DI Repubblica - La Repubblica.it

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Domenica
La
di
DOMENICA 21 MAGGIO 2006
Repubblica
il fatto
Il cuore prussiano sotto Berlino 2006
ANDREA TARQUINI e BERNARDO VALLI
la memoria
Fosbury, un salto indietro verso il futuro
EMANUELA AUDISIO e ENRICO SISTI
Muro
Il
Americano
Lettere
d’amore
Trent’anni fa, dal garage di una casa californiana, usciva
un nuovo tipo di computer destinato a cambiare il mondo
VITTORIO ZUCCONI
I
YUMA
l termometro nel cruscotto scandisce il viaggio verso il
confine, come la discesa dentro un vulcano. Parto da
Phoenix che segna 32 gradi centigradi. Appena la città
si arrende al nulla dell’Arizona, sbriciolandosi in un
vuoto che mi accompagnerà per 350 chilometri fino a Yuma e
inghiottirebbe mezza pianura Padana senza un rutto, comincia a salire. Dopo un’ora è a 35 gradi. Dopo due ore e mezza
sfiora i 40 gradi. E quando l’enorme bandiera americana che
segna la fine del mio mondo appare oltre la curva di un piccolo canyon color cioccolato, ecco la frontiera, ecco il vulcano.
Quarantasei gradi. In maggio. Welcome to Yuma.
Cinquecento arresti al giorno. Gatti grassi contro topi famelici. Settantamila all’anno che ce la fanno e settecento che
no, che muoiono seccati dal sole come prugne, nella corsa per
attraversare il deserto e sfuggire alla “Migra”, soprannome
della polizia anti immigrazione. Qui sorgerà il muro americano, la nuova Berlino pensata non per chiudere dentro, ma per
chiudere fuori, nel punto dove il contatto immaginario fra il
Nord e il Sud si fa incandescente sotto le suole e nero come l’asfalto che sfuma e prende alla gola. Qui si combatte una guerra di silenzi, di morti che cadono senza un grido e vengono
seppelliti dove cadono, sotto le pietre per proteggerli dagli
animali, una battaglia senza esplosioni, sotto un cielo stupendamente feroce e infinito. Prigionieri di un paesaggio che
Dio aveva creato per le salamandre, non per gli uomini.
Yuma, Arizona. L’ultima frontiera, la guerra tra i ricchi del
mondo che hanno bisogno dei poveri per restare ricchi, e i
poveri che hanno bisogno dei ricchi per sfuggire alla condanna della nascita. Sì, c’è anche il treno per Yuma, processioni di container trascinati dai muli diesel della Union Pacific, lentissimi perché nulla può muoversi in fretta in questo forno, neanche un treno. «Mexico: Last Exit Before the
Border», mi avverte un cartello sull’autostrada numero 8,
ultima uscita prima del confine. Commedia divina alla rovescia: lasciate ogni speranza, o voi che uscite, perché per
rientrare, se la vostra mamma non ha avuto il buon gusto di
partorirvi nel mondo giusto, sarete condannati a vivere affacciati sull’abisso e a consumare la vita a decidere se buttarvi giù. In undici milioni, se le cifre sono vere e ne dubito,
sono saltati giù e sono sopravvissuti. In cinquecentomila ci
provano ogni anno, tenendosi per mano, chiudendo gli occhi, portandosi solo quello che hanno sulla schiena, una
maglietta sudata, un paio di jeans, prima che costruiscano
«the Wall», il muro di seicento chilometri che ora dovrebbero innalzare per sigillare l’Arizona dallo stato di Sonora, il
Norte che ammicca nel buio oltre i cespugli e il Sur, l’America che non è America.
(segue nelle pagine successive)
cultura
I manifesti, tigri di carta del maoismo
FEDERICO RAMPINI
la lettura
Gli amori omosessuali del Novecento
DARIA GALATERIA e LAURA LAURENZI
spettacoli
La seduzione zingara dei nuovi circhi
CONCITA DE GREGORIO
l’incontro
Brian Eno, architetto della musica
GIUSEPPE VIDETTI
FOTO CHRISTOPHER J. MORRIS/REDUX
Repubblica Nazionale 31 21/05/2006
Viaggio al centro del nulla,
sul confine Arizona-Messico
Quel che basta per scoprire
l’inutilità della piccola guerra
di Bush contro i clandestini
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 21 MAGGIO 2006
la copertina
Il progetto di un imbarazzante “Berlin Wall”, le truppe, la visita
di Bush per rendere spettacolare l’avvio di una nuova “guerra”,
questa volta nel deserto di casa propria. Siamo andati a Yuma,
sul confine bollente tra Arizona e Messico, per vedere che succede
e per capire quanto sia vana la politica della Casa Bianca
Muro Americano
LE BARRIERE
CEUTA E MELILLA
BERLINO
CIPRO
BELFAST
COREA
Enclave spagnole
in territorio marocchino,
sono protette
da una rete metallica
anti-immigrazione
Il muro che negli anni
della Guerra fredda
divise in due la città
fu eretto nel 1961
e abbattuto nel 1989
Turchi e greci dal ’74
(anno dell’invasione
delle truppe turche)
sono separati da 180
chilometri di cemento
Negli anni ’70 fu eretto
un muro di mattoni e filo
spinato per ridurre
le violenze tra quartieri
cattolici e protestanti
La Corea del Sud
ha costruito nel ’77
una muraglia
che divide il paese
lungo il 38° parallelo
VITTORIO ZUCCONI
(segue dalla copertina)
FOTO GAMMA
I CONTROLLI
Nella foto sopra, i poliziotti di frontiera americani perquisiscono
gli immigrati senza documenti fermati al confine tra Messico
e Arizona. Sotto, la “Playa de Tijuana” in Baja California
FOTO ALEX WEBB / MAGNUM PHOTOS
Repubblica Nazionale 32 21/05/2006
Q
uando Bush è stato qui, giovedì scorso, gli
sceneggiatori della Casa Bianca, che hanno
riscoperto la guerra nel deserto di casa loro
dopo il disastro della guerra nel deserto degli
altri, lo hanno inquadrato dietro l’unico pezzo di frontiera fortificata ma, come tutte le
scenografie della falsa informazione, anche questo sketch era un inganno, un set. La frontiera fra gli Usa e il Messico non esiste. Basta uscire dalla città di Yuma che si finisce a sbattere contro il posto di controllo di San Luis,
seguire le strade di campagna dall’altra parte o da questa
per vedere che la sola barriera sono il caldo, la notte, il disorientamento, lo spazio, i serpenti a sonagli. E al muro
nessuno crede davvero, neppure quelli che lo invocano
per far scena con gli elettori e per distrarli dalle guerre
lontane. Non lo vuole neppure Bush, che parla di «frontiere sicure» e di «permessi di lavoro temporanei» con
documenti per gli immigrati clandestini, che è l’equivalente politico del “sale sulla coda”.
Documenti, dice? Torniamo a Yuma. La chica, la ragazza messicana che mi porta i tacos al tavolo, ha occhi
belli e svegli sotto le ciglia finte e il rimmel, sia mai detto
che una messicana si fa trovare struccata fuori casa. «Desculpe, me necessitan papeles…», azzardo nel mio improbabile spagnolo. «Parlo inglese», mi fulmina con un
lampo di mascara «sono nata qui a Yuma, I am an American». Ok. Sorry. Mi servono documenti per un’amica che
cerca lavoro... insomma… capisce, e stiro venti dollari
sul vassoio di plastica. Capisce. La ragazza, rassicurata
dal mio accento straniero, mi sussurra in fretta un nome,
«Pollo a la Brasa», e un indirizzo, «Colorado Avenue e
15esima. Ernesto», e se ne va coi miei venti dollari e le sue
ciglia finte.
Documenti, mister President? Nella rosticceria del
pollo alla brace l’Ernesto rosola galline e frigge docu-
Qui si combatte una battaglia
fatta di silenzi, di morti
che cadono senza un grido
e vengono seppelliti dove cadono,
sotto una pietra anonima
graffiata con le parole
“no olvidado”, non dimenticato
menti falsi. Il menu è semplice: un pollo intero quindici
dollari con papas fritas. Permesso di soggiorno falso cinquecento dollari, e senza patate fritte. Se lo voglio buono, con identità vera rubata a qualche ignaro cittadino,
ci vogliono tre mesi e cinquemila dollari. La roba buona
costa sempre cara. Però poi neppure la “Migra”, riesce
più a pizzicarti. Torno domani coi soldi, lo saluto. E il pollo non lo vuoi? No, niente pollo. I polli sono quelli che si
agitano credendo che si possa spegnere il vulcano dell’immigrazione dal Sud con un secchio d’acqua.
Yuma, Arizona. El Norte, la calamita, e il Sur, il Sud, polvere di ferro, limatura di umanità che vola e si incolla per
sempre. Un popolare demagogo di origine italiana, tale
Tom Tancredo, sta in tv a ogni ora e in ogni canale per
predicare che i clandestini andrebbero arrestati tutti e
deportati nei paesi di origine, Messico, Honduras, Guatemala, Salvador, tutto il centro America. Il classico cretino di successo da talk show, come ne conosciamo bene, basti pensare a quanti Jumbo Jet 747 servirebbero per
portare via almeno undici milioni di persone, circa trentunomila aerei, più dell’intera flotta civile e militare del
mondo. Per adesso, sotto la notte senza fine della Frontera, anziché deportarli, se non ce la fanno li seppelliscono sotto una pietra anonima con una scritta graffiata: No Olvidado, non dimenticato. La sera prima che arrivasse Bush, sono morte una donna incinta e il figlio di
due anni. Al presidente non lo hanno detto, per non turbare lo spot.
Attraverso e riattraverso la Frontera, per gusto sadico,
per impudenza, come i ricchi che nelle vignette si accendono i sigari con le banconote. Perché io posso e loro no,
loro sono nati nel posto sbagliato e muoiono nel posto
sbagliato. Tutti gli uomini sono stati creati con gli stessi diritti inalienabili, proclama la Costituzione americana. Dipende da dove nascono, si sono dimenticati di aggiungere. Questa volta vado a piedi, ad Algodones, insieme con
frotte di vecchi americani che vanno in Messico a comperare farmaci che costano un terzo rispetto agli Stati Uniti
e sono altrettanto inefficaci. Riprovo la stessa sensazione
di vertigine che avvertivo quando attraversavo, tre decadi
or sono, la frontiera sovietica. Di qua o di là, carcerati per
caso. Rifaccio la parte dell’aspirante clandestino.
Le ottanta farmacie che conto nella strada principale di
Algodones sono la pista di lancio della polvere verso il Nord.
Nella farmacia Maria Virgen, un po’ di devozione aiuta la
farmacologia, sotto un bar dove coppie di americani d’antiquariato succhiano margaritas e daiquires da cannuccine strettissime per farli durare di più, chiedo e ottengo risposta. Il “farmacista”, che di giorno vende pillole e di notte fa il “coyote”, il traghettatore di anime oltre la Frontera,
conosce le leggi del mercato. «Ora è tutto più difficile, più
peligroso, da quando Buuush — lo pronunciano così, strascicando la “u” — ha chiuso la Frontera», mi spiega. Duemila dollari a persona, con recapito in una casa sicura a Yuma. Duemila? I miei amici avevano detto mille e cinque. No,
Mister (Señor lo dice soltanto Speedy Gonzales), oggi c’è
DOMENICA 21 MAGGIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
INDIA
BOTSWANA
ARABIA SAUDITA
ISRAELE
Negli anni ’80,
per fermare i guerriglieri
saharawi fu costruita
una barriera
di 2.400 chilometri
Ha due muri: uno eretto
nel 1986 verso il
Bangladesh e l’altro
costruito nel 1989 verso
il Pakistan
Nel 2003 il governo
ha fatto costruire
un muro lungo i 550
chilometri del confine
con lo Zimbabwe
Nel 2003 è iniziata
la costruzione di una
barriera di protezione
verso lo Yemen: ora
i lavori sono sospesi
Ha fatto discutere
la decisione di costruire,
a partire dal 2003,
un muro di sicurezza
in Cisgiordania
Buuuuush, muy duro, muy duro. Ci sono garanzie? Ride.
«Suerte, mister». Questione di culo.
Nella notte infinita, io, figlio del passaporto giusto,
guardo dal basso della valle, dove il Colorado alle sue ultime anse, ormai stanco dopo aver scavato il Grand Canyon,
bagna di verde le sponde del deserto, come il Nilo in Egitto; guardo i lampi delle fotoelettriche della “Migra”, montate sui furgoncini bianchi, tagliare la notte e sembrano i
riflettori delle contraeree, contro il cielo stupendo. L’agente Tom Clayburn, che mi scorta, ascolta nel walkie
talkie il bollettino: 250 presi e ributtati oltre, «catch and release» si chiama, acchiappa e rilascia, come i pesci pescati dai pescatori buoni. Lo scorso anno ne avevano presi
75mila, in questo tratto: «E dove le abbiamo 75mila celle?», ride amaro. I politicanti sognano tendopoli apposite,
erette nel deserto, per detenere i clandestini. «Se l’immagina l’incubo di dar da mangiare e da bere a duecentomila accampati nel deserto, vecchi, neonati, malati?». Me
l’immagino, ma la politica deve fingere di avere soluzioni,
anche quando soluzioni non ci sono.
Se acciuffano i “coyotes”, i contrabbandieri di anime
che arrotondano con l’ecstasy, le anfetamine prodotte in
Messico e divorate negli Stati Uniti, quelli sì li mettono in
galera, ma i “coyotes” sono bestie accorte. Fiutano l’odore della “Migra” da lontano, lasciano al loro destino i
poveracci che hanno spolpato e corrono dall’altra parte
ridendo: «Ci rivediamo domani sera, maricones gringos»,
americani froci. «Fermare l’immigrazione clandestina
con pezzi di muro — dice Alejando Ruiz Costa, della Arizona University — è come stringere un palloncino pieno
d’aria. Si gonfia da un’altra parte». Chiudi la California,
passano per l’Arizona. Sigilli l’Arizona, passano per il
New Mexico, poi il Texas. E se accetti l’ignominia di un
“Berlin Wall”, arriveranno dal Canada, passando dal forno al frigorifero, o per nave, come i container che oggi
sbarcano a Seattle carichi di cinesi, a volte vivi, a volte no.
«Vada all’ospedale di Yuma», mi aveva suggerito il
professore della Arizona State University. Yuma oggi ha
200mila abitanti, scoppia di soldi, è una “boom town”,
ha appena costruito uno shopping mall scicchissimo,
con tutto il ciarpame del consumo di lusso. Ha portici di
finto stucco coloniale irrorati da una nebbiolina di acqua gelida che scende a velo dal soffitto sui consumatori per tenerli freschi e vogliosi di spendere. Il 95 per cento della manodopera che l’ha costruito era di clandestini, scrive il Comune di Yuma, l’altro 5 per cento erano
“regolari”, probabilmente con i “papeles” cucinati da
Ernesto. Sono gli stessi manovali, muratori, carpentieri
che hanno costruito l’ospedale, lo “Yuma Regional Hospital”, nuovissimo.
Gli ospedali, come gli obitori nelle zone di guerra, non
mentono mai, sono i tristi amici del cronista. Entro nel
reparto “Maternità e Infanzia”, un’ala a parte. Sembra la
hall di un albergo a cinque stelle. Vetrate isolanti, climatizzazione perfetta, gli “illegali” hanno lavorato bene.
Colori rassicuranti, pastelli azzurri e rossi, ovviamente.
Pelouche giganti, qualche citazione western, “decò” di
gusto Apache, ma sobrio e poi qui gli Apache c’erano
davvero, anche se oggi i loro discendenti gestiscono i
parcheggi e il solito casinò. Nella sala d’attesa con poltrone comode ma non soffici, studiate per donne col mal
di schiena da gravidanza, ne conto dieci vistosamente
incinte, otto con neonati o bambini piccoli a rimorchio.
Nessuno piange, nessuno protesta. Sono tutti latinos
meno una, la receptionist che mi guarda un po’ strano.
Posso aiutarla? No, grazie, mia figlia verrà, volevo vedere. Ho visto. Come avevo visto, qualche ora prima, la “Clinica” di Algodones, la sola del paese.
Un’ora di macchina, una corsa nella notte tra i cespugli
con il cuore in gola, un documento falso, e una donna porta il bambino che ha in pancia da un bordello sucio, sporco,
urlante, sgomitante a questo reparto di maternità dove anche a un maschio viene voglia di partorire. E quella che riuscirà a farcela, a vendere tutto quello che possiede, se stessa compresa, la donna che sopravviverà alla traversata del
deserto, a ore nel cassone sigillato di un camion sotto il sole di Sonora, ai coyotes, ai serpenti e agli uomini velenosi
per sbarcare allo “Yuma Regional Hospital” metterà al
mondo un americanino vero, uno del Norte. Uno con il suo
passaportino giusto e tutte le cartine a posto. Uno con un
futuro attraverso tutte le Fronteras.
Non l’hanno ancora inventato un muro che possa fermare una donna incinta che vuol dare un futuro al proprio figlio. Ma ci costano venti miliardi di dollari all’anno, strepitano i neo-fasc che sognano la grande muraglia
nel deserto contro i messicani che vorrebbero tornare in
quelle terre che ieri gli appartenevano. È vero, le donne
che ce la fanno, quei bambini che verranno al mondo cittadini del grande Nord e andranno a scuola e si faranno
curare nei pronto soccorso costano e parlano spagnolo.
Fuori tutti, gridano. Via, via, chiudete la porta e buttate
la chiave. E poi gli shopping center con la pioggerellina
finta chi glieli costruisce? L’Ernesto? Chi gli compera
tonnellate di rimmel e mascara? Le donne sotto le pietre
non si truccano.
Se non siete nati dalla parte
giusta del confine, siete
condannati a vivere affacciati
sull’abisso e a consumare la vita
a decidere se buttarvi giù:
undici milioni lo hanno già fatto
e sono sopravvissuti
FOTO CHRISTOPHER J. MORRIS/REDUX
MAROCCO
LE RECINZIONI
Nella foto sopra, una bimba messicana saluta la cugina
che si trova in territorio americano: sono moltissime le famiglie separate
dalla barriera. Sotto, un volontario dell’Arizona presidia il confine
FOTO CHRISTOPHER J. MORRIS/REDUX
Repubblica Nazionale 33 21/05/2006
Al centro del nulla
sulla frontiera
ricchezza-povertà
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
il fatto
Forme del vivere
DOMENICA 21 MAGGIO 2006
Neanche vent’anni fa qui passava il confine militare tra due
mondi opposti. Ora che l’ampliamento a est fa della capitale
tedesca la capitale Ue, gli architetti si sono improvvisati
storici, chirurghi, psicologi. E avendo il rischioso compito
di disegnare il futuro, spesso si sono arroccati nel passato
Tra le eccezioni, la Stazione centrale che sta per debuttare
BERNARDO VALLI
alla terrazza dell’Adlon,
in una giornata pallida, la
pietra chiara della Porta
di Brandeburgo, e la sagoma scura della quadriga che la sormonta come
uno sparviero, mi appaiono in tutto il
loro trionfalismo. Al quale la memoria
storica aggiunge un inevitabile tragico
tocco. Oggi il bunker di Hitler, a pochi
metri da qui, è la tomba di vecchi demoni nascosta sotto la città risorta. Mi
chiedo quali idee ispirasse questo angolo monumentale di Berlino, ai clienti succedutisi all’Hotel Adlon nel primo
Novecento, quando la Seconda guerra
mondiale non aveva ancora arato la
Germania e la sua capitale e i delitti del
Terzo Reich non erano ancora stati
scritti nella Storia: mi interrogo sulle
emozioni che questa solenne parte dell’Unter den Linden poteva suscitare in
personaggi celebri come Guglielmo II
(il Kaiser spesso soggiornava nell’albergo), Marlene Dietrich, Charles Chaplin, Albert Einstein, Enrico Caruso,
Lawrence d’Arabia, Erich von
Stroheim... Tutti testimoni oculari dell’era precedente all’Apocalisse, come
noi siamo testimoni del nuovo secolo,
ormai lontano dall’epoca dannata.
La Berlino che ho sotto gli occhi è l’espressione di un presente tedesco civile, affascinante, direi per tanti aspetti
ideale, se l’aggettivo non rischiasse di
esaltare una perfezione che è ben lontano dall’esistere, a Berlino o altrove. In
questa stessa Berlino si legge, si intravede il passato che la memoria storica
impedisce di cancellare, nonostante lo
zelo riparatore di architetti e urbanisti.
C’è insomma uno sfondo tragico, nella
forte attrazione che esercita la democratica capitale tedesca del Duemila.
Se ad abbracciarlo fosse soltanto lo
sguardo direi che questo frammento
del panorama berlinese è quasi immutato. Ai fianchi della Porta di Brandeburgo sono rispuntate le case Sommer
e Liebermann, e sono state ridisegnate
anche le lunghe aiuole con le loro fontane. Se uno getta un’occhiata alle fotografie d’archivio, prebelliche, non
scopre rilevanti differenze. Le copie
non sono troppo dissimili dagli originali. La leggera, impercettibile, impronta moderna lasciata sulle due costruzioni da Paul Kleihues, uno degli
architetti della rinascita di Berlino, attenua il rigido stile classico che si è voluto conservare.
D
La saggezza dello stile classico
È vero, gli edifici di un tempo, polverizzati dai bombardamenti, nelle fotografie sembrano meno impacciati. Lo stesso Hotel Adlon, a osservarlo bene, è una
torta rifatta con la stessa forma ma non
con la stessa anima. Una copia è sempre
una copia. E ci si può chiedere perché
mai, rifacendo Berlino, preparandola
ad essere di nuovo la capitale della Germania riunificata, si sia preferito retrocedere ai primi del Novecento, o addirittura all’Ottocento, piuttosto che puntare al Duemila. La risposta non è ambigua: è stato senz’altro saggio procedere
a ritroso. Ne è la prova, nonostante si avvertano tracce di kitsch inevitabili nelle
cose rifatte, la sobria ricostruzione della
Pariser Platz, all’estremità Ovest della
Unter den Linden, ai piedi, appunto,
della Porta di Brandeburgo. È inevitabile trovare da ridire su un’operazione urbanistica tanto imponente e quindi tanto vulnerabile. Senz’altro la più vasta
d’Europa, dopo quella seguita alla guerra: ed anche la più carica di significati:
poiché il vuoto tra le due Berlino, sino
all’89 attraversato dal Muro, era una ferita che, una volta cicatrizzata con la
Potsdamerplatz risorta, ha saldato le
due Germanie.
Gli architetti hanno avuto innumerevoli missioni. Sono stati chirurghi,
psicologi, storici, politici. Avevano lo
straordinario, rischioso compito di disegnare il futuro, e si sono arroccati nel
passato, per sfuggire alle trappole e agli
agguati della Storia e della politica. Non
è accaduto dappertutto nella città ricostruita, ma è senz’altro accaduto nel
suo cuore. Qui è avvenuta la ritirata, e
una ritirata è (quasi) sempre una fuga.
In questo caso una fuga nel passato intelligente e astuta. Non era semplice
decidere il nuovo volto della capitale
Berlino, quel cuore prussiano
sotto la pelle della nuova città
tedesca, destinata a diventare, nel nostro secolo, il centro dell’Unione Europea, allargata ai Paesi orientali. Nel
Continente diviso, Parigi era l’epicentro della parte occidentale; nel Continente senza più lo steccato ideologico,
economico e militare tra capitalismo e
comunismo, Berlino è il nuovo epicentro. È uno spostamento geopolitico che
segna il XXI secolo europeo.
Il ritorno del Parlamento e della
Cancelleria a Berlino, nella vecchia
capitale del Reich, situata a Est, sulla
Sprea, più vicina all’Elba e molto lontana dal corso del Reno, è stato un momento storico non soltanto per la Germania. Il Reno era stato per mezzo secolo un ancoraggio all’Occidente affacciato sull’altra sponda. Una vicinanza rassicurante che aveva profuso
quiete e saggezza a tutta l’Europa, attraverso la pastorale Repubblica di
Bonn, considerata un provvisorio
«esilio interno», ma nella realtà indispensabile asse portante della stabilità non solo continentale.
Una Germania «svizzera» andava a
genio a molti. Il trasloco ha segnato la
rinascita della Repubblica di Berlino.
Vale a dire il ritorno del potere in Prussia, con gli inevitabili, atavici interrogativi sui tedeschi. Interrogativi, sospetti,
ancora più forti se la capitale ritrovata
avesse assunto un aspetto imperiale.
Gli urbanisti ne hanno tenuto conto.
Hanno tenuto un profilo basso.
Perché, si sono chiesti, non adottare
lo stile prussiano, spurgato dal militarismo, ed enfatizzato nella sua modestia,
Chi guarda la Porta
di Brandeburgo
dalla terrazza
dell’hotel Adlon
ha un frammento
di panorama
immutato dall’800
che teneva conto di una terra allora
piuttosto povera, e che era dotato di
una solida, non arcigna, austerità? Si è
voluto al tempo stesso evitare che la
città diventasse una «gigantesca vetrina», con un aspetto fatiscente, un groviglio di metalli, di vetri e di luce, come
tutte le metropoli nuove o rifatte, disperse nei vari continenti. L’architettura nazista aveva corrotto il classicismo.
L’architettura democratica lo rinsavisce, almeno nel cuore di Berlino. Alcuni hanno denunciato l’eccessiva sobrietà e la mancanza di immaginazione. L’architetto Philip Johnson voleva
creare sulla Friedrichstrasse qualcosa
di «fantasioso», ma ha dovuto ripiegare
sugli enormi blocchi di edifici allineati
che egli stesso ha poi bistrattato.
Gli autori del piano hanno anzitutto
evitato che gli architetti si sbizzarrissero, come era accaduto in molti an-
goli della metropoli occidentale, negli
anni successivi al nazismo, quando
prevaleva l’ansia di cancellare il passato. Quel che allora era comprensibile, cinquant’anni dopo non lo era più,
sostenne Hans Kollhoff, uno dei principali architetti della nuova Berlino.
Non era più in gioco un quartiere periferico, un edificio isolato, una biblioteca o un auditorium. Si trattava di
creare il centro della capitale, non un
centro sperimentale d’architettura. Il
grande Norman Foster è stato richiamato più volte all’ordine: e il vistoso
baldacchino che voleva sospendere
sul Reichstag si è saggiamente trasformato in una tradizionale cupola simile a quella di fine Ottocento. I principi
che hanno disciplinato i grandi lavori
berlinesi erano assai semplici: andavano dal rispetto delle strade e delle
piazze, dei vecchi tracciati in generale, alla raccolta degli edifici in grossi
blocchi, ciascuno destinato a riempire lo spazio tra quattro strade; dalla
proibizione di superare, in altezza, i
ventidue metri, alla composizione di
facciate possibilmente in pietra.
Qualche strappo è stato consentito.
Di grattacieli ne spuntano almeno una
decina, ma non sono grappoli di funghi giganti sparsi nel panorama urbano. Ce ne sono sulla Potsdamerplatz e
sulla Alexanderplatz. Lo spazio dell’Alexanderplatz è stato rispettato per
salvaguardarne il carattere popolare.
Quasi una reliquia dopo il romanzo di
Doeblin. Un felice sgarro al regolamento mi sembra la torre di ottanta e
più metri, rigata da strisce in terracotta, di Renzo Piano. Essa sorge sulla
Potsdamer, dove vado puntualmente
ad alloggiare in un albergo di un lusso
francescano (non è una contraddizione, è possibile), cioè dove tutto è essenziale, nulla superfluo.
Mi sembra un po’ lo stile della nuova Berlino, quella esentata in parte dal
rigore urbanistico e che si inquadra
bene nel Duemila. Essa trionfa sulla
Potsdamerplatz dove le bombe,
creando un vuoto spazioso, hanno
concesso mezzo secolo dopo una certa libertà agli architetti. Nell’attesa
che gli anni diano a quell’area centrale della metropoli la patina che le manca (anche un quartiere troppo nuovo,
come un abito o un paio di scarpe, ha
bisogno di essere usato), mi astengo
dall’esprimere un parere. Il tempo
sarà un ottimo giudice. Ma già il fatto
di affidarsi alla sua sentenza significa
che nulla è compromesso. Insomma
l’incerto pregiudizio è favorevole.
I berlinesi dell’Est postcomunista si
sono sentiti disprezzati anche urbanisticamente: gli edifici del comunismo
prussiano sono stati quasi tutti demoliti uno dopo l’altro. A Hans Kollhoff è stato rimproverato di avere distrutto l’intero quartiere di Mitte, dove gli architetti
di Ulbricht e di Honecker, i leader della
Repubblica democratica tedesca, avevano costruito i loro edifici più ambiziosi, affiancandoli a quelli dell’epoca di
Hitler. Kollhoff ha respinto l’accusa, ma
ha aggiunto che i bulldozer non erano
stati abbastanza spietati.
DOMENICA 21 MAGGIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
UN TRENO OGNI NOVANTA SECONDI
La nuova Berliner Hauptbahnhof, che sarà inaugurata il 26
maggio, è costata 700 milioni di euro. Potrà avere un ritmo
di arrivi e partenze di un treno ogni novanta secondi. Al piano
superiore (est-ovest) transiteranno 300 convogli al giorno mentre
al piano inferiore (nord-sud) ne passeranno 500. La capacità
massima sarà di mille treni al giorno. I viaggiatori si sposteranno
all’interno con 54 scale mobili e 18 ascensori, nella struttura
si apriranno cinema, negozi ed esercizi di ogni tipo. Con le linee
ad alta velocità si potrà raggiungere Parigi o Verona in otto ore,
Monaco in cinque, Praga in tre ore e dieci
Tunnel di cristallo
crocevia d’Europa
ANDREA TARQUINI
C’
FOTO PIERRE ADENIS/GAFF/LAIF
Repubblica Nazionale 35 21/05/2006
Lo spoglio degli archivi della Stasi, la
polizia comunista, ha rafforzato la tesi
di coloro che trovano molti punti in comune tra la dittatura nazista e la dittatura comunista (sia pur con l’essenziale riconoscimento che quest’ultima
«non ha pianificato massacri sistematici»). Con la stessa severità gli architetti hanno giudicato e condannato le
opere urbanistiche dei due periodi.
Stefan Heim, scrittore dell’Est, ha pubblicato una raccolta di racconti sulla
Germania comunista con il titolo Costruito sulla sabbia.
Le velleità naziste
Estendo la sentenza anche all’edilizia
dei tempi di Ulbricht e Honecker, facendo però un’eccezione: la cura con
cui i comunisti hanno protetto, in
certi casi, i monumenti storici, al fine
di presentarsi come i continuatori
della tradizione germanica. L’ambizione nazista fu più prepotente. Hitler assegnò ad Albert Speer, nato in
una famiglia liberale di architetti, e
lui stesso architetto, ma nazista, il
compito di creare la capitale del «Reich pangermanico». E Speer fece demolire interi quartieri e avviò cantieri in cui furono impegnati i «lavoratori stranieri», molti dei quali erano slavi deportati e acquartierati nei campi
di concentramento.
Delle opere realizzate all’epoca di
Speer esistono ancora, anzitutto, il Ministero dell’Aviazione del Reich, all’angolo di Wilhelm e Prinz Albrecht Strasse (oggi Ministero delle Finanze), l’aeroporto di Tempelhof e lo Stadio del
Reich, in cui si svolsero le Olimpiadi del
‘36. Nello stesso Stadio, modernizzato,
si giocheranno tra pochi giorni le partite decisive del Campionato mondiale
di calcio. Nella nuova Berlino, capitale
democratica della più grande nazione
dell’Unione Europea, hanno un significato catartico, purificatore, il Museo
ebraico disegnato dall’architetto Daniel Libeskind, e l’Holocaust Mahnmal, creato a due passi dalla Porta di
Brandeburgo e dal luogo in cui si trovava il bunker di Hitler.
IL GIOIELLO
Nelle foto in
questa pagina,
la nuova stazione
di Berlino centrale.
La grande opera
architettonica
sarà inaugurata
il prossimo
26 maggio
Per costruirla
sono stati
necessari
25mila tonnellate
d’acciaio
e un milione
di metri cubi
di cemento
BERLINO
era una volta il treno, pensavamo fino a ieri. C’era una volta il treno per raggiungere luoghi remoti e collegare gli uomini tra
loro: il lussuoso Orient Express teatro dei gialli di Agatha Christie o
i lenti convogli zaristi narrati da Dostoevskij. Ricordi lontani, romanzi di ieri: oggi ci pensano l’aereo e i collegamenti internettiani
ad accorciare le distanze, avvicinare le Memorie. Eppure proprio a
Berlino il treno sta risorgendo, come un link vitale per l’Europa che
cresce insieme. Tra pochi giorni, a fine maggio, sarà inaugurata la
nuova Hauptbahnhof, la più straordinaria stazione del nostro tempo. Un edificio ultramoderno, il nuovo hub e crocevia del Vecchio
continente grazie all’alta velocità che pure tanti ancora contestano. Da ovest a est colazione a Parigi, shopping e cena a Berlino, tempo per l’ultimo spettacolo ai cinema di Postdamer Platz o per una
puntata nei locali alternativi di Prelzlauerberg. Poi colloqui d’affari il giorno dopo a Varsavia o a Praga, tutto senza volare. O se preferite, da nord a sud: caffè del mattino presto ad Amburgo e sera all’Arena di Verona. Vita a trecento all’ora senza rischiare ritardi e
senza lasciare il suolo. Con Berlino e la sua nuova stazione centrale quale pulsante luogo di riferimento del Vecchio continente.
La cattedrale vetrata dei treni è costata, compresi allacci ed elettronica, dieci miliardi di euro. Il 26 maggio sera Angela Merkel la
inaugurerà con un grande spettacolo di fuochi d’artificio. Andiamo dunque a vederla, la stazione delle meraviglie, il crocevia dell’Europa di domani. Eccola là sotto i nostri occhi, la cattedrale di
vetro illuminata dal primo sole del cielo sopra Berlino. Un tunnelnavata di cristallo lungo 321 metri, due minigrattacieli ipervetrati
anche loro che enormi gru hanno scaricato dall’alto sui binari in
una notte lo scavalcano come archi cubisti. Sotto il tunnel trasparente corrono alti i sei binari della rotta est-ovest, sorretti da due
ponti sospesi sulla Sprea. Arriveranno e ripartiranno da qui, uno
ogni novanta secondi, i bianchi Ice-3 tedeschi e olandesi della Siemens, i Tgv bluargento francesi o i Velaro spagnoli, e poi treni polacchi, cèchi, un giorno anche russi e ucraini. Un mondo sopraelevato come un sogno, già lo vediamo entrando nel cantiere dove
fervono gli ultimi lavori. Un mondo che sta per destarsi, pronto ad
accogliere un minimo di oltre trecentomila passeggeri ogni giorno da ogni parte dell’Europa.
Il progetto dell’architetto Meinhard von Gerkan sfida l’impossibile. Tutto vetro e trasparenze: scordiamoci qui pesanti costruzioni in cemento e marmo per accogliere i convogli. La cattedrale
dei treni, il grande tempio di cristallo che puoi già scorgere dai corridoi del Parlamento, dalle finestre della Cancelleria o passeggiando sul Tiergarten appena a ovest della Porta di Brandeburgo,
è solo la punta emersa dell’iceberg. Percorriamo il tragitto che tra
poche settimane i viaggiatori faranno comodi, con 54 scale mobili e diciotto mega-ascensori a disposizione. Ecco il pianoterra: un
enorme shopping center, ritrovi per giovani, locali d’ogni tipo.
L’ambizione è farne un altro Luogo della capitale, come Potsdamer Platz o il Ku’Damm, o come il Beaubourg o Montparnasse a
Parigi. Poi andiamo al sotterraneo, trenta metri sotto. Ecco l’altro
volto del grande crocevia d’Europa: binari e pensiline del traffico
nord-sud, nove binari in tutto. Più due per la U55, la nuova linea
del metrò berlinese con i treni automatici che ti porteranno alla
Porta di Brandeburgo e ad Alexanderplatz, più altri due per la SBahn, la linea veloce che conduce in ogni angolo della metropoli e
dei suoi paraggi. Il passante nord-sud è affidato a un’opera ciclopica, un tunnel a quattro binari di tre chilometri e mezzo che passa sotto il centro della capitale, scavato da una ‘talpa’ gigantesca.
«La nuova stazione-crocevia d’Europa sta nascendo un po’ come è nata Potsdamer Platz, Renzo Piano sa bene cosa voglio dire»,
confessa Hany Azer sorridendo soddisfatto. Piccolo, olivastro, l’aria dimessa, l’architetto e ingegnere egiziano plurilaureato è il direttore dei lavori. È un esempio ammirato d’integrazione per la
Germania multiculturale: «Ho studiato al Cairo, poi in Europa, ho
costruito reti di metrò nel territorio della Ruhr, l’antico cuore industriale tedesco», racconta. «Ma questa è un’altra esperienza,
molto più appassionante. È la mia piramide. Anche se dieci anni
di lavoro qui — da tanto si lavora a questa Fabbrica di san Pietro del
crocevia europeo, notiamo — mi sono costati un infarto, mi hanno persino imposto di smettere di fumare».
«Potsdamer Platz fu il primo grande cantiere della nuova-antica capitale, nell’ex terra di nessuno immortalata dalle riprese di
Wim Wenders», prosegue Hany Azer. «La stazione che stiamo per
inaugurare sarà l’ultimo. Con la sua apertura al pubblico si chiuderà anche un’epoca d’Europa: l’epoca di Berlino che torna capitale rincorrendo se stessa. La Berlino città-cantiere comincerà a
diventare compiutamente città nuova col primo treno ad alta velocità che sotto questa volta vetrata scaricherà qui passeggeri dalla Francia o dalla Polonia, da Copenaghen o dall’Italia».
Il grande sogno del crocevia sta diventando realtà, sotto la
grande volta vetrata sorretta da quarantotto archi. Computer e
sistemi di controllo tracciati come circuiti stampati sotto i binari consentono di organizzarlo senza rischi d’incidente. L’alta velocità viaggia rapida, ma arriva e riparte anche rapida. Ecco
quindi il treno ogni novanta secondi, ecco un volume di traffico
minimo calcolato in cinquecento treni al giorno al piano sotterraneo, il piano nord-sud come si diceva, e trecento almeno sopra. Capacità massima, mille treni al giorno. Più gli ottocento
treni quotidiani della S-Bahn e i mille del metrò.
Da Berlino ad Amburgo o a Hannover in un’ora e mezza anziché in quattro, a Francoforte in tre ore anziché quasi otto, a Monaco in tre e tre quarti anziché quasi nove. Questi sono i primati che la cattedrale di cristallo offrirà al traffico solo in Germania.
Come crocevia d’Europa, andrà ancora meglio: fino a Parigi o a
Verona in poco più di otto ore, a Varsavia in quattro ore e tre
quarti, a Praga in tre ore e dieci. La suggestione della Belle époque, quando le verdi, eleganti vaporiere Creusot-Loire, Krupp o
Vickers trascinavano i lussuosi convogli blu-oro degli espressi
europei più esclusivi, rivive in chiave postmoderna.
Venticinquemila tonnellate d’acciaio, un milione di metri
cubi di cemento, quanto ne basta per sessantacinque chilometri d’autostrada a sei corsie, centinaia di chilometri di cavi.
«Ma le cifre sono fredde, aride», dice Hany Azer. «Non ti danno
l’emozione del nuovo che nasce e del vecchio che rivive, qui nel
grande cantiere costruito dove un tempo passava il Muro. Forse — confessa con un bel sorriso — non c’è niente di più bello
che progettare il crocevia d’Europa proprio qui, camminando
con l’emozione come sul filo del funambolo sull’ex linea rossa
della città frontiera della Guerra fredda».
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 21 MAGGIO 2006
la memoria
C’era una volta in Oregon un atleta ragazzino
che non riusciva a eccellere in nessuna specialità
Finché, ribelle ai consigli, provò a superare l’asticella
con la schiena anziché con il ventre, come facevano tutti
Lo considerarono un numero da circo, ma dopo la prima
vittoria, quarant’anni fa, calamitò l’attenzione di tutti
Rivoluzioni sportive
Un salto all’indietro e Dick
ENRICO SISTI
era una volta un ragazzo che non sapeva cosa fare del suo presente. Si divertiva ad andare al campo d’allenamento tutti i giorni,
sperando di sorprendere qualcuno con i
suoi salti da scimmia ammaestrata. Non
aveva gran talento, solo tanto coraggio e
una cinica determinazione nel contraddire gli ordini della sua famiglia: «Che
perdi tempo a fare con quelle scemenze,
Dick!». Nella domenica della brava gente
di Medford, Oregon, sua madre, segretaria di una piccola ditta di ricambi auto,
avrebbe preferito portarselo dietro in
chiesa a pregare un dio che, senza dirlo a
nessuno, suo figlio incontrava in privato
tutti i pomeriggi a fine allenamento: Dick
protestava («lo facevo bisbigliando») con
il suo invisibile referente alzando gli occhi al cielo davanti al minuscolo manifesto di Elvis Presley che aveva sopra il letto: «Perché non riesco a fare il salto giusto? Perché gli altri sì e io no?».
Dick aveva sedici anni. Era nato nel ‘47.
Gli americani avevano già messo a subbuglio l’atletica leggera ma non l’avevano
ancora colonizzata sino a trasformarla in
una loro provincia. Aveva deciso di buttarsi sul salto in alto. Giocando da bambino si divertiva a saltare le staccionate facendo la forbice. Vide alcuni fare altrettanto in pedana. A scuola gli fecero capire
che poteva abbandonare le staccionate
C’
“Non ero niente
Né un tuffatore,
né un’acrobata”,
dirà di sé l’inventore
della nuova tecnica
rievocando i suoi
primi tentativi,
che nel 1968
a Città del Messico
avrebbero finito
per portarlo
all’oro olimpico
SEDUTO A MEZZ’ARIA
Qui sopra, Dick Fosbury
supera l’asticella utilizzando
la sua rivoluzionaria tecnica
all’indietro. L’immagine
è del 1968, l’anno dell’oro
olimpico. Accanto, un ritratto
del saltatore Usa nel 1970
per qualcosa di più redditizio: «Saltava
con una naturalezza impressionante»,
dirà il suo primo coach Berny Wagner. Sarebbe bastata una leggera rettifica, un aggiornamento nel modo di scavalcare l’asticella e Dick avrebbe cominciare a crescere. Sarebbe diventato un atleta vero.
Cocciuto com’era però, e refrattario agli
insegnamenti pratici, Dick non si fece
convincere a cambiare stile (lo pregavano
di dedicarsi alla tecnica ventrale, quella
più diffusa) e cercò altre strade. Tentò con
i cento metri. Fra i suoi miti entrò in pianta stabile un tedesco bianco che correva
più veloce della luce: Armin Hary. Esile, filiforme, robusto, Dick non ebbe fortuna
neppure con la velocità: a stento scendeva sotto gli undici secondi. «Gli consigliai
persino il salto triplo», disse Wagner.
Poi la folgorazione. «Ancora qui, ragazzo? Spicciati che oggi non c’è nessuno e allora chiudo prima». Il custode del campo quella mattina aveva la
luna di traverso. «Pioviccicava». Dick
andò in pedana pensando che doveva
osare, sperimentare, andare verso il
nuovo: «La notte prima ero rimasto
sveglio a immaginare una pazzia». Un
salto rovesciato. Si era infatti reso
conto che perfezionando il vecchio
L’INCLINAZIONE
È fondamentale nella fase curva
della rincorsa: deve essere
proporzionale alla velocità di entrata
e al raggio di curvatura
LO STACCO
Poggiando tutto il piede,
si indirizza il corpo
verso l’alto; il ginocchio
della gamba libera
viene slanciato
in seguito alla spinta
LA RINCORSA
È divisa in due parti,
la prima è rettilinea
e consiste in due
o quattro passi,
la seconda è curva
ed è di quattro passi
CORNELIUS JOHNSON
CHARLES DUMAS
VLADIMIR YASHCHENKO
JAVIER SOTOMAYOR
Vince l’oro a Berlino 1936 saltando
2,03 con la tecnica “Western roll”
Fra i più celebri saltatori con la tecnica
ventrale: supera i 2,13 nel ‘56
Nel 1977 salta i 2,33, primo record
mondiale con lo stile Fosbury
Con i 2,45 saltati nel 1993 è l’attuale
detentore del record maschile
l vento nuovo soffiò. Li scosse e travolse. Lui scese, lei salì. Portava libertà, fuori dagli schemi, descritti minuziosamente in 270 pagine. Stesso cielo, ma voli diversi. Il Fosbury cambiò per sempre le loro vite e carriere. Erminio e Sara. Azzaro e Simeoni. Due atleti, una coppia, un respiro fatto d’aria. E l’altro, l’americano, che si mette in mezzo. Sembra di sentire la
canzone di Aznavour: «Lui sa tentarti con maestria, tu sei seccata che io ci sia. Ed io tra di voi se
non parlo mai osservo la vostra intesa». Erminio è primatista italiano e nel ‘68 vede il salto in
tv. «Mi dico: oh, ma questo che combina? Passa con il dorso? La mattina dopo a Formia ci provo anch’io: va male,
mi do una ginocchiata, il naso mi sanguina».
Per lui, niente da fare. L’atletica in quegli anni
è scossa da molti cambiamenti, ognuno sembra
ribellarsi allo stile classico, vuoi vedere che si può
fare la rivoluzione e inventarsi un altro modo?
Amos Biwott cambia la tecnica nel correre le siepi. Anche Sara è davanti alla tv, anche lei tenta.
«Non c’erano ancora i sacconi in gommapiuma,
cadere di schiena fa male, l’asticella d’alluminio
triangolare lascia lividi pazzeschi. L’errore è doloroso, il corpo urla, la paura fa sbagliare. Il salto è fuori norma, devono cambiare i regolamenti, perché la prima a passare è la testa e le leggi di allora non lo permettono. Del nuovo stile non si sa niente, ma proviamo, cerchiamo di arrangiarci. La rincorsa è semicircolare, metà in rettilineo, metà in curva. Le sensazioni sono buone». Per lei, tutto da provare.
Il mondo dello sport è tradizionalista, si affida ai padri fondatori. Erminio salta
I
I destini incrociati
di Sara ed Erminio
EMANUELA AUDISIO
con lo stile ventrale, ha come modello il sovietico Valery Brumel, soprannominato il saltatore del cosmo, un campione capace di stabilire tre record mondiali in
due mesi, il simbolo di un’epoca. La pedana è di carbonella, si cade sulla sabbia. Il
ventrale non prevede velocità di entrata, ma grande forza. Non c’è spazio per fare
di testa propria, per sentire le vibrazioni. Azzaro migliora otto volte il record italiano, lo porta da 2.11 a 2.18. Sara che è all’inizio invece trasgredisce, si converte
alla tecnica del gambero. Il Fosbury flop, appunto.
Erminio e Sara si conoscono in una trasferta a Soci sul Mar Nero nel ‘72. Si fidanzano. Lei gli dice: o mi alleni tu o lascio. Lui si rassegna, soprattutto al tendine rotuleo, sempre infiammato. «In allenamento non mi risparmio, ottanta salti al giorno,
ma ormai ho troppo male, e a ventitré anni smetto». Sara intanto con il Fosbury scala il cielo: sesta a Monaco ‘72 con 1.85, argento a Montreal ‘76 con 1.91. Non sa come
si fa, però lo fa. «È un momento da pionieri. Bello, divertente, diverso. Erminio si mette a disposizione, chiede aiuto al professor Vittori che allena Mennea, domanda:
perché non proviamo questo esercizio? Il Fosbury punta su velocità e ritmo, alla
scuola di Formia mi esercito con gli ostacoli, con i saltelli, gioco a basket, alla sera sono esausta, ma diversamente da prima smaltisco meglio il lavoro. Anche se dalla fatica crollo a letto come un sasso. Le attrezzature da palestra mancano, ma gli operai
che sono lì, ci aiutano con piccoli e grandi accorgimenti: la cintura zavorrata con
dentro la sabbia, la scarpetta di ferro e altre diavolerie. Difficile far capire agli altri
che sono un’atleta professionista, mangiare all’hotel Miramare diventa un incubo
perché ci fanno i ricevimenti nuziali e tutti vogliono fare la foto con me».
Salti, amore e fantasia. Il Fosbury è democratico, ma soprattutto unisex. È una
novità che stava nell’aria: già nel ‘66 la canadese Debbie Brill usava quello stile,
DOMENICA 21 MAGGIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
LE ALTERNATIVE
Ecco le principali
tecniche di salto in alto
che hanno preceduto
il Fosbury e che ora
sono state abbandonate
A sinistra
il salto ventrale,
a destra
la sforbiciata
Fosbury entrò nel futuro
stile a forbice la sua schiena si appiattiva sull’asticella. E più si appiattiva e
più andava alto. Allora, pensò, facciamo un movimento che stabilizzi questo “appiattimento”. Era la negazione
teorica del salto ventrale classico con
cui i grandi campioni superavano abbondantemente i due metri.
La mattina che il salto in alto divenne il
salto in “altro”, Dick aveva il cuore in tempesta. Riuscì ugualmente ad effettuare un
balzo verso la luce. «Il salto è all’indietro,
però è pura avanguardia», avrebbero
scritto un giorno, molto più tardi. Dick
provò. Rincorsa circolare, sotto l’asticella
una torsione in senso orario del tronco
per alzarsi e oltrepassare l’asticella con la
schiena, piegando la testa in basso, guardando qualunque cosa, i sacchi, il cielo, il
mondo, tutto meno che l’asticella. Ci prova e ci riprova. Va oltre 1,68, che era il suo
record di sforbiciata.
Per due anni chi lo vede dice: «Ma dove
pensi di andare con quello sgorbio volante?». Dovevano passare mesi e mesi prima
che qualcuno capisse. «Adesso direte: eccolo là, per forza, studiava ingegneria civile, medicina, e così non ha dovuto faticare troppo a inventarsi un altro modo di
saltare. Ma non è così. Non ero niente. Né
un tuffatore, né un acrobata». E aveva anche abbandonato gli studi di ingegneria
per dedicarsi alla cultura orientale. Quello che Dick fece fu molto più semplice e
più folle: intravide «una fessura piena di
luce crepitante». Si infilò in quella fessura
da cui sarebbe passata tutta la sua vita, un
centimetro alla volta, fino alla conquista
della medaglia d’oro alle Olimpiadi di
Città del Messico nel 1968.
Migliaia di persone lo avrebbero seguito. Una rivoluzione del genere, legata
all’intuizione di solo uomo, appartiene
più al mondo della scienza che a quello
dello sport. «Fu nell’aprile del ‘66 che per
la prima volta smisero di prendermi per
i fondelli, dopo che ebbi vinto i campionati juniores della Camera di commercio del ‘65». Per due anni quel suo strambo avvitamento aereo era stato l’attrazione del campo di allenamento:
«Bravo, divertente, bello da vedersi, ma fuori da un circo non combinerai mai nulla». Nel ‘66 però
l’aria era cambiata. «In realtà
Ormai tutti hanno
adottato il suo stile
Oggi lui ha 59 anni
e ogni tanto fa
il commentatore
sportivo
non capii mai perché. So solo che venivano da me, mi facevano domande, poi
si allontanavano ma restavano a guardarmi. Era tutto un po’ ridicolo e io ogni
tanto perdevo la concentrazione, cosa
che mi faceva imbestialire».
Un tecnico federale filmò la stramberia
del ragazzo dell’Oregon. Malgrado le perplessità ancora diffuse, Dick saltò 2,20 e
questo, che costituiva un miglioramento
di tre centimetri, fu sufficiente perché egli
venisse ammesso nel gotha dell’atletica
americana: quaranta anni fa esatti.
Ai raduni statali, nei campus universitari, ai meeting, improvvisamente non si
parlava d’altro che di quel fenomeno. Fu
paragonato al marziano di Ultimatum alla Terra. Prima di andare alle Olimpiadi, e
vincerle, continuava a pensare che la sua
trovata «in fondo non era niente di speciale». Alle Olimpiadi gli bastò un “modesto” 2,24: «Mi fermavano nei ristoranti: “Ehi Dick, ti ho visto in televisione!”
Ma avevo ancora la sensazione che mi
trattassero come un fenomeno da baraccone». Nel dicembre ‘68, davanti al
Madison Square Garden, a New York,
campeggiava un manifesto con su scritto: «Venite ad ammirare il campione
olimpico Dick Fosbury». «All’epoca l’opinione pubblica si stava
ponendo due interrogativi che
mi facevano sorridere entrambi perché non li ritenevo appropriati. Il primo era: il salto
alla Fosbury rivoluzionerà il
salto in alto? Il secondo era: e se questa
tecnica facesse rompere l’osso del collo
a migliaia di ragazzi americani?».
La rivoluzione ci fu, le ossa del collo sono rimaste intatte. Il “salto alla Fosbury”
ha soppiantato il salto ventrale come l’elettricità soppiantò le candele. Il ventrale
è stato praticato fino agli anni Settanta.
Poi è scomparso. L’unico, piccolo paradosso è che Fosbury non è mai arrivato a
superare il record del mondo (2,28 del
russo Valery Brumel). Dopo però c’è stata la valanga. Il progressivo arricchimento della struttura muscolare dei praticanti, ad alto e basso livello, e la conseguente,
irreversibile velocizzazione dei movimenti hanno consentito ai più talentuosi
di superare i 2,40. Ora il salto ventrale è puro modernariato.
«Strano. Pensavo di durare di più e
invece vincere le Olimpiadi mi esaurì
totalmente. Provai a qualificarmi per le
Olimpiadi di Monaco, nel ‘72, ma ero
già spento». Anche in questo Fosbury è
stato un marziano.
C’è chi si è divertito, facendo ovviamente un salto all’indietro, a cercare il
nome del primo giornalista che si rese
conto di essere davanti a una probabile
rivoluzione. Tutti gli indizi portano a un
anonimo redattore della Mail Tribunedi
Medford, che nel ‘66 tirava poco più di
ventimila copie. Scrisse meraviglie, ma
poi siccome temette di aver esagerato
concluse così: «Chiamiamolo Fosbury
Flop». Dove la parola flop aveva un doppio significato: salto (tonfo) e fallimento.
In realtà fu il contrario: una rivoluzione
della cultura sportiva.
Dick Fosbury, il rivoluzionario che vide il futuro guardando indietro, ha 59 anni e sovrintende i progetti urbanistici di
un’azienda di Ketchum, Ohio. Ogni tanto fa il commentatore sportivo.
ILLUSTRAZIONI DI MIRCO TANGHERLINI
IL VALICAMENTO
Con una rotazione
del ginocchio
e della spalla
interna, il corpo
viene a trovarsi
con il dorso
all’asta. Il bacino
valica l’ostacolo
in perpendicolare
LO SVINCOLO
Superata
l’asticella
col bacino,
le gambe vengono
“richiamate”
flettendo
le ginocchia al petto
per evitare
che i piedi la tocchino
L’ATTERRAGGIO
Avviene
con la parte alta
del dorso.
Per motivi
di sicurezza
è meglio arrivare
sul materasso
con le ginocchia
leggermente
divaricate
ETHEL CATHERWOOD
ROSMARIE ACKERMANN
SARA SIMEONI
STEFKA KOSTADINOVA
Ad Amsterdam ’28, è la prima donna
a vincere l’oro olimpico: salta 1,59
È la prima donna a toccare
i due metri, saltati nel 1977 a Berlino
Primatista del mondo nel 1978
con 2,01, record ancora imbattuto in Italia
Detiene il record mondiale femminile
con 2,09, raggiunti nel 1987 a Roma
ma si sa Debbie è una ragazza hippy che vive nelle comuni e fuma spinelli, love,
peace e qualche volta anche un good jump. Già in una foto del 24 maggio ‘63 si vede Bruce Quande, studente del Montana, inarcarsi in quel modo strano, da matto del villaggio. Solo una prova, che poi Fosbury perfezionerà. È un salto destrutturato, che non sta in nessun catalogo. Spiega Erminio: «Il ventrale era codificato, aveva un manuale più lungo della Bibbia, quattro pagine solo per la posizione
del capo allo stacco. Un po’ come studiare il latino, non si poteva sgarrare. E soprattutto era rigido: dovevi essere alto, avere potenza. A Formia ogni sera con un
proiettore che noi chiamavamo per scherzo «macinino» ci venivano illustrate con
le immagini le varie fasi del salto. Noi dovevamo guardare, copiare, ripetere. Il Fosbury invece era facile, permetteva variazioni, era un fai da te, un prefabbricato
adattabile ad ogni taglia. Non veniva dai libri di scuola, ma dalla pratica. Faceva
a meno di gerarchie consolidate, incoraggiava l’anarchia. C’era il flop uno e due.
Più ritmica, meno tecnica. Ognuno poteva modificarlo e adattarlo alle sue esigenze. Non c’era più un solo modello giusto».
La fantasia al potere, anche in volo. E Sara che non la ferma più nessuno. Nel ‘78
apre i cancelli del cielo: 2,01 a Brescia, record del mondo. La tedesca est Ackermann
è battuta, sembra una vecchia pagina ingiallita. Sconfitto anche il suo stile, il ventrale. Il Fosbury funziona anche nei giorni in cui le donne stanno da cane. Simeoni
conferma: «Il giorno prima della gara svengo per la pressione bassa, dovuta al periodo mestruale. Non mi reggo in piedi, tanto che mi consigliano di dare forfait. Salto lo stesso, sento che ce la posso fare le sensazioni sono buone, guardo il cielo, l’asticella, l’orizzonte. All’improvviso tutto mi sembra alla mia portata».
Agli europei di Praga, ventisette giorni dopo, Sara eguaglia il record del mondo. Ai
piedi ha i famosi calzettoni con i rospi. Lotta ancora contro Rosemarie Ackermann
che non vuole credere al Fosbury e nemmeno farsi da parte. Via, sciò, adesso in cima c’è Sara, che dal ‘73 al ‘77 aveva perso sei meeting su sette contro l’avversaria. E
seduto in curva, a fumare sigarette, a masticare nervosismo, ora c’è Erminio. Capita che i due bisticcino, sui dieci passi della rincorsa e su altro. «L’avrei ammazzato.
Non mi permetteva nessuna trasgressione, era severissimo, c’erano sere in cui mi
sarebbe piaciuto uscire, fare tardi, ma lui niente, me lo proibiva. Dovevo dare l’esempio, mai un sabato a ballare, non l’ho mandata giù».
Ai Giochi di Mosca nell’80 Sara è la favorita. Vince, ma l’inizio è disastroso. «Entro
nello stadio e all’annuncio del mio nome mi prende un groppo in gola tremendo.
Sono emozionata, non capisco più niente, misuro i passi in maniera sbagliata. Sento Erminio che mi urla: sveglia, la rincorsa è dall’altra parte. Ah, ecco, perché non
funzionava». Il Fosbury permette rammendi, strappi del cuore, ferite del tempo. Sara a Los Angeles nell’84 è malconcia. Soffre di un’infiammazione al tendine, ha la caviglia gonfia, conosce un fisioterapista che la convince a provare gli ultrasuoni. Ma
deve restare a letto, non può allenarsi, beve solo acqua, perde peso. «Ero già molto
magra, pesavo 57 chili mentre alla mia prima Olimpiade sulla bilancia ero 69. Avevo lo stomaco chiuso, non riuscivo a mandare giù niente. Però superai i 2 metri, misura che non ottenevo da sei anni e vinsi la medaglia d’argento dietro alla tedesca
Meyfarth. Mi venne da piangere, pensai a Erminio che non aveva mai potuto godere di quell’emozione olimpica, gli dissi di non essere triste, che i miei successi erano
un po’ anche i suoi. Eravamo saliti insieme, questo contava».
Il record mondiale di Sara Simeoni durò quattro anni, lo stile Fosbury dura ancora. Spalanca cieli. Certe perturbazioni in volo sono miracolose, come le rivoluzioni.
COMPAGNI DI VITA
Erminio Azzaro e Sara Simeoni,
compagni di vita e di salti:
per lui il Fosbury Flop significò
il tramonto agonistico,
per lei il successo mondiale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
i luoghi
Città al bivio
DOMENICA 21 MAGGIO 2006
È la capitale dello stato brasiliano di Espiríto
Santo, fondata nel 1551. Indios, portoghesi,
francesi, olandesi, tedeschi, africani deportati,
infine nostri emigranti se la contesero
con asprezza. Oggi questa mescola di razze
convive pacificamente e scommette sul futuro
Vitória, oasi meticcia
con il cuore italiano
E
CESARE DE SETA
Repubblica Nazionale 38 21/05/2006
VITÓRIA
ntrando nella baia di Vitória
chi vi giunse a metà del Cinquecento dové restare sbigottito: un arcipelago frastagliato di isole, un dedalo di rii, un sinuoso inanellarsi di coste rocciose nell’interno e bionde spiagge sabbiose
aperte sull’oceano. Su questi bordi dell’isola precipita una vegetazione lussureggiante nel cui serto serpeggiano fonti
d’acqua dolce essenziali al primo insediamento e si levano montagne acuminate come tanti pan di zucchero, anche
se in una dimensione geomorfologica
assai più ridotta rispetto alla monumentale baia di Rio de Janeiro. Questi glabri
cocuzzoli rocciosi fioriscono nella verzura copiosa e dalle tinte squillanti, hanno una foggia d’acciaio brunito, scintillano al sole e si staccano sul verde della
macchia e sul rosso ruggine della terra.
Un sistema paesistico ancora, miracolosamente, intatto: il Parque da Fonte
Grande, che sale fino a trecento metri sul
mare, è una foresta che s’erge a spartire
— come un benefico gigante — la città
antica del primo insediamento da quella nuova: sorta, al finire dell’Ottocento,
su una lottizzazione tipica dell’urbanistica post-haussmaniana. Vitória è la capitale dello stato di Espírito Santo, dista
cinquecento chilometri da Rio e circa il
doppio da Salvador de Bahía: è un’isola,
oggi collegata con ponti alla terraferma;
conta circa quattrocentomila abitanti
ed è una città dalla
misura sorprendentemente acconcia rispetto alle
sfatte megalopoli
brasiliane.
La tradizione
vuole che fu fondata l’8 settembre
1551, pertanto è
una delle più antiche città di questo
sterminato Paese
la cui colonizzazione principiò
dalla costa atlantica: dall’entroterra
selvaggio e dall’Oceano ha tratto la
sua vita, si è sviluppata la sua economia mercantile
e manifatturiera, è
maturata la sua
prosperità. Oggi è
il secondo porto
del Paese con articolate strutture
che s’attorcigliano come un fuso
attorno all’isola. Si
levano lungo le
banchine enormi
gru dipinte con
colori sgargianti
senza alcuna inibizione industriale, navi e container
in fila si acquattano nella placida
baia. Se da Ilhéu
partivano e partono navi cariche di cacao, da Vitória salpavano e salpano navi cariche di caffè, zucchero, legno e minerali provenienti dall’interno di Minas Gerais.
Il nome Vitória ricorda l’assedio respinto che le pose la flotta francese: la
fregata che difese i primi coloni si
chiamava Gloria e ancora oggi ci sono
un caffè e un cinema che portano questo nome. Vila Velha, la città vecchia
che sta dinanzi all’isola sulla terraferma, fu, con ogni probabilità, il primo
insediamento dei coloni: un pianoro
sul mare oggi irriconoscibile nei suoi
tratti geografici, fagocitati da un’insolente melma edilizia.
La città vecchia di Vitória è degradata, ma non tanto da non poter essere salvata, perde popolazione ed è questo l’aspetto più preoccupante. La sua misura
edilizia è per larga parte preservata —
edifici di due, tre piani al più — anche se
la sostituzione edilizia la sta erodendo:
Navi cariche di caffè e legni pregiati
salpano da secoli dal suo porto,
che oggi è il secondo del Paese
E il centro del tessuto urbano è ancora
la minuta trama dell’abitato antico
del tempo di Vasco Fernando Coutinho
e Duarte De Lemos, i primi concessionari portoghesi dell’isola, rimangono
alcune testimonianze, a partire dall’impianto urbano. Il santuario di Sant’Antonio, primo nome dell’isola, imponente e goffamente bramantesco, è palesemente rifatto o restaurato con mano assai pesante; la chiesa di Santa Lucia è una cappelluccia coloniale; San
Gonçalo è un garbato edificio nel suo
doppio ordine; poco distante è il duomo di un neogotico fiammeggiante tutto trine, pinnacoli, guglie, archi acutissimi di bianco zucchero. Gli ospiti gentili mi inducono a entrare nel duomo.
Riluttante cedo e fingo stupore ammirato. Più in alto la strada s’inerpica verso il convento di San Francesco, con un
porticato e due fronti affiancati tardo
seicenteschi, con una torre campanaria
in cima, che annunciano una chiesa e
un convento. La delusione è amara, dietro non c’è più nulla: solo un centro per
l’assistenza ai malati. Trovo donne,
vecchi e bambini in attesa di una visita
ambulatoriale. È rimasta solo quella
doppia facciata che è divenuta una ico-
Tutto, in questa baia
di sorprendente
bellezza, è sopra
le righe: cocuzzoli
color acciaio brunito
svettano sul verde
della foresta,
sul ruggine
della terra,
sulle spiagge bionde
IERI E OGGI
A sinistra,
un edificio
coloniale
Accanto, il Palácio
Domingos Martins.
A destra,
un dipinto
ottocentesco
di FrançoisAuguste Biard
sull’abolizione
della schiavitù
nelle colonie
In basso,
una stampa
cinquecentesca
che raffigura
la colonizzazione
del Brasile
nostasi coloniale. Mi accolgono con l’usuale cortesia di queste parti e leggono
nel mio sguardo la delusione.
Le roccaforti dei cristiani
Francescani, domenicani, carmelitani, gesuiti qui eressero le loro roccaforti di evangelizzazione con lotte cruente
almeno quanto quelle usuali nel Vecchio continente: qui è tutto sopra le righe. Il paesaggio è splendido, una natura che può apparire e in parte è ancora incontaminata, distese di mare orlate di spume perenni e di spiagge bionde senza confini a perdita d’occhio: in
questo sito d’incanto si accesero furiosi conflitti intestini tra una mescola di
razze che oggi — ed è l’aspetto più seducente dell’intero Brasile — convivono pacificamente. Indios, portoghesi,
francesi, olandesi, tedeschi, negri deportati dall’Africa da una ciurma di
trafficanti si contesero l’isola, avventurieri di ogni risma vi posero piede.
Il meticciato è la cifra di queste terre. Il
capitano Thomas Cavendish contese l’isola a Luisa Grimaldi, vedova del concessionario portoghese Fernandes Coutinho; nel 1625 fu la volta dell’ammiraglio Pieter Heyen, olandese, al servizio
della Compagnia delle Indie. Agli esordi
dell’Ottocento le incursioni assunsero
altro carattere: giunsero viaggiatori illustri come il principe tedesco Maximilian
de Wied-Neuwied, il naturalista francese Auguste de Saint-Hilaire, il geologo
canadese Frederich Hartt e il pittore
francese François Biard. Nel 1860 il viaggio dell’imperatore Pedro II — che dà
nome alla cala già detta delle Colonne —
suggella la fortuna della città.
Sul finire dell’Ottocento principia la
lenta ma sempre più insistita migrazione dall’Italia e in particolare dal Veneto: tanto che l’attuale popolazione di
Vitória per il 63 per cento è di origini italiane. Ne ho incontrati alcuni, ma i più
hanno perso la memoria della lingua
d’origine. Alcuni giovani hanno preso a
studiare l’italiano. Gli indios a giudicare dai tratti somatici perduranti sono
minuscola minoranza, perché, a mano
a mano che avanzava la colonizzazione, si ritiravano nell’interno. I gesuiti
volevano cristianizzarli a modo loro: il
primo cronista della fondazione di
Vitória è il gesuita Simão de Vasconcelos che così descrive il sito: «Comodo alla vita umana, circondato di acque, naturalmente protetto, idoneo all’arte».
La Compagnia di Gesù eresse la Chiesa
e il Collegio di Santiago che sorgeva dove oggi è il palazzo Anchieta: una sorta
di memoria del barocco danubiano
piovuta qui come un meteorite dal Vecchio mondo, ma con tinte e stucchi ben
più prodighi di quelli che si possono vedere nelle residenze aristocratiche e
nei conventi tra Vienna e Melk. Così come il sontuoso teatro fa l’eco all’Opera
parigina di Charles Garnier.
La fazenda coloniale dei Monjardim,
che per oltre un secolo e mezzo ebbero
un ruolo essenziale nella comunità, è
oggi un significativo piccolo museo: un
edificio a un piano, con tetti a tegole, intonacato di bianco; al piano terra i magazzini e le stalle, al primo l’appartamento padronale. Si capiscono il modesto agio, le ambizioni borghesi di questi
fazendeiros che hanno mobilia di fattura indigena, ma realizzata con legni pregiati. Con il prosperare della fortuna
agricola la famiglia col tempo acquistò
vasellame in ceramica portoghese, porcellane provenienti dall’Estremo
Oriente, specchiere francesi, lumi inglesi, cristalleria di Murano o Baccarat, cucine e stufe tedesche, utensili belgi e manufatti brasiliani. Non mancano alcune
tele con marine e nature morte, sbiadita
memoria di pittura olandese o inglese;
qualche ritratto dei padroni di casa che
sarebbe un azzardo qualificare per
scuole o nazioni familiari in Europa: tutto di una qualità coloniale, senza ostentazione di superflua raffinatezza ma solo segno di un solido decoro borghese.
Una sobrietà che mi ricorda la casa del
colonnello Ramiro descritta con tanta
amorevole passione e minuzia da Jorge
Amado in Gabriella garofano e cannella.
I bastimenti di caffè
La fortuna economica di Vitória prende vigore a metà dell’Ottocento quando dalla sua baia muovono bastimenti
carichi di caffè e di legno alla volta dell’Europa e degli Stati Uniti. Un’accumulazione capitalistica dai tratti ancora preindustriali, che consente tuttavia
alla città di crescere impetuosamente e
di espandersi con un piano che data al
1896 e si estende nella parte orientale
dell’isola che affaccia sull’Atlantico.
Una scacchiera regolare, a maglia quadrata, tipica di queste città di fondazione del Nuovo mondo. La città di oggi è
un campionario di architetture le più
diverse e talune giungono al più sconcio post-modern. La nuova sede della
Camara Municipal e il più pretenzioso
grattacielo sulla Avenue dos Navegantes sono stati costruiti dall’architetto
Bebeto, a cui spararono qualche anno
fa in una via cittadina. Ma non è una
storia di corna come nei romanzi di
Amado, piuttosto un intrigo di affari.
Attraversando il più grande ponte
della città si giunge al Convento de Pehna: è chiuso, ma è una fortezza più che
un convento, in una posizione che stordisce perché squaderna un panorama
incantevole. Oggi l’abitano pochi vecchi fraticelli. A oriente si scorge la costa
atlantica, con le isole “do frade” e “do
boi”; la prima è legata alla riva con il
ponte de “paes barreto” elegantissimo
nella sua forma di cemento armato a
dorso d’asino, a conferma che il modernismo dell’architettura brasiliana
ha una bella tradizione. La baia s’insinua come un fiordo costellato da piccole isole; di fronte — sull’altra sponda
— si leva imponente il parco con la colossale “Pedra dos Olohos”, ma il cui nome originario è Frei Leopardi: a memoria di un frate che abitò il sito e che forse, penso io, era fuggito da Recanati per
sottrarsi a un conte Monaldo…
Sotto questa preziosa riserva naturalistica di scorcio si vede il minuto tessuto
della città coloniale: esso scompare quasi dinanzi all’estensione della città nuova,
ma è l’antica città coloniale che rimane
ancora oggi il cuore della città. Essa, nella
DOMENICA 21 MAGGIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
‘‘
Jorge Amado
Fra l’azzurro intenso
del cielo e il verde
del mare, la nave
ostenta i colori
nazionali. Aria
immobile. Caldo.
In coperta,
fra francesi, inglesi,
argentini e yankee
si affolla il Brasile
Da IL PAESE DEL CARNEVALE
Repubblica Nazionale 39 21/05/2006
sua complessa contraddittorietà, vive un
difficile equilibrio tra la morsa di cemento e un futuro in cui questo arcipelago
possa esser preservato nei suoi tratti spettacolari. Il potenziamento del porto è in
atto, ma l’apertura di una ventura autostrada che colleghi il Pacifico all’Atlantico
è il miraggio che insegue Vitória. La città
oggi deve potenziare il porto, salvare la
città antica, restaurarla e far sì che diventi una piccola Bahía. Ma l’impresa di gran
lunga più importante è preservare i suoi
tratti morfologici, la sua baia, i suoi pan di
zucchero, le estese aree verdi: è un bel la-
voro da intraprendere. L’amministrazione saggiamente insegue il modello Curitiba, considerata la città meglio amministrata del Brasile e tra le più attente alla
preservazione dell’ambiente.
Nell’isola “do frade” c’è un silenzio
assoluto, si scorgono le luci della città, i
benedettini qui eressero un cenobio
che è in rovina. Un inteso profumo di
cestrum pervade l’aria umida e mite.
C’è più avanti sull’altura lo spettro di
una casa: con le pareti esterne in piedi,
con alcune travi di legno in bilico, ma
senza tetto, senza solai, senza nulla.
Sulle pareti l’ombra dei mobili che vi
erano addossati. Una bianca unghia di
luna alta nel cielo la illumina, quasi
dondola sul blu denso della volta stellata: è inquadrata nell’orbita cieca di una
finestra. Se Magritte fosse passato di
qui non avrebbe inventato nulla.
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 21 MAGGIO 2006
A trent’anni dalla morte
del Grande Timoniere
i vecchi manifesti
della propaganda offrono una chiave per rileggere
mezzo secolo di utopie, fanatismi e violenze
E i più rari vanno a ruba nelle aste di Hong Kong
FEDERICO RAMPINI
O
PECHINO
ggi si vendono a mezzo euro l’uno,
ingialliti e ammucchiati alla rinfusa
in pile polverose sulle bancarelle per
turisti. I cinesi non li degnano di uno
sguardo. Eppure i vecchi manifesti della propaganda maoista nascondono un tesoro. Offrono
una chiave d’accesso alla storia della Cina in un periodo in cui gli stranieri erano esclusi dal paese più
grande del mondo (salvo eccezioni come le delegazioni dei partiti “fratelli”, il regime non gradiva i
visitatori occidentali), e sul quale gli stessi giovani
cinesi oggi ricevono informazioni lacunose e reticenti. Quei manifesti sono interessanti perfino dal
punto di vista artistico. Realizzati da pittori o studenti dell’accademia, mescolano curiosamente le
antiche tradizioni figurative cinesi, i temi del folclore popolare, insieme con l’impronta del “realismo socialista” sovietico e infiltrazioni capitalistiche come l’influenza della pubblicità commerciale in voga nella ruggente Shanghai degli anni Venti (le soavi donnine delle marche di sigarette).
Essendo strumenti di propaganda i poster naturalmente non rappresentano la Cina com’era davvero. Tuttavia sono un aspetto importante della
Cina “come la vedevano” i suoi stessi abitanti. Perché erano onnipresenti nel paesaggio urbano e rurale: prodotti inizialmente a poche migliaia nei
primi anni Cinquanta, arrivarono a tirature di milioni di esemplari nel 1968 e decoravano ogni ambiente, dalle case alle scuole, dalle fabbriche alle
mense collettive, dagli uffici pubblici alle stazioni
dei treni e degli autobus. In un paese contadino,
sottosviluppato e analfabeta, erano spesso i mezzi privilegiati della comunicazione di massa. Durante la Rivoluzione culturale circolavano perfino
nel formato di miniature che i bambini collezionavano, si scambiavano e incollavano sui quaderni, come le nostre figurine Panini.
Sono un reperto essenziale per ricostruire vicende del recente passato che i cinesi non studiano a scuola, decenni di utopie e di grandi sogni, di
violenze e di fanatismi che esercitarono un fascino
anche in Europa e in America. I sentimenti che suscitano dopo tanto tempo sono contrastanti. Per
quegli occidentali che vissero solo da lontano l’infatuazione ideologica maoista, i poster possono
rappresentare frammenti di scenografia da “la
meglio gioventù”. Per i cinesi sono più spesso una
testimonianza grafica che rievoca periodi di povertà e insicurezza, arbitrio, persecuzioni e traumi
familiari; talvolta ispirano anche una sorta di amara nostalgia e perfino di rimpianto: nelle campagne povere, non di rado i ritratti di Mao restano ancora oggi in bella vista a casa dei contadini.
La produzione industriale di manifesti inizia
con l’avvento dei comunisti al potere nel 1949. Il
partito manda subito gruppi di pittori e di tipografi in Unione sovietica per studiare i metodi della
propaganda staliniana; salvo poi fonderli con simboli e colori della mitologia cinese come gli animali
del calendario zodiacale, i dragoni raffigurati da
secoli negli striscioni del Capodanno lunare, le
iconografie dei templi buddisti, i costumi elaborati e sgargianti dei personaggi dell’Opera di Pechino. L’uso di immagini familiari della cultura nazionalpopolare è indispensabile per far breccia in
una Cina che nel 1949 ha già mezzo miliardo di abitanti ma dove solo un quarto dei bambini frequenta la scuola elementare e il tre per cento le medie. L’indottrinamento politico non è l’unica funzione dei manifesti; servono anche a lanciare campagne di mobilitazione nazionale di volta in volta
contro l’analfabetismo o per l’allattamento naturale, per l’uso della medicina tradizionale, per promuovere alcune regole elementari di igiene (vedi
il poster educativo con un bel soldato dell’Esercito di Liberazione Popolare che si lava in una tinozza sorridendo, mentre altri militari entusiasti strofinano le divise sporche in acqua e detersivo).
Uno dei primi manifesti riprodotti in massa nel
1950 raffigura Mao in divisa sul balcone di Piazza
Tienanmen nel giorno in cui è stata proclamata la
Repubblica popolare, in compagnia di quattro
bambini che gli offrono fiori, tutti ridenti e con gli
sguardi rivolti verso un futuro radioso: un quadretto irreale, che trasmette un messaggio di serenità dopo decenni di occupazione straniera, poi
anni di guerra civile. Il “periodo sovietico” nei manifesti dominati da titaniche figure di operai ner-
La Cina di carta
dalle Guardie rosse
allo shopping
Mao
Ze
i poster
dellaDong
rivoluzione
Negli anni Cinquanta il realismo
staliniano si fonde con simboli
e colori della mitologia nazionale
I REVISIONISTI
Qui sopra, manifesto
di fine anni Sessanta:
un operaio schiaccia
l’ex numero due
cinese, Liu Shao Qi
In alto a sinistra,
poster del 1967:
una guardia rossa,
una donna soldato,
un operaio e un
contadino cancellano
il quartier generale dei
revisionisti
Immagini tratte
da “Les annèes Mao”
di Jean-Yves Bajon,
edito da Les Èditions
du Pacifique
DOMENICA 21 MAGGIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
Un contadino venne lodato
dalla stampa di regime
per aver appeso in casa
32 ritratti del leader
Repubblica Nazionale 41 21/05/2006
Poi, quando il vento girò,
fu trattato da opportunista
per averli usati come
carta da parati gratuita
I BAMBINI
A destra, poster
del 1951: Mao
con quattro bambini
In alto, tre manifesti
del ‘68/69, all’apice
del culto di Mao
e, sotto, uno
stampato nel 1960
in occasione
della pubblicazione
di un suo testo
ideologico
boruti, martelli e chiavi inglesi, ciminiere
fumanti, è quello della prima collettivizzazione forzata, quando le purghe dei capitalisti
(più i regolamenti di conti privati) fanno un milione di morti, e il paese si sottopone a uno sforzo di
riarmo per partecipare alla guerra di Corea contro
gli americani.
A questa fase di unità mondiale della sinistra filosovietica appartengono i quadri dove Mao figura ancora a fianco di Stalin nel firmamento dei leader del proletariato, e sotto di loro sono ben riconoscibili gli dèi minori come il segretario del Pci
Palmiro Togliatti, il leader vietnamita Ho Chi
Minh, il maresciallo Tito. Nel 1956 lo shock della
destalinizzazione lanciata da Kruscev, e aborrita
da Mao, dà il via al divorzio tra Pechino e Mosca: da
quel momento il culto della personalità ha un solo
essere supremo, il Grande Timoniere, ritratto in
dimensioni via via più gigantesche rispetto all’umanità normale che lo attornia devota e festosa.
Con il terzo plenum del comitato centrale nel
settembre 1957 si inaugura per l’arte popolare
dei manifesti quella stagione che è stata soprannominata — con ironia feroce
— “l’estetica del traliccio”. Mao lancia
l’obiettivo allora velleitario
di sorpassare la produzione
industriale dell’Inghilterra.
Parte così l’industrializzazione coercitiva delle campagne. Novanta milioni di
contadini sono distolti dal lavoro dei campi per costruire altiforni siderurgici in ogni villaggio, fondendo perfino le pentole da cucina per produrre
acciaio. Abbondano le immagini di contadini raggianti che sfilano davanti al leader supremo guidando camion, scavatrici, locomotive, fra prati invasi da cantieri, fabbriche e centrali elettriche. Fasci di spighe dorate fanno da sfondo a navi e aeroplani, mentre nei cieli appaiono spesso il dragone
e la fenice, allegorie del principio maoista secondo
cui l’economia cammina su due gambe, l’agricoltura e l’industria. La realtà è tragicamente diversa.
Il metallo prodotto in campagna è così scadente da
essere inutilizzabile. Il raccolto di grano “dichiarato” a mezzo miliardo di tonnellate crolla nel 1959 a
170 milioni. La mortalità infantile raddoppia in tre
anni, la carestia fa decine di milioni di vittime. L’unico sprazzo di verità nei poster dell’epoca viene
rivelato da un indizio materiale: la scadente e fragile carta riciclata su cui sono stampati tradisce la
penuria economica.
Il 18 agosto 1966 ha inizio ufficialmente la Rivoluzione culturale: è il giorno della prima sfilata
oceanica sulla Piazza Tienanmen di un milione di
giovani Guardie rosse, aizzate da Mao a rivoltarsi
contro la burocrazia del partito con lo slogan
«bombardate i quartieri generali». I manifesti assumono toni crudi e virulenti, restituiscono con
dettagli realistici il clima anarchico e insurrezionale. Una celebre immagine riunisce quattro giovani — una ragazza in tenuta da Guardia rossa, un
contadino, un operaio, un soldato dell’esercito —
con lo sguardo carico di disprezzo; l’operaio con
un colpo di pennello cancella una fortezza in rovina: è la fazione moderata della classe dirigente che
Mao ha deciso di liquidare accusandola di quattro
deviazioni conservatrici (vecchie idee, vecchia
cultura, vecchie pratiche, vecchie abitudini).
Un’altra illustrazione densa di notizie ha sullo
sfondo un corteo di manifestanti che impugnano
il Libretto Rosso con le citazioni del presidente; in
primo piano una Guardia rossa sta sferrando una
martellata sulla testa ben riconoscibile di Deng
Xiaoping — il capo dei moderati — disegnata su un
corpo di gatto, allusione alla sua celebre definizione del pragmatismo («non importa se il gatto è nero o grigio, purché acchiappi i topi»). Nella realtà
Deng riesce a salvarsi scomparendo dalla circolazione per lunghi periodi ma suo figlio è meno fortunato: gettato da una finestra dai suoi compagni
universitari, resta paralizzato a vita.
I manifesti della Rivoluzione culturale hanno
una tale potenza evocativa che si sono conquistati un posto particolare nella letteratura post-maoista. Jung Chang, l’autrice di Cigni selvatici, ricorda
il senso di caos e smarrimento di quegli anni: dopo
aver letto sul Quotidiano del Popolo l’elogio di un
contadino che ha incollato ben 32 diversi ritratti di
Mao nella sua minuscola casa, si affretta anche lei
a riempirsi la stanza di immagini del leader; poi li
toglie in preda al panico quando gira il vento e il
contadino viene accusato di essere un opportunista che ha usato le effigi di Mao come carta da
parati gratuita. Anche Min nel romanzo autobiografico Azalea rossa cerca di reprimere un’attrazione lesbica verso la sua compagna di lavoro fissando le pose austere e algide delle eroine dell’Opera rivoluzionaria nei cartelloni degli spettacoli. A volte il puritanesimo sessuofobico ottiene risultati imprevisti. Chen Xiaomei ricorda le pulsioni suscitate dal ritratto della più celebre
attrice-ballerina dell’epoca, Wu Qinghua. Nella
pubblicità del balletto propagandistico Il Battaglione Rosso delle Donne, Wu è dipinta mentre è
prigioniera del proprietario terriero che l’ha legata per torturarla. La star comunista deve trasmettere al pubblico l’ammirazione per la sua indomita resistenza. «Ma quella immagine della donna incatenata, con le braccia alzate, i lunghi capelli al vento, il vestito lacerato dalle frustate —
scrive Chen — eccita fantasie sessuali e diventa
per una generazione di giovani cinesi l’equivalente delle foto di Marilyn Monroe».
Dopo la fine della Rivoluzione culturale nel
1976, la vittoria di Deng e l’avvio delle riforme di
mercato, l’arte popolare dei manifesti si avvia rapidamente verso il declino. Prima di scomparire fa
in tempo però a registrare nelle sue immagini i sintomi della grande svolta capitalista. Nel 1978 appaiono per le strade cartelloni che scimmiottano
la retorica dell’ottimismo propagandistico del
passato, ma con scopi ben diversi. Una donna beata sorride in mezzo a una batteria di pentole da cucina nuove fiammanti; il manifesto manipola con
ironia involontaria uno slogan maoista: «Fornire
prodotti di alta qualità è servire il popolo». Un altro poster del ’78 magnifica le qualità progressiste
di un nuovo bene di consumo, la televisione: due
donne contemplano con gioia degli schermi tv, il
testo dice «le buone notizie viaggiano per diecimila miglia e rincuorano diecimila famiglie». Sono i
saluti di commiato del manifesto cinese, un genere destinato ad essere spazzato via dalla moderna
pubblicità commerciale che invade le vie di Pechino e Shanghai. Non di rado i pubblicitari di oggi,
come pittori e scultori della pop-art, si divertono a
manipolare vecchie immagini comuniste per il gusto di giocare con il “retrò” e irriderlo.
Il mercato che tritura e digerisce tutto ha l’ultima parola. Negli anni Novanta i capitalisti di Hong
Kong lanciano la moda del “kitsch comunista” a
scopi speculativi. Il modello originale del manifesto Il presidente Mao va ad Anyuan del 1967 (il leader comunista è dipinto da giovane, magro, alto e
slanciato, con aria meditabonda e abito lungo, su
uno sfondo di montagne sacre evocativo dell’estetica buddista) viene messo all’asta nel 1995 e raggiunge la cifra record di 700mila dollari. Ha il sapore di una beffa anche la creazione recente della
più grande collezione mondiale di manifesti dell’èra maoista, ben cinquecento pezzi originali catalogati e commentati da esperti, più migliaia di riproduzioni e miniature. La sua sede non è Pechino
ma la University of Westminster, a Londra.
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la lettura
Anticipazioni
DOMENICA 21 MAGGIO 2006
Arriva in libreria “Liberi di amare”, un libro Rizzoli scritto
da Laura Laurenzi che getta una nuova luce
sul tema che fino a pochi anni fa
era considerato tabù: le grandi
passioni omosessuali
del Novecento
LAURA LAURENZI
a chi è Patty Diphusa?
«Prima di tutto vorrei
sapere se sono uomo,
donna o travestito»
chiede a Pedro la bellissima vamp. Patty è
un personaggio di carta, una pornostar
dei fumetti partorita dalla fantasia di
Almodóvar prima della catastrofe Aids,
una “Venere dei gabinetti” di cui Pedro
è il biografo ma anche — lo ammette —
l’alter ego: «In fondo è il mio autoritratto più onesto e sincero». Patty però è bella, è bionda e dice sempre sì. Patty è
spesso strafatta di coca. Patty è tenera e
grottesca ed è ottimista come Pollyanna, fornita di un corpo che esibisce di
frequente e di un cervello che mostra solo di tanto in tanto, come impongono le
norme del pudore e del buon gusto.
Patty — raccontata a puntate nei primi
anni Ottanta sulla rivista La Luna — è
segno zodiacale Bilancia, come l’autore, come Brigitte Bardot e come Oscar
Wilde. Patty, ha un bisogno inesausto di
sesso ma anche di amore ed è una sorta
di Virgilio che ci guida nel dedalo alternativo della movida, nella grande festa
mobile, attraverso un frastornante catalogo di tipi umani, vizi e virtù.
È soltanto un’invenzione dei giornali la movida, uno slogan, una sigla, una
comoda etichetta da rotocalco, secondo Almodóvar. Quando arrivò la stampa era già tutto svanito, un po’ come la
Dolce vita di Fellini. Epopea notturna
di stili, trasgressioni, tendenze, esplosioni di vitalismo dopo il lugubre sonno quarantennale della dittatura, eccitazione per la ritrovata libertà politica:
la movida somiglia più a una lampeggiante produzione di Almodóvar che
non a un fenomeno reale. Lui la riassume così: «Le feste venivano pubblicate
sulle riviste, le idee diventavano dischi,
i travestimenti moda e i pettegolezzi
colonne stampate. Con la stessa spontaneità con cui apparve, scomparve».
Sembra una sceneggiatura della movida Fuoco nelle viscere, il romanzo breve che Almodóvar scrive nel 1981, divertita e caustica allegoria a tempo di flamenco-punk su un’epidemia di lussuria che devasta Madrid. L’ex capitale
della dittatura si trasforma velocemente in zona franca della libidine e della
sessualità coatta. C’è dentro tutto nella
città che «vive lo splendore del caos più
infernale»; l’eco della guerra fredda e gli
orfanotrofi, le femministe del Fronte
Donne Autonome padrone di un avviato pornoshop e gli avidi ministri rampanti, gli interni famigliari cupi e repressivi e la comunità hippy. E molto sesso
rubato: negli ascensori, nei parchi, nelle fabbriche, nelle corsie d’ospedale. Le
varie protagoniste cadono preda di
un’isteria collettiva che scatena una torbida caccia al maschio, e lascia gli uomini infetti, menomati, talvolta morti.
Una summa del Pedro-pensiero, un
puzzle con tutti i tasselli da sistemare al
posto giusto (o sbagliato): le identità
messe in gioco, i ruoli scambiati, la crisi
e la femminilizzazione del maschio, l’eros grottesco e irrazionale, le nevrosi, gli
impulsi trasgressivi, l’amore saffico dilagante, il narcisismo che deborda. Su
questo magma incandescente prevalgono due ossessioni: il sesso e le donne.
E se Mara, Katy, Eulalia, Isidra, Flor,
Lupe, Lola, Consuelo, Eugenia rappresentano l’avanguardia di questo bizzarro gineceo, decine di altre figure
femminili scalpitano già in lista d’attesa nella penna e nella cinepresa di Almodóvar, impazienti di venire alla luce. Sono sull’orlo di una crisi di nervi
ma si mantengono perfettamente in
equilibrio. Impudiche, estreme, volubili, passionali, confuse, tutto ruota attorno a loro: gli uomini non sono che
comparse sbiadite e sognano soltanto
di diventare donne, e spesso soccombono. L’universo femminile è più barocco, più complesso e insieme più fresco, meno soggetto a pregiudizi.
«Preferisco l’amicizia e la complicità
femminili a quelle maschili», spiega il regista. «Mi incuriosisce quella specie di
segreto e di misteriosa indipendenza
che vive nel cuore delle donne, anche le
Repubblica Nazionale 42 21/05/2006
M
L’amore necessario
di Almodóvar e Patty Diphusa
più umiliate ed oppresse». Gli appaiono
più ricche, più spontanee, più generose,
più disponibili al rischio e all’abbandono. «Sono cresciuto in mezzo a loro, è
loro che ho amato e ammirato, mentre
il mio universo maschile era conservatore, arretrato, maschilista, troppo inflessibile. Un giorno le donne domineranno il mondo».
È il trionfo del matriarcato, che si sublima in una figura fondamentale: quella della madre Francisca, detta Paquita.
«Il rapporto con una madre non ha bisogno di parole, è racchiuso in un gesto»,
teorizza Almodóvar. È lei, sottolinea il regista, che gli ha insegnato a «colorare la
realtà» proprio perché a tre anni l’avevano già obbligata a portare il lutto. È lei che
gli ha insegnato ad annaffiare i fiori anche
se sono di plastica, a credere nelle storie
dei fotoromanzi come se fossero vere, a
dialogare con i ramarri e con le lucertole,
ad ascoltare «l’unica musica del cuore
che esista, e cioè il tango e il bolero». È lei
che gli ha fatto amare i sacchetti di plastica, «invenzioni geniali», le insegne al
neon dei supermercati, la pubblicità dei
detersivi in televisione.
Quanto a suo padre, muore troppo
presto, nel 1980, pochi giorni dopo l’uscita del suo primo film, Pepi, Luci Bom e
le altre ragazze del mucchio in cui Pedro
ritaglia per sé una piccola parte, un ruolo
cammeo: il giudice di gara nel concorso
«Grandi Erezioni».
Scandalizzare resta per lui un imperativo categorico. «Lo scandalo
è negli occhi di chi guarda,
come si legge nella Bibbia.
Non c’è niente di straordinario se mi metto una
vestaglietta o una sottoveste», ride, «e mi stupisce l’ingenuità della
gente che si può scandalizzare per così poco».
Lui in realtà mira molto
più in alto: «Non ho mai
pensato allo scandalo fine a
se stesso», sostiene. «Scandalizzare con le immagini sarebbe
fin troppo facile. Io vorrei farlo con il
mondo delle idee». Il fatto che la stampa trash nel 1994 annunci il suo matrimonio con il travestito più famoso di
Spagna, la voluttuosa Bibi Anderson,
per esempio è uno scandalo? No: è semplicemente una falsa notizia, una mon-
tatura promozionale.
Ma Almodóvar non ne ha alcun bisogno: è ormai conosciuto in tutto il mondo, e non più come «il Fassbinder mediterraneo» o «il nipotino di Buñuel» né
come «l’Andy Warhol della movida»,
bensì come un grande regista che si
prepara a vincere l’Oscar, quella
«pesante statuina dorata e
asessuata che il mondo intero desidererebbe cullare». È uno dei talenti più
corrosivi nel panorama
europeo: lo imitano, lo
osannano, lo idolatrano, sembrano ormai venerarlo. Anche re Juan
Carlos, anche il primo
ministro Aznar, conservatore, si congratulano calorosamente con lui onorandolo come un eroe nazionale quando nel 2000 gli viene tributato l’Oscar
per Tutto su mia madre, il film dell’artista adulto e maturo che qualcuno ribattezza Tutto su Almodóvar.
Dalla commedia ha virato al melodramma e dal melodramma all’almodrama, la nuova parola coniata espressa-
DALLE PISTOLETTATE ALLE NOZZE
1873, Paul Verlaine spara tre colpi di pistola ad Arthur Rimbaud,
il suo “grande e radioso peccato”. 2005, Elton John e David Furnish
celebrano il loro matrimonio nella Guildhall di Windsor. Tra questi
due fatti un secolo scandito da infinite storie d’amore tra persone
dello stesso sesso. Nel suo libro “Liberi di amare” (Rizzoli, 252 pagine,
16,50 euro, in libreria mercoledì prossimo) Laura Laurenzi ci guida
alla scoperta delle più emblematiche: tra le altre, Marguerite Yourcenar
e Grace Frick, Federico Garcìa Lorca e Salvador Dalì, Greta Garbo
e Cecil Beaton, Eleanor Roosevelt e Lorena Hickok, Pier Paolo Pasolini
e Ninetto Davoli, Rudolf Nureyev e Erik Bruhn, Gianni Versace
e Antonio D’Amico
mente per le sue opere, che travalicano e
superano ormai i confini del suo collaudato «umorismo genitale», secondo la
formula da lui stesso inventata. Già, le
formule: quella che più lo irrita e in cui
meno si riconosce è quella di regista di
gay movies, un’etichetta che considera
limitativa e sessista. L’amore è un rito
oscuro, un gioco di incontri e abbandoni,
e così il desiderio e la passione: non cambia niente se ad amarsi, a baciarsi, stringersi, soffrire, esultare, sono due uomini
oppure una coppia eterosessuale. È soltanto un dettaglio, sostiene il regista, un
dettaglio del tutto inessenziale: quello
che conta è l’intensità del sentimento.
Lui stesso, in un’autointervista del
1984, si era definito «un povero ragazzo
bisognoso d’amore». Delle sue storie
personali parla il minimo indispensabile: preferisce nascondersi dietro i personaggi dei suoi film, senza che nessuno però sia mai perfettamente autobiografico. In amore è sempre lui che chiude e dice basta: per una sorta di deformazione professionale, spiega. Scrivendo copioni, capisce in modo molto
lucido quello che sta succedendo, e soprattutto quello che succederà. Uno
scrittore di sceneggiature, sostiene,
possiede in una certa misura le qualità
di un futurologo: «In amore ci si raccontano un sacco di bugie, ma è facile scoprirle, ed ecco che allora io mi limito ad
anticipare un po’ la parole fine, semplicemente perché la vedo».
Non si considera rigorosamente gay:
«Io mi definisco pansessuale, mi piace
qualunque tipo di sesso, compresi
quelli che devono ancora essere inventati». Sull’omosessualità è telegrafico:
«La gelosia è la stessa, le debolezze sono
le stesse, il dolore è lo stesso e la passione che si prova è la stessa».
Ammette che i gay «capiscono alcune
cose delle emozioni usualmente designate come femminili. Per questo motivo, secondo lo stereotipo, i gay sareb-
DOMENICA 21 MAGGIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
Sono pagine intense dove scorrono le storie “scandalose”
di donne e uomini straordinari: Lorca-Dalì,
Rimbaud-Verlaine, Garbo-Beaton...
Pubblichiamo l’ultimo capitolo,
dedicato a una coppia molto
speciale e trasgressiva
Legami omosex, ma non solo
La Sodoma feconda
di Gide e Cocteau
DARIA GALATERIA
ei era parente di due assassini di Rasputin, e
due volte nipote di zar. Bambina, giocava al
Bois de Boulogne scortata dagli ufficiali della Guardia Bianca. La principessa Natalie Paley
era pallida fin nel biondo dei capelli, e la più bella
di Parigi; algida, «la banchisa si richiudeva sempre» sul suo volto versatile. Semplice però di modi, entrando nel minuscolo appartamento di Cocteau si era subito seduta sul tappeto, e si era fatta
iniziare all’oppio.
Lui infatti non si era ancora ripreso dalla morte del
genio in erba Radiguet, e da allora cercava di dimenticarsi. Aveva perfino tentato con la conversione, che aveva messo alla moda («ma l’ostia non è mica un’aspirina!», aveva obiettato al poeta Max Jacob,
che insisteva per quel toccasana); ora, nel 1932, a 43
anni, provò a innamorarsi di una donna. Natalie Paley, che seduceva solo omosessuali, si trasferì da lui,
tra le più chiassose proteste di Jean Desbordes, il
marinaio sostituto in titolo di Radiguet, e — paradossalmente — con l’ostilità della madre di Cocteau, frastornata da quella relazione del figlio, per
una volta, con una donna, e di buona famiglia. Il marito di lei, il sarto Lucien Lelong — che la aveva restituita al lusso quando, rovinata dalla Rivoluzione del
1919, faceva la mannequin — protestò solo quando
Cocteau chiese a Natalie un figlio: «Nulla mi impedisce di avere una famiglia», ragionava lo scrittore
nell’osceno e splendido Livre blanc: «Del resto, senza sforzo, niente di bello esiste».
Parigi allibì; Cocteau infatti raccontò subito dello
tzarevitch (che fosse un maschio, per carità): «Chi
ama, scrive sui muri»; mentre lei protestava: «Non
sai come proteggere una donna; e come sono fragili gli amori tra due esseri di sesso diverso». Natalie
mentiva senza badarci, e le amiche cominciarono a
pensare che lei non fosse incinta affatto. Di fatto, lei
andò a Saint-Moritz a guarire un’anemia — ad abortire, sospettarono in molti; Cocteau partì per il sud
con Desbordes, e non perdonò mai alla donna di
non avergli dato una replica imperiale di se stesso.
Anche Gide voleva un maschio. Di una femmina,
non sapeva che farsene, né come educarla. Che fare? Architettò dapprima un’unione feconda tra il
suo grande amore Marc Allegret (il futuro regista)
e Elisabeth van Rysselberghe. Marc era suo nipote;
Elisabeth la conosceva da bambina: era la figlia di
una donna piccola e decisa, la Petite dame, che a
Gide aveva votato un culto definitivo, e viveva sul
suo stesso ballatoio col marito, il pittore Théo, annotando ogni parola del suo vate. Elisabeth aveva
nove anni, e un bambolotto in mano tenuto come
uno scudo, quando Gide, di ritorno dall’Africa dove andava con regolarità per diventare meno intelligente, le aveva detto: «Sai che anch’io giocavo con
le bambole»; lei aveva replicato: «Che peccato che
tu non sia un bambino!». Tra Elisabeth e Marc era
di fatto scoppiata una breve passione. Ma una sera, in treno — era il 1919, nel pieno della guerra, e
lui rientrava da un funerale — Gide ebbe un impulso di vita, e scrisse a Elisabeth una specie di
avance in prima persona: «Non amerò mai d’amore che una sola donna» (parlava di sua moglie Madeleine, cui lo univa un matrimonio bianco), «e
non posso avere veri desideri che per giovani ragazzi. Ma mi rassegno male a vederti senza figli, e a
non averne io». Il tempo è galantuomo, e nel luglio
del ‘22, nel silenzio di un mattino in riva al mare, l’idea trovò compimento.
Gide pensò di parlarne a Théo, con considerazioni civiche, del genere: il ripopolamento dopo la
guerra; ma non ne fece nulla. Oppure progettava
pubblicità per l’avventura, perché avesse una portata più generale; ma si preoccupava per la moglie:
«Con i tuoi gusti, nessuno penserà a te», lo rassicurò
un amico. Conversava con la Petite dame e le amiche, che erano scanzonate; ritenevano che il matrimonio convenisse all’uomo, la donna poteva benissimo farne a meno; Gide era d’accordo. Pensava anche, vagamente, che una donna potesse nutrire desiderio e amore contemporaneamente, ma non ne
era sicuro. Elisabeth comunicò al padre la sua decisione di avere un figlio fuori del matrimonio, Théo
reagì con «biasimo e tristezza»; lei decise di rendersi indipendente, e andare a dirigere una fattoria nel
sud della Francia. Gide intanto la andava a trovare
ogni mattina per farle delle piccole letture, e si incantava quando lei rigettava, che era una conferma
del suo stato. Con la Petite dame, Gide aveva asserito: «Il regno dell’uomo è finito». Ma quando nacque
Catherine, fu inconsolabile.
Quante specie d’amore sotto il cielo, è il sottinteso del saggio di Laura Laurenzi, che con rara eleganza ed emozione ne racconta alcuni esempi non
convenzionali. Gli amori omosessuali, d’accordo;
però sono sterili, lamentava Proust: ma chi ha detto
che sono contro natura? In Sodoma e Gomorra,
Proust si diverte appunto a raccontarli usando le
scienze naturali, le api e i fiori, come si racconta il
sesso ai bambini. Cita il Darwin botanico, e i suoi insetti che, storditi dal nettare, si impolverano di polline, e lo trasportano di fiore in fiore. Ma accanto alle unioni «incrociate o legittime», Darwin evoca
l’autofecondazione di piante che presentano fiori
maschili e femminili sullo stesso ceppo: praticano
«unioni illegittime» che rendono difficile la riproduzione. A primavera, attenti alle primule, avverte
Proust: hanno costumi così bizzarri, e ménages così
sregolati, che potrebbero far venire idee pericolose.
L
Repubblica Nazionale 43 21/05/2006
bero come le donne. Ma tutto ciò è spazzatura. Noi continuiamo ad avere un
comportamento definito maschile ma
contemporaneamente ci manteniamo
in contatto con un lato diverso delle
emozioni umane». Una ricchezza in più
dunque, come quella che consente gli
slittamenti di genere, gli scambi di iden-
LE ICONE
Sopra, una foto
di Pierre e Gilles
tratta dal volume
“Sailors & Sea”,
edito da Taschen
Nell’altra pagina,
Pedro Almodóvar
tità: «La sessualità in fondo è
un gioco molto primitivo, quasi infantile. Un modo
per farsi beffe della natura, per giocare a essere Dio con il proprio corpo».
E aspirare magari ad avere un figlio.
Pedro Almodóvar racconta di averci
pensato molto spesso e di invidiare chi
ha dei bambini. Voy a ser mamá. È il corpo che glielo chiede. «Ho pensato tante
volte di cercare la ragazza giusta e avere
con lei un figlio biologico. Il punto è che
io desidero avere un figlio, ma non una
famiglia, strumento primario di repressione. Nessuno può ricattarti così bene,
così brutalmente, così crudelmente e
dolorosamente come la famiglia. La fa-
miglia
controlla le tue viscere».
Fin da ragazzo ha dato
adito «a ire furibonde e ad amori
appassionati», si gloria. Victoria Abril, una
delle sue attrici-feticcio, lo
ha definito «un pasto completo, esageratamente nutriente, difficile da digerire». Le sue prime esperienze sessuali risalgono a
quando aveva tredici o quattordici anni: «Ma con persone bisex, per cui non
credo che allora fossi consapevole della mia diversità, che ho accettato solo
verso i diciotto anni». Ha mai desiderato essere una donna, ha mai pensato di poterlo diventare? Mai, e ne è lieto: tutti i transessuali che ha conosciuto hanno consacrato la loro vita a questo cambiamento, una strada durissima da percorrere.
È vulcanico, veemente, generoso. Un
po’ più malinconico da quando ha avuto
tanto successo: «Non mi sento felice, anche se senza dubbio mi ritengo un uomo
fortunato». In tre anni ha cambiato tre case. Pur detestando la campagna, che gli
dà claustrofobia, dopo gli Oscar ha comprato una villa a mezz’ora da Madrid con
piscina, campo da tennis, biliardo: anche
se la natura lo sconcerta e lo annoia, da ex
povero è contento di avere un bel giardino, però — si lamenta — non comunica
con i fiori. Non gli piace la sua faccia e si
proclama sempre più sordo. Odia la nostalgia e sogna «un mondo senza pregiudizi, né morali né sociali». Se qualcuno gli
dice che è un genio ribatte: «E se fosse tutta una montatura?». Combatte con le diete e con le vertigini. Ha qualche civetteria:
per esempio si toglie un paio d’anni, dice
di essere nato nel 1951, «con il mambo e
il rumore della guerra appena finita nelle
orecchie», ma nelle prime biografie l’anno di nascita risulta il 1949.
Fa sua la frase di Madame De Staël:
«Capire tutto significa perdonare tutto». La cosa che lo spaventa di più è l’indifferenza. Quanto alla sua intermittente solitudine, ormai c’è abituato e si
sforza di trasformarla in un elemento
fertile della sua esistenza.
Con umiltà e trepidazione torna a ripetere che l’amore — di qualunque natura, tipo, forma, variante, genere esso
sia — è l’unica cosa per la quale vale la
pena vivere: «Credo che sia un’emozione necessaria, l’origine della porzione
di felicità che un essere umano può
conquistare e insieme l’origine di un
enorme dolore. Nell’amore è iscritta la
sua stessa fine». L’amore non ti fa volare, anzi: ti tiene ben radicato a terra, sostiene. Ti impone una disciplina piena
di umiltà, ti fa conoscere la fragilità e
l’insignificanza del tuo essere umano.
Ma è anche un sentimento che si impadronisce di te e diventa superiore a ogni
tua capacità.
Senza l’amore la vita non è vita: è anche il titolo di un capitolo di Patty
Diphusa e altre storie, là dove si racconta che «Cristo ci consigliò di amarci gli
uni con gli altri. E Dio Padre ci programmò, senza consultare nessuno,
con una necessità di amore assoluto.
Ma si scordò la reciprocità. E noi madrileni siamo qui, nella maggior parte dei
casi, amando chi non ci ricambia e amati dalla persona sbagliata».
Indipendentemente dal sesso.
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 21 MAGGIO 2006
Sono nate quarant’anni fa ma mai
come oggi godono di buona salute,
si moltiplicano e attirano pubblico
e aspiranti artisti. Sono le mille carovane
di quel fenomeno battezzato “le nouveau cirque”,
nate per “violare l’inviolabile e dire l’indicibile”
CONCITA DE GREGORIO
ignore e signori, benvenuti allo spettacolo di quegli uomini e quelle donne che avevano paura al
principio e poi non l’hanno avuta più. Cioè al vostro spettacolo, lo spettacolo delle vostre vite se
avrete la grazia di concederci anche solo per stasera, per gioco e per finta non abbiate timore, che
la paura è in ciascuno il motore di ogni cosa perché ogni giorno, ogni mattina vi alzate e pensate di essere cortesi ma in
realtà avete paura di alzare la voce, credete di essere giusti ma
non osate delinquere, vi beate della vostra morigerata sobrietà ma avete terrore del desiderio, il vostro incontenibile
desiderio di quell’uomo, di quella donna e chissà perché proprio quella, di quell’odore o di un altro bicchiere di vino ma
non potete averlo perché non sapreste che fare dello squilibrio, dopo, dell’eccesso, della passione, del movimento e insomma della vita. Ecco perché state fermi lì su quella sedia,
in quell’angolo dentro quel recinto per animali impagliati.
Alzatevi pure, però, stasera: siate «deboli». Concedetevelo.
Arrendetevi, spogliatevi, tremate di paura: accomodatevi tra
noi. Venite tra gli zingari del vento. Gli zingari che ballano e
suonano — gli zingari in festa di Saintes Maries de la mer —
sono sempre piaciuti alla gente perbene, è così bello per due
ore affacciarsi a frequentare gentaglia e assaporare così l’ebbrezza breve del contagio. Gli odori, gli incensi. Tutto questo
troppo. Prendetene un po’, solo per oggi. Siete al circo.
Non è un circo qualsiasi, questo. Non è il circo triste degli
animali con gli occhi ingrigiti e le unghie tagliate, dei domatori di leoni stanchi e dei pagliacci nani con la biacca di un
sorriso posticcio. No, no. Non è quella cosa lì, niente tendoni né gabbie di fiere stordite: è il circo del pericolo vero. Il circo dei sentimenti che divampano e divorano. In definitiva,
vedete, il circo della paura. C’è gente che ha passato anni a
catalogare le paure, il modo di dargli forma. C’è qualcuno che
ha censito tutti gli spettacoli più rischiosi che esistono, quelli che la gente ci va per sentirsi chiudere lo stomaco e perdere l’equilibrio da seduti. C’è un catalogo, persino. L’arte del
rischio, s’intitola. Parla — da non credere — di circhi. Dice citando Cocteau, Dario Fo e Kafka che il circo — il «nuovo circo», quello dell’anima — è la poetica del rischio e dell’azzardo. Si parte sempre dalla paura. Ci sono due modi per vincerla, spiega: uno è convincersi di amare il pericolo, molti ragazzi lo fanno. Corrono a fari spenti con le moto, schivano
ostacoli messi lì apposta, provano sostanze, infrangono divieti tra gli applausi del pubblico ridente di terrore. L’altro
modo è distrarsi, non pensarci. Lasciarsi incantare da qualcos’altro.
Scrive Paul Auster nella prefazione al Trattato sul funambolismo di Petit che «il buon funambolo si sforza di fare in
modo che lo spettatore non percepisca il pericolo, lo distrae
dal pensiero della morte. Lo fa così, semplicemente: con la
bellezza del suo gesto sul filo». Ecco, è la bellezza che più di
tutto distrae dalla paura: puoi persino diventare acrobata se
riesci a farti guidare dall’eleganza del gesto, dalla forza del
desiderio. Puoi persino dimenticare il rischio. Puoi provare,
una volta. Ci sono quelli che nella vita non hanno provato
mai. Ci perdono.
Nato insieme alla rivolta sociale, cresciuto degli anni Settanta come festa di liberazione dalle dittature anche politiche, come schiaffo alla convenzione e all’equilibrio della
moderazione il «nuovo circo» (le «nouveau cirque» si dice
pensando ancora al maggio francese) ha quarant’anni: l’età
peggiore, la più critica per le passioni. E però lui vive e cresce
non solo nella memoria, decine e decine di nuove compagnie si formano, centinaia di ragazzi abbandonano le loro case e continuano oggi come ieri a partire con le carovane: Anna, Letizia, Emilio. Sono tanti i ragazzi italiani — i nomi in
fondo ai depliant — che sono partiti per il mondo così. Hanno visto lo spettacolo che passava da lì, un giorno, dal paese.
Si sono fermati la sera a parlare accanto alla carovana, hanno detto a casa torno subito, l’hanno seguita e non son tornati più se non per Natale, a volte, anni dopo ormai da adulti. Un po’ come nella favola di Pinocchio e negli incubi dei genitori che «gli zingari vengono e ti portano via», quella gente
cattiva, quella gente senza legge, stai vicino non ti allontanare stai qui.
In Catalogna poche settimane fa si è celebrato con una mostra nel più bel museo di arte contemporanea di Barcellona
l’ingresso nella maturità del nuovo circo, i suoi quarant’anni. «L’arte del rischio», appunto. Il contrordine della cultura
quando si prende troppo sul serio. Lo spettacolo che non
aspetta il pubblico ma se lo va a prendere per strada. Tutte le
avanguardie del ventesimo secolo lo hanno tenuto a riferimento. L’acrobata di Picasso parla di questo. I vecchi ingredienti del circo per una ricerca nuova. Niente più animali,
Repubblica Nazionale 44 21/05/2006
S
Il nuovo
Circo
Tremate
di desiderio
e paura
ecco gli zingari
Una tecnica vecchia per un racconto
mai sentito. Si parte da Beck, Mnouchkine,
Fo, i padri fondatori, per arrivare
al Circ Cric, al Cirque du Soleil, a Zingaro
in vendita
da oggi
anche su
DOMENICA 21 MAGGIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
IL CAVALIERE DEL VENTO
Bartabas è il creatore di Zingaro, il teatro equestre
più grande e famoso del mondo. In “Bartabas
il cavaliere del vento-La vera storia dell’uomo
che parlava ai cavalli” di Jerôme Garcin (Sperling
& Kupfer, 224 pagine, 17 euro, in libreria
il 30 maggio) si racconta l’universo affascinante
di Clément Marty, l’uomo che ha realizzato
i suoi sogni trasformandosi via via in Bartabas
GLI SHOW
CIRC CRIC
Il circo itinerante
catalano comincia
a portare in giro
i suoi spettacoli
nel 1981. Tra i suoi fan
c’è anche Joan Miró.
È il primo a importare
in Europa il nuovo genere
CIRQUE DU SOLEIL
Repubblica Nazionale 45 21/05/2006
La grande fabbrica
di sogni e illusioni nasce
nel 1984 da un’idea
del canadese Guy
Laliberté: negli spettacoli
fonde invenzioni
avveniristiche e antiche
tradizioni circensi
CIRQUE ELOIZE
Fondato da un gruppo
di giovani canadesi
nel 1993, ha girato
per oltre 200 città
in tutto il mondo.
Le sue incantevoli
esibizioni sono
state più di 1.400
LA MAGIA
Nella foto grande,
un momento
dello spettacolo
“Dralion”
del Cirque du Soleil
Nelle altre
immagini,
gli show
delle principali
compagnie
del “nuovo circo”
I CAVALLI DI BARTABAS
Dal 1984 la compagnia
Zingaro di Clement Marty
(Bartabas) porta in giro
per il mondo
gli spettacoli a cavallo
che hanno rilanciato
e reinventato il circo
equestre
niente «signori sempre più difficile» né il gusto del rischio per
il rischio. Non una semplice concatenazione di «numeri da
circo» ma un canovaccio, invece, una drammaturgia e un tema: la violazione dell’inviolabile, di solito. L’indicibile. L’irraggiungibile. Il desiderio e il suo contrario: la paura.
Hanno usato una tecnica vecchia per cercare una forma
di racconto nuova. D’altra parte è quello che hanno fatto nel
tempo Joyce e Kafka, Kandinskij e Peter Brook, Pina Bausch
e John Cage ciascuno per la sua parte. Sono anni, quelli, in
cui cambia molto anche il teatro: il Living Theatre, le Theatre du Soleil di Ariane Mnouchkine, il Mistero buffo di Dario
Fo. Un’altra storia nei luoghi della vecchia. Quando parte in
Europa il primo circo itinerante, il catalano Circ Cric (siamo
all’inizio degli Ottanta) c’è già da due anni in Australia il Circus Oz, nasce in Inghilterra il Circus Hazard, poi verrà in
Québec le Cirque du Soleil (’84) e quasi dieci anni dopo il meraviglioso notturno e balcanico Cirque Eloize: un circo dove t’incanti a vedere una ragazza che dondola in altalena da
un capo all’altro della scena e dice «mi vedete, riuscite ancora a vedermi?».
Fra gli ultimi si muove l’Italia, Arcipelago circo teatro
porta in tournée lo spettacolo presentato l’anno prima alla Biennale di Venezia, Ombra di luna, e siamo già nel 2002.
È lo stesso anno delle Metamorfosi di Ovidio dirette da
Giorgio Barberio Corsetti. Altrove nel mondo e in Europa è
già da anni leggendaria l’onirica poesia equestre del teatro
di Bartabas, il suo cavallo più nero si chiama Zingaro con
l’accento sulla o e così la sua compagnia. Si conoscono la
delicatezza del Cirque plume, lo psicologismo del Que-cirque, l’erotismo del Circo Diva. Nella Spagna che esce dalla dittatura e ora anche dalla transizione il teatro guarda al
circo e ci si specchia: Els comedians, Els joglars, la Fura del
baus, tutti catalani.
Il circo guarda alla vita, finalmente di nuovo capace di
evadere dai recinti assegnati ed è un’esplosione collettiva.
Dal Circ Cric come fosse un mulinello creativo nascono decine di piccoli gruppi, Circ semola, Circ perillos: in quest’ultimo Adelaida e Jordi volano in aria e si sorreggono come per
miracolo esattamente con quell’incanto di bellezza che fa
dimenticare la paura, il pericolo (perill, in catalano) da cui il
gruppo prende il nome. Vengono lei dall’esperienza del mimo, Lindsay Kemp e Marcel Marceau, lui dal mondo dei cavalli di Bartabas. Ai loro spettacoli ridono e battono le mani
insieme ai nipoti Joan Miró e Joan Brossa, quest’ultimo — il
poeta visuale — ossessionato dal ricordo di Fregoli: la velocità, il trasformismo, l’illusione della realtà e la verità del gesto. «Dell’Italia amo Michelangelo e Brachetti», diceva. Brachetti, in quel tempo, in Italia non lo conosceva nessuno.
Anche Clement Marty, a cui Jordi ferrava i cavalli, ha cominciato dal circo. Clement non sarebbe mai diventato
Bartabas se un incidente in motorino non gli avesse sfracellato le gambe: se non gli avessero detto «non cavalcherai
mai più» inducendolo perciò a diventare il più magnetico,
ipnotico, il più elegante e selvaggio dei cavalieri. Nella sua
biografia appena uscita in Italia (Bartabas il cavaliere del
vento di Jerome Garcin, Sperling & Kupfer) si legge questo.
«Cosa significa montare se non fondersi nel cavallo fino a
dimenticare il proprio corpo, negare la decrepitezza prossima, aspirare a disincarnarsi e reincarnarsi?». Non c’è descrizione del gesto erotico più precisa, non c’è altro da dire
dell’amore carnale: fondersi, negare la fine, dissolversi e
reincarnarsi.
Quando frequentava il festival di Avignone con il Cirque
Aligre, Bartabas aveva due topi trapezisti, li vestiva da Romeo e Giulietta e recitavano Shakespeare: insomma, sembrava che, e la gente impazziva di divertimento. Gli attori
erano osceni, eccessivi, rumorosi, selvaggi come cosacchi
tra le trine della civiltà. La gente del posto protestava che gli
amministratori progressisti gli avessero concesso di sostare
nel sacro terreno del castello per le prove: ci si accampavano dentro come barbari. Bartabas — che ha letto Malraux e
che a nove anni scriveva compiti in classe che sembrano
pezzi dei Fiori blu, perciò bocciato — si è stancato presto dei
topi. È tornato ai cavalli e ha imparato a far loro affrontare
qualsiasi fatica, ogni pericolo senza sudore. Con la naturalezza delle origini: ci si accede solo col tempo e con l’ascolto. «Adagio, che ho fretta», dice sempre. Più vai piano e meno tempo perdi. Solo se entri in sintonia capisci, solo se
ascolti. D’altra parte — spiega Bartabas — i cavalli «esprimono il loro affetto solo quando smetti di chiedergliene prova». Non c’è niente che amino di più del «convincere chi si
sottrae». Basta allontanarsi da loro per farli avvicinare. Così
gli uomini, del resto. Non c’è niente che amino di più di chi
si sottrae. Il circo è lì anche per questo. Per consolare chi non
sa farlo, per ricordare che comunque si può anche rischiare
ogni tanto. Per insegnare ad avere paura e a non averne più.
DOMENICA 21 MAGGIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
spettacoli
Cinema nuovo
I FILM
IL CAIMANO
IL REGISTA
DI MATRIMONI
ANCHE LIBERO
VA BENE
L’AMICO
DI FAMIGLIA
Nanni Moretti
è in corsa anche
quest’anno
(dopo il successo
del 2001 con
“La stanza del figlio”)
per la Palma d’oro
L’ultimo lavoro
di Marco
Bellocchio
partecipa
al Festival
nella sezione “Un
Certain Regard”
L’opera prima
dell’attore Kim
Rossi Stuart
viene presentata
nella rassegna
“La Quinzaine
des Réalisateurs”
Il film di Paolo
Sorrentino
è l’altro candidato
italiano in concorso
per l’assegnazione
della Palma
d’oro
Cannes
la carica
degli italiani
Moretti, Bellocchio,
Sorrentino, Rossi Stuart:
a giudicare dall’accoglienza
del Festival, le nostre
FOTO ANSA
pellicole tornano di moda
NATALIA ASPESI
A
CANNES
rriva Nanni Moretti ed è come se
portasse con sé l’Italia nuova
uscita dalle elezioni. Arriva Il caimano, in concorso domani e subito dopo su tutti gli schermi francesi, e qui lo
aspettano ansiosamente, come se gli si potesse
attribuire un sia pur piccolo merito per il cambiamento politico del nostro Paese. Giustamente Moretti lo nega, perché il cinema può
niente rispetto alla televisione che in periodo
elettorale ha parteggiato spudoratamente per
il governo oggi pensionato; ma certo potrà allietare i suoi molti cinefan raccontando della
montagna di scemenze dette e scritte in Italia
sul suo film giudicato, soprattutto da chi non
l’aveva visto o addirittura non va mai al cinema,
una pericolosa arma di guerra politica, vuoi pro
destra vuoi pro sinistra. I francesi lo attendono
devoti e qui ricordano quanto fosse rabbuiato,
cinque anni fa, quando era arrivato con La
stanza del figlio: era il 2001, in Italia le elezioni
erano state vinte da pochi giorni, a forte maggioranza, dal centrodestra. Poi il suo decimo
film vinse la Palma d’Oro e fu almeno una grande consolazione professionale, non sufficiente
a distrarlo da una situazione politica che lui immaginava disastrosa e che poi si rivelò tale.
Sono tanti cinque anni tra un film e l’altro, pure per il riflessivo, cauto Moretti; ma anche in
Francia hanno seguito il suo intermezzo di impegno politico, i suoi interventi in piazza, soprattutto quello del settembre 2002 a San Giovanni davanti a un milione di persone, quando
senza volerlo divenne il portavoce della sinistra
civile scontenta della sinistra politica confusa e
spaventata. Moretti è atteso a questo Festival
come la massima star del bel cinema, dopo l’umiliante luccichio imposto dalle star dell’imbalsamato megacinema commerciale; e la
stampa internazionale che negli ultimi anni si è
occupata dell’Italia quasi esclusivamente per
raccontare, stupita, ironica, scandalizzata, il fenomeno Berlusconi, è pronta ad accoglierlo
non solo come autore rispettato e amato ma anche come figura carismatica di un Paese che
vuole cambiare, dimenticare, ricostruire.
Già i giornali francesi sono pieni di lunghe
interviste che certo vogliono sapere tutto della genesi del Caimano, dei quattro volti che
Moretti attribuisce all’ex premier, quello del
vero Berlusconi stesso di memorabili documentari, quello degli attori De Capitani e Placido e infine il suo stesso, che diventa una immagine di minaccia ed eversione; ma anche
dell’Italia che sta per cominciare un cammino
diverso anche sotto gli occhi, vigili, di gente
L’autore del “Caimano”
atteso dalla stampa
internazionale come figura
carismatica di un Paese
che vuole cambiare
come Moretti. E c’è già al Festival chi gli attribuisce doti di veggente, visto che dopo la
sconfitta elettorale, c’è chi nella destra ha pronunciato realmente frasi eversive non diverse
da quelle che chiudono il film.
Il cinema italiano sta tornando di moda, e
c’è molta curiosità anche per il secondo film in
concorso, L’Amico di famiglia di Paolo Sorrentino veramente inedito in quanto non ancora visto neppure in Italia. Ieri è stato accolto con buon successo nella sezione “Un Certain Regard” Il regista di matrimoni di Marco
Bellocchio, molto amato in Francia sin dai
tempi dei Pugni in tasca. E Le Monde, definendo Bellocchio «l’ultimo dei mohicani della
Nouvelle Vague italiana», sembra preferire il
suo film anche al Caimano di Moretti.
Ottima accoglienza ugualmente per Anche
libero va bene, di Kim Rossi Stuart, film che è
stato una bella sorpresa anche in Italia: quando una persona è così bella, si pensa che non
possa fare che l’attore. Invece Kim, che pure
del suo film è protagonista, si è rivelato un autore profondo, capace di dirigere gli attori e di
commuovere il pubblico. Concorre, nella sezione “La Quinzaine des Réalisateurs”, al premio Caméra d’Or per l’opera prima.
Ieri c’è stata molta allegria, il nuovo modo di
accogliere i cosiddetti film scandalo, alla
proiezione ovviamente fuori concorso di
Shortbus del simpaticamente scorretto e irritante John Cameron Mitchell. Melodramma
porno a prevalenza gay, il film ha per protagonista non, come dal titolo, il piccolo bus che
porta a scuola i ragazzi cosiddetti sottodotati,
ma il famoso orgasmo, che almeno per quel
che riguarda le signore, risulta talvolta una
chimera persino dal punto di vista politico.
L’estroso regista avverte che sono stati gli interpreti a inventare di volta in volta il soggetto, il che fa pensare che già che c’erano, tutte
le scene di sesso (in ogni versione, dalla masturbazione all’orgia) siano, beati loro, autentiche. Trama: una coppia di bei giovanotti gay molto innamorati va da una consulente
matrimoniale e sessuologa per sapere se fanno bene a diventare coppia aperta. Lei stessa
però avrebbe bisogno di un esperto, dato che
pur continuamente sbattuta in ogni angolo
della casa da un marito per altro insignificante, resta fredda come un baccalà. Ne succedono di ogni colore, compreso un tentato suicidio. Per il resto intreccio di membri di misure encomiabili, cose davanti di dietro su e
giù in un allegro locale dove non si fa altro, a
suon di musica. Scene divertenti: un giovanotto tipo bambolotto e molto ginnico riesce
a farsi da solo una fellatio; una eiaculazione si
abbatte su un quadro tipo De Koonig e lo
completa artisticamente.
“Il regista di matrimoni”,
appena presentato,
ha raccolto un giudizio
molto positivo da parte
dal critico di “Le Monde”
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 21 MAGGIO 2006
i sapori
La novità del momento è il sorbetto all’azoto liquido: cremoso, profumato,
Piaceri estivi
leggero. Ma a contendergli il mercato dell’eccellenza c’è quello fatto
seguendo la ricetta tradizionale e rigorosamente senza additivi
L’appuntamento è ora a “Gelatò” la kermesse torinese
dove il 23 e 24 giugno le due scuole si incontreranno e si scontreranno
Gelato
Naturale o hi-tech?
È sfida fra i maestri
LICIA GRANELLO
n gelato in abito da sera: fine, setoso, elegante, colorato senza altri trucchi che la freschezza regalata da madre natura. Un gelato
che non ghiaccia la bocca, non addormenta
le papille gustative. Al contrario, capace di liberare gli oli essenziali più delicati, come se
una mano benedetta avesse spremuto le molecole aromatiche a
una a una. La nuova frontiera del gelato passa dall’azoto liquido, la
componente quantitativamente più importante dell’aria, imprigionato e raffreddato fino a ridurlo allo stato liquido. La temperatura è terrificante: quasi duecento gradi sotto zero. Ma immergerci la mano dentro per qualche secondo non crea alcun problema (esperimento non
praticabile in una pentola d’olio bollente).
È un gelato da magia gastronomica: appena versato sulla “base” prescelta, l’azoto passa allo stato gassoso, espandendosi settecento volte, in
un tripudio di fumo bianco da antro di mago Merlino. Trenta secondi dopo, avete in bocca la più suadente, setosa, profumata, naturalissima crema gelata della vostra vita: niente additivi, nel dolce-simbolo della cucina molecolare.
Se Ferran Adrià, con il suo bonbon ghiacciato di pistacchio,
due anni fa ha sdoganato l’azoto liquido dai laboratori medici (dove si usa come conservante e anti-verruche) per
farne l’ennesimo elemento spettacolare della sua
straordinaria cucina, in Italia il merito della ribalta spetta a Davide Cassi. Parmigiano doc, docente di fisica geniale e mattocchio, nel suo micro-laboratorio ha dilatato l’utilizzo del fumo-che-ghiaccia, contagiando i suoi allievi. Così, a partire da metà giugno, un manipolo di allegri laureandi, con sgargiante scritta “Crio-bar” sulla maglietta,
approderà a coppie sulle spiagge romagnole: uno con l’azoto liquido nella
bombola-carrellino, l’altro con cesta a
tracolla piena degli ingredienti-base e
di una ciotolona dove operare in diretta il piccolo miracolo gourmand.
La nuova tecnica è destinata a pesare nello scontro tra due scuole di gelateria sempre più antitetiche: da una
parte gli artigiani duri e puri — solo
materie prime naturali, tecnica e passione — dall’altra le industrie e soprattutto i gelatieri che, pur lavorando in proprio, non disdegnano semilavorati e additivi. Perché se il super-maestro Luca Cavaziel abbraccia in toto
la filosofia dei semilavorati («Il gelatiere ricorre con sempre maggiore frequenza all’uso degli ingredienti composti per la loro grande versatilità, notevole apporto in fatto di
praticità, resa qualitativa e sicurezza igienica»), i pochi irriducibili del gelato di casa —
radunati intorno al progetto di Slow Food e Confederazione italiana agricoltori per la
certificazione del gelato di qualità — rifiutano ogni compromesso. Racconta il milanese Daniele Cuomo: «Cercano di far passare le polverine come ingredienti normali,
per mascherare materie prime mediocri e ridurre i tempi di lavorazione. Noi non ci stiamo. Certo, fare il gelato senza chimica riduce parecchio i margini di guadagno. Ma la
soddisfazione di vendere un prodotto buono, digeribile, non grasso, salutare, è senza
prezzo». Non a caso, ai laureandi bocconiani con vocazione alimentarista, vengono
suggerite due attività imprenditoriali dal fatturato sicuro: gelaterie e pizzerie.
E allora, via libera ai gelati naturali, con o senza azoto. La tendenza a sostituire il panino della pausa-pranzo con un bel gelato (complice la bella stagione), ha allargato la
lista dei gusti. I salutisti scelgono tè verde, cereali, yogurt e miele, frutta bio, tarassaco,
mentre i golosi tout court restano fedeli ai sapori tradizionali, magari regalandosi lo sfizio di un cru di cioccolato, della crema arricchita da scorze d’agrumi e liquori preziosi,
o puntando alla trasgressione golosa con l’abbinamento parmigiano-pere.
Se il troppo lucido, troppo colorato, troppo rigonfio vi inquieta, mentre chiedete al
gelatiere di farvi assaggiare le nuove creazioni, sbirciate l’elenco degli ingredienti (pubblico per obbligo di legge). Oppure programmate un viaggio a Torino per fine giugno:
il 23 e il 24, durante “Gelatò”, gli artigiani prepareranno dal vivo i loro gioielli. Senza trucchi e senza scorciatoie.
Repubblica Nazionale 48 21/05/2006
U
Arancia amara
Armagnac
Cru Venezuela
Cookies & pistacchio Miele di tarassaco
Parmigiano & pere
Il sapore acidoamarognolo ne fa
l’ingrediente ideale
per la confezione
di marmellate. Eppure,
se raccolta matura,
quando il gusto
si arrotonda, regala
un sapore fresco
ed elegante al sorbetto
Abbinamento ideale,
i piatti di pesce
La passione dei fratelli
Alongi (San Crispino)
per le materie prime
“assolute” arriva
fino ai distillati
Il Laberdolive ’85 viene
mantecato con una
crema a ridotto tenore
di zucchero e grassi.
Profumato e profondo,
difficile trovare un finecena estivo migliore
In testa alle preferenze
degli italiani, solletica
la vanità professionale
dei gelatieri,
alla continua ricerca
del cioccolato più fine
e persistente. Tra i Cru
Venezuela (composti
solo con le pregiate
fave di cacao locali)
più richiesti, Amedei,
Domori, Vahlrona
La premiata ditta
torinese GromMartinetti ha messo
a punto un supergusto con pochi rivali
in golosità. Ma a far
grande l’accoppiata
sono gli ingredienti:
i biscotti al cioccolato
sono quelli di Marco
Vacchieri, i pistacchi
arrivano da Bronte
I due gusti, preparati
in maniera distinta,
bilanciando
stagionatura
del formaggio
e maturazione
della frutta, regalano
un mix dolce-salato
suadente e particolare
Apprezzato
da chi non ama troppo
i gusti dolci
Guai a considerarlo
un gelato dolce-dolce
Al contrario, il miele
in tutte le meravigliose
varianti — dal
primaverile tarassaco,
con il suo impatto
di caramella agli oli
essenziali, alla lieve
acacia — sostituisce lo
zucchero, per un
gelato più salutare
DOMENICA 21 MAGGIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49
Roma
Torino
itinerari
Corrado Sanelli
gestisce con madre
e figlio una piccola
gelateria nel cuore
di Salsomaggiore,
dove serve creme
e sorbetti
utilizzando solo materie
prime naturali
e biologiche. È il primo
artigiano italiano ad avere
introdotto l’azoto liquido
per la preparazione
dei gelati
12 kg
Il consumo pro capite
annuo di gelato in Italia
Salsomaggiore (Pr)
Città-cardine
nella divulgazione
della cultura
gastronomica —
dal Salone del Gusto
a Cioccolatò —
ospiterà a giugno
una manifestazione
dedicata
al gelato artigianale, tra preparazioni in diretta
e degustazione dei sapori più golosi e tradizionali
Poche, le città dove
il gelato è declinato
in maniera così
appassionata
e creativa
A produrlo,
un gruppo
di artigiani storici
e nuovi, decisi
a difendere la qualità degli ingredienti, integrati con
elementi originali, dall’Armagnac all’arancia amara
Sospesa tra Liberty
e Decò, la cittadina
termale è situata
in una zona
benedetta
per le produzioni
alimentari. Così,
alcuni gioielli
gastronomici come
il Parmigiano e l’aceto tradizionale balsamico
si trasformano nei gusti dei gelati più intriganti
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
ARTUÀ & SORRENTINO
Via Brofferio 3 angolo corso Re Umberto
Tel. 011-5175301
Camera doppia da 100 euro, colazione inclusa
IL CASTELLETTO
Via Dei Carraresi 27
Tel. 06-66166573
Camera doppia da 96, colazione inclusa
RITZ FERRARI
Viale Milite Ignoto 5
Tel. 0524-577744
Camera doppia da 104 euro, colazione inclusa
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
SOTTO LA MOLE
Via Montebello 9
Tel. 011-8179398
Chiuso a mezzogiorno, menù da 30 euro
TABERNA RECINA
Via Recina 22
Tel. 06.7000423
Chiuso domenica, menù da 30euro
LOCANDA STELLA D’ORO (con camere)
Via Mazzini 8
Tel. 0524-597122
Chiuso lunedì, menù da 40 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
GELATERIA TESTA
Corso Re Umberto 56
Tel. 011-599775
IL GELATO DI SAN CRISPINO
Via Acaia 56
Tel. 06.70450412
GELATERIA SANELLI
Piazza del Popolo 2
Tel. 0524-574261
3,5 mln
Il fatturato annuo
dell’industria del gelato
50 mln
Gli italiani che dichiarano
di amare il gelato
Quando la fisica
entra in cucina
‘‘
Carlo Goldoni
A Napoli
poi conviene
cedere la mano
per i sorbetti.
Hanno de’ sapori
squisiti; e quello
ch’è rimarcabile
per la salute,
sono lavorati
con la neve,
e non col ghiaccio
DAVIDE CASSI
n un fine settimana d’aprile, nella tradizionalissima gelateria Sanelli di Salsomaggiore, ha mosso i primi passi una piccola rivoluzione: il gelato
all’azoto liquido è entrato a far parte della lista dei
prodotti offerti ai clienti. La tecnica di preparazione, in sé, non è nuova: la liquefazione dell’azoto è
precedente all’invenzione del frigorifero, ed è documentato che, già all’inizio del Novecento, fisici
giocherelloni preparavano il gelato estemporaneo
nel giardino di casa. Ma, per oltre un secolo, l’azoto
liquido è rimasto appannaggio di tecnici e scienziati, inesperti di pasticceria: per questo, il congelamento rapidissimo delle creme tra vapori densi era
considerato una sorta di spettacolo da illusionisti,
piuttosto che un’impareggiabile tecnica di cucina.
La novità di questi ultimi anni è la scoperta delle potenzialità gastronomiche dell’azoto liquido, e la novità dell’ultimo mese è la possibilità di deliziarsene,
offerta a tutti gli avventori di una normale gelateria,
e al prezzo di un gelato comune.
La preparazione del gelato estemporaneo è di
una semplicità disarmante: si versa la base in una
pentola e, mescolando velocemente con una frusta, si aggiunge l’azoto liquido, finché il tutto non si
è trasformato in una morbida crema gelata. Il processo è velocissimo: tralasciando il record mondiale di due gelatieri particolarmente robusti, Comini e Pendin, (un chilo di gelato in tredici secondi), un comune mortale ce la fa in un minuto. Più
impressionante è il risultato: eccezionalmente soffice, morbido, cremoso. Rinfresca la bocca senza
congelarla e sprigiona aromi più intensi e prolungati. Merito dell’azoto liquido, che, dai suoi meno
195,8 gradi centigradi, evapora rapidamente a
contatto con la base, sottraendole calore e gonfiandola di microscopiche bollicine. Il congelamento ultrarapido produce poco ghiaccio, ma sotto forma di infiniti cristalli piccolissimi: così piccoli da non essere percepiti al tatto, ma tanto numerosi da addensare la crema come farebbe una polvere fine. La minore quantità di ghiaccio sottrae
meno calore alla bocca, che così resta piacevolmente fresca senza ghiacciarsi, pronta ad apprezzare gli aromi e i sapori di un nuovo boccone. Anche l’aspetto visivo migliora, e i colori sono più intensi. Le bollicine, poi, sono d’aria profumata, perché l’azoto è il principale componente dell’aria
(78%) ed estrae con grande efficienza gli aromi dagli ingredienti.
Non è difficile procurarsi l’azoto liquido: basta
cercare sulle pagine gialle un fornitore di gas tecnici. Vi costa intorno ai 50 centesimi al litro, ma con
quel litro potete preparare anche quattro chili di
gelato. I contenitori in cui si conserva ormai sono
alla portata di tutti: un “bidone” da venticinque litri si trova a meno di 500 euro ed è praticamente indistruttibile. Ma il fascino della nuova tecnica sta
soprattutto nella possibilità di trasformare in gelato praticamente ogni base liquida, senza l’utilizzo
di quegli additivi e addensanti che inibiscono aromi e sapori e lasciano la bocca appiccicosa. Con l’azoto liquido possiamo congelare all’istante un succo di frutta appena spremuto, il caffè appena uscito dalla macchina, il latte appena munto, controllando di persona la qualità delle nostre materie prime. Le possibilità divengono ancora maggiori, se
includiamo la vasta gamma di gelati salati, che si
possono produrre partendo da basi alla birra, all’olio d’oliva, ai centrifugati di verdura.
È strano dirlo, ma la gastronomia dell’azoto liquido è ancora all’età della pietra: come se avessimo da poco scoperto il fuoco e stessimo iniziando a
studiare cosa e come con esso si può cuocere. Provatelo, dunque, perché vi riserverà piacevolissime
sorprese.
(L’autore è gastronomo e docente di fisica
all’Università di Parma)
‘‘
Repubblica Nazionale 49 21/05/2006
I
Da PAMELA FANCIULLA
Marsilio editore
Sorba
Torta Barozzi
È uno dei frutti antichi
di ritorno sulle nostre
tavole. Usato per il
suo gusto asprigno
nelle marmellate,
se raccolto dopo
le gelate e lasciato
appassire sotto
la paglia, acquista
gusto morbido,
che ben si sposa
con la base crema
La ricetta segretissima
della mitica torta
al cioccolato & caffè
prodotta da un secolo
a Vignola
si trasforma in gelato.
Merito dell’emiliano
Corrado Sanelli,
che ben la conosce
Gli adepti al culto
della Torta Barozzi
ne sono entusiasti
50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 21 MAGGIO 2006
le tendenze
Una pioggia di rose, camelie, margherite. Sulle t-shirt,
sulle gonne estive, sugli spolverini. Ma anche sulle borse,
sugli accessori e sui gioielli. È il gran ritorno
della moda floreale, un trionfo neo-romantico che riempie
le vetrine senza però penalizzare la grinta e la vitalità
delle donne e delle ragazze degli anni duemila
Fantasie colorate
SEMPREVERDE
Arriva dall’archivio
storico di Roberta
di Camerino
la riedizione
di una borsa
“evergreen”
con la classica
chiusura a scatto
IN BIANCO E NERO
Fiori in bianco
e nero, effetto
optical art,
per le borse
a tracolla
di Stefanel.
La stessa stampa
floreale si ritrova
su gonne
e camicie
che si ispira
alla moda
dei figli dei fiori
UN’ESPLOSIONE
DI PETALI
Un fiore gigante
con tanto di petali
coloratissimi
per la borsa
di Braccialini
che crea un effetto
“gardening”
OMAGGIO ALLA CAMELIA
È la classica borsa Chanel
che, in questa versione,
rende omaggio ai fiori a partire
dalla camelia,
il simbolo della maison
Fiori
style
E la donna
si veste di papaveri
LAURA ASNAGHI
tampati, ricamati, intarsiati, traforati su ogni genere di materiale. I fiori si prendono la rivincita e,
dopo anni di oblio, tornano a invadere gli armadi. Per tutta l’estate, si assisterà a un vero trionfo delle fantasie floreali, con fiumi di margherite, camelie, papaveri e peonie sparse su eterei chiffon, sete impalpabili e cotoni. Non c’è collezione che non sia contagiata da questa ventata bucolica. Che
ha tra i suoi esponenti più prestigiosi Ken Scott, il cui marchio è tornato di recente sul mercato con
una vitalità prorompente e fantasie fiorite che piacciono anche alle ragazzine.
«Il fiore ha mille vite e aiuta a sognare — spiega Gianfranco Ferré — e, in più, evoca con immediatezza immagini di femminilità e di dolcezza. Per noi stilisti è avvincente reinterpretare i fiori, tema che ha una grande
versatilità e che può essere declinato con molteplici tecniche».
Tornano gli abiti che sono un inno alla natura ma non c’è nulla di sdolcinato in questa moda estiva, solo apparentemente romantica. Infatti, basta vedere come Frida Giannini, la stilista di Gucci, ha mixato i fiori della
collezione, già in vendita nelle boutique, per rendersi conto che petali e corolle non sono il manifesto di una
donna arrendevole. Anzi. Da Gucci, la maglia a fiori si porta con pantaloni di taglio maschile, proprio per tenere le distanze da abbinamenti troppo sdolcinati.
Fiori sì, ma per donne grintose, che in amore sono loro a fare la prima mossa. Come le fan dei Dolce & Gabbana, innamorate delle stampe con i papaveri mescolati alle spighe. «Il rosso dei papaveri è espressione della
passione — spiegano i due stilisti — sono fiori semplici e sofisticati allo stesso tempo, proprio come le donne
che noi vestiamo». Chi, da sempre, propone i fiori è Anna Molinari di Blumarine, ribattezzata la «regina delle
rose». Petali e boccioli scarlatti campeggiano su t-shirt, golf, gonne e spolverini, perfetti per donne solari ed
esuberanti. Anche Alberta Ferretti è una fan del floreale. «Il fiore è simbolo di rinascita e in più stimola il buon
umore — dice la stilista — e spero che i miei abiti siano in grado di trasmettere questa sensazione».
Nella folta schiera di stilisti che esaltano il «flower power» c’è anche Valentino: «Adoro i fiori — ammette —
non potrei vivere senza. L’orchidea bianca è la mia preferita, insieme alle peonie, alle rose e all’ibiscus. I fiori
per me sono una fonte di ispirazione. Sono la felicità. Ecco perché, in ogni mia collezione, c’è sempre un riferimento ai fiori». Tra i bucolici spinti, un posto d’onore va ad Antonio Marras che osa fantasie in versione gigante accostate in modo apparentemente discordante. Nella sua linea, ma anche in quella di Kenzo che lui disegna, i ricami floreali si ispirano a quelli tipici della tradizione sarda o a quelli riprodotti su antichi kimono
giapponesi. Un mix tra l’etnico e le antiche tradizioni orientali che Marras sa interpretare alla perfezione.
I fiori dilagano, si impossessano di borse (come nel caso di Fendi, Etro, Dior, Prada e Moschino), di abiti (Armani, Missoni, Mariella Burani, Amuleti J., Coveri e Vuitton) e anche di gioielli. Coco Chanel, che ha fatto della camelia il suo simbolo, ha una intera collezione di preziosi con petali, corolle e pistilli in zaffiri, rubini, smeraldi e diamanti.
L’ESTATE
Tanto che, nella storia della moda, la caA COLORI
melia si associa immediatamente a Coco
Fiori e colori
Chanel. Fiori anche per la gioielleria di Cha go-go
ristian Dior, dove l’oro si fonde con smalti
per la
e tutte le più belle pietre preziose.
collezione
estiva
di Benetton
con abiti,
pantaloni
e giacchini
fioriti
Repubblica Nazionale 50 21/05/2006
S
IL GIARDINO
ANCHE A TAVOLA
Quella dei fiori
è una piacevole
mania che va oltre
l’abbigliamento
e dilaga anche sui
piatti della collezione
Driade “Kosmo Tws
Rami” disegnata
da Vittorio Locatelli
FLOWER POWER
INTIMO DI STAGIONE
Intimissimi segue il trend di stagione
e propone biancheria intima con fiori
delicati che si alternano a pizzi romantici.
Le stesse stampe si ritrovano su bikini,
costumi e piccoli top
Anche Sisley
esalta il “potere
dei fiori” con abiti
estivi, tagliati
come una
sottoveste
dalle stampe vivaci
DOMENICA 21 MAGGIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51
SULLE SPALLE
CON CLASSE
È in seta preziosa
lo scialle da gran
sera con lunghe
frange (nella foto
a sinistra), firmato
da Valentino
I ramages di fiori
dai colori delicati
sono ricamati
su un fondo beige
PASSEGGIANDO
SOTTO IL SOLE
Fiori stilizzati
per il cappello Louis
Vuitton, con tanto
di fascia, che celebra
un’estate
all’insegna dei colori
della natura
Il vintage contadino
delle ragazze hippie
IL FASCINO
DELLA ZEPPA
La tendenza
contamina
anche Miu Miu
che punta
sui sandali
con zeppa e tacco
alto decorati
con tessuti
dalle stampe
floreali
ELIO FIORUCCI
e, come sostengono alcuni, un nome può influenzare il destino, sicuramente il mio l’ha fatto, eccome. Fiorucci è in realtà un diminutivo che vuol dire piccoli fiori... Non è quindi un caso che io abbia vissuto (e continui a vivere) tutta la mia vita con lo spirito leggero e
sognante di un figlio dei fiori e che i fiori siano diventati anche il leit-motiv delle mie creazioni, quasi una magnifica ossessione.
Ho sempre guardato con ammirazione e stupore a questa magia che
si rinnova a ogni stagione: la natura si addormenta e, quando è il momento giusto, come per incanto, allo scadere di un’ora, di un minuto, di
un secondo, in qualsiasi luogo e a qualsiasi latitudine si risveglia e compie il miracolo. In un punto preciso della Terra, ma anche di un semplice vaso sul nostro balcone, spunta una creatura bellissima e colorata,
uguale a migliaia di altre, ma diversa. E siccome nella vita abbiamo continuamente bisogno di favole, questa mi sembra sia davvero tra le più
intriganti e, soprattutto, non dobbiamo fare nulla per inventarcela, perché ce l’abbiamo lì, continuamente a portata di mano e di sguardo.
Una bellezza spesso paragonata a quella femminile: non si dice infatti «bella come un fiore»? La bellezza ma anche la delicatezza con una valenza profonda. Il fiore è da sempre inteso come simbolo di nascita e di
vita, eterna tentazione di pittori, musicisti, poeti. La primavera del Botticelli ne è un esempio eclatante, un trionfale e armonioso incontro tra
queste felici similitudini.
Anche nel mio lavoro il fiore e la decorazione floreale hanno sempre
avuto una parte molto rilevante. Nell’immaginario collettivo, se si pensa allo stile di Elio Fiorucci, vengono infatti in mente soprattutto i fiori e
i colori vivacissimi, quasi invadenti. Ne ho davvero utilizzati di tutti i tipi, dalle rose inglesi descritte nel Gattopardo, con la loro sensuale carnalità, all’archetipo del fiore stilizzato e riprodotto all’infinito dal maestro della pop-art Andy Warhol. Fino all’ibiscus dei mari tropicali e ai fiorellini di quei vestitini un po’ imperfetti e sbilenchi che hanno un non so
che di conosciuto, di polveroso e nello stesso tempo di molto moderno,
come se fossero appartenuti alle madri, alle nonne, alle donne contadine ma anche alle ragazze hippy e trasgressive che hanno segnato la storia degli anni Settanta.
Perché penso che la memoria sia importante e il fiore sia da sempre al
centro di una complessa rappresentazione interiore, un’esperienza totale che coinvolge tutti i sensi, un’incomprensibile alchimia emotiva.
Ma ciò che mi sembra ancora oscuro e misterioso è come possa quella
sua apparente fragilità ispirare sentimenti e pensieri sicuramente tra i
più intensi.
Ora i fiori ritornano, in tutte le collezioni estive, come fresca decorazione del corpo. Ma non solo. I fiori tornano anche nel design, con
mobili, accessori e oggetti d’uso quotidiano che si rifanno alla bellezza incontaminata della natura. I tempi sono cambiati e sono cambiate le regole estetiche ma l’apparenza romantica degli abiti contemporanei trasmette, ancora una volta, tutta la loro forza magica,
seduttiva e miracolosa.
S
DISEGNATI PER STUPIRE
Sono super decorati gli zoccoli,
con tacco alto, della linea
Moschino. Sulla fascia è
applicato un fiore gigante
con otto petali ritagliati in pelle
Repubblica Nazionale 51 21/05/2006
L’ORA DEL TÈ
Nel revival
del floreale
non poteva
mancare
la classica
tazzina da tè
inglese,
della linea
“Royal Albert” ,
distribuita
in Italia
da Michielotto
STILE INGLESE
Sono fiori
che si ispirano
alla campagna
inglese quelli
che Ballantyne
ha usato per la sua
collezione estiva:
le righe
si mescolano ai fiori
con delicatezza
STIVALI
PER L’ESTATE
Gli stivali estivi
realizzati
da Giuseppe
Zanotti
sono in canvas
di cotone
con fiori
ricamati a mano
I NUOVI GIOIELLI
UNA ROSA AI PIEDI
Sono di Christian Lacroix,
il geniale stilista dell’alta moda francese,
i sandali con rosa gigante
che si portano anche con un tubino
Questo anello con fiori
smaltati a mano,
mescolati a pietre
preziose, fa parte
della collezione Dior
Joaillerie disegnata
da Victoire de Castellane
52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 21 MAGGIO 2006
l’incontro
Esordì nel 1971 con rimmel, lunghi
capelli biondi e piume di pavone
Oggi, a 58 anni, la sua testa è lucida
come una palla da biliardo e il suo
passato da rocker è morto e sepolto
Il genio dei sintetizzatori
è diventato un inventore
di “paesaggi sonori”
e un maître-à-penser
della musica: “ M’indigna
la confusione tra una
persona e la sua arte
È questo che mi ha
allontanato dal rock, l’equazione
tra personalità e celebrità che trovo
falsa, diseducativa, insopportabile”
Divi discreti
Brian Eno
Repubblica Nazionale 52 21/05/2006
«D
LONDRA
io ha deciso di regalare il mondo a
Budda. Così compra un nastro per
infiocchettarlo. Quarantaduemila chilometri di nastro, equivalente alla circonferenza della Terra. Ma al momento
di infiocchettarlo, si rende conto che gli
hanno venduto un metro di nastro in eccesso. Quanto spazio dovrà lasciare tra
la crosta terrestre e il nastro per compensare quel metro in più?». Un giorno
a pranzo con Brian Eno, in un ristorante
italiano di Londra, può diventare un’esperienza impegnativa. Sceglie lui tutte
le pietanze per gli invitati. Pretende di
indovinare i gusti di ognuno, e ci riesce.
Poi, all’antipasto, incomincia a sfidare i
commensali con quiz che mandano tutti in tilt, irrisolvibili senza l’uso della calcolatrice (severamente proibita dal regolamento).
Nel loft dell’artista l’atmosfera è più
distesa. Sulla lavagna all’ingresso c’è attaccato il promemoria per un concerto
di Kanye West. «Non tragga conclusioni
affrettate. Ho due figlie, di quattordici e
sedici anni, al concerto ci andrò con loro, non vado pazzo per il rap», puntualizza. L’inventore della musica d’ambiente protegge trentacinque anni di
storia d’artista in un luminoso open
space di Notting Hill. Alcuni operai stanno cercando di far uscire dalla porta sul
giardino un magnifico esemplare di pianoforte a coda che per qualche giorno è
rimasto nello studio. «Un ospite d’onore», dice Eno, accarezzandolo con gli occhi per l’ultima volta. «In realtà io l’ho
solo sfiorato, a suonarlo ho chiamato
una professionista, Joanna McGregor.
Mi sono limitato a registrare alcune sue
magnifiche esecuzioni di partiture di
John Downham».
Brian cataloga suoni; solo frammenti
di tutto quel che compone e usa per le
sue installazioni, a Pechino, Lione, Monaco, León, Istanbul, finiscono su disco.
Un archivio vivo e prezioso, che giace lì
tra biografie di Elvis, volumi sui costruttivisti russi e Vendere la guerra-La propaganda come arma d’inganno di massa, il libro in cui Sheldon Rampton e
John Stauber teorizzano che l’11 settembre è stato solo uno strumento per
giustificare l’invasione dell’Iraq. In un
articolo pubblicato nel 2003 sull’Obser-
ver, Eno si pronunciò chiaramente contro l’occupazione militare, spiegando
quanto sia «difficile controllare la manipolazione delle notizie che i governi fanno per assecondare interessi ideologici
e politici. Il controllo sociale delle democrazie occidentali è più sottile della
propaganda. Io infatti lo chiamo “propagenda”, non il controllo del nostro
pensiero ma delle nostre opinioni».
«Brian, Brian, ci sei?», la voce arriva
stridula dal vicolo, Eno fa segno a tutti di
tacere. «Dille che non ci sono», sussurra
alla sua collaboratrice, «oggi non ho
tempo per Prue». «Brian non farti negare, ti ho visto», squittisce Prue, prima che
Jane («la produttrice del produttore», la
chiama lui) abbia il tempo di proferire
parola. «Ho ospiti oggi Prue, ci parliamo
domani». La vecchina del condominio
bussa quando ne ha voglia, e soprattutto quando sente buona musica uscire
dal vicolo. «Poverina, è in crisi di astinenza, per giorni ha ascoltato le note del
pianoforte di Joanna, ma non ha mai potuto bussare alla porta perché avevo appeso fuori un cartello che vietava a
chiunque di disturbare».
La sobrietà, il buon gusto e l’intelligenza che lo circondano non lasciano
intuire quel passato da rocker, morto e
sepolto, con i Roxy Music. Brian Eno, 58
anni, esordì nel 1971 con rimmel, fondotinta, lunghi capelli biondi (oggi la testa è lucida come una palla da biliardo)
e piume di pavone. Era geniale con i sintetizzatori in quel contesto rock, ma non
si sentiva tagliato per la musica dei grandi numeri e se ne andò dopo due capolavori per diventare un professore di
musica minimale e un inventore di
sound landscapes, paesaggi sonori. Oggi, più che produttore, è un maître-àpenser della musica contemporanea.
Uno stilista dei suoni che per David
Bowie ha progettato la leggendaria trilogia berlinese (Low, Heroes e Lodger), per
i Talking Heads l’inconfondibile minimal punk fiore all’occhiello di David
Byrne, e per gli U2 il suono epico che ha
esaltato la voce dell’evangelizzatore più
potente della storia del rock.
«Non ci sono parole per definire l’intelligenza di Bono. Lo capisci subito e
immediatamente dopo ti rendi conto
che è più intelligente di quanto pensavi.
Lavorare con lui è stato facile: io, al contrario delle rockstar, mi sveglio presto e
comincio in tempo a organizzare il lavoro per la giornata. Quando gli U2 arrivavano in studio, avevamo già parecchie
idee sulle quali discutere. Poi li lasciavo
da soli a elaborarle, ma li caricavo anche
di “compiti a casa”, spunti che il giorno
successivo pretendevo di trovare sviluppati. Solo su una cosa Bono e io non
siamo d’accordo. Lui pensa che per
cambiare il mondo sia indispensabile
scendere a patti con le istituzioni esistenti, di conseguenza convincere il governo americano a spendere più soldi in
aiuti. Spero che ci riesca, ma la mia posizione è diversa, io ritengo che il problema fondamentale siano proprio le no-
stre istituzioni, quindi dobbiamo lottare per cambiarle. Ma ci vuole fegato per
fare quel che fa, trattare con quella gente, questo glielo riconosco».
L’ultima installazione l’ha fatta a Pechino, al Ritan Park, «un cerchio magico
che una volta veniva usato per funzioni
religiose. Pensavo che la Cina fosse
uguale al Giappone, dove tutti sono
schiavi della propria gentilezza. Invece
lì ci si danno pacche sulle spalle come in
Italia. La più grande qualità dei cinesi è
la flessibilità, ed è esattamente questo
che gli occidentali temono, la capacità
di adattarsi facilmente a un nuovo ambiente, a una nuova professione. La Cina è un paese affascinante per uno come
me che non ha il culto della personalità.
Tutto nella cultura occidentale è un incitamento all’autocelebrazione e al
consumismo: diventare più ricchi, avere una macchina più grande, vestiti più
costosi, donne più belle. Più consumi
più sei importante. Più consumi più sei
visibile. Non mi piace, sono felice che
questo non sia un problema che mi af-
La musica non è mai
stata una lingua
universale. Negli anni
’60 e ’70 credevamo
che fosse riuscita
a smuovere
le coscienze, ma era
solo presunzione
FOTO GETTY IMAGES
GIUSEPPE VIDETTI
fligge. Non mi sono mai svegliato la mattina pensando “oggi vado a comprarmi
un’automobile”. Dimenticherei anche
di comprare il pane se non lo annotassi
sulla mia agenda».
I giornali inglesi continuano, anno
dopo anno, a vagheggiare una riunione
dei Roxy Music, lo schivo Brian non si
preoccupa più neanche di smentire. Chi
lo conosce sa che un suo ritorno nell’arena del rock sarebbe un paradosso.
Non solo l’artista non ama rivangare il
passato, ma raramente parla della sua
musica, che per definizione è discreta,
mai invadente e studiata per migliorare
acusticamente l’ambiente in cui è diffusa (Music for airports fu composto con
questo obiettivo). «Se c’è una cosa che
mi rompe è parlare di me. Ho 58 anni,
cos’altro ho da dire? Non mi considero
un soggetto interessante. M’indigna la
confusione, particolarmente pronunciata in Italia, che si fa tra una persona e
la sua arte. Non c’è nessuna connessione tra l’opera e il suo autore, e se c’è non
mi interessa. La musica pop si nutre proprio di questo ambiguo rapporto, generato da un’immagine romantica che
viene attribuita all’artista. Questo è quel
che mi ha allontanato dal rock, l’equazione indispensabile tra personalità e
celebrità che trovo falsa, diseducativa,
insopportabile. Oggi, non paghi di idolatrare i divi, abbiamo incominciato a
seguire morbosamente il privato di gente comune, attraverso i reality show.
Una vera e propria piaga sociale: dovremmo prendere dei provvedimenti e
curarci. Per decenni la capitale di questa
follia è stata l’America. Ma adesso gli
Usa si dibattono in problemi ben più
gravi: all’interno degli States vivono due
comunità distinte che sono diverse almeno quanto i tedeschi e gli albanesi:
quelli che hanno votato per Bush e quelli che non hanno votato per Bush. È una
frattura religiosa, politica, sociale ed
economica che ha spaccato la popolazione di fronte alle scelte più importanti del Paese. Continuano ad erigere muri sempre più alti per difendere il proprio
territorio, controlli capillari negli aeroporti, impronte digitali e fotografie, ma
non hanno ancora capito che il nemico
è dentro le mura. E a questo punto la mia
visione politica non coincide più con
quella di Bono».
A malapena ricorda di aver dato i diritti a Nanni Moretti per inserire la sua incantevole By this river (da Before and after science, 1977) nella colonna sonora di
La stanza del figlio. «Un bel film, ma ora
non ricordo la trama. A proposito... L’altro giorno ho visto il film più bello degli
ultimi anni, Caché, di Michael Haneke,
con Daniel Auteuil e Juliette Binoche».
La collaborazione con Paul Simon,
per il quale ha prodotto Surprise, un disco appena uscito, sembra preistoria.
All’orizzonte ci sono mille altri impegni,
e nessuno lo vede come protagonista.
«Non penso più a me stesso come a un
musicista, mi trascuro. Dovrei prendermi più cura di me. Cerco di scrivere ap-
punti su un’agenda, per ricordare che è
l’ora di comprarmi un nuovo paio di
scarpe o un abito. Quindici minuti al
giorno per ricordarmi che esisto. La mia
esistenza è in bilico tra due estremi:
creatività e banalità, tipo rispondere alle mille domande che la gente mi fa per
posta o per e-mail. Quando compongo
o creo, sono completamente fuori da me
stesso, in una sorta di trance. Ho sempre
avuto l’abilità di arrendermi completamente a quel che ascolto o che faccio, di
scomparire quasi. Quando ho nelle
orecchie una musica che mi piace, non
sono più io. Ecco perché mi è sempre
piaciuto ascoltare canzoni, ammirare
quadri, guardare film, perché mi annullano, ed è una sensazione che mi piace.
Fin da piccolo, fin da quando ascoltavo
i soldati americani cantare quelle magnifiche canzoni doo-wop. Ho preso
tutto da mio padre, faceva il postino (nonostante il nome altisonante del figlio,
Brian Peter George St. Baptiste de la Salle Eno), e non mi ha mai insegnato che
un uomo dovrebbe sprecare del tempo
a pensare a se stesso. Prendiamo ad
esempio gli ultimi due giorni della mia
vita: come potevo pensare a me con un
pianoforte come quello in casa e una
fantastica pianista che lo suonava? Mi
sono isolato dal mondo, ho staccato il
telefono, sbarrato la porta. Mi spaventa
l’impossibilità della gente di stare in un
posto alla volta. Sul treno tutti guardano
gli sms sul cellulare, in automobile
ascoltano la radio, a casa la tv. Questo è
un problema che mi rende molto suscettibile».
Inutile insistere a parlare di musica,
Brian è in partenza per l’Egitto, ha già le
piramidi negli occhi. «Cosa dovrei fare
per non essere un turista banale?», chiede. Poi conclude: «La musica non è mai
stata una lingua universale. Meno che
mai ai tempi di Bach e Beethoven. Negli
anni Sessanta e Settanta credevamo
che fosse riuscita a smuovere le coscienze e a parlare una sorta di lingua
universale, ma era solo presunzione.
Chi ha mai ascoltato un’opera cinese? È
totalmente incomprensibile al nostro
orecchio, e il pubblico esplode in applausi fragorosi nei momenti che a noi
sembrano meno adatti». La scatola nera che contiene le “Strategie oblique”,
sorta di tarocchi che ha elaborato con
Peter Schmidt, è sul tavolo. Le usa sempre? «Sì, ogni giorno. Sono i miei “I
King”». Fruga nel mazzo, estrae una
carta, c’è scritto: «Resisti al cambiamento con tutte le tue forze».