mouvement dit de l’« anachronisme » ou de l’« art cultivé » est apparu, on a alors parlé, me
concernant, d’une paternité de ce mouvement. Or il y a, me semble-t-il, des différences importantes : la récupération
de la peinture comme moyen ne me concerne pas, même si cela reste une possibilité occasionnelle. Les artistes de
l’« Art Cultivé » s’occupent de mettre en évidence un certain climat visuel qui m’est étranger. Un exemple : lorsque je
place, l’un en face de l’autre, deux exemplaires identiques d’une même sculpture antique, je ne souhaite pas tant
représenter ces deux figures que le vide qui les sépare. Alors que les peintres cultivés récupèrent et, de fait,
repeignent selon des thèmes propres à l’iconographie classique. Ce qui m’intéresse, quant à moi, c’est de laisser
intacte la distance qui nous sépare de ces images, mais qui, en même temps, nous les rend visibles.
BPN: Vous avez émis l’hypothèse selon laquelle vous n’auriez jamais peint que ce même tableau qui fut votre
première œuvre.
GP: A partir du moment où je ne connais pas et ne peux savoir ce que sera mon dernier tableau je peux, en tout
cas, imaginer le premier comme étant l’ultime. Lorsque j’affirme que je ne suis jamais allé au-delà de mon premier
tableau, ce n’est évidemment pas une réalité pratique. On pourrait dire les choses ainsi : s’il est vrai que je n’ai
jamais produit d’images définitives, exhaustives, c’est donc que je n’ai jamais produit d’images. J’ai conçu un
premier tableau, qui m’a conféré l’aptitude à produire des images. C’était donc une déclaration d’intention. Ma
première œuvre, c’était : « voilà mon œuvre ! ». Je suis, autrefois, parti de là et c’est là, aujourd’hui, que je reste
encore. Je ne crois ni à un développement, ni à une évolution à l’intérieur d’un travail. Je crois à une disposition
générale, qui ne change pas à travers des expériences successives, mais qui toujours revient comme si c’était la
première fois. Dans le catalogue de la Biennale, j’ai par exemple expliqué que ce que j’exposais là était la version
la plus récente de mon premier tableau. En effet, les neufs personnages présents dans les petits dessins, et qui
présentent des objets mystérieux, sont en correspondance avec les neufs points du Disegno geometrico, qui était
mon premier tableau. Alors même que j’ai absolument oublié l’image de ce premier tableau, celui-ci me revient
et dépose ses traces.
BPN: Il y a, dans votre travail, comme un bannissement de la couleur.
GP: Dans la mesure où je ne tiens pas à définir l’image en tant que telle, je ne peux pas davantage m’appesantir
sur sa définition chromatique. La couleur est un élément qui définit très précisément une image, c’est quelque
chose de très évident. Or, je n’ai pas besoin d’arriver jusque là, de « certifier » l’œuvre. Il faut être conscient de la
relativité du langage visuel. Celui-ci n’est pas universel. Ce qui est délicat, c’est de trouver un signe, conscient
d’être un signe, mais qui ne se représente pas comme un signe.
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BPN: « Melanconia ermetica » est le titre d’une des oeuvres que vous présentez chez Maeght-Lelong.
GP: L’exposition comprend douze pièces récentes. « Melanconia ermetica » (« Mélancolie hermétique ») est
le titre de la pièce la plus récente et la plus importante que j’ai spécialement installée pour cette exposition. Cette
œuvre informe l’esprit général de l’exposition. Son titre n’est pas original. C’est le titre d’un tableau de De Chirico
où l’on voit une tête d’Hermès et un signe géométrique. Indépendamment de la référence à De Chirico,
la signification littérale de ces deux mots donne assez bien l’esprit général de ce travail : quelque chose qui ne
s’explique pas, en même temps que s’affirme la conscience des limites de sa présence même.
BPN: Vous vous référez souvent a De Chirico.
GP: J’aime, en effet, même celles de ces œuvres que la critique d’art, en général, déprécie, c’est-à-dire le De
Chirico d’après les œuvres métaphysiques. C’est un peintre qui a toujours travaillé pour soi-même, indifférent aux
critiques et aux railleries que son travail suscitait. Il a joué son destin d’artiste avec beaucoup d’élégance. Tous
ses tableaux ne sont peut-être pas des chefs-d’œuvre, mais il a su donner une définition de la figure de l’artiste
des temps modernes, qu’il est le seul à avoir vécue dans toute sa dimension.
BPN: Qu’est-ce que la figure de l’artiste ?
GP: En premier lieu, c’est De Chirico, un artiste qu’on ne peut pas classer. Je reconnais que cette réponse
a quelque chose d’un peu romantique, mais je la donne en toute conscience. Au fond, je crois que l’artiste est
quelqu’un qui s’exprime beaucoup moins que les autres. Le destin de l’artiste suppose, au contraire de ce que l’on
peut penser, une absence de la scène. Il nous semble que l’artiste est toujours en plein régime d’expression. Or je
crois, quant à moi, qu’il est là sans être là.