Claudia Gallo 2°3 Inchiostro rosso notte Sento il bisogno di scrivere

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Claudia Gallo 2°3 Inchiostro rosso notte Sento il bisogno di scrivere
Claudia Gallo 2°3
Inchiostro rosso notte
Sento il bisogno di scrivere un diario.
Quindi eccomi qui, chinato su un libro rubato a un amanuense a tracciare segni che
spero siano lettere. Non sono né uno scrittore né un poeta e tantomeno un filosofo:
sono un ribelle.
In questi anni di ribelli ce ne sono stati tanti, rivoluzionari convinti di dover cambiare
un sistema millenario e indiscutibile. Anch’io mi ribello, ma contro di loro. Non
m’importa quello che dicono gli altri, diavolo! Potrei avere la Francia contro e
continuerei nel mio intento: eliminare la loro minaccia. Ecco il perché di questo
diario.
Quello che sto facendo è importante. Lo sento come gli animali sentono arrivare la
pioggia. Lo vedo intorno a me e lo percepisco sulla pelle; c’è un’aria di rivolta,
l’ennesima.
Scrivo perché voglio che mi ricordino, voglio che la mia famiglia sia fiera di me e di
quello che ho fatto. Ma in realtà scrivo per una famiglia che ancora non ho, per
adesso c’è solo Jeanne. Mi ha promesso che mi aspetterà e io le credo. Sarà l’amore
che mi rende incosciente, ma… le credo. Allora perché partire? Perché lasciare la mia
terra, il mio futuro e le mie certezze?
Il 1793 è un anno strano, pieno di cambiamenti.
Nel 1793 il potere ha cambiato di mano, il re è stato ghigliottinato, la Francia
rivoluzionaria è entrata in guerra contro una coalizione composta da talmente tanti
regni che sembra di combattere contro il resto del mondo. Una delle conseguenze di
questa guerra è la chiamata obbligatoria alla leva di 300 000 giovani.
La mia storia, ancora con l’esse minuscola, è iniziata quest’anno, all’ombra di un
monastero. Avevo sentito anch’io delle rivolte nel paesino accanto, durante
l’estrazione a sorte dei giovani militari, tutti ne avevano udite di storie del genere. Io
non me ne interessavo, in fondo non ero che un mero contadino, istruito per caso
nell’arte della scrittura da un ecclesiastico. E sono proprio loro, gli ecclesiastici, che
hanno fatto di me quello che sono oggi: so scrivere, ho di che scrivere, ma soprattutto
ho qualcosa da scrivere grazie a loro.
Jacques Cathelineau era solo un sacrestano nel monastero del mio villaggio, eppure
c’è sempre stato qualcosa di speciale in lui, certo è un trascinatore di folle ma anche
in questo è diverso dagli altri. In molti della sua specie, tolto il carisma e il bel
parlare, non resta molto, ma lui! Lui ha un cuore grande; un cuore che lega il popolo
alla patria e la patria a Dio, un cuore che batte forte e dà il ritmo al nostro!
Un tardo pomeriggio, passando vicino al monastero, sentii la sua voce concitata
proveniente da una quercia e la curiosità mi fece avvicinare. Da quel giorno la mia
vita cambiò perché diventai uno dei ventisette uomini che, sacco in spalla e vita in
pausa, dette inizio alla rivoluzione più importante della Francia, e non parlo di quella
del 1789. Parlo della Guerra di Vandea del 1793, l’anno in cui io vi scrivo.
In quest’anno da semplice contadino sono diventato sostenitore attivo, militante della
monarchia sotto la guida di Jacques Cathelineau, il primo vero generale di un’armata
giusta e vittoriosa. Certo, siamo solo contadini, artigiani e qualche veterano di guerra,
ma le armi nemiche non ci fanno paura perché siamo nel giusto.
Il nostro primo successo fu a Jallais, un villaggio poco più grande del nostro che
distava un’ora e mezzo di marcia. Durante la camminata non mancò l’entusiasmo, i
forconi e le canzoni popolari. Tra le altre cantammo la Marsigliese monarchica, di
modo che, “Allons armées catholiques! Le jour de gloire est arrivé! Contre nous de la
république, l’étendard sanglant est levé!”, ci diede ritmo e ci distrasse dal peso della
nostra missione.
E così, di buon passo e umore, conquistammo Jallais presto seguita da Chemillé,
Cholet e Vihiers. Arrivò poi Pasqua e tornammo al nostro piccolo villaggio,
profondamente soddisfatti della nostra opera. In fondo ai nostri cuori temevamo di
non trovare sostegno, di dover continuare soli per il nostro cammino, e invece la
Vandea intera sembrava porgerci la mano, come fu confermato a Vihiers. Lì avevamo
trovato un altro gruppo, identico al nostro ma con una provenienza diversa e ci fiorì
nel cuore la speranza di non dover combattere, di poter convincere la nazione a
parole. Altri dovevano pensarla come noi, no?
Ma la risposta fu brutale, un no deciso dei villaggi conquistati; i repubblicani agirono
durante quei sacri giorni, irrispettosi quali erano, e recuperarono i villaggi. Fummo
costretti alla ritirata e in noi ribollì una rabbia di cui tutt’ora mi vergogno. Mi ricordo
che mi tremavano le mani, che il mio corpo era teso dal furore e i miei occhi erano
vacui di misericordia.
I repubblicani ci avevano cacciati come cani, per la seconda volta ci avevano umiliati
e messi in un angolo. Probabilmente ridevano di noi, poveri contadini che
insorgevano contro un potere che loro credevano superiore. Ma avevamo tutti gli
angeli del cielo a sorreggerci, tutti i santi a guidarci e il Signore a illuminarci.
Fu il nostro turno di cacciarli; recuperammo i villaggi persi, saccheggiammo Stoffet,
demolimmo Beaupreau, Saint-Jacques de Thouars divenne un ricordo e Angers il
nostro vanto. Era il 18 giugno.
Avevo ormai perso di vista i giovani con cui mi ero imbarcato in quest’avventura,
ogni giorno accanto a me c’era un uomo, una voce, una storia diversa. Eravamo però
un’armata unita capitanata da Cathelineau e viaggiavamo verso un’impresa più
grande: Nantes.
Sono costretto a posare la penna e arginare la piena dei ricordi per rimettermi in
marcia.
***
Ci siamo fermati per la notte, il silenzio è finalmente calato sui nostri passi stanchi, la
frescura sulle nostre pelli accalorate. La mia mente è in subbuglio, il mio corpo allo
stremo. Dormiamo alla “bell’étoile” ma le parole che mi riempiono l’anima sono così
diverse dalle stelle che illuminano il mio viso…
Le stelle sono chiare e la loro luce limpida, alcune sono meno visibili di altre, come
sussurri in una stanza affollata, ma almeno non nascondono nulla. Le parole invece
sono come il vetro appannato, o come un foglio bianco o anche come un baule pieno.
Sono confuse, oneste o criptiche. Possono fare entrare le persone in uno stato di
confusione e debolezza, molto simile a quello che stavo vivendo.
L’uomo accanto a me dorme beato sotto le stelle mentre io sono tormentato dalle
parole. Parole sentite per caso, certo non dirette a me. Eppure io ne sono il sofferente
destinatario. Sono poche parole, dall’aspetto innocente ma dal contenuto devastante:
“Ho sentito dire che non siamo i primi ad attaccare Nantes, siamo solo i rinforzi.”
Lui stesso ha sentito, forse anch’egli per caso, queste parole. Il suo dubbio amplifica
il mio, il suo timore risveglia il mio. Nantes doveva essere una preda facile da
catturare, doveva essere l’apice della nostra gloria, doveva consolidare la nostra
influenza dopo Angers. Eppure sento che siamo il secondo tentativo. La nostra
fiamma si sta dunque spegnendo? Ma non è questo ciò che mi preoccupa… se ci
hanno tenuto nascosto questo fallimento allora quanti altri ne abbiamo subiti?
Come dice Cathelineau; “il sangue che si versa per Dio non è mai perso, con quello
di Cristo serve alla redenzione del mondo”. Allora perché nascondere i nostri
sacrifici?
Ho paura che i nostri generali si siano dimenticati che noi non siamo semplici soldati,
ma l’origine stessa della rivolta.
***
Ci siamo fermati per la notte, un prete refrattario di un villaggio vicino è venuto a
ringraziarci per quello che stiamo facendo. Ha parlato a lungo con noi; di come i
vicini si siano piegati alla Costituzione, di come le nuove leggi siano scandalose. Ha
parlato di se stesso e della sua condizione, della sua cittadina e della sua parrocchia
eppure mi ha ricordato molto un altro prete. Ad Angers c’era un prete costituzionale
in una chiesa che costituiva una delle ultime sacche di resistenza. Avevamo sfondato
la porta ed entrando in chiesa il prete aveva cercato di far scappare le guardie
nazionali nascoste lì. Ci aveva talmente rallentato da permettere la loro fuga;
eravamo inferociti contro quel prete che, non solo aveva fatto fuggire i nostri
nemici, ma aveva anche accettato di diventare un impiegato della repubblica e aveva
rinunciato alle terre del clero, diventando un prete costituzionale. Eppure, nonostante
la scomunica papale, era lì davanti a noi, a implorarci in nome di Dio di mettere fine
ai massacri, di risparmiare i concittadini e tollerare la diversità d’idee. Lo avevamo
portato fuori insieme agli altri prigionieri e poco dopo ne avevamo ritrovato il
cadavere al lato di una strada. Sul momento non mi aveva turbato ma adesso, con
l’esatto opposto vivo e vegeto seduto di fronte a me, sono assalito dai dubbi.
Agiamo in nome di Dio eppure ne violiamo le leggi fondamentali. Nella nostra foga
di affermare la sua parola, l’abbiamo forse svuotata di senso? Quest’ultima morte è la
goccia che ha fatto traboccare il vaso: furti di ogni genere l’avevano preceduta, a
cominciare da questo diario. L’inchiostro con cui scrivo non è diverso dal sangue
perché ugualmente colpevole.
Adesso ho anche paura che noi stessi ci stiamo smarrendo.
***
Ci siamo fermati per la notte, l’ultima prima dell’attacco, ma come le precedenti sono
lacerato da dissidi interiori: stavolta non sono filosofici ma dolorosamente terreni.
Jeanne è morta.
La lettera diceva questo e altro, il perché, il quando e il come, ma non sono andato
oltre perché… Jeanne è morta. Nessuna spiegazione attenuerà la realtà e nessuna
parola la renderà più accettabile. Che siano state le guardie nazionali o una malattia
non cambierà il fatto che la mia famiglia è morta.
Sono parole semplici e chiare, sono come le stelle sopra le nostre teste. Perché allora
non riesco a vederle? C’è nebbia nel cielo scuro di fine giugno, le luci sono oscurate
e la rotta persa. Scrivevo per lei, e lei non c’è più. Devo forse continuare? Dopotutto
era la mia unica ragione… No: ho torto, ho un’altra ragione per scrivere. Scrivo per
essere ricordato come parte di un’impresa giusta, allora perché non sembra aver lo
stesso senso di prima? Attorno a noi ci sono visi sorridenti, risa spensierate e ho
l’impressione di essere l’unico a portare questo fardello sulle spalle. E’ possibile; loro
hanno luoghi e persone a cui tornare, al contrario di me.
C’è una donna poco lontano, sta piangendo per la morte di suo marito, un
repubblicano che ha ucciso uno dei nostri e che è stato ucciso a sua volta. Lei stessa
si è lanciata contro di noi e ha cercato di ferirci, tutto senza vederci a causa delle
lacrime. Degli uomini le si stanno avvicinando con un sorriso ubriaco in viso, non è
difficile indovinarne le intenzioni. Dalla notte dei tempi è stato così: i vincitori si
prendono tutto, onore, ricchezza e donne eppure è così sbagliato! Quella donna
avrebbe potuto essere Jeanne nelle mani dei repubblicani, in lacrime al pensiero di
me o della sua famiglia in fondo a una buca, cadaveri seppelliti sotto altri cadaveri.
Devo andare a fermarli, sperando di farli ragionare, ma loro sono i miei compagni,
dovrebbero vedere da soli la mostruosità delle loro azioni.
Sono l’unico a rendersi conto che la retta via è persa?
***
Tu non sei un ignaro lettore.
Sai bene qual è il mio fato; conosci la Storia che oggi, il 29 giugno 1793, ha marcato
la Francia. Chiunque tu sia e in qualunque tempo tu viva, sai come la mia storia,
sempre con l’esse minuscola, finirà. Io tremo aspettando ciò che deve accadere
mentre tu vedi il mio futuro con la tranquillità di chi non l’ha vissuto e che non può
capirlo. Non puoi capire quanta paura attraversa in quest’istante il mio corpo
nascosto in uno sgabuzzino al buio: è un miracolo che io possa ancora tenere la penna
in mano. Lo so, dovrei tenere un coltello o una baionetta nella mia mano, dopotutto
sono nel cuore della città nemica. Ma a cosa mi servirebbe?
Erano meno di noi eppure ci hanno tenuto fuori da Nantes per giorni. Erano meno di
noi eppure, una volta entrati nella città, ci hanno massacrato. Erano meno, ormai
siamo noi quelli in inferiorità numerica. Adesso che Cathelineau è stato colpito, che
succederà?
O sarò ucciso o scapperò miracolosamente, ecco cosa succederà. In entrambi i casi le
armi non mi serviranno perché la sconfitta mi è entrata nell’anima, o forse c’era già
prima. Forse aveva cominciato ad avvelenarmi lo spirito quando ho rubato e ucciso
per la prima volta, forse c’è sempre stata.
Non vedo le stelle ma so che splendono di una luce divina. La mia mente si è
schiarita e sarebbe meglio non fosse successo, visto il senso di colpa che l’invade.
Perché abbiamo preso le armi in nome del Signore? Non era forse lui a dire di
abbandonare la violenza in favore della pace? Servendolo non bisognerebbe
infrangere le sue leggi, allora chi abbiamo servito? La nostra rabbia, la nostra paura
del cambiamento forse… Non so, non so, non so più nulla. So solo, e adesso ne sono
sicuro, che ciò che abbiamo fatto è sbagliato.
Ho perso tutto, morale compresa. Perché scrivo allora? La mia famiglia è distrutta, il
mio ideale ha fatto la stessa fine poco dopo. Perché scrivo? Non trovo la forza di
posare la penna e nascondere il diario, devo mettere fine a quest’abominio, a questa
strana crociata degli uomini.
Sento il bisogno di mettere un punto e finirla.
Una finestra! Mi sporgo per vedere il cielo che si schiarisce, le stelle sono ancora
visibili, però. Quanto sono belle e luminose! Sono proprio come le immaginavo… Le
mie parole devono essere come le stelle del 29 giugno, devono cominciare a
spegnersi. Un’ultima frase per Jeanne però, per salutarla, per ... – Basta, devo mettere
il punto finale, non c’è più tempo.
Sento passi che si avvicinano,