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Domenica La di DOMENICA 21 MAGGIO 2006 Repubblica il fatto Il cuore prussiano sotto Berlino 2006 ANDREA TARQUINI e BERNARDO VALLI la memoria Fosbury, un salto indietro verso il futuro EMANUELA AUDISIO e ENRICO SISTI Muro Il Americano Lettere d’amore Trent’anni fa, dal garage di una casa californiana, usciva un nuovo tipo di computer destinato a cambiare il mondo VITTORIO ZUCCONI I YUMA l termometro nel cruscotto scandisce il viaggio verso il confine, come la discesa dentro un vulcano. Parto da Phoenix che segna 32 gradi centigradi. Appena la città si arrende al nulla dell’Arizona, sbriciolandosi in un vuoto che mi accompagnerà per 350 chilometri fino a Yuma e inghiottirebbe mezza pianura Padana senza un rutto, comincia a salire. Dopo un’ora è a 35 gradi. Dopo due ore e mezza sfiora i 40 gradi. E quando l’enorme bandiera americana che segna la fine del mio mondo appare oltre la curva di un piccolo canyon color cioccolato, ecco la frontiera, ecco il vulcano. Quarantasei gradi. In maggio. Welcome to Yuma. Cinquecento arresti al giorno. Gatti grassi contro topi famelici. Settantamila all’anno che ce la fanno e settecento che no, che muoiono seccati dal sole come prugne, nella corsa per attraversare il deserto e sfuggire alla “Migra”, soprannome della polizia anti immigrazione. Qui sorgerà il muro americano, la nuova Berlino pensata non per chiudere dentro, ma per chiudere fuori, nel punto dove il contatto immaginario fra il Nord e il Sud si fa incandescente sotto le suole e nero come l’asfalto che sfuma e prende alla gola. Qui si combatte una guerra di silenzi, di morti che cadono senza un grido e vengono seppelliti dove cadono, sotto le pietre per proteggerli dagli animali, una battaglia senza esplosioni, sotto un cielo stupendamente feroce e infinito. Prigionieri di un paesaggio che Dio aveva creato per le salamandre, non per gli uomini. Yuma, Arizona. L’ultima frontiera, la guerra tra i ricchi del mondo che hanno bisogno dei poveri per restare ricchi, e i poveri che hanno bisogno dei ricchi per sfuggire alla condanna della nascita. Sì, c’è anche il treno per Yuma, processioni di container trascinati dai muli diesel della Union Pacific, lentissimi perché nulla può muoversi in fretta in questo forno, neanche un treno. «Mexico: Last Exit Before the Border», mi avverte un cartello sull’autostrada numero 8, ultima uscita prima del confine. Commedia divina alla rovescia: lasciate ogni speranza, o voi che uscite, perché per rientrare, se la vostra mamma non ha avuto il buon gusto di partorirvi nel mondo giusto, sarete condannati a vivere affacciati sull’abisso e a consumare la vita a decidere se buttarvi giù. In undici milioni, se le cifre sono vere e ne dubito, sono saltati giù e sono sopravvissuti. In cinquecentomila ci provano ogni anno, tenendosi per mano, chiudendo gli occhi, portandosi solo quello che hanno sulla schiena, una maglietta sudata, un paio di jeans, prima che costruiscano «the Wall», il muro di seicento chilometri che ora dovrebbero innalzare per sigillare l’Arizona dallo stato di Sonora, il Norte che ammicca nel buio oltre i cespugli e il Sur, l’America che non è America. (segue nelle pagine successive) cultura I manifesti, tigri di carta del maoismo FEDERICO RAMPINI la lettura Gli amori omosessuali del Novecento DARIA GALATERIA e LAURA LAURENZI spettacoli La seduzione zingara dei nuovi circhi CONCITA DE GREGORIO l’incontro Brian Eno, architetto della musica GIUSEPPE VIDETTI FOTO CHRISTOPHER J. MORRIS/REDUX Repubblica Nazionale 31 21/05/2006 Viaggio al centro del nulla, sul confine Arizona-Messico Quel che basta per scoprire l’inutilità della piccola guerra di Bush contro i clandestini 32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 MAGGIO 2006 la copertina Il progetto di un imbarazzante “Berlin Wall”, le truppe, la visita di Bush per rendere spettacolare l’avvio di una nuova “guerra”, questa volta nel deserto di casa propria. Siamo andati a Yuma, sul confine bollente tra Arizona e Messico, per vedere che succede e per capire quanto sia vana la politica della Casa Bianca Muro Americano LE BARRIERE CEUTA E MELILLA BERLINO CIPRO BELFAST COREA Enclave spagnole in territorio marocchino, sono protette da una rete metallica anti-immigrazione Il muro che negli anni della Guerra fredda divise in due la città fu eretto nel 1961 e abbattuto nel 1989 Turchi e greci dal ’74 (anno dell’invasione delle truppe turche) sono separati da 180 chilometri di cemento Negli anni ’70 fu eretto un muro di mattoni e filo spinato per ridurre le violenze tra quartieri cattolici e protestanti La Corea del Sud ha costruito nel ’77 una muraglia che divide il paese lungo il 38° parallelo VITTORIO ZUCCONI (segue dalla copertina) FOTO GAMMA I CONTROLLI Nella foto sopra, i poliziotti di frontiera americani perquisiscono gli immigrati senza documenti fermati al confine tra Messico e Arizona. Sotto, la “Playa de Tijuana” in Baja California FOTO ALEX WEBB / MAGNUM PHOTOS Repubblica Nazionale 32 21/05/2006 Q uando Bush è stato qui, giovedì scorso, gli sceneggiatori della Casa Bianca, che hanno riscoperto la guerra nel deserto di casa loro dopo il disastro della guerra nel deserto degli altri, lo hanno inquadrato dietro l’unico pezzo di frontiera fortificata ma, come tutte le scenografie della falsa informazione, anche questo sketch era un inganno, un set. La frontiera fra gli Usa e il Messico non esiste. Basta uscire dalla città di Yuma che si finisce a sbattere contro il posto di controllo di San Luis, seguire le strade di campagna dall’altra parte o da questa per vedere che la sola barriera sono il caldo, la notte, il disorientamento, lo spazio, i serpenti a sonagli. E al muro nessuno crede davvero, neppure quelli che lo invocano per far scena con gli elettori e per distrarli dalle guerre lontane. Non lo vuole neppure Bush, che parla di «frontiere sicure» e di «permessi di lavoro temporanei» con documenti per gli immigrati clandestini, che è l’equivalente politico del “sale sulla coda”. Documenti, dice? Torniamo a Yuma. La chica, la ragazza messicana che mi porta i tacos al tavolo, ha occhi belli e svegli sotto le ciglia finte e il rimmel, sia mai detto che una messicana si fa trovare struccata fuori casa. «Desculpe, me necessitan papeles…», azzardo nel mio improbabile spagnolo. «Parlo inglese», mi fulmina con un lampo di mascara «sono nata qui a Yuma, I am an American». Ok. Sorry. Mi servono documenti per un’amica che cerca lavoro... insomma… capisce, e stiro venti dollari sul vassoio di plastica. Capisce. La ragazza, rassicurata dal mio accento straniero, mi sussurra in fretta un nome, «Pollo a la Brasa», e un indirizzo, «Colorado Avenue e 15esima. Ernesto», e se ne va coi miei venti dollari e le sue ciglia finte. Documenti, mister President? Nella rosticceria del pollo alla brace l’Ernesto rosola galline e frigge docu- Qui si combatte una battaglia fatta di silenzi, di morti che cadono senza un grido e vengono seppelliti dove cadono, sotto una pietra anonima graffiata con le parole “no olvidado”, non dimenticato menti falsi. Il menu è semplice: un pollo intero quindici dollari con papas fritas. Permesso di soggiorno falso cinquecento dollari, e senza patate fritte. Se lo voglio buono, con identità vera rubata a qualche ignaro cittadino, ci vogliono tre mesi e cinquemila dollari. La roba buona costa sempre cara. Però poi neppure la “Migra”, riesce più a pizzicarti. Torno domani coi soldi, lo saluto. E il pollo non lo vuoi? No, niente pollo. I polli sono quelli che si agitano credendo che si possa spegnere il vulcano dell’immigrazione dal Sud con un secchio d’acqua. Yuma, Arizona. El Norte, la calamita, e il Sur, il Sud, polvere di ferro, limatura di umanità che vola e si incolla per sempre. Un popolare demagogo di origine italiana, tale Tom Tancredo, sta in tv a ogni ora e in ogni canale per predicare che i clandestini andrebbero arrestati tutti e deportati nei paesi di origine, Messico, Honduras, Guatemala, Salvador, tutto il centro America. Il classico cretino di successo da talk show, come ne conosciamo bene, basti pensare a quanti Jumbo Jet 747 servirebbero per portare via almeno undici milioni di persone, circa trentunomila aerei, più dell’intera flotta civile e militare del mondo. Per adesso, sotto la notte senza fine della Frontera, anziché deportarli, se non ce la fanno li seppelliscono sotto una pietra anonima con una scritta graffiata: No Olvidado, non dimenticato. La sera prima che arrivasse Bush, sono morte una donna incinta e il figlio di due anni. Al presidente non lo hanno detto, per non turbare lo spot. Attraverso e riattraverso la Frontera, per gusto sadico, per impudenza, come i ricchi che nelle vignette si accendono i sigari con le banconote. Perché io posso e loro no, loro sono nati nel posto sbagliato e muoiono nel posto sbagliato. Tutti gli uomini sono stati creati con gli stessi diritti inalienabili, proclama la Costituzione americana. Dipende da dove nascono, si sono dimenticati di aggiungere. Questa volta vado a piedi, ad Algodones, insieme con frotte di vecchi americani che vanno in Messico a comperare farmaci che costano un terzo rispetto agli Stati Uniti e sono altrettanto inefficaci. Riprovo la stessa sensazione di vertigine che avvertivo quando attraversavo, tre decadi or sono, la frontiera sovietica. Di qua o di là, carcerati per caso. Rifaccio la parte dell’aspirante clandestino. Le ottanta farmacie che conto nella strada principale di Algodones sono la pista di lancio della polvere verso il Nord. Nella farmacia Maria Virgen, un po’ di devozione aiuta la farmacologia, sotto un bar dove coppie di americani d’antiquariato succhiano margaritas e daiquires da cannuccine strettissime per farli durare di più, chiedo e ottengo risposta. Il “farmacista”, che di giorno vende pillole e di notte fa il “coyote”, il traghettatore di anime oltre la Frontera, conosce le leggi del mercato. «Ora è tutto più difficile, più peligroso, da quando Buuush — lo pronunciano così, strascicando la “u” — ha chiuso la Frontera», mi spiega. Duemila dollari a persona, con recapito in una casa sicura a Yuma. Duemila? I miei amici avevano detto mille e cinque. No, Mister (Señor lo dice soltanto Speedy Gonzales), oggi c’è DOMENICA 21 MAGGIO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 INDIA BOTSWANA ARABIA SAUDITA ISRAELE Negli anni ’80, per fermare i guerriglieri saharawi fu costruita una barriera di 2.400 chilometri Ha due muri: uno eretto nel 1986 verso il Bangladesh e l’altro costruito nel 1989 verso il Pakistan Nel 2003 il governo ha fatto costruire un muro lungo i 550 chilometri del confine con lo Zimbabwe Nel 2003 è iniziata la costruzione di una barriera di protezione verso lo Yemen: ora i lavori sono sospesi Ha fatto discutere la decisione di costruire, a partire dal 2003, un muro di sicurezza in Cisgiordania Buuuuush, muy duro, muy duro. Ci sono garanzie? Ride. «Suerte, mister». Questione di culo. Nella notte infinita, io, figlio del passaporto giusto, guardo dal basso della valle, dove il Colorado alle sue ultime anse, ormai stanco dopo aver scavato il Grand Canyon, bagna di verde le sponde del deserto, come il Nilo in Egitto; guardo i lampi delle fotoelettriche della “Migra”, montate sui furgoncini bianchi, tagliare la notte e sembrano i riflettori delle contraeree, contro il cielo stupendo. L’agente Tom Clayburn, che mi scorta, ascolta nel walkie talkie il bollettino: 250 presi e ributtati oltre, «catch and release» si chiama, acchiappa e rilascia, come i pesci pescati dai pescatori buoni. Lo scorso anno ne avevano presi 75mila, in questo tratto: «E dove le abbiamo 75mila celle?», ride amaro. I politicanti sognano tendopoli apposite, erette nel deserto, per detenere i clandestini. «Se l’immagina l’incubo di dar da mangiare e da bere a duecentomila accampati nel deserto, vecchi, neonati, malati?». Me l’immagino, ma la politica deve fingere di avere soluzioni, anche quando soluzioni non ci sono. Se acciuffano i “coyotes”, i contrabbandieri di anime che arrotondano con l’ecstasy, le anfetamine prodotte in Messico e divorate negli Stati Uniti, quelli sì li mettono in galera, ma i “coyotes” sono bestie accorte. Fiutano l’odore della “Migra” da lontano, lasciano al loro destino i poveracci che hanno spolpato e corrono dall’altra parte ridendo: «Ci rivediamo domani sera, maricones gringos», americani froci. «Fermare l’immigrazione clandestina con pezzi di muro — dice Alejando Ruiz Costa, della Arizona University — è come stringere un palloncino pieno d’aria. Si gonfia da un’altra parte». Chiudi la California, passano per l’Arizona. Sigilli l’Arizona, passano per il New Mexico, poi il Texas. E se accetti l’ignominia di un “Berlin Wall”, arriveranno dal Canada, passando dal forno al frigorifero, o per nave, come i container che oggi sbarcano a Seattle carichi di cinesi, a volte vivi, a volte no. «Vada all’ospedale di Yuma», mi aveva suggerito il professore della Arizona State University. Yuma oggi ha 200mila abitanti, scoppia di soldi, è una “boom town”, ha appena costruito uno shopping mall scicchissimo, con tutto il ciarpame del consumo di lusso. Ha portici di finto stucco coloniale irrorati da una nebbiolina di acqua gelida che scende a velo dal soffitto sui consumatori per tenerli freschi e vogliosi di spendere. Il 95 per cento della manodopera che l’ha costruito era di clandestini, scrive il Comune di Yuma, l’altro 5 per cento erano “regolari”, probabilmente con i “papeles” cucinati da Ernesto. Sono gli stessi manovali, muratori, carpentieri che hanno costruito l’ospedale, lo “Yuma Regional Hospital”, nuovissimo. Gli ospedali, come gli obitori nelle zone di guerra, non mentono mai, sono i tristi amici del cronista. Entro nel reparto “Maternità e Infanzia”, un’ala a parte. Sembra la hall di un albergo a cinque stelle. Vetrate isolanti, climatizzazione perfetta, gli “illegali” hanno lavorato bene. Colori rassicuranti, pastelli azzurri e rossi, ovviamente. Pelouche giganti, qualche citazione western, “decò” di gusto Apache, ma sobrio e poi qui gli Apache c’erano davvero, anche se oggi i loro discendenti gestiscono i parcheggi e il solito casinò. Nella sala d’attesa con poltrone comode ma non soffici, studiate per donne col mal di schiena da gravidanza, ne conto dieci vistosamente incinte, otto con neonati o bambini piccoli a rimorchio. Nessuno piange, nessuno protesta. Sono tutti latinos meno una, la receptionist che mi guarda un po’ strano. Posso aiutarla? No, grazie, mia figlia verrà, volevo vedere. Ho visto. Come avevo visto, qualche ora prima, la “Clinica” di Algodones, la sola del paese. Un’ora di macchina, una corsa nella notte tra i cespugli con il cuore in gola, un documento falso, e una donna porta il bambino che ha in pancia da un bordello sucio, sporco, urlante, sgomitante a questo reparto di maternità dove anche a un maschio viene voglia di partorire. E quella che riuscirà a farcela, a vendere tutto quello che possiede, se stessa compresa, la donna che sopravviverà alla traversata del deserto, a ore nel cassone sigillato di un camion sotto il sole di Sonora, ai coyotes, ai serpenti e agli uomini velenosi per sbarcare allo “Yuma Regional Hospital” metterà al mondo un americanino vero, uno del Norte. Uno con il suo passaportino giusto e tutte le cartine a posto. Uno con un futuro attraverso tutte le Fronteras. Non l’hanno ancora inventato un muro che possa fermare una donna incinta che vuol dare un futuro al proprio figlio. Ma ci costano venti miliardi di dollari all’anno, strepitano i neo-fasc che sognano la grande muraglia nel deserto contro i messicani che vorrebbero tornare in quelle terre che ieri gli appartenevano. È vero, le donne che ce la fanno, quei bambini che verranno al mondo cittadini del grande Nord e andranno a scuola e si faranno curare nei pronto soccorso costano e parlano spagnolo. Fuori tutti, gridano. Via, via, chiudete la porta e buttate la chiave. E poi gli shopping center con la pioggerellina finta chi glieli costruisce? L’Ernesto? Chi gli compera tonnellate di rimmel e mascara? Le donne sotto le pietre non si truccano. Se non siete nati dalla parte giusta del confine, siete condannati a vivere affacciati sull’abisso e a consumare la vita a decidere se buttarvi giù: undici milioni lo hanno già fatto e sono sopravvissuti FOTO CHRISTOPHER J. MORRIS/REDUX MAROCCO LE RECINZIONI Nella foto sopra, una bimba messicana saluta la cugina che si trova in territorio americano: sono moltissime le famiglie separate dalla barriera. Sotto, un volontario dell’Arizona presidia il confine FOTO CHRISTOPHER J. MORRIS/REDUX Repubblica Nazionale 33 21/05/2006 Al centro del nulla sulla frontiera ricchezza-povertà 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA il fatto Forme del vivere DOMENICA 21 MAGGIO 2006 Neanche vent’anni fa qui passava il confine militare tra due mondi opposti. Ora che l’ampliamento a est fa della capitale tedesca la capitale Ue, gli architetti si sono improvvisati storici, chirurghi, psicologi. E avendo il rischioso compito di disegnare il futuro, spesso si sono arroccati nel passato Tra le eccezioni, la Stazione centrale che sta per debuttare BERNARDO VALLI alla terrazza dell’Adlon, in una giornata pallida, la pietra chiara della Porta di Brandeburgo, e la sagoma scura della quadriga che la sormonta come uno sparviero, mi appaiono in tutto il loro trionfalismo. Al quale la memoria storica aggiunge un inevitabile tragico tocco. Oggi il bunker di Hitler, a pochi metri da qui, è la tomba di vecchi demoni nascosta sotto la città risorta. Mi chiedo quali idee ispirasse questo angolo monumentale di Berlino, ai clienti succedutisi all’Hotel Adlon nel primo Novecento, quando la Seconda guerra mondiale non aveva ancora arato la Germania e la sua capitale e i delitti del Terzo Reich non erano ancora stati scritti nella Storia: mi interrogo sulle emozioni che questa solenne parte dell’Unter den Linden poteva suscitare in personaggi celebri come Guglielmo II (il Kaiser spesso soggiornava nell’albergo), Marlene Dietrich, Charles Chaplin, Albert Einstein, Enrico Caruso, Lawrence d’Arabia, Erich von Stroheim... Tutti testimoni oculari dell’era precedente all’Apocalisse, come noi siamo testimoni del nuovo secolo, ormai lontano dall’epoca dannata. La Berlino che ho sotto gli occhi è l’espressione di un presente tedesco civile, affascinante, direi per tanti aspetti ideale, se l’aggettivo non rischiasse di esaltare una perfezione che è ben lontano dall’esistere, a Berlino o altrove. In questa stessa Berlino si legge, si intravede il passato che la memoria storica impedisce di cancellare, nonostante lo zelo riparatore di architetti e urbanisti. C’è insomma uno sfondo tragico, nella forte attrazione che esercita la democratica capitale tedesca del Duemila. Se ad abbracciarlo fosse soltanto lo sguardo direi che questo frammento del panorama berlinese è quasi immutato. Ai fianchi della Porta di Brandeburgo sono rispuntate le case Sommer e Liebermann, e sono state ridisegnate anche le lunghe aiuole con le loro fontane. Se uno getta un’occhiata alle fotografie d’archivio, prebelliche, non scopre rilevanti differenze. Le copie non sono troppo dissimili dagli originali. La leggera, impercettibile, impronta moderna lasciata sulle due costruzioni da Paul Kleihues, uno degli architetti della rinascita di Berlino, attenua il rigido stile classico che si è voluto conservare. D La saggezza dello stile classico È vero, gli edifici di un tempo, polverizzati dai bombardamenti, nelle fotografie sembrano meno impacciati. Lo stesso Hotel Adlon, a osservarlo bene, è una torta rifatta con la stessa forma ma non con la stessa anima. Una copia è sempre una copia. E ci si può chiedere perché mai, rifacendo Berlino, preparandola ad essere di nuovo la capitale della Germania riunificata, si sia preferito retrocedere ai primi del Novecento, o addirittura all’Ottocento, piuttosto che puntare al Duemila. La risposta non è ambigua: è stato senz’altro saggio procedere a ritroso. Ne è la prova, nonostante si avvertano tracce di kitsch inevitabili nelle cose rifatte, la sobria ricostruzione della Pariser Platz, all’estremità Ovest della Unter den Linden, ai piedi, appunto, della Porta di Brandeburgo. È inevitabile trovare da ridire su un’operazione urbanistica tanto imponente e quindi tanto vulnerabile. Senz’altro la più vasta d’Europa, dopo quella seguita alla guerra: ed anche la più carica di significati: poiché il vuoto tra le due Berlino, sino all’89 attraversato dal Muro, era una ferita che, una volta cicatrizzata con la Potsdamerplatz risorta, ha saldato le due Germanie. Gli architetti hanno avuto innumerevoli missioni. Sono stati chirurghi, psicologi, storici, politici. Avevano lo straordinario, rischioso compito di disegnare il futuro, e si sono arroccati nel passato, per sfuggire alle trappole e agli agguati della Storia e della politica. Non è accaduto dappertutto nella città ricostruita, ma è senz’altro accaduto nel suo cuore. Qui è avvenuta la ritirata, e una ritirata è (quasi) sempre una fuga. In questo caso una fuga nel passato intelligente e astuta. Non era semplice decidere il nuovo volto della capitale Berlino, quel cuore prussiano sotto la pelle della nuova città tedesca, destinata a diventare, nel nostro secolo, il centro dell’Unione Europea, allargata ai Paesi orientali. Nel Continente diviso, Parigi era l’epicentro della parte occidentale; nel Continente senza più lo steccato ideologico, economico e militare tra capitalismo e comunismo, Berlino è il nuovo epicentro. È uno spostamento geopolitico che segna il XXI secolo europeo. Il ritorno del Parlamento e della Cancelleria a Berlino, nella vecchia capitale del Reich, situata a Est, sulla Sprea, più vicina all’Elba e molto lontana dal corso del Reno, è stato un momento storico non soltanto per la Germania. Il Reno era stato per mezzo secolo un ancoraggio all’Occidente affacciato sull’altra sponda. Una vicinanza rassicurante che aveva profuso quiete e saggezza a tutta l’Europa, attraverso la pastorale Repubblica di Bonn, considerata un provvisorio «esilio interno», ma nella realtà indispensabile asse portante della stabilità non solo continentale. Una Germania «svizzera» andava a genio a molti. Il trasloco ha segnato la rinascita della Repubblica di Berlino. Vale a dire il ritorno del potere in Prussia, con gli inevitabili, atavici interrogativi sui tedeschi. Interrogativi, sospetti, ancora più forti se la capitale ritrovata avesse assunto un aspetto imperiale. Gli urbanisti ne hanno tenuto conto. Hanno tenuto un profilo basso. Perché, si sono chiesti, non adottare lo stile prussiano, spurgato dal militarismo, ed enfatizzato nella sua modestia, Chi guarda la Porta di Brandeburgo dalla terrazza dell’hotel Adlon ha un frammento di panorama immutato dall’800 che teneva conto di una terra allora piuttosto povera, e che era dotato di una solida, non arcigna, austerità? Si è voluto al tempo stesso evitare che la città diventasse una «gigantesca vetrina», con un aspetto fatiscente, un groviglio di metalli, di vetri e di luce, come tutte le metropoli nuove o rifatte, disperse nei vari continenti. L’architettura nazista aveva corrotto il classicismo. L’architettura democratica lo rinsavisce, almeno nel cuore di Berlino. Alcuni hanno denunciato l’eccessiva sobrietà e la mancanza di immaginazione. L’architetto Philip Johnson voleva creare sulla Friedrichstrasse qualcosa di «fantasioso», ma ha dovuto ripiegare sugli enormi blocchi di edifici allineati che egli stesso ha poi bistrattato. Gli autori del piano hanno anzitutto evitato che gli architetti si sbizzarrissero, come era accaduto in molti an- goli della metropoli occidentale, negli anni successivi al nazismo, quando prevaleva l’ansia di cancellare il passato. Quel che allora era comprensibile, cinquant’anni dopo non lo era più, sostenne Hans Kollhoff, uno dei principali architetti della nuova Berlino. Non era più in gioco un quartiere periferico, un edificio isolato, una biblioteca o un auditorium. Si trattava di creare il centro della capitale, non un centro sperimentale d’architettura. Il grande Norman Foster è stato richiamato più volte all’ordine: e il vistoso baldacchino che voleva sospendere sul Reichstag si è saggiamente trasformato in una tradizionale cupola simile a quella di fine Ottocento. I principi che hanno disciplinato i grandi lavori berlinesi erano assai semplici: andavano dal rispetto delle strade e delle piazze, dei vecchi tracciati in generale, alla raccolta degli edifici in grossi blocchi, ciascuno destinato a riempire lo spazio tra quattro strade; dalla proibizione di superare, in altezza, i ventidue metri, alla composizione di facciate possibilmente in pietra. Qualche strappo è stato consentito. Di grattacieli ne spuntano almeno una decina, ma non sono grappoli di funghi giganti sparsi nel panorama urbano. Ce ne sono sulla Potsdamerplatz e sulla Alexanderplatz. Lo spazio dell’Alexanderplatz è stato rispettato per salvaguardarne il carattere popolare. Quasi una reliquia dopo il romanzo di Doeblin. Un felice sgarro al regolamento mi sembra la torre di ottanta e più metri, rigata da strisce in terracotta, di Renzo Piano. Essa sorge sulla Potsdamer, dove vado puntualmente ad alloggiare in un albergo di un lusso francescano (non è una contraddizione, è possibile), cioè dove tutto è essenziale, nulla superfluo. Mi sembra un po’ lo stile della nuova Berlino, quella esentata in parte dal rigore urbanistico e che si inquadra bene nel Duemila. Essa trionfa sulla Potsdamerplatz dove le bombe, creando un vuoto spazioso, hanno concesso mezzo secolo dopo una certa libertà agli architetti. Nell’attesa che gli anni diano a quell’area centrale della metropoli la patina che le manca (anche un quartiere troppo nuovo, come un abito o un paio di scarpe, ha bisogno di essere usato), mi astengo dall’esprimere un parere. Il tempo sarà un ottimo giudice. Ma già il fatto di affidarsi alla sua sentenza significa che nulla è compromesso. Insomma l’incerto pregiudizio è favorevole. I berlinesi dell’Est postcomunista si sono sentiti disprezzati anche urbanisticamente: gli edifici del comunismo prussiano sono stati quasi tutti demoliti uno dopo l’altro. A Hans Kollhoff è stato rimproverato di avere distrutto l’intero quartiere di Mitte, dove gli architetti di Ulbricht e di Honecker, i leader della Repubblica democratica tedesca, avevano costruito i loro edifici più ambiziosi, affiancandoli a quelli dell’epoca di Hitler. Kollhoff ha respinto l’accusa, ma ha aggiunto che i bulldozer non erano stati abbastanza spietati. DOMENICA 21 MAGGIO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 UN TRENO OGNI NOVANTA SECONDI La nuova Berliner Hauptbahnhof, che sarà inaugurata il 26 maggio, è costata 700 milioni di euro. Potrà avere un ritmo di arrivi e partenze di un treno ogni novanta secondi. Al piano superiore (est-ovest) transiteranno 300 convogli al giorno mentre al piano inferiore (nord-sud) ne passeranno 500. La capacità massima sarà di mille treni al giorno. I viaggiatori si sposteranno all’interno con 54 scale mobili e 18 ascensori, nella struttura si apriranno cinema, negozi ed esercizi di ogni tipo. Con le linee ad alta velocità si potrà raggiungere Parigi o Verona in otto ore, Monaco in cinque, Praga in tre ore e dieci Tunnel di cristallo crocevia d’Europa ANDREA TARQUINI C’ FOTO PIERRE ADENIS/GAFF/LAIF Repubblica Nazionale 35 21/05/2006 Lo spoglio degli archivi della Stasi, la polizia comunista, ha rafforzato la tesi di coloro che trovano molti punti in comune tra la dittatura nazista e la dittatura comunista (sia pur con l’essenziale riconoscimento che quest’ultima «non ha pianificato massacri sistematici»). Con la stessa severità gli architetti hanno giudicato e condannato le opere urbanistiche dei due periodi. Stefan Heim, scrittore dell’Est, ha pubblicato una raccolta di racconti sulla Germania comunista con il titolo Costruito sulla sabbia. Le velleità naziste Estendo la sentenza anche all’edilizia dei tempi di Ulbricht e Honecker, facendo però un’eccezione: la cura con cui i comunisti hanno protetto, in certi casi, i monumenti storici, al fine di presentarsi come i continuatori della tradizione germanica. L’ambizione nazista fu più prepotente. Hitler assegnò ad Albert Speer, nato in una famiglia liberale di architetti, e lui stesso architetto, ma nazista, il compito di creare la capitale del «Reich pangermanico». E Speer fece demolire interi quartieri e avviò cantieri in cui furono impegnati i «lavoratori stranieri», molti dei quali erano slavi deportati e acquartierati nei campi di concentramento. Delle opere realizzate all’epoca di Speer esistono ancora, anzitutto, il Ministero dell’Aviazione del Reich, all’angolo di Wilhelm e Prinz Albrecht Strasse (oggi Ministero delle Finanze), l’aeroporto di Tempelhof e lo Stadio del Reich, in cui si svolsero le Olimpiadi del ‘36. Nello stesso Stadio, modernizzato, si giocheranno tra pochi giorni le partite decisive del Campionato mondiale di calcio. Nella nuova Berlino, capitale democratica della più grande nazione dell’Unione Europea, hanno un significato catartico, purificatore, il Museo ebraico disegnato dall’architetto Daniel Libeskind, e l’Holocaust Mahnmal, creato a due passi dalla Porta di Brandeburgo e dal luogo in cui si trovava il bunker di Hitler. IL GIOIELLO Nelle foto in questa pagina, la nuova stazione di Berlino centrale. La grande opera architettonica sarà inaugurata il prossimo 26 maggio Per costruirla sono stati necessari 25mila tonnellate d’acciaio e un milione di metri cubi di cemento BERLINO era una volta il treno, pensavamo fino a ieri. C’era una volta il treno per raggiungere luoghi remoti e collegare gli uomini tra loro: il lussuoso Orient Express teatro dei gialli di Agatha Christie o i lenti convogli zaristi narrati da Dostoevskij. Ricordi lontani, romanzi di ieri: oggi ci pensano l’aereo e i collegamenti internettiani ad accorciare le distanze, avvicinare le Memorie. Eppure proprio a Berlino il treno sta risorgendo, come un link vitale per l’Europa che cresce insieme. Tra pochi giorni, a fine maggio, sarà inaugurata la nuova Hauptbahnhof, la più straordinaria stazione del nostro tempo. Un edificio ultramoderno, il nuovo hub e crocevia del Vecchio continente grazie all’alta velocità che pure tanti ancora contestano. Da ovest a est colazione a Parigi, shopping e cena a Berlino, tempo per l’ultimo spettacolo ai cinema di Postdamer Platz o per una puntata nei locali alternativi di Prelzlauerberg. Poi colloqui d’affari il giorno dopo a Varsavia o a Praga, tutto senza volare. O se preferite, da nord a sud: caffè del mattino presto ad Amburgo e sera all’Arena di Verona. Vita a trecento all’ora senza rischiare ritardi e senza lasciare il suolo. Con Berlino e la sua nuova stazione centrale quale pulsante luogo di riferimento del Vecchio continente. La cattedrale vetrata dei treni è costata, compresi allacci ed elettronica, dieci miliardi di euro. Il 26 maggio sera Angela Merkel la inaugurerà con un grande spettacolo di fuochi d’artificio. Andiamo dunque a vederla, la stazione delle meraviglie, il crocevia dell’Europa di domani. Eccola là sotto i nostri occhi, la cattedrale di vetro illuminata dal primo sole del cielo sopra Berlino. Un tunnelnavata di cristallo lungo 321 metri, due minigrattacieli ipervetrati anche loro che enormi gru hanno scaricato dall’alto sui binari in una notte lo scavalcano come archi cubisti. Sotto il tunnel trasparente corrono alti i sei binari della rotta est-ovest, sorretti da due ponti sospesi sulla Sprea. Arriveranno e ripartiranno da qui, uno ogni novanta secondi, i bianchi Ice-3 tedeschi e olandesi della Siemens, i Tgv bluargento francesi o i Velaro spagnoli, e poi treni polacchi, cèchi, un giorno anche russi e ucraini. Un mondo sopraelevato come un sogno, già lo vediamo entrando nel cantiere dove fervono gli ultimi lavori. Un mondo che sta per destarsi, pronto ad accogliere un minimo di oltre trecentomila passeggeri ogni giorno da ogni parte dell’Europa. Il progetto dell’architetto Meinhard von Gerkan sfida l’impossibile. Tutto vetro e trasparenze: scordiamoci qui pesanti costruzioni in cemento e marmo per accogliere i convogli. La cattedrale dei treni, il grande tempio di cristallo che puoi già scorgere dai corridoi del Parlamento, dalle finestre della Cancelleria o passeggiando sul Tiergarten appena a ovest della Porta di Brandeburgo, è solo la punta emersa dell’iceberg. Percorriamo il tragitto che tra poche settimane i viaggiatori faranno comodi, con 54 scale mobili e diciotto mega-ascensori a disposizione. Ecco il pianoterra: un enorme shopping center, ritrovi per giovani, locali d’ogni tipo. L’ambizione è farne un altro Luogo della capitale, come Potsdamer Platz o il Ku’Damm, o come il Beaubourg o Montparnasse a Parigi. Poi andiamo al sotterraneo, trenta metri sotto. Ecco l’altro volto del grande crocevia d’Europa: binari e pensiline del traffico nord-sud, nove binari in tutto. Più due per la U55, la nuova linea del metrò berlinese con i treni automatici che ti porteranno alla Porta di Brandeburgo e ad Alexanderplatz, più altri due per la SBahn, la linea veloce che conduce in ogni angolo della metropoli e dei suoi paraggi. Il passante nord-sud è affidato a un’opera ciclopica, un tunnel a quattro binari di tre chilometri e mezzo che passa sotto il centro della capitale, scavato da una ‘talpa’ gigantesca. «La nuova stazione-crocevia d’Europa sta nascendo un po’ come è nata Potsdamer Platz, Renzo Piano sa bene cosa voglio dire», confessa Hany Azer sorridendo soddisfatto. Piccolo, olivastro, l’aria dimessa, l’architetto e ingegnere egiziano plurilaureato è il direttore dei lavori. È un esempio ammirato d’integrazione per la Germania multiculturale: «Ho studiato al Cairo, poi in Europa, ho costruito reti di metrò nel territorio della Ruhr, l’antico cuore industriale tedesco», racconta. «Ma questa è un’altra esperienza, molto più appassionante. È la mia piramide. Anche se dieci anni di lavoro qui — da tanto si lavora a questa Fabbrica di san Pietro del crocevia europeo, notiamo — mi sono costati un infarto, mi hanno persino imposto di smettere di fumare». «Potsdamer Platz fu il primo grande cantiere della nuova-antica capitale, nell’ex terra di nessuno immortalata dalle riprese di Wim Wenders», prosegue Hany Azer. «La stazione che stiamo per inaugurare sarà l’ultimo. Con la sua apertura al pubblico si chiuderà anche un’epoca d’Europa: l’epoca di Berlino che torna capitale rincorrendo se stessa. La Berlino città-cantiere comincerà a diventare compiutamente città nuova col primo treno ad alta velocità che sotto questa volta vetrata scaricherà qui passeggeri dalla Francia o dalla Polonia, da Copenaghen o dall’Italia». Il grande sogno del crocevia sta diventando realtà, sotto la grande volta vetrata sorretta da quarantotto archi. Computer e sistemi di controllo tracciati come circuiti stampati sotto i binari consentono di organizzarlo senza rischi d’incidente. L’alta velocità viaggia rapida, ma arriva e riparte anche rapida. Ecco quindi il treno ogni novanta secondi, ecco un volume di traffico minimo calcolato in cinquecento treni al giorno al piano sotterraneo, il piano nord-sud come si diceva, e trecento almeno sopra. Capacità massima, mille treni al giorno. Più gli ottocento treni quotidiani della S-Bahn e i mille del metrò. Da Berlino ad Amburgo o a Hannover in un’ora e mezza anziché in quattro, a Francoforte in tre ore anziché quasi otto, a Monaco in tre e tre quarti anziché quasi nove. Questi sono i primati che la cattedrale di cristallo offrirà al traffico solo in Germania. Come crocevia d’Europa, andrà ancora meglio: fino a Parigi o a Verona in poco più di otto ore, a Varsavia in quattro ore e tre quarti, a Praga in tre ore e dieci. La suggestione della Belle époque, quando le verdi, eleganti vaporiere Creusot-Loire, Krupp o Vickers trascinavano i lussuosi convogli blu-oro degli espressi europei più esclusivi, rivive in chiave postmoderna. Venticinquemila tonnellate d’acciaio, un milione di metri cubi di cemento, quanto ne basta per sessantacinque chilometri d’autostrada a sei corsie, centinaia di chilometri di cavi. «Ma le cifre sono fredde, aride», dice Hany Azer. «Non ti danno l’emozione del nuovo che nasce e del vecchio che rivive, qui nel grande cantiere costruito dove un tempo passava il Muro. Forse — confessa con un bel sorriso — non c’è niente di più bello che progettare il crocevia d’Europa proprio qui, camminando con l’emozione come sul filo del funambolo sull’ex linea rossa della città frontiera della Guerra fredda». 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 MAGGIO 2006 la memoria C’era una volta in Oregon un atleta ragazzino che non riusciva a eccellere in nessuna specialità Finché, ribelle ai consigli, provò a superare l’asticella con la schiena anziché con il ventre, come facevano tutti Lo considerarono un numero da circo, ma dopo la prima vittoria, quarant’anni fa, calamitò l’attenzione di tutti Rivoluzioni sportive Un salto all’indietro e Dick ENRICO SISTI era una volta un ragazzo che non sapeva cosa fare del suo presente. Si divertiva ad andare al campo d’allenamento tutti i giorni, sperando di sorprendere qualcuno con i suoi salti da scimmia ammaestrata. Non aveva gran talento, solo tanto coraggio e una cinica determinazione nel contraddire gli ordini della sua famiglia: «Che perdi tempo a fare con quelle scemenze, Dick!». Nella domenica della brava gente di Medford, Oregon, sua madre, segretaria di una piccola ditta di ricambi auto, avrebbe preferito portarselo dietro in chiesa a pregare un dio che, senza dirlo a nessuno, suo figlio incontrava in privato tutti i pomeriggi a fine allenamento: Dick protestava («lo facevo bisbigliando») con il suo invisibile referente alzando gli occhi al cielo davanti al minuscolo manifesto di Elvis Presley che aveva sopra il letto: «Perché non riesco a fare il salto giusto? Perché gli altri sì e io no?». Dick aveva sedici anni. Era nato nel ‘47. Gli americani avevano già messo a subbuglio l’atletica leggera ma non l’avevano ancora colonizzata sino a trasformarla in una loro provincia. Aveva deciso di buttarsi sul salto in alto. Giocando da bambino si divertiva a saltare le staccionate facendo la forbice. Vide alcuni fare altrettanto in pedana. A scuola gli fecero capire che poteva abbandonare le staccionate C’ “Non ero niente Né un tuffatore, né un’acrobata”, dirà di sé l’inventore della nuova tecnica rievocando i suoi primi tentativi, che nel 1968 a Città del Messico avrebbero finito per portarlo all’oro olimpico SEDUTO A MEZZ’ARIA Qui sopra, Dick Fosbury supera l’asticella utilizzando la sua rivoluzionaria tecnica all’indietro. L’immagine è del 1968, l’anno dell’oro olimpico. Accanto, un ritratto del saltatore Usa nel 1970 per qualcosa di più redditizio: «Saltava con una naturalezza impressionante», dirà il suo primo coach Berny Wagner. Sarebbe bastata una leggera rettifica, un aggiornamento nel modo di scavalcare l’asticella e Dick avrebbe cominciare a crescere. Sarebbe diventato un atleta vero. Cocciuto com’era però, e refrattario agli insegnamenti pratici, Dick non si fece convincere a cambiare stile (lo pregavano di dedicarsi alla tecnica ventrale, quella più diffusa) e cercò altre strade. Tentò con i cento metri. Fra i suoi miti entrò in pianta stabile un tedesco bianco che correva più veloce della luce: Armin Hary. Esile, filiforme, robusto, Dick non ebbe fortuna neppure con la velocità: a stento scendeva sotto gli undici secondi. «Gli consigliai persino il salto triplo», disse Wagner. Poi la folgorazione. «Ancora qui, ragazzo? Spicciati che oggi non c’è nessuno e allora chiudo prima». Il custode del campo quella mattina aveva la luna di traverso. «Pioviccicava». Dick andò in pedana pensando che doveva osare, sperimentare, andare verso il nuovo: «La notte prima ero rimasto sveglio a immaginare una pazzia». Un salto rovesciato. Si era infatti reso conto che perfezionando il vecchio L’INCLINAZIONE È fondamentale nella fase curva della rincorsa: deve essere proporzionale alla velocità di entrata e al raggio di curvatura LO STACCO Poggiando tutto il piede, si indirizza il corpo verso l’alto; il ginocchio della gamba libera viene slanciato in seguito alla spinta LA RINCORSA È divisa in due parti, la prima è rettilinea e consiste in due o quattro passi, la seconda è curva ed è di quattro passi CORNELIUS JOHNSON CHARLES DUMAS VLADIMIR YASHCHENKO JAVIER SOTOMAYOR Vince l’oro a Berlino 1936 saltando 2,03 con la tecnica “Western roll” Fra i più celebri saltatori con la tecnica ventrale: supera i 2,13 nel ‘56 Nel 1977 salta i 2,33, primo record mondiale con lo stile Fosbury Con i 2,45 saltati nel 1993 è l’attuale detentore del record maschile l vento nuovo soffiò. Li scosse e travolse. Lui scese, lei salì. Portava libertà, fuori dagli schemi, descritti minuziosamente in 270 pagine. Stesso cielo, ma voli diversi. Il Fosbury cambiò per sempre le loro vite e carriere. Erminio e Sara. Azzaro e Simeoni. Due atleti, una coppia, un respiro fatto d’aria. E l’altro, l’americano, che si mette in mezzo. Sembra di sentire la canzone di Aznavour: «Lui sa tentarti con maestria, tu sei seccata che io ci sia. Ed io tra di voi se non parlo mai osservo la vostra intesa». Erminio è primatista italiano e nel ‘68 vede il salto in tv. «Mi dico: oh, ma questo che combina? Passa con il dorso? La mattina dopo a Formia ci provo anch’io: va male, mi do una ginocchiata, il naso mi sanguina». Per lui, niente da fare. L’atletica in quegli anni è scossa da molti cambiamenti, ognuno sembra ribellarsi allo stile classico, vuoi vedere che si può fare la rivoluzione e inventarsi un altro modo? Amos Biwott cambia la tecnica nel correre le siepi. Anche Sara è davanti alla tv, anche lei tenta. «Non c’erano ancora i sacconi in gommapiuma, cadere di schiena fa male, l’asticella d’alluminio triangolare lascia lividi pazzeschi. L’errore è doloroso, il corpo urla, la paura fa sbagliare. Il salto è fuori norma, devono cambiare i regolamenti, perché la prima a passare è la testa e le leggi di allora non lo permettono. Del nuovo stile non si sa niente, ma proviamo, cerchiamo di arrangiarci. La rincorsa è semicircolare, metà in rettilineo, metà in curva. Le sensazioni sono buone». Per lei, tutto da provare. Il mondo dello sport è tradizionalista, si affida ai padri fondatori. Erminio salta I I destini incrociati di Sara ed Erminio EMANUELA AUDISIO con lo stile ventrale, ha come modello il sovietico Valery Brumel, soprannominato il saltatore del cosmo, un campione capace di stabilire tre record mondiali in due mesi, il simbolo di un’epoca. La pedana è di carbonella, si cade sulla sabbia. Il ventrale non prevede velocità di entrata, ma grande forza. Non c’è spazio per fare di testa propria, per sentire le vibrazioni. Azzaro migliora otto volte il record italiano, lo porta da 2.11 a 2.18. Sara che è all’inizio invece trasgredisce, si converte alla tecnica del gambero. Il Fosbury flop, appunto. Erminio e Sara si conoscono in una trasferta a Soci sul Mar Nero nel ‘72. Si fidanzano. Lei gli dice: o mi alleni tu o lascio. Lui si rassegna, soprattutto al tendine rotuleo, sempre infiammato. «In allenamento non mi risparmio, ottanta salti al giorno, ma ormai ho troppo male, e a ventitré anni smetto». Sara intanto con il Fosbury scala il cielo: sesta a Monaco ‘72 con 1.85, argento a Montreal ‘76 con 1.91. Non sa come si fa, però lo fa. «È un momento da pionieri. Bello, divertente, diverso. Erminio si mette a disposizione, chiede aiuto al professor Vittori che allena Mennea, domanda: perché non proviamo questo esercizio? Il Fosbury punta su velocità e ritmo, alla scuola di Formia mi esercito con gli ostacoli, con i saltelli, gioco a basket, alla sera sono esausta, ma diversamente da prima smaltisco meglio il lavoro. Anche se dalla fatica crollo a letto come un sasso. Le attrezzature da palestra mancano, ma gli operai che sono lì, ci aiutano con piccoli e grandi accorgimenti: la cintura zavorrata con dentro la sabbia, la scarpetta di ferro e altre diavolerie. Difficile far capire agli altri che sono un’atleta professionista, mangiare all’hotel Miramare diventa un incubo perché ci fanno i ricevimenti nuziali e tutti vogliono fare la foto con me». Salti, amore e fantasia. Il Fosbury è democratico, ma soprattutto unisex. È una novità che stava nell’aria: già nel ‘66 la canadese Debbie Brill usava quello stile, DOMENICA 21 MAGGIO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 LE ALTERNATIVE Ecco le principali tecniche di salto in alto che hanno preceduto il Fosbury e che ora sono state abbandonate A sinistra il salto ventrale, a destra la sforbiciata Fosbury entrò nel futuro stile a forbice la sua schiena si appiattiva sull’asticella. E più si appiattiva e più andava alto. Allora, pensò, facciamo un movimento che stabilizzi questo “appiattimento”. Era la negazione teorica del salto ventrale classico con cui i grandi campioni superavano abbondantemente i due metri. La mattina che il salto in alto divenne il salto in “altro”, Dick aveva il cuore in tempesta. Riuscì ugualmente ad effettuare un balzo verso la luce. «Il salto è all’indietro, però è pura avanguardia», avrebbero scritto un giorno, molto più tardi. Dick provò. Rincorsa circolare, sotto l’asticella una torsione in senso orario del tronco per alzarsi e oltrepassare l’asticella con la schiena, piegando la testa in basso, guardando qualunque cosa, i sacchi, il cielo, il mondo, tutto meno che l’asticella. Ci prova e ci riprova. Va oltre 1,68, che era il suo record di sforbiciata. Per due anni chi lo vede dice: «Ma dove pensi di andare con quello sgorbio volante?». Dovevano passare mesi e mesi prima che qualcuno capisse. «Adesso direte: eccolo là, per forza, studiava ingegneria civile, medicina, e così non ha dovuto faticare troppo a inventarsi un altro modo di saltare. Ma non è così. Non ero niente. Né un tuffatore, né un acrobata». E aveva anche abbandonato gli studi di ingegneria per dedicarsi alla cultura orientale. Quello che Dick fece fu molto più semplice e più folle: intravide «una fessura piena di luce crepitante». Si infilò in quella fessura da cui sarebbe passata tutta la sua vita, un centimetro alla volta, fino alla conquista della medaglia d’oro alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968. Migliaia di persone lo avrebbero seguito. Una rivoluzione del genere, legata all’intuizione di solo uomo, appartiene più al mondo della scienza che a quello dello sport. «Fu nell’aprile del ‘66 che per la prima volta smisero di prendermi per i fondelli, dopo che ebbi vinto i campionati juniores della Camera di commercio del ‘65». Per due anni quel suo strambo avvitamento aereo era stato l’attrazione del campo di allenamento: «Bravo, divertente, bello da vedersi, ma fuori da un circo non combinerai mai nulla». Nel ‘66 però l’aria era cambiata. «In realtà Ormai tutti hanno adottato il suo stile Oggi lui ha 59 anni e ogni tanto fa il commentatore sportivo non capii mai perché. So solo che venivano da me, mi facevano domande, poi si allontanavano ma restavano a guardarmi. Era tutto un po’ ridicolo e io ogni tanto perdevo la concentrazione, cosa che mi faceva imbestialire». Un tecnico federale filmò la stramberia del ragazzo dell’Oregon. Malgrado le perplessità ancora diffuse, Dick saltò 2,20 e questo, che costituiva un miglioramento di tre centimetri, fu sufficiente perché egli venisse ammesso nel gotha dell’atletica americana: quaranta anni fa esatti. Ai raduni statali, nei campus universitari, ai meeting, improvvisamente non si parlava d’altro che di quel fenomeno. Fu paragonato al marziano di Ultimatum alla Terra. Prima di andare alle Olimpiadi, e vincerle, continuava a pensare che la sua trovata «in fondo non era niente di speciale». Alle Olimpiadi gli bastò un “modesto” 2,24: «Mi fermavano nei ristoranti: “Ehi Dick, ti ho visto in televisione!” Ma avevo ancora la sensazione che mi trattassero come un fenomeno da baraccone». Nel dicembre ‘68, davanti al Madison Square Garden, a New York, campeggiava un manifesto con su scritto: «Venite ad ammirare il campione olimpico Dick Fosbury». «All’epoca l’opinione pubblica si stava ponendo due interrogativi che mi facevano sorridere entrambi perché non li ritenevo appropriati. Il primo era: il salto alla Fosbury rivoluzionerà il salto in alto? Il secondo era: e se questa tecnica facesse rompere l’osso del collo a migliaia di ragazzi americani?». La rivoluzione ci fu, le ossa del collo sono rimaste intatte. Il “salto alla Fosbury” ha soppiantato il salto ventrale come l’elettricità soppiantò le candele. Il ventrale è stato praticato fino agli anni Settanta. Poi è scomparso. L’unico, piccolo paradosso è che Fosbury non è mai arrivato a superare il record del mondo (2,28 del russo Valery Brumel). Dopo però c’è stata la valanga. Il progressivo arricchimento della struttura muscolare dei praticanti, ad alto e basso livello, e la conseguente, irreversibile velocizzazione dei movimenti hanno consentito ai più talentuosi di superare i 2,40. Ora il salto ventrale è puro modernariato. «Strano. Pensavo di durare di più e invece vincere le Olimpiadi mi esaurì totalmente. Provai a qualificarmi per le Olimpiadi di Monaco, nel ‘72, ma ero già spento». Anche in questo Fosbury è stato un marziano. C’è chi si è divertito, facendo ovviamente un salto all’indietro, a cercare il nome del primo giornalista che si rese conto di essere davanti a una probabile rivoluzione. Tutti gli indizi portano a un anonimo redattore della Mail Tribunedi Medford, che nel ‘66 tirava poco più di ventimila copie. Scrisse meraviglie, ma poi siccome temette di aver esagerato concluse così: «Chiamiamolo Fosbury Flop». Dove la parola flop aveva un doppio significato: salto (tonfo) e fallimento. In realtà fu il contrario: una rivoluzione della cultura sportiva. Dick Fosbury, il rivoluzionario che vide il futuro guardando indietro, ha 59 anni e sovrintende i progetti urbanistici di un’azienda di Ketchum, Ohio. Ogni tanto fa il commentatore sportivo. ILLUSTRAZIONI DI MIRCO TANGHERLINI IL VALICAMENTO Con una rotazione del ginocchio e della spalla interna, il corpo viene a trovarsi con il dorso all’asta. Il bacino valica l’ostacolo in perpendicolare LO SVINCOLO Superata l’asticella col bacino, le gambe vengono “richiamate” flettendo le ginocchia al petto per evitare che i piedi la tocchino L’ATTERRAGGIO Avviene con la parte alta del dorso. Per motivi di sicurezza è meglio arrivare sul materasso con le ginocchia leggermente divaricate ETHEL CATHERWOOD ROSMARIE ACKERMANN SARA SIMEONI STEFKA KOSTADINOVA Ad Amsterdam ’28, è la prima donna a vincere l’oro olimpico: salta 1,59 È la prima donna a toccare i due metri, saltati nel 1977 a Berlino Primatista del mondo nel 1978 con 2,01, record ancora imbattuto in Italia Detiene il record mondiale femminile con 2,09, raggiunti nel 1987 a Roma ma si sa Debbie è una ragazza hippy che vive nelle comuni e fuma spinelli, love, peace e qualche volta anche un good jump. Già in una foto del 24 maggio ‘63 si vede Bruce Quande, studente del Montana, inarcarsi in quel modo strano, da matto del villaggio. Solo una prova, che poi Fosbury perfezionerà. È un salto destrutturato, che non sta in nessun catalogo. Spiega Erminio: «Il ventrale era codificato, aveva un manuale più lungo della Bibbia, quattro pagine solo per la posizione del capo allo stacco. Un po’ come studiare il latino, non si poteva sgarrare. E soprattutto era rigido: dovevi essere alto, avere potenza. A Formia ogni sera con un proiettore che noi chiamavamo per scherzo «macinino» ci venivano illustrate con le immagini le varie fasi del salto. Noi dovevamo guardare, copiare, ripetere. Il Fosbury invece era facile, permetteva variazioni, era un fai da te, un prefabbricato adattabile ad ogni taglia. Non veniva dai libri di scuola, ma dalla pratica. Faceva a meno di gerarchie consolidate, incoraggiava l’anarchia. C’era il flop uno e due. Più ritmica, meno tecnica. Ognuno poteva modificarlo e adattarlo alle sue esigenze. Non c’era più un solo modello giusto». La fantasia al potere, anche in volo. E Sara che non la ferma più nessuno. Nel ‘78 apre i cancelli del cielo: 2,01 a Brescia, record del mondo. La tedesca est Ackermann è battuta, sembra una vecchia pagina ingiallita. Sconfitto anche il suo stile, il ventrale. Il Fosbury funziona anche nei giorni in cui le donne stanno da cane. Simeoni conferma: «Il giorno prima della gara svengo per la pressione bassa, dovuta al periodo mestruale. Non mi reggo in piedi, tanto che mi consigliano di dare forfait. Salto lo stesso, sento che ce la posso fare le sensazioni sono buone, guardo il cielo, l’asticella, l’orizzonte. All’improvviso tutto mi sembra alla mia portata». Agli europei di Praga, ventisette giorni dopo, Sara eguaglia il record del mondo. Ai piedi ha i famosi calzettoni con i rospi. Lotta ancora contro Rosemarie Ackermann che non vuole credere al Fosbury e nemmeno farsi da parte. Via, sciò, adesso in cima c’è Sara, che dal ‘73 al ‘77 aveva perso sei meeting su sette contro l’avversaria. E seduto in curva, a fumare sigarette, a masticare nervosismo, ora c’è Erminio. Capita che i due bisticcino, sui dieci passi della rincorsa e su altro. «L’avrei ammazzato. Non mi permetteva nessuna trasgressione, era severissimo, c’erano sere in cui mi sarebbe piaciuto uscire, fare tardi, ma lui niente, me lo proibiva. Dovevo dare l’esempio, mai un sabato a ballare, non l’ho mandata giù». Ai Giochi di Mosca nell’80 Sara è la favorita. Vince, ma l’inizio è disastroso. «Entro nello stadio e all’annuncio del mio nome mi prende un groppo in gola tremendo. Sono emozionata, non capisco più niente, misuro i passi in maniera sbagliata. Sento Erminio che mi urla: sveglia, la rincorsa è dall’altra parte. Ah, ecco, perché non funzionava». Il Fosbury permette rammendi, strappi del cuore, ferite del tempo. Sara a Los Angeles nell’84 è malconcia. Soffre di un’infiammazione al tendine, ha la caviglia gonfia, conosce un fisioterapista che la convince a provare gli ultrasuoni. Ma deve restare a letto, non può allenarsi, beve solo acqua, perde peso. «Ero già molto magra, pesavo 57 chili mentre alla mia prima Olimpiade sulla bilancia ero 69. Avevo lo stomaco chiuso, non riuscivo a mandare giù niente. Però superai i 2 metri, misura che non ottenevo da sei anni e vinsi la medaglia d’argento dietro alla tedesca Meyfarth. Mi venne da piangere, pensai a Erminio che non aveva mai potuto godere di quell’emozione olimpica, gli dissi di non essere triste, che i miei successi erano un po’ anche i suoi. Eravamo saliti insieme, questo contava». Il record mondiale di Sara Simeoni durò quattro anni, lo stile Fosbury dura ancora. Spalanca cieli. Certe perturbazioni in volo sono miracolose, come le rivoluzioni. COMPAGNI DI VITA Erminio Azzaro e Sara Simeoni, compagni di vita e di salti: per lui il Fosbury Flop significò il tramonto agonistico, per lei il successo mondiale 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA i luoghi Città al bivio DOMENICA 21 MAGGIO 2006 È la capitale dello stato brasiliano di Espiríto Santo, fondata nel 1551. Indios, portoghesi, francesi, olandesi, tedeschi, africani deportati, infine nostri emigranti se la contesero con asprezza. Oggi questa mescola di razze convive pacificamente e scommette sul futuro Vitória, oasi meticcia con il cuore italiano E CESARE DE SETA Repubblica Nazionale 38 21/05/2006 VITÓRIA ntrando nella baia di Vitória chi vi giunse a metà del Cinquecento dové restare sbigottito: un arcipelago frastagliato di isole, un dedalo di rii, un sinuoso inanellarsi di coste rocciose nell’interno e bionde spiagge sabbiose aperte sull’oceano. Su questi bordi dell’isola precipita una vegetazione lussureggiante nel cui serto serpeggiano fonti d’acqua dolce essenziali al primo insediamento e si levano montagne acuminate come tanti pan di zucchero, anche se in una dimensione geomorfologica assai più ridotta rispetto alla monumentale baia di Rio de Janeiro. Questi glabri cocuzzoli rocciosi fioriscono nella verzura copiosa e dalle tinte squillanti, hanno una foggia d’acciaio brunito, scintillano al sole e si staccano sul verde della macchia e sul rosso ruggine della terra. Un sistema paesistico ancora, miracolosamente, intatto: il Parque da Fonte Grande, che sale fino a trecento metri sul mare, è una foresta che s’erge a spartire — come un benefico gigante — la città antica del primo insediamento da quella nuova: sorta, al finire dell’Ottocento, su una lottizzazione tipica dell’urbanistica post-haussmaniana. Vitória è la capitale dello stato di Espírito Santo, dista cinquecento chilometri da Rio e circa il doppio da Salvador de Bahía: è un’isola, oggi collegata con ponti alla terraferma; conta circa quattrocentomila abitanti ed è una città dalla misura sorprendentemente acconcia rispetto alle sfatte megalopoli brasiliane. La tradizione vuole che fu fondata l’8 settembre 1551, pertanto è una delle più antiche città di questo sterminato Paese la cui colonizzazione principiò dalla costa atlantica: dall’entroterra selvaggio e dall’Oceano ha tratto la sua vita, si è sviluppata la sua economia mercantile e manifatturiera, è maturata la sua prosperità. Oggi è il secondo porto del Paese con articolate strutture che s’attorcigliano come un fuso attorno all’isola. Si levano lungo le banchine enormi gru dipinte con colori sgargianti senza alcuna inibizione industriale, navi e container in fila si acquattano nella placida baia. Se da Ilhéu partivano e partono navi cariche di cacao, da Vitória salpavano e salpano navi cariche di caffè, zucchero, legno e minerali provenienti dall’interno di Minas Gerais. Il nome Vitória ricorda l’assedio respinto che le pose la flotta francese: la fregata che difese i primi coloni si chiamava Gloria e ancora oggi ci sono un caffè e un cinema che portano questo nome. Vila Velha, la città vecchia che sta dinanzi all’isola sulla terraferma, fu, con ogni probabilità, il primo insediamento dei coloni: un pianoro sul mare oggi irriconoscibile nei suoi tratti geografici, fagocitati da un’insolente melma edilizia. La città vecchia di Vitória è degradata, ma non tanto da non poter essere salvata, perde popolazione ed è questo l’aspetto più preoccupante. La sua misura edilizia è per larga parte preservata — edifici di due, tre piani al più — anche se la sostituzione edilizia la sta erodendo: Navi cariche di caffè e legni pregiati salpano da secoli dal suo porto, che oggi è il secondo del Paese E il centro del tessuto urbano è ancora la minuta trama dell’abitato antico del tempo di Vasco Fernando Coutinho e Duarte De Lemos, i primi concessionari portoghesi dell’isola, rimangono alcune testimonianze, a partire dall’impianto urbano. Il santuario di Sant’Antonio, primo nome dell’isola, imponente e goffamente bramantesco, è palesemente rifatto o restaurato con mano assai pesante; la chiesa di Santa Lucia è una cappelluccia coloniale; San Gonçalo è un garbato edificio nel suo doppio ordine; poco distante è il duomo di un neogotico fiammeggiante tutto trine, pinnacoli, guglie, archi acutissimi di bianco zucchero. Gli ospiti gentili mi inducono a entrare nel duomo. Riluttante cedo e fingo stupore ammirato. Più in alto la strada s’inerpica verso il convento di San Francesco, con un porticato e due fronti affiancati tardo seicenteschi, con una torre campanaria in cima, che annunciano una chiesa e un convento. La delusione è amara, dietro non c’è più nulla: solo un centro per l’assistenza ai malati. Trovo donne, vecchi e bambini in attesa di una visita ambulatoriale. È rimasta solo quella doppia facciata che è divenuta una ico- Tutto, in questa baia di sorprendente bellezza, è sopra le righe: cocuzzoli color acciaio brunito svettano sul verde della foresta, sul ruggine della terra, sulle spiagge bionde IERI E OGGI A sinistra, un edificio coloniale Accanto, il Palácio Domingos Martins. A destra, un dipinto ottocentesco di FrançoisAuguste Biard sull’abolizione della schiavitù nelle colonie In basso, una stampa cinquecentesca che raffigura la colonizzazione del Brasile nostasi coloniale. Mi accolgono con l’usuale cortesia di queste parti e leggono nel mio sguardo la delusione. Le roccaforti dei cristiani Francescani, domenicani, carmelitani, gesuiti qui eressero le loro roccaforti di evangelizzazione con lotte cruente almeno quanto quelle usuali nel Vecchio continente: qui è tutto sopra le righe. Il paesaggio è splendido, una natura che può apparire e in parte è ancora incontaminata, distese di mare orlate di spume perenni e di spiagge bionde senza confini a perdita d’occhio: in questo sito d’incanto si accesero furiosi conflitti intestini tra una mescola di razze che oggi — ed è l’aspetto più seducente dell’intero Brasile — convivono pacificamente. Indios, portoghesi, francesi, olandesi, tedeschi, negri deportati dall’Africa da una ciurma di trafficanti si contesero l’isola, avventurieri di ogni risma vi posero piede. Il meticciato è la cifra di queste terre. Il capitano Thomas Cavendish contese l’isola a Luisa Grimaldi, vedova del concessionario portoghese Fernandes Coutinho; nel 1625 fu la volta dell’ammiraglio Pieter Heyen, olandese, al servizio della Compagnia delle Indie. Agli esordi dell’Ottocento le incursioni assunsero altro carattere: giunsero viaggiatori illustri come il principe tedesco Maximilian de Wied-Neuwied, il naturalista francese Auguste de Saint-Hilaire, il geologo canadese Frederich Hartt e il pittore francese François Biard. Nel 1860 il viaggio dell’imperatore Pedro II — che dà nome alla cala già detta delle Colonne — suggella la fortuna della città. Sul finire dell’Ottocento principia la lenta ma sempre più insistita migrazione dall’Italia e in particolare dal Veneto: tanto che l’attuale popolazione di Vitória per il 63 per cento è di origini italiane. Ne ho incontrati alcuni, ma i più hanno perso la memoria della lingua d’origine. Alcuni giovani hanno preso a studiare l’italiano. Gli indios a giudicare dai tratti somatici perduranti sono minuscola minoranza, perché, a mano a mano che avanzava la colonizzazione, si ritiravano nell’interno. I gesuiti volevano cristianizzarli a modo loro: il primo cronista della fondazione di Vitória è il gesuita Simão de Vasconcelos che così descrive il sito: «Comodo alla vita umana, circondato di acque, naturalmente protetto, idoneo all’arte». La Compagnia di Gesù eresse la Chiesa e il Collegio di Santiago che sorgeva dove oggi è il palazzo Anchieta: una sorta di memoria del barocco danubiano piovuta qui come un meteorite dal Vecchio mondo, ma con tinte e stucchi ben più prodighi di quelli che si possono vedere nelle residenze aristocratiche e nei conventi tra Vienna e Melk. Così come il sontuoso teatro fa l’eco all’Opera parigina di Charles Garnier. La fazenda coloniale dei Monjardim, che per oltre un secolo e mezzo ebbero un ruolo essenziale nella comunità, è oggi un significativo piccolo museo: un edificio a un piano, con tetti a tegole, intonacato di bianco; al piano terra i magazzini e le stalle, al primo l’appartamento padronale. Si capiscono il modesto agio, le ambizioni borghesi di questi fazendeiros che hanno mobilia di fattura indigena, ma realizzata con legni pregiati. Con il prosperare della fortuna agricola la famiglia col tempo acquistò vasellame in ceramica portoghese, porcellane provenienti dall’Estremo Oriente, specchiere francesi, lumi inglesi, cristalleria di Murano o Baccarat, cucine e stufe tedesche, utensili belgi e manufatti brasiliani. Non mancano alcune tele con marine e nature morte, sbiadita memoria di pittura olandese o inglese; qualche ritratto dei padroni di casa che sarebbe un azzardo qualificare per scuole o nazioni familiari in Europa: tutto di una qualità coloniale, senza ostentazione di superflua raffinatezza ma solo segno di un solido decoro borghese. Una sobrietà che mi ricorda la casa del colonnello Ramiro descritta con tanta amorevole passione e minuzia da Jorge Amado in Gabriella garofano e cannella. I bastimenti di caffè La fortuna economica di Vitória prende vigore a metà dell’Ottocento quando dalla sua baia muovono bastimenti carichi di caffè e di legno alla volta dell’Europa e degli Stati Uniti. Un’accumulazione capitalistica dai tratti ancora preindustriali, che consente tuttavia alla città di crescere impetuosamente e di espandersi con un piano che data al 1896 e si estende nella parte orientale dell’isola che affaccia sull’Atlantico. Una scacchiera regolare, a maglia quadrata, tipica di queste città di fondazione del Nuovo mondo. La città di oggi è un campionario di architetture le più diverse e talune giungono al più sconcio post-modern. La nuova sede della Camara Municipal e il più pretenzioso grattacielo sulla Avenue dos Navegantes sono stati costruiti dall’architetto Bebeto, a cui spararono qualche anno fa in una via cittadina. Ma non è una storia di corna come nei romanzi di Amado, piuttosto un intrigo di affari. Attraversando il più grande ponte della città si giunge al Convento de Pehna: è chiuso, ma è una fortezza più che un convento, in una posizione che stordisce perché squaderna un panorama incantevole. Oggi l’abitano pochi vecchi fraticelli. A oriente si scorge la costa atlantica, con le isole “do frade” e “do boi”; la prima è legata alla riva con il ponte de “paes barreto” elegantissimo nella sua forma di cemento armato a dorso d’asino, a conferma che il modernismo dell’architettura brasiliana ha una bella tradizione. La baia s’insinua come un fiordo costellato da piccole isole; di fronte — sull’altra sponda — si leva imponente il parco con la colossale “Pedra dos Olohos”, ma il cui nome originario è Frei Leopardi: a memoria di un frate che abitò il sito e che forse, penso io, era fuggito da Recanati per sottrarsi a un conte Monaldo… Sotto questa preziosa riserva naturalistica di scorcio si vede il minuto tessuto della città coloniale: esso scompare quasi dinanzi all’estensione della città nuova, ma è l’antica città coloniale che rimane ancora oggi il cuore della città. Essa, nella DOMENICA 21 MAGGIO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 ‘‘ Jorge Amado Fra l’azzurro intenso del cielo e il verde del mare, la nave ostenta i colori nazionali. Aria immobile. Caldo. In coperta, fra francesi, inglesi, argentini e yankee si affolla il Brasile Da IL PAESE DEL CARNEVALE Repubblica Nazionale 39 21/05/2006 sua complessa contraddittorietà, vive un difficile equilibrio tra la morsa di cemento e un futuro in cui questo arcipelago possa esser preservato nei suoi tratti spettacolari. Il potenziamento del porto è in atto, ma l’apertura di una ventura autostrada che colleghi il Pacifico all’Atlantico è il miraggio che insegue Vitória. La città oggi deve potenziare il porto, salvare la città antica, restaurarla e far sì che diventi una piccola Bahía. Ma l’impresa di gran lunga più importante è preservare i suoi tratti morfologici, la sua baia, i suoi pan di zucchero, le estese aree verdi: è un bel la- voro da intraprendere. L’amministrazione saggiamente insegue il modello Curitiba, considerata la città meglio amministrata del Brasile e tra le più attente alla preservazione dell’ambiente. Nell’isola “do frade” c’è un silenzio assoluto, si scorgono le luci della città, i benedettini qui eressero un cenobio che è in rovina. Un inteso profumo di cestrum pervade l’aria umida e mite. C’è più avanti sull’altura lo spettro di una casa: con le pareti esterne in piedi, con alcune travi di legno in bilico, ma senza tetto, senza solai, senza nulla. Sulle pareti l’ombra dei mobili che vi erano addossati. Una bianca unghia di luna alta nel cielo la illumina, quasi dondola sul blu denso della volta stellata: è inquadrata nell’orbita cieca di una finestra. Se Magritte fosse passato di qui non avrebbe inventato nulla. 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 MAGGIO 2006 A trent’anni dalla morte del Grande Timoniere i vecchi manifesti della propaganda offrono una chiave per rileggere mezzo secolo di utopie, fanatismi e violenze E i più rari vanno a ruba nelle aste di Hong Kong FEDERICO RAMPINI O PECHINO ggi si vendono a mezzo euro l’uno, ingialliti e ammucchiati alla rinfusa in pile polverose sulle bancarelle per turisti. I cinesi non li degnano di uno sguardo. Eppure i vecchi manifesti della propaganda maoista nascondono un tesoro. Offrono una chiave d’accesso alla storia della Cina in un periodo in cui gli stranieri erano esclusi dal paese più grande del mondo (salvo eccezioni come le delegazioni dei partiti “fratelli”, il regime non gradiva i visitatori occidentali), e sul quale gli stessi giovani cinesi oggi ricevono informazioni lacunose e reticenti. Quei manifesti sono interessanti perfino dal punto di vista artistico. Realizzati da pittori o studenti dell’accademia, mescolano curiosamente le antiche tradizioni figurative cinesi, i temi del folclore popolare, insieme con l’impronta del “realismo socialista” sovietico e infiltrazioni capitalistiche come l’influenza della pubblicità commerciale in voga nella ruggente Shanghai degli anni Venti (le soavi donnine delle marche di sigarette). Essendo strumenti di propaganda i poster naturalmente non rappresentano la Cina com’era davvero. Tuttavia sono un aspetto importante della Cina “come la vedevano” i suoi stessi abitanti. Perché erano onnipresenti nel paesaggio urbano e rurale: prodotti inizialmente a poche migliaia nei primi anni Cinquanta, arrivarono a tirature di milioni di esemplari nel 1968 e decoravano ogni ambiente, dalle case alle scuole, dalle fabbriche alle mense collettive, dagli uffici pubblici alle stazioni dei treni e degli autobus. In un paese contadino, sottosviluppato e analfabeta, erano spesso i mezzi privilegiati della comunicazione di massa. Durante la Rivoluzione culturale circolavano perfino nel formato di miniature che i bambini collezionavano, si scambiavano e incollavano sui quaderni, come le nostre figurine Panini. Sono un reperto essenziale per ricostruire vicende del recente passato che i cinesi non studiano a scuola, decenni di utopie e di grandi sogni, di violenze e di fanatismi che esercitarono un fascino anche in Europa e in America. I sentimenti che suscitano dopo tanto tempo sono contrastanti. Per quegli occidentali che vissero solo da lontano l’infatuazione ideologica maoista, i poster possono rappresentare frammenti di scenografia da “la meglio gioventù”. Per i cinesi sono più spesso una testimonianza grafica che rievoca periodi di povertà e insicurezza, arbitrio, persecuzioni e traumi familiari; talvolta ispirano anche una sorta di amara nostalgia e perfino di rimpianto: nelle campagne povere, non di rado i ritratti di Mao restano ancora oggi in bella vista a casa dei contadini. La produzione industriale di manifesti inizia con l’avvento dei comunisti al potere nel 1949. Il partito manda subito gruppi di pittori e di tipografi in Unione sovietica per studiare i metodi della propaganda staliniana; salvo poi fonderli con simboli e colori della mitologia cinese come gli animali del calendario zodiacale, i dragoni raffigurati da secoli negli striscioni del Capodanno lunare, le iconografie dei templi buddisti, i costumi elaborati e sgargianti dei personaggi dell’Opera di Pechino. L’uso di immagini familiari della cultura nazionalpopolare è indispensabile per far breccia in una Cina che nel 1949 ha già mezzo miliardo di abitanti ma dove solo un quarto dei bambini frequenta la scuola elementare e il tre per cento le medie. L’indottrinamento politico non è l’unica funzione dei manifesti; servono anche a lanciare campagne di mobilitazione nazionale di volta in volta contro l’analfabetismo o per l’allattamento naturale, per l’uso della medicina tradizionale, per promuovere alcune regole elementari di igiene (vedi il poster educativo con un bel soldato dell’Esercito di Liberazione Popolare che si lava in una tinozza sorridendo, mentre altri militari entusiasti strofinano le divise sporche in acqua e detersivo). Uno dei primi manifesti riprodotti in massa nel 1950 raffigura Mao in divisa sul balcone di Piazza Tienanmen nel giorno in cui è stata proclamata la Repubblica popolare, in compagnia di quattro bambini che gli offrono fiori, tutti ridenti e con gli sguardi rivolti verso un futuro radioso: un quadretto irreale, che trasmette un messaggio di serenità dopo decenni di occupazione straniera, poi anni di guerra civile. Il “periodo sovietico” nei manifesti dominati da titaniche figure di operai ner- La Cina di carta dalle Guardie rosse allo shopping Mao Ze i poster dellaDong rivoluzione Negli anni Cinquanta il realismo staliniano si fonde con simboli e colori della mitologia nazionale I REVISIONISTI Qui sopra, manifesto di fine anni Sessanta: un operaio schiaccia l’ex numero due cinese, Liu Shao Qi In alto a sinistra, poster del 1967: una guardia rossa, una donna soldato, un operaio e un contadino cancellano il quartier generale dei revisionisti Immagini tratte da “Les annèes Mao” di Jean-Yves Bajon, edito da Les Èditions du Pacifique DOMENICA 21 MAGGIO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 Un contadino venne lodato dalla stampa di regime per aver appeso in casa 32 ritratti del leader Repubblica Nazionale 41 21/05/2006 Poi, quando il vento girò, fu trattato da opportunista per averli usati come carta da parati gratuita I BAMBINI A destra, poster del 1951: Mao con quattro bambini In alto, tre manifesti del ‘68/69, all’apice del culto di Mao e, sotto, uno stampato nel 1960 in occasione della pubblicazione di un suo testo ideologico boruti, martelli e chiavi inglesi, ciminiere fumanti, è quello della prima collettivizzazione forzata, quando le purghe dei capitalisti (più i regolamenti di conti privati) fanno un milione di morti, e il paese si sottopone a uno sforzo di riarmo per partecipare alla guerra di Corea contro gli americani. A questa fase di unità mondiale della sinistra filosovietica appartengono i quadri dove Mao figura ancora a fianco di Stalin nel firmamento dei leader del proletariato, e sotto di loro sono ben riconoscibili gli dèi minori come il segretario del Pci Palmiro Togliatti, il leader vietnamita Ho Chi Minh, il maresciallo Tito. Nel 1956 lo shock della destalinizzazione lanciata da Kruscev, e aborrita da Mao, dà il via al divorzio tra Pechino e Mosca: da quel momento il culto della personalità ha un solo essere supremo, il Grande Timoniere, ritratto in dimensioni via via più gigantesche rispetto all’umanità normale che lo attornia devota e festosa. Con il terzo plenum del comitato centrale nel settembre 1957 si inaugura per l’arte popolare dei manifesti quella stagione che è stata soprannominata — con ironia feroce — “l’estetica del traliccio”. Mao lancia l’obiettivo allora velleitario di sorpassare la produzione industriale dell’Inghilterra. Parte così l’industrializzazione coercitiva delle campagne. Novanta milioni di contadini sono distolti dal lavoro dei campi per costruire altiforni siderurgici in ogni villaggio, fondendo perfino le pentole da cucina per produrre acciaio. Abbondano le immagini di contadini raggianti che sfilano davanti al leader supremo guidando camion, scavatrici, locomotive, fra prati invasi da cantieri, fabbriche e centrali elettriche. Fasci di spighe dorate fanno da sfondo a navi e aeroplani, mentre nei cieli appaiono spesso il dragone e la fenice, allegorie del principio maoista secondo cui l’economia cammina su due gambe, l’agricoltura e l’industria. La realtà è tragicamente diversa. Il metallo prodotto in campagna è così scadente da essere inutilizzabile. Il raccolto di grano “dichiarato” a mezzo miliardo di tonnellate crolla nel 1959 a 170 milioni. La mortalità infantile raddoppia in tre anni, la carestia fa decine di milioni di vittime. L’unico sprazzo di verità nei poster dell’epoca viene rivelato da un indizio materiale: la scadente e fragile carta riciclata su cui sono stampati tradisce la penuria economica. Il 18 agosto 1966 ha inizio ufficialmente la Rivoluzione culturale: è il giorno della prima sfilata oceanica sulla Piazza Tienanmen di un milione di giovani Guardie rosse, aizzate da Mao a rivoltarsi contro la burocrazia del partito con lo slogan «bombardate i quartieri generali». I manifesti assumono toni crudi e virulenti, restituiscono con dettagli realistici il clima anarchico e insurrezionale. Una celebre immagine riunisce quattro giovani — una ragazza in tenuta da Guardia rossa, un contadino, un operaio, un soldato dell’esercito — con lo sguardo carico di disprezzo; l’operaio con un colpo di pennello cancella una fortezza in rovina: è la fazione moderata della classe dirigente che Mao ha deciso di liquidare accusandola di quattro deviazioni conservatrici (vecchie idee, vecchia cultura, vecchie pratiche, vecchie abitudini). Un’altra illustrazione densa di notizie ha sullo sfondo un corteo di manifestanti che impugnano il Libretto Rosso con le citazioni del presidente; in primo piano una Guardia rossa sta sferrando una martellata sulla testa ben riconoscibile di Deng Xiaoping — il capo dei moderati — disegnata su un corpo di gatto, allusione alla sua celebre definizione del pragmatismo («non importa se il gatto è nero o grigio, purché acchiappi i topi»). Nella realtà Deng riesce a salvarsi scomparendo dalla circolazione per lunghi periodi ma suo figlio è meno fortunato: gettato da una finestra dai suoi compagni universitari, resta paralizzato a vita. I manifesti della Rivoluzione culturale hanno una tale potenza evocativa che si sono conquistati un posto particolare nella letteratura post-maoista. Jung Chang, l’autrice di Cigni selvatici, ricorda il senso di caos e smarrimento di quegli anni: dopo aver letto sul Quotidiano del Popolo l’elogio di un contadino che ha incollato ben 32 diversi ritratti di Mao nella sua minuscola casa, si affretta anche lei a riempirsi la stanza di immagini del leader; poi li toglie in preda al panico quando gira il vento e il contadino viene accusato di essere un opportunista che ha usato le effigi di Mao come carta da parati gratuita. Anche Min nel romanzo autobiografico Azalea rossa cerca di reprimere un’attrazione lesbica verso la sua compagna di lavoro fissando le pose austere e algide delle eroine dell’Opera rivoluzionaria nei cartelloni degli spettacoli. A volte il puritanesimo sessuofobico ottiene risultati imprevisti. Chen Xiaomei ricorda le pulsioni suscitate dal ritratto della più celebre attrice-ballerina dell’epoca, Wu Qinghua. Nella pubblicità del balletto propagandistico Il Battaglione Rosso delle Donne, Wu è dipinta mentre è prigioniera del proprietario terriero che l’ha legata per torturarla. La star comunista deve trasmettere al pubblico l’ammirazione per la sua indomita resistenza. «Ma quella immagine della donna incatenata, con le braccia alzate, i lunghi capelli al vento, il vestito lacerato dalle frustate — scrive Chen — eccita fantasie sessuali e diventa per una generazione di giovani cinesi l’equivalente delle foto di Marilyn Monroe». Dopo la fine della Rivoluzione culturale nel 1976, la vittoria di Deng e l’avvio delle riforme di mercato, l’arte popolare dei manifesti si avvia rapidamente verso il declino. Prima di scomparire fa in tempo però a registrare nelle sue immagini i sintomi della grande svolta capitalista. Nel 1978 appaiono per le strade cartelloni che scimmiottano la retorica dell’ottimismo propagandistico del passato, ma con scopi ben diversi. Una donna beata sorride in mezzo a una batteria di pentole da cucina nuove fiammanti; il manifesto manipola con ironia involontaria uno slogan maoista: «Fornire prodotti di alta qualità è servire il popolo». Un altro poster del ’78 magnifica le qualità progressiste di un nuovo bene di consumo, la televisione: due donne contemplano con gioia degli schermi tv, il testo dice «le buone notizie viaggiano per diecimila miglia e rincuorano diecimila famiglie». Sono i saluti di commiato del manifesto cinese, un genere destinato ad essere spazzato via dalla moderna pubblicità commerciale che invade le vie di Pechino e Shanghai. Non di rado i pubblicitari di oggi, come pittori e scultori della pop-art, si divertono a manipolare vecchie immagini comuniste per il gusto di giocare con il “retrò” e irriderlo. Il mercato che tritura e digerisce tutto ha l’ultima parola. Negli anni Novanta i capitalisti di Hong Kong lanciano la moda del “kitsch comunista” a scopi speculativi. Il modello originale del manifesto Il presidente Mao va ad Anyuan del 1967 (il leader comunista è dipinto da giovane, magro, alto e slanciato, con aria meditabonda e abito lungo, su uno sfondo di montagne sacre evocativo dell’estetica buddista) viene messo all’asta nel 1995 e raggiunge la cifra record di 700mila dollari. Ha il sapore di una beffa anche la creazione recente della più grande collezione mondiale di manifesti dell’èra maoista, ben cinquecento pezzi originali catalogati e commentati da esperti, più migliaia di riproduzioni e miniature. La sua sede non è Pechino ma la University of Westminster, a Londra. 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la lettura Anticipazioni DOMENICA 21 MAGGIO 2006 Arriva in libreria “Liberi di amare”, un libro Rizzoli scritto da Laura Laurenzi che getta una nuova luce sul tema che fino a pochi anni fa era considerato tabù: le grandi passioni omosessuali del Novecento LAURA LAURENZI a chi è Patty Diphusa? «Prima di tutto vorrei sapere se sono uomo, donna o travestito» chiede a Pedro la bellissima vamp. Patty è un personaggio di carta, una pornostar dei fumetti partorita dalla fantasia di Almodóvar prima della catastrofe Aids, una “Venere dei gabinetti” di cui Pedro è il biografo ma anche — lo ammette — l’alter ego: «In fondo è il mio autoritratto più onesto e sincero». Patty però è bella, è bionda e dice sempre sì. Patty è spesso strafatta di coca. Patty è tenera e grottesca ed è ottimista come Pollyanna, fornita di un corpo che esibisce di frequente e di un cervello che mostra solo di tanto in tanto, come impongono le norme del pudore e del buon gusto. Patty — raccontata a puntate nei primi anni Ottanta sulla rivista La Luna — è segno zodiacale Bilancia, come l’autore, come Brigitte Bardot e come Oscar Wilde. Patty, ha un bisogno inesausto di sesso ma anche di amore ed è una sorta di Virgilio che ci guida nel dedalo alternativo della movida, nella grande festa mobile, attraverso un frastornante catalogo di tipi umani, vizi e virtù. È soltanto un’invenzione dei giornali la movida, uno slogan, una sigla, una comoda etichetta da rotocalco, secondo Almodóvar. Quando arrivò la stampa era già tutto svanito, un po’ come la Dolce vita di Fellini. Epopea notturna di stili, trasgressioni, tendenze, esplosioni di vitalismo dopo il lugubre sonno quarantennale della dittatura, eccitazione per la ritrovata libertà politica: la movida somiglia più a una lampeggiante produzione di Almodóvar che non a un fenomeno reale. Lui la riassume così: «Le feste venivano pubblicate sulle riviste, le idee diventavano dischi, i travestimenti moda e i pettegolezzi colonne stampate. Con la stessa spontaneità con cui apparve, scomparve». Sembra una sceneggiatura della movida Fuoco nelle viscere, il romanzo breve che Almodóvar scrive nel 1981, divertita e caustica allegoria a tempo di flamenco-punk su un’epidemia di lussuria che devasta Madrid. L’ex capitale della dittatura si trasforma velocemente in zona franca della libidine e della sessualità coatta. C’è dentro tutto nella città che «vive lo splendore del caos più infernale»; l’eco della guerra fredda e gli orfanotrofi, le femministe del Fronte Donne Autonome padrone di un avviato pornoshop e gli avidi ministri rampanti, gli interni famigliari cupi e repressivi e la comunità hippy. E molto sesso rubato: negli ascensori, nei parchi, nelle fabbriche, nelle corsie d’ospedale. Le varie protagoniste cadono preda di un’isteria collettiva che scatena una torbida caccia al maschio, e lascia gli uomini infetti, menomati, talvolta morti. Una summa del Pedro-pensiero, un puzzle con tutti i tasselli da sistemare al posto giusto (o sbagliato): le identità messe in gioco, i ruoli scambiati, la crisi e la femminilizzazione del maschio, l’eros grottesco e irrazionale, le nevrosi, gli impulsi trasgressivi, l’amore saffico dilagante, il narcisismo che deborda. Su questo magma incandescente prevalgono due ossessioni: il sesso e le donne. E se Mara, Katy, Eulalia, Isidra, Flor, Lupe, Lola, Consuelo, Eugenia rappresentano l’avanguardia di questo bizzarro gineceo, decine di altre figure femminili scalpitano già in lista d’attesa nella penna e nella cinepresa di Almodóvar, impazienti di venire alla luce. Sono sull’orlo di una crisi di nervi ma si mantengono perfettamente in equilibrio. Impudiche, estreme, volubili, passionali, confuse, tutto ruota attorno a loro: gli uomini non sono che comparse sbiadite e sognano soltanto di diventare donne, e spesso soccombono. L’universo femminile è più barocco, più complesso e insieme più fresco, meno soggetto a pregiudizi. «Preferisco l’amicizia e la complicità femminili a quelle maschili», spiega il regista. «Mi incuriosisce quella specie di segreto e di misteriosa indipendenza che vive nel cuore delle donne, anche le Repubblica Nazionale 42 21/05/2006 M L’amore necessario di Almodóvar e Patty Diphusa più umiliate ed oppresse». Gli appaiono più ricche, più spontanee, più generose, più disponibili al rischio e all’abbandono. «Sono cresciuto in mezzo a loro, è loro che ho amato e ammirato, mentre il mio universo maschile era conservatore, arretrato, maschilista, troppo inflessibile. Un giorno le donne domineranno il mondo». È il trionfo del matriarcato, che si sublima in una figura fondamentale: quella della madre Francisca, detta Paquita. «Il rapporto con una madre non ha bisogno di parole, è racchiuso in un gesto», teorizza Almodóvar. È lei, sottolinea il regista, che gli ha insegnato a «colorare la realtà» proprio perché a tre anni l’avevano già obbligata a portare il lutto. È lei che gli ha insegnato ad annaffiare i fiori anche se sono di plastica, a credere nelle storie dei fotoromanzi come se fossero vere, a dialogare con i ramarri e con le lucertole, ad ascoltare «l’unica musica del cuore che esista, e cioè il tango e il bolero». È lei che gli ha fatto amare i sacchetti di plastica, «invenzioni geniali», le insegne al neon dei supermercati, la pubblicità dei detersivi in televisione. Quanto a suo padre, muore troppo presto, nel 1980, pochi giorni dopo l’uscita del suo primo film, Pepi, Luci Bom e le altre ragazze del mucchio in cui Pedro ritaglia per sé una piccola parte, un ruolo cammeo: il giudice di gara nel concorso «Grandi Erezioni». Scandalizzare resta per lui un imperativo categorico. «Lo scandalo è negli occhi di chi guarda, come si legge nella Bibbia. Non c’è niente di straordinario se mi metto una vestaglietta o una sottoveste», ride, «e mi stupisce l’ingenuità della gente che si può scandalizzare per così poco». Lui in realtà mira molto più in alto: «Non ho mai pensato allo scandalo fine a se stesso», sostiene. «Scandalizzare con le immagini sarebbe fin troppo facile. Io vorrei farlo con il mondo delle idee». Il fatto che la stampa trash nel 1994 annunci il suo matrimonio con il travestito più famoso di Spagna, la voluttuosa Bibi Anderson, per esempio è uno scandalo? No: è semplicemente una falsa notizia, una mon- tatura promozionale. Ma Almodóvar non ne ha alcun bisogno: è ormai conosciuto in tutto il mondo, e non più come «il Fassbinder mediterraneo» o «il nipotino di Buñuel» né come «l’Andy Warhol della movida», bensì come un grande regista che si prepara a vincere l’Oscar, quella «pesante statuina dorata e asessuata che il mondo intero desidererebbe cullare». È uno dei talenti più corrosivi nel panorama europeo: lo imitano, lo osannano, lo idolatrano, sembrano ormai venerarlo. Anche re Juan Carlos, anche il primo ministro Aznar, conservatore, si congratulano calorosamente con lui onorandolo come un eroe nazionale quando nel 2000 gli viene tributato l’Oscar per Tutto su mia madre, il film dell’artista adulto e maturo che qualcuno ribattezza Tutto su Almodóvar. Dalla commedia ha virato al melodramma e dal melodramma all’almodrama, la nuova parola coniata espressa- DALLE PISTOLETTATE ALLE NOZZE 1873, Paul Verlaine spara tre colpi di pistola ad Arthur Rimbaud, il suo “grande e radioso peccato”. 2005, Elton John e David Furnish celebrano il loro matrimonio nella Guildhall di Windsor. Tra questi due fatti un secolo scandito da infinite storie d’amore tra persone dello stesso sesso. Nel suo libro “Liberi di amare” (Rizzoli, 252 pagine, 16,50 euro, in libreria mercoledì prossimo) Laura Laurenzi ci guida alla scoperta delle più emblematiche: tra le altre, Marguerite Yourcenar e Grace Frick, Federico Garcìa Lorca e Salvador Dalì, Greta Garbo e Cecil Beaton, Eleanor Roosevelt e Lorena Hickok, Pier Paolo Pasolini e Ninetto Davoli, Rudolf Nureyev e Erik Bruhn, Gianni Versace e Antonio D’Amico mente per le sue opere, che travalicano e superano ormai i confini del suo collaudato «umorismo genitale», secondo la formula da lui stesso inventata. Già, le formule: quella che più lo irrita e in cui meno si riconosce è quella di regista di gay movies, un’etichetta che considera limitativa e sessista. L’amore è un rito oscuro, un gioco di incontri e abbandoni, e così il desiderio e la passione: non cambia niente se ad amarsi, a baciarsi, stringersi, soffrire, esultare, sono due uomini oppure una coppia eterosessuale. È soltanto un dettaglio, sostiene il regista, un dettaglio del tutto inessenziale: quello che conta è l’intensità del sentimento. Lui stesso, in un’autointervista del 1984, si era definito «un povero ragazzo bisognoso d’amore». Delle sue storie personali parla il minimo indispensabile: preferisce nascondersi dietro i personaggi dei suoi film, senza che nessuno però sia mai perfettamente autobiografico. In amore è sempre lui che chiude e dice basta: per una sorta di deformazione professionale, spiega. Scrivendo copioni, capisce in modo molto lucido quello che sta succedendo, e soprattutto quello che succederà. Uno scrittore di sceneggiature, sostiene, possiede in una certa misura le qualità di un futurologo: «In amore ci si raccontano un sacco di bugie, ma è facile scoprirle, ed ecco che allora io mi limito ad anticipare un po’ la parole fine, semplicemente perché la vedo». Non si considera rigorosamente gay: «Io mi definisco pansessuale, mi piace qualunque tipo di sesso, compresi quelli che devono ancora essere inventati». Sull’omosessualità è telegrafico: «La gelosia è la stessa, le debolezze sono le stesse, il dolore è lo stesso e la passione che si prova è la stessa». Ammette che i gay «capiscono alcune cose delle emozioni usualmente designate come femminili. Per questo motivo, secondo lo stereotipo, i gay sareb- DOMENICA 21 MAGGIO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 Sono pagine intense dove scorrono le storie “scandalose” di donne e uomini straordinari: Lorca-Dalì, Rimbaud-Verlaine, Garbo-Beaton... Pubblichiamo l’ultimo capitolo, dedicato a una coppia molto speciale e trasgressiva Legami omosex, ma non solo La Sodoma feconda di Gide e Cocteau DARIA GALATERIA ei era parente di due assassini di Rasputin, e due volte nipote di zar. Bambina, giocava al Bois de Boulogne scortata dagli ufficiali della Guardia Bianca. La principessa Natalie Paley era pallida fin nel biondo dei capelli, e la più bella di Parigi; algida, «la banchisa si richiudeva sempre» sul suo volto versatile. Semplice però di modi, entrando nel minuscolo appartamento di Cocteau si era subito seduta sul tappeto, e si era fatta iniziare all’oppio. Lui infatti non si era ancora ripreso dalla morte del genio in erba Radiguet, e da allora cercava di dimenticarsi. Aveva perfino tentato con la conversione, che aveva messo alla moda («ma l’ostia non è mica un’aspirina!», aveva obiettato al poeta Max Jacob, che insisteva per quel toccasana); ora, nel 1932, a 43 anni, provò a innamorarsi di una donna. Natalie Paley, che seduceva solo omosessuali, si trasferì da lui, tra le più chiassose proteste di Jean Desbordes, il marinaio sostituto in titolo di Radiguet, e — paradossalmente — con l’ostilità della madre di Cocteau, frastornata da quella relazione del figlio, per una volta, con una donna, e di buona famiglia. Il marito di lei, il sarto Lucien Lelong — che la aveva restituita al lusso quando, rovinata dalla Rivoluzione del 1919, faceva la mannequin — protestò solo quando Cocteau chiese a Natalie un figlio: «Nulla mi impedisce di avere una famiglia», ragionava lo scrittore nell’osceno e splendido Livre blanc: «Del resto, senza sforzo, niente di bello esiste». Parigi allibì; Cocteau infatti raccontò subito dello tzarevitch (che fosse un maschio, per carità): «Chi ama, scrive sui muri»; mentre lei protestava: «Non sai come proteggere una donna; e come sono fragili gli amori tra due esseri di sesso diverso». Natalie mentiva senza badarci, e le amiche cominciarono a pensare che lei non fosse incinta affatto. Di fatto, lei andò a Saint-Moritz a guarire un’anemia — ad abortire, sospettarono in molti; Cocteau partì per il sud con Desbordes, e non perdonò mai alla donna di non avergli dato una replica imperiale di se stesso. Anche Gide voleva un maschio. Di una femmina, non sapeva che farsene, né come educarla. Che fare? Architettò dapprima un’unione feconda tra il suo grande amore Marc Allegret (il futuro regista) e Elisabeth van Rysselberghe. Marc era suo nipote; Elisabeth la conosceva da bambina: era la figlia di una donna piccola e decisa, la Petite dame, che a Gide aveva votato un culto definitivo, e viveva sul suo stesso ballatoio col marito, il pittore Théo, annotando ogni parola del suo vate. Elisabeth aveva nove anni, e un bambolotto in mano tenuto come uno scudo, quando Gide, di ritorno dall’Africa dove andava con regolarità per diventare meno intelligente, le aveva detto: «Sai che anch’io giocavo con le bambole»; lei aveva replicato: «Che peccato che tu non sia un bambino!». Tra Elisabeth e Marc era di fatto scoppiata una breve passione. Ma una sera, in treno — era il 1919, nel pieno della guerra, e lui rientrava da un funerale — Gide ebbe un impulso di vita, e scrisse a Elisabeth una specie di avance in prima persona: «Non amerò mai d’amore che una sola donna» (parlava di sua moglie Madeleine, cui lo univa un matrimonio bianco), «e non posso avere veri desideri che per giovani ragazzi. Ma mi rassegno male a vederti senza figli, e a non averne io». Il tempo è galantuomo, e nel luglio del ‘22, nel silenzio di un mattino in riva al mare, l’idea trovò compimento. Gide pensò di parlarne a Théo, con considerazioni civiche, del genere: il ripopolamento dopo la guerra; ma non ne fece nulla. Oppure progettava pubblicità per l’avventura, perché avesse una portata più generale; ma si preoccupava per la moglie: «Con i tuoi gusti, nessuno penserà a te», lo rassicurò un amico. Conversava con la Petite dame e le amiche, che erano scanzonate; ritenevano che il matrimonio convenisse all’uomo, la donna poteva benissimo farne a meno; Gide era d’accordo. Pensava anche, vagamente, che una donna potesse nutrire desiderio e amore contemporaneamente, ma non ne era sicuro. Elisabeth comunicò al padre la sua decisione di avere un figlio fuori del matrimonio, Théo reagì con «biasimo e tristezza»; lei decise di rendersi indipendente, e andare a dirigere una fattoria nel sud della Francia. Gide intanto la andava a trovare ogni mattina per farle delle piccole letture, e si incantava quando lei rigettava, che era una conferma del suo stato. Con la Petite dame, Gide aveva asserito: «Il regno dell’uomo è finito». Ma quando nacque Catherine, fu inconsolabile. Quante specie d’amore sotto il cielo, è il sottinteso del saggio di Laura Laurenzi, che con rara eleganza ed emozione ne racconta alcuni esempi non convenzionali. Gli amori omosessuali, d’accordo; però sono sterili, lamentava Proust: ma chi ha detto che sono contro natura? In Sodoma e Gomorra, Proust si diverte appunto a raccontarli usando le scienze naturali, le api e i fiori, come si racconta il sesso ai bambini. Cita il Darwin botanico, e i suoi insetti che, storditi dal nettare, si impolverano di polline, e lo trasportano di fiore in fiore. Ma accanto alle unioni «incrociate o legittime», Darwin evoca l’autofecondazione di piante che presentano fiori maschili e femminili sullo stesso ceppo: praticano «unioni illegittime» che rendono difficile la riproduzione. A primavera, attenti alle primule, avverte Proust: hanno costumi così bizzarri, e ménages così sregolati, che potrebbero far venire idee pericolose. L Repubblica Nazionale 43 21/05/2006 bero come le donne. Ma tutto ciò è spazzatura. Noi continuiamo ad avere un comportamento definito maschile ma contemporaneamente ci manteniamo in contatto con un lato diverso delle emozioni umane». Una ricchezza in più dunque, come quella che consente gli slittamenti di genere, gli scambi di iden- LE ICONE Sopra, una foto di Pierre e Gilles tratta dal volume “Sailors & Sea”, edito da Taschen Nell’altra pagina, Pedro Almodóvar tità: «La sessualità in fondo è un gioco molto primitivo, quasi infantile. Un modo per farsi beffe della natura, per giocare a essere Dio con il proprio corpo». E aspirare magari ad avere un figlio. Pedro Almodóvar racconta di averci pensato molto spesso e di invidiare chi ha dei bambini. Voy a ser mamá. È il corpo che glielo chiede. «Ho pensato tante volte di cercare la ragazza giusta e avere con lei un figlio biologico. Il punto è che io desidero avere un figlio, ma non una famiglia, strumento primario di repressione. Nessuno può ricattarti così bene, così brutalmente, così crudelmente e dolorosamente come la famiglia. La fa- miglia controlla le tue viscere». Fin da ragazzo ha dato adito «a ire furibonde e ad amori appassionati», si gloria. Victoria Abril, una delle sue attrici-feticcio, lo ha definito «un pasto completo, esageratamente nutriente, difficile da digerire». Le sue prime esperienze sessuali risalgono a quando aveva tredici o quattordici anni: «Ma con persone bisex, per cui non credo che allora fossi consapevole della mia diversità, che ho accettato solo verso i diciotto anni». Ha mai desiderato essere una donna, ha mai pensato di poterlo diventare? Mai, e ne è lieto: tutti i transessuali che ha conosciuto hanno consacrato la loro vita a questo cambiamento, una strada durissima da percorrere. È vulcanico, veemente, generoso. Un po’ più malinconico da quando ha avuto tanto successo: «Non mi sento felice, anche se senza dubbio mi ritengo un uomo fortunato». In tre anni ha cambiato tre case. Pur detestando la campagna, che gli dà claustrofobia, dopo gli Oscar ha comprato una villa a mezz’ora da Madrid con piscina, campo da tennis, biliardo: anche se la natura lo sconcerta e lo annoia, da ex povero è contento di avere un bel giardino, però — si lamenta — non comunica con i fiori. Non gli piace la sua faccia e si proclama sempre più sordo. Odia la nostalgia e sogna «un mondo senza pregiudizi, né morali né sociali». Se qualcuno gli dice che è un genio ribatte: «E se fosse tutta una montatura?». Combatte con le diete e con le vertigini. Ha qualche civetteria: per esempio si toglie un paio d’anni, dice di essere nato nel 1951, «con il mambo e il rumore della guerra appena finita nelle orecchie», ma nelle prime biografie l’anno di nascita risulta il 1949. Fa sua la frase di Madame De Staël: «Capire tutto significa perdonare tutto». La cosa che lo spaventa di più è l’indifferenza. Quanto alla sua intermittente solitudine, ormai c’è abituato e si sforza di trasformarla in un elemento fertile della sua esistenza. Con umiltà e trepidazione torna a ripetere che l’amore — di qualunque natura, tipo, forma, variante, genere esso sia — è l’unica cosa per la quale vale la pena vivere: «Credo che sia un’emozione necessaria, l’origine della porzione di felicità che un essere umano può conquistare e insieme l’origine di un enorme dolore. Nell’amore è iscritta la sua stessa fine». L’amore non ti fa volare, anzi: ti tiene ben radicato a terra, sostiene. Ti impone una disciplina piena di umiltà, ti fa conoscere la fragilità e l’insignificanza del tuo essere umano. Ma è anche un sentimento che si impadronisce di te e diventa superiore a ogni tua capacità. Senza l’amore la vita non è vita: è anche il titolo di un capitolo di Patty Diphusa e altre storie, là dove si racconta che «Cristo ci consigliò di amarci gli uni con gli altri. E Dio Padre ci programmò, senza consultare nessuno, con una necessità di amore assoluto. Ma si scordò la reciprocità. E noi madrileni siamo qui, nella maggior parte dei casi, amando chi non ci ricambia e amati dalla persona sbagliata». Indipendentemente dal sesso. 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 MAGGIO 2006 Sono nate quarant’anni fa ma mai come oggi godono di buona salute, si moltiplicano e attirano pubblico e aspiranti artisti. Sono le mille carovane di quel fenomeno battezzato “le nouveau cirque”, nate per “violare l’inviolabile e dire l’indicibile” CONCITA DE GREGORIO ignore e signori, benvenuti allo spettacolo di quegli uomini e quelle donne che avevano paura al principio e poi non l’hanno avuta più. Cioè al vostro spettacolo, lo spettacolo delle vostre vite se avrete la grazia di concederci anche solo per stasera, per gioco e per finta non abbiate timore, che la paura è in ciascuno il motore di ogni cosa perché ogni giorno, ogni mattina vi alzate e pensate di essere cortesi ma in realtà avete paura di alzare la voce, credete di essere giusti ma non osate delinquere, vi beate della vostra morigerata sobrietà ma avete terrore del desiderio, il vostro incontenibile desiderio di quell’uomo, di quella donna e chissà perché proprio quella, di quell’odore o di un altro bicchiere di vino ma non potete averlo perché non sapreste che fare dello squilibrio, dopo, dell’eccesso, della passione, del movimento e insomma della vita. Ecco perché state fermi lì su quella sedia, in quell’angolo dentro quel recinto per animali impagliati. Alzatevi pure, però, stasera: siate «deboli». Concedetevelo. Arrendetevi, spogliatevi, tremate di paura: accomodatevi tra noi. Venite tra gli zingari del vento. Gli zingari che ballano e suonano — gli zingari in festa di Saintes Maries de la mer — sono sempre piaciuti alla gente perbene, è così bello per due ore affacciarsi a frequentare gentaglia e assaporare così l’ebbrezza breve del contagio. Gli odori, gli incensi. Tutto questo troppo. Prendetene un po’, solo per oggi. Siete al circo. Non è un circo qualsiasi, questo. Non è il circo triste degli animali con gli occhi ingrigiti e le unghie tagliate, dei domatori di leoni stanchi e dei pagliacci nani con la biacca di un sorriso posticcio. No, no. Non è quella cosa lì, niente tendoni né gabbie di fiere stordite: è il circo del pericolo vero. Il circo dei sentimenti che divampano e divorano. In definitiva, vedete, il circo della paura. C’è gente che ha passato anni a catalogare le paure, il modo di dargli forma. C’è qualcuno che ha censito tutti gli spettacoli più rischiosi che esistono, quelli che la gente ci va per sentirsi chiudere lo stomaco e perdere l’equilibrio da seduti. C’è un catalogo, persino. L’arte del rischio, s’intitola. Parla — da non credere — di circhi. Dice citando Cocteau, Dario Fo e Kafka che il circo — il «nuovo circo», quello dell’anima — è la poetica del rischio e dell’azzardo. Si parte sempre dalla paura. Ci sono due modi per vincerla, spiega: uno è convincersi di amare il pericolo, molti ragazzi lo fanno. Corrono a fari spenti con le moto, schivano ostacoli messi lì apposta, provano sostanze, infrangono divieti tra gli applausi del pubblico ridente di terrore. L’altro modo è distrarsi, non pensarci. Lasciarsi incantare da qualcos’altro. Scrive Paul Auster nella prefazione al Trattato sul funambolismo di Petit che «il buon funambolo si sforza di fare in modo che lo spettatore non percepisca il pericolo, lo distrae dal pensiero della morte. Lo fa così, semplicemente: con la bellezza del suo gesto sul filo». Ecco, è la bellezza che più di tutto distrae dalla paura: puoi persino diventare acrobata se riesci a farti guidare dall’eleganza del gesto, dalla forza del desiderio. Puoi persino dimenticare il rischio. Puoi provare, una volta. Ci sono quelli che nella vita non hanno provato mai. Ci perdono. Nato insieme alla rivolta sociale, cresciuto degli anni Settanta come festa di liberazione dalle dittature anche politiche, come schiaffo alla convenzione e all’equilibrio della moderazione il «nuovo circo» (le «nouveau cirque» si dice pensando ancora al maggio francese) ha quarant’anni: l’età peggiore, la più critica per le passioni. E però lui vive e cresce non solo nella memoria, decine e decine di nuove compagnie si formano, centinaia di ragazzi abbandonano le loro case e continuano oggi come ieri a partire con le carovane: Anna, Letizia, Emilio. Sono tanti i ragazzi italiani — i nomi in fondo ai depliant — che sono partiti per il mondo così. Hanno visto lo spettacolo che passava da lì, un giorno, dal paese. Si sono fermati la sera a parlare accanto alla carovana, hanno detto a casa torno subito, l’hanno seguita e non son tornati più se non per Natale, a volte, anni dopo ormai da adulti. Un po’ come nella favola di Pinocchio e negli incubi dei genitori che «gli zingari vengono e ti portano via», quella gente cattiva, quella gente senza legge, stai vicino non ti allontanare stai qui. In Catalogna poche settimane fa si è celebrato con una mostra nel più bel museo di arte contemporanea di Barcellona l’ingresso nella maturità del nuovo circo, i suoi quarant’anni. «L’arte del rischio», appunto. Il contrordine della cultura quando si prende troppo sul serio. Lo spettacolo che non aspetta il pubblico ma se lo va a prendere per strada. Tutte le avanguardie del ventesimo secolo lo hanno tenuto a riferimento. L’acrobata di Picasso parla di questo. I vecchi ingredienti del circo per una ricerca nuova. Niente più animali, Repubblica Nazionale 44 21/05/2006 S Il nuovo Circo Tremate di desiderio e paura ecco gli zingari Una tecnica vecchia per un racconto mai sentito. Si parte da Beck, Mnouchkine, Fo, i padri fondatori, per arrivare al Circ Cric, al Cirque du Soleil, a Zingaro in vendita da oggi anche su DOMENICA 21 MAGGIO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 IL CAVALIERE DEL VENTO Bartabas è il creatore di Zingaro, il teatro equestre più grande e famoso del mondo. In “Bartabas il cavaliere del vento-La vera storia dell’uomo che parlava ai cavalli” di Jerôme Garcin (Sperling & Kupfer, 224 pagine, 17 euro, in libreria il 30 maggio) si racconta l’universo affascinante di Clément Marty, l’uomo che ha realizzato i suoi sogni trasformandosi via via in Bartabas GLI SHOW CIRC CRIC Il circo itinerante catalano comincia a portare in giro i suoi spettacoli nel 1981. Tra i suoi fan c’è anche Joan Miró. È il primo a importare in Europa il nuovo genere CIRQUE DU SOLEIL Repubblica Nazionale 45 21/05/2006 La grande fabbrica di sogni e illusioni nasce nel 1984 da un’idea del canadese Guy Laliberté: negli spettacoli fonde invenzioni avveniristiche e antiche tradizioni circensi CIRQUE ELOIZE Fondato da un gruppo di giovani canadesi nel 1993, ha girato per oltre 200 città in tutto il mondo. Le sue incantevoli esibizioni sono state più di 1.400 LA MAGIA Nella foto grande, un momento dello spettacolo “Dralion” del Cirque du Soleil Nelle altre immagini, gli show delle principali compagnie del “nuovo circo” I CAVALLI DI BARTABAS Dal 1984 la compagnia Zingaro di Clement Marty (Bartabas) porta in giro per il mondo gli spettacoli a cavallo che hanno rilanciato e reinventato il circo equestre niente «signori sempre più difficile» né il gusto del rischio per il rischio. Non una semplice concatenazione di «numeri da circo» ma un canovaccio, invece, una drammaturgia e un tema: la violazione dell’inviolabile, di solito. L’indicibile. L’irraggiungibile. Il desiderio e il suo contrario: la paura. Hanno usato una tecnica vecchia per cercare una forma di racconto nuova. D’altra parte è quello che hanno fatto nel tempo Joyce e Kafka, Kandinskij e Peter Brook, Pina Bausch e John Cage ciascuno per la sua parte. Sono anni, quelli, in cui cambia molto anche il teatro: il Living Theatre, le Theatre du Soleil di Ariane Mnouchkine, il Mistero buffo di Dario Fo. Un’altra storia nei luoghi della vecchia. Quando parte in Europa il primo circo itinerante, il catalano Circ Cric (siamo all’inizio degli Ottanta) c’è già da due anni in Australia il Circus Oz, nasce in Inghilterra il Circus Hazard, poi verrà in Québec le Cirque du Soleil (’84) e quasi dieci anni dopo il meraviglioso notturno e balcanico Cirque Eloize: un circo dove t’incanti a vedere una ragazza che dondola in altalena da un capo all’altro della scena e dice «mi vedete, riuscite ancora a vedermi?». Fra gli ultimi si muove l’Italia, Arcipelago circo teatro porta in tournée lo spettacolo presentato l’anno prima alla Biennale di Venezia, Ombra di luna, e siamo già nel 2002. È lo stesso anno delle Metamorfosi di Ovidio dirette da Giorgio Barberio Corsetti. Altrove nel mondo e in Europa è già da anni leggendaria l’onirica poesia equestre del teatro di Bartabas, il suo cavallo più nero si chiama Zingaro con l’accento sulla o e così la sua compagnia. Si conoscono la delicatezza del Cirque plume, lo psicologismo del Que-cirque, l’erotismo del Circo Diva. Nella Spagna che esce dalla dittatura e ora anche dalla transizione il teatro guarda al circo e ci si specchia: Els comedians, Els joglars, la Fura del baus, tutti catalani. Il circo guarda alla vita, finalmente di nuovo capace di evadere dai recinti assegnati ed è un’esplosione collettiva. Dal Circ Cric come fosse un mulinello creativo nascono decine di piccoli gruppi, Circ semola, Circ perillos: in quest’ultimo Adelaida e Jordi volano in aria e si sorreggono come per miracolo esattamente con quell’incanto di bellezza che fa dimenticare la paura, il pericolo (perill, in catalano) da cui il gruppo prende il nome. Vengono lei dall’esperienza del mimo, Lindsay Kemp e Marcel Marceau, lui dal mondo dei cavalli di Bartabas. Ai loro spettacoli ridono e battono le mani insieme ai nipoti Joan Miró e Joan Brossa, quest’ultimo — il poeta visuale — ossessionato dal ricordo di Fregoli: la velocità, il trasformismo, l’illusione della realtà e la verità del gesto. «Dell’Italia amo Michelangelo e Brachetti», diceva. Brachetti, in quel tempo, in Italia non lo conosceva nessuno. Anche Clement Marty, a cui Jordi ferrava i cavalli, ha cominciato dal circo. Clement non sarebbe mai diventato Bartabas se un incidente in motorino non gli avesse sfracellato le gambe: se non gli avessero detto «non cavalcherai mai più» inducendolo perciò a diventare il più magnetico, ipnotico, il più elegante e selvaggio dei cavalieri. Nella sua biografia appena uscita in Italia (Bartabas il cavaliere del vento di Jerome Garcin, Sperling & Kupfer) si legge questo. «Cosa significa montare se non fondersi nel cavallo fino a dimenticare il proprio corpo, negare la decrepitezza prossima, aspirare a disincarnarsi e reincarnarsi?». Non c’è descrizione del gesto erotico più precisa, non c’è altro da dire dell’amore carnale: fondersi, negare la fine, dissolversi e reincarnarsi. Quando frequentava il festival di Avignone con il Cirque Aligre, Bartabas aveva due topi trapezisti, li vestiva da Romeo e Giulietta e recitavano Shakespeare: insomma, sembrava che, e la gente impazziva di divertimento. Gli attori erano osceni, eccessivi, rumorosi, selvaggi come cosacchi tra le trine della civiltà. La gente del posto protestava che gli amministratori progressisti gli avessero concesso di sostare nel sacro terreno del castello per le prove: ci si accampavano dentro come barbari. Bartabas — che ha letto Malraux e che a nove anni scriveva compiti in classe che sembrano pezzi dei Fiori blu, perciò bocciato — si è stancato presto dei topi. È tornato ai cavalli e ha imparato a far loro affrontare qualsiasi fatica, ogni pericolo senza sudore. Con la naturalezza delle origini: ci si accede solo col tempo e con l’ascolto. «Adagio, che ho fretta», dice sempre. Più vai piano e meno tempo perdi. Solo se entri in sintonia capisci, solo se ascolti. D’altra parte — spiega Bartabas — i cavalli «esprimono il loro affetto solo quando smetti di chiedergliene prova». Non c’è niente che amino di più del «convincere chi si sottrae». Basta allontanarsi da loro per farli avvicinare. Così gli uomini, del resto. Non c’è niente che amino di più di chi si sottrae. Il circo è lì anche per questo. Per consolare chi non sa farlo, per ricordare che comunque si può anche rischiare ogni tanto. Per insegnare ad avere paura e a non averne più. DOMENICA 21 MAGGIO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 spettacoli Cinema nuovo I FILM IL CAIMANO IL REGISTA DI MATRIMONI ANCHE LIBERO VA BENE L’AMICO DI FAMIGLIA Nanni Moretti è in corsa anche quest’anno (dopo il successo del 2001 con “La stanza del figlio”) per la Palma d’oro L’ultimo lavoro di Marco Bellocchio partecipa al Festival nella sezione “Un Certain Regard” L’opera prima dell’attore Kim Rossi Stuart viene presentata nella rassegna “La Quinzaine des Réalisateurs” Il film di Paolo Sorrentino è l’altro candidato italiano in concorso per l’assegnazione della Palma d’oro Cannes la carica degli italiani Moretti, Bellocchio, Sorrentino, Rossi Stuart: a giudicare dall’accoglienza del Festival, le nostre FOTO ANSA pellicole tornano di moda NATALIA ASPESI A CANNES rriva Nanni Moretti ed è come se portasse con sé l’Italia nuova uscita dalle elezioni. Arriva Il caimano, in concorso domani e subito dopo su tutti gli schermi francesi, e qui lo aspettano ansiosamente, come se gli si potesse attribuire un sia pur piccolo merito per il cambiamento politico del nostro Paese. Giustamente Moretti lo nega, perché il cinema può niente rispetto alla televisione che in periodo elettorale ha parteggiato spudoratamente per il governo oggi pensionato; ma certo potrà allietare i suoi molti cinefan raccontando della montagna di scemenze dette e scritte in Italia sul suo film giudicato, soprattutto da chi non l’aveva visto o addirittura non va mai al cinema, una pericolosa arma di guerra politica, vuoi pro destra vuoi pro sinistra. I francesi lo attendono devoti e qui ricordano quanto fosse rabbuiato, cinque anni fa, quando era arrivato con La stanza del figlio: era il 2001, in Italia le elezioni erano state vinte da pochi giorni, a forte maggioranza, dal centrodestra. Poi il suo decimo film vinse la Palma d’Oro e fu almeno una grande consolazione professionale, non sufficiente a distrarlo da una situazione politica che lui immaginava disastrosa e che poi si rivelò tale. Sono tanti cinque anni tra un film e l’altro, pure per il riflessivo, cauto Moretti; ma anche in Francia hanno seguito il suo intermezzo di impegno politico, i suoi interventi in piazza, soprattutto quello del settembre 2002 a San Giovanni davanti a un milione di persone, quando senza volerlo divenne il portavoce della sinistra civile scontenta della sinistra politica confusa e spaventata. Moretti è atteso a questo Festival come la massima star del bel cinema, dopo l’umiliante luccichio imposto dalle star dell’imbalsamato megacinema commerciale; e la stampa internazionale che negli ultimi anni si è occupata dell’Italia quasi esclusivamente per raccontare, stupita, ironica, scandalizzata, il fenomeno Berlusconi, è pronta ad accoglierlo non solo come autore rispettato e amato ma anche come figura carismatica di un Paese che vuole cambiare, dimenticare, ricostruire. Già i giornali francesi sono pieni di lunghe interviste che certo vogliono sapere tutto della genesi del Caimano, dei quattro volti che Moretti attribuisce all’ex premier, quello del vero Berlusconi stesso di memorabili documentari, quello degli attori De Capitani e Placido e infine il suo stesso, che diventa una immagine di minaccia ed eversione; ma anche dell’Italia che sta per cominciare un cammino diverso anche sotto gli occhi, vigili, di gente L’autore del “Caimano” atteso dalla stampa internazionale come figura carismatica di un Paese che vuole cambiare come Moretti. E c’è già al Festival chi gli attribuisce doti di veggente, visto che dopo la sconfitta elettorale, c’è chi nella destra ha pronunciato realmente frasi eversive non diverse da quelle che chiudono il film. Il cinema italiano sta tornando di moda, e c’è molta curiosità anche per il secondo film in concorso, L’Amico di famiglia di Paolo Sorrentino veramente inedito in quanto non ancora visto neppure in Italia. Ieri è stato accolto con buon successo nella sezione “Un Certain Regard” Il regista di matrimoni di Marco Bellocchio, molto amato in Francia sin dai tempi dei Pugni in tasca. E Le Monde, definendo Bellocchio «l’ultimo dei mohicani della Nouvelle Vague italiana», sembra preferire il suo film anche al Caimano di Moretti. Ottima accoglienza ugualmente per Anche libero va bene, di Kim Rossi Stuart, film che è stato una bella sorpresa anche in Italia: quando una persona è così bella, si pensa che non possa fare che l’attore. Invece Kim, che pure del suo film è protagonista, si è rivelato un autore profondo, capace di dirigere gli attori e di commuovere il pubblico. Concorre, nella sezione “La Quinzaine des Réalisateurs”, al premio Caméra d’Or per l’opera prima. Ieri c’è stata molta allegria, il nuovo modo di accogliere i cosiddetti film scandalo, alla proiezione ovviamente fuori concorso di Shortbus del simpaticamente scorretto e irritante John Cameron Mitchell. Melodramma porno a prevalenza gay, il film ha per protagonista non, come dal titolo, il piccolo bus che porta a scuola i ragazzi cosiddetti sottodotati, ma il famoso orgasmo, che almeno per quel che riguarda le signore, risulta talvolta una chimera persino dal punto di vista politico. L’estroso regista avverte che sono stati gli interpreti a inventare di volta in volta il soggetto, il che fa pensare che già che c’erano, tutte le scene di sesso (in ogni versione, dalla masturbazione all’orgia) siano, beati loro, autentiche. Trama: una coppia di bei giovanotti gay molto innamorati va da una consulente matrimoniale e sessuologa per sapere se fanno bene a diventare coppia aperta. Lei stessa però avrebbe bisogno di un esperto, dato che pur continuamente sbattuta in ogni angolo della casa da un marito per altro insignificante, resta fredda come un baccalà. Ne succedono di ogni colore, compreso un tentato suicidio. Per il resto intreccio di membri di misure encomiabili, cose davanti di dietro su e giù in un allegro locale dove non si fa altro, a suon di musica. Scene divertenti: un giovanotto tipo bambolotto e molto ginnico riesce a farsi da solo una fellatio; una eiaculazione si abbatte su un quadro tipo De Koonig e lo completa artisticamente. “Il regista di matrimoni”, appena presentato, ha raccolto un giudizio molto positivo da parte dal critico di “Le Monde” 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 MAGGIO 2006 i sapori La novità del momento è il sorbetto all’azoto liquido: cremoso, profumato, Piaceri estivi leggero. Ma a contendergli il mercato dell’eccellenza c’è quello fatto seguendo la ricetta tradizionale e rigorosamente senza additivi L’appuntamento è ora a “Gelatò” la kermesse torinese dove il 23 e 24 giugno le due scuole si incontreranno e si scontreranno Gelato Naturale o hi-tech? È sfida fra i maestri LICIA GRANELLO n gelato in abito da sera: fine, setoso, elegante, colorato senza altri trucchi che la freschezza regalata da madre natura. Un gelato che non ghiaccia la bocca, non addormenta le papille gustative. Al contrario, capace di liberare gli oli essenziali più delicati, come se una mano benedetta avesse spremuto le molecole aromatiche a una a una. La nuova frontiera del gelato passa dall’azoto liquido, la componente quantitativamente più importante dell’aria, imprigionato e raffreddato fino a ridurlo allo stato liquido. La temperatura è terrificante: quasi duecento gradi sotto zero. Ma immergerci la mano dentro per qualche secondo non crea alcun problema (esperimento non praticabile in una pentola d’olio bollente). È un gelato da magia gastronomica: appena versato sulla “base” prescelta, l’azoto passa allo stato gassoso, espandendosi settecento volte, in un tripudio di fumo bianco da antro di mago Merlino. Trenta secondi dopo, avete in bocca la più suadente, setosa, profumata, naturalissima crema gelata della vostra vita: niente additivi, nel dolce-simbolo della cucina molecolare. Se Ferran Adrià, con il suo bonbon ghiacciato di pistacchio, due anni fa ha sdoganato l’azoto liquido dai laboratori medici (dove si usa come conservante e anti-verruche) per farne l’ennesimo elemento spettacolare della sua straordinaria cucina, in Italia il merito della ribalta spetta a Davide Cassi. Parmigiano doc, docente di fisica geniale e mattocchio, nel suo micro-laboratorio ha dilatato l’utilizzo del fumo-che-ghiaccia, contagiando i suoi allievi. Così, a partire da metà giugno, un manipolo di allegri laureandi, con sgargiante scritta “Crio-bar” sulla maglietta, approderà a coppie sulle spiagge romagnole: uno con l’azoto liquido nella bombola-carrellino, l’altro con cesta a tracolla piena degli ingredienti-base e di una ciotolona dove operare in diretta il piccolo miracolo gourmand. La nuova tecnica è destinata a pesare nello scontro tra due scuole di gelateria sempre più antitetiche: da una parte gli artigiani duri e puri — solo materie prime naturali, tecnica e passione — dall’altra le industrie e soprattutto i gelatieri che, pur lavorando in proprio, non disdegnano semilavorati e additivi. Perché se il super-maestro Luca Cavaziel abbraccia in toto la filosofia dei semilavorati («Il gelatiere ricorre con sempre maggiore frequenza all’uso degli ingredienti composti per la loro grande versatilità, notevole apporto in fatto di praticità, resa qualitativa e sicurezza igienica»), i pochi irriducibili del gelato di casa — radunati intorno al progetto di Slow Food e Confederazione italiana agricoltori per la certificazione del gelato di qualità — rifiutano ogni compromesso. Racconta il milanese Daniele Cuomo: «Cercano di far passare le polverine come ingredienti normali, per mascherare materie prime mediocri e ridurre i tempi di lavorazione. Noi non ci stiamo. Certo, fare il gelato senza chimica riduce parecchio i margini di guadagno. Ma la soddisfazione di vendere un prodotto buono, digeribile, non grasso, salutare, è senza prezzo». Non a caso, ai laureandi bocconiani con vocazione alimentarista, vengono suggerite due attività imprenditoriali dal fatturato sicuro: gelaterie e pizzerie. E allora, via libera ai gelati naturali, con o senza azoto. La tendenza a sostituire il panino della pausa-pranzo con un bel gelato (complice la bella stagione), ha allargato la lista dei gusti. I salutisti scelgono tè verde, cereali, yogurt e miele, frutta bio, tarassaco, mentre i golosi tout court restano fedeli ai sapori tradizionali, magari regalandosi lo sfizio di un cru di cioccolato, della crema arricchita da scorze d’agrumi e liquori preziosi, o puntando alla trasgressione golosa con l’abbinamento parmigiano-pere. Se il troppo lucido, troppo colorato, troppo rigonfio vi inquieta, mentre chiedete al gelatiere di farvi assaggiare le nuove creazioni, sbirciate l’elenco degli ingredienti (pubblico per obbligo di legge). Oppure programmate un viaggio a Torino per fine giugno: il 23 e il 24, durante “Gelatò”, gli artigiani prepareranno dal vivo i loro gioielli. Senza trucchi e senza scorciatoie. Repubblica Nazionale 48 21/05/2006 U Arancia amara Armagnac Cru Venezuela Cookies & pistacchio Miele di tarassaco Parmigiano & pere Il sapore acidoamarognolo ne fa l’ingrediente ideale per la confezione di marmellate. Eppure, se raccolta matura, quando il gusto si arrotonda, regala un sapore fresco ed elegante al sorbetto Abbinamento ideale, i piatti di pesce La passione dei fratelli Alongi (San Crispino) per le materie prime “assolute” arriva fino ai distillati Il Laberdolive ’85 viene mantecato con una crema a ridotto tenore di zucchero e grassi. Profumato e profondo, difficile trovare un finecena estivo migliore In testa alle preferenze degli italiani, solletica la vanità professionale dei gelatieri, alla continua ricerca del cioccolato più fine e persistente. Tra i Cru Venezuela (composti solo con le pregiate fave di cacao locali) più richiesti, Amedei, Domori, Vahlrona La premiata ditta torinese GromMartinetti ha messo a punto un supergusto con pochi rivali in golosità. Ma a far grande l’accoppiata sono gli ingredienti: i biscotti al cioccolato sono quelli di Marco Vacchieri, i pistacchi arrivano da Bronte I due gusti, preparati in maniera distinta, bilanciando stagionatura del formaggio e maturazione della frutta, regalano un mix dolce-salato suadente e particolare Apprezzato da chi non ama troppo i gusti dolci Guai a considerarlo un gelato dolce-dolce Al contrario, il miele in tutte le meravigliose varianti — dal primaverile tarassaco, con il suo impatto di caramella agli oli essenziali, alla lieve acacia — sostituisce lo zucchero, per un gelato più salutare DOMENICA 21 MAGGIO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49 Roma Torino itinerari Corrado Sanelli gestisce con madre e figlio una piccola gelateria nel cuore di Salsomaggiore, dove serve creme e sorbetti utilizzando solo materie prime naturali e biologiche. È il primo artigiano italiano ad avere introdotto l’azoto liquido per la preparazione dei gelati 12 kg Il consumo pro capite annuo di gelato in Italia Salsomaggiore (Pr) Città-cardine nella divulgazione della cultura gastronomica — dal Salone del Gusto a Cioccolatò — ospiterà a giugno una manifestazione dedicata al gelato artigianale, tra preparazioni in diretta e degustazione dei sapori più golosi e tradizionali Poche, le città dove il gelato è declinato in maniera così appassionata e creativa A produrlo, un gruppo di artigiani storici e nuovi, decisi a difendere la qualità degli ingredienti, integrati con elementi originali, dall’Armagnac all’arancia amara Sospesa tra Liberty e Decò, la cittadina termale è situata in una zona benedetta per le produzioni alimentari. Così, alcuni gioielli gastronomici come il Parmigiano e l’aceto tradizionale balsamico si trasformano nei gusti dei gelati più intriganti DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE ARTUÀ & SORRENTINO Via Brofferio 3 angolo corso Re Umberto Tel. 011-5175301 Camera doppia da 100 euro, colazione inclusa IL CASTELLETTO Via Dei Carraresi 27 Tel. 06-66166573 Camera doppia da 96, colazione inclusa RITZ FERRARI Viale Milite Ignoto 5 Tel. 0524-577744 Camera doppia da 104 euro, colazione inclusa DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE SOTTO LA MOLE Via Montebello 9 Tel. 011-8179398 Chiuso a mezzogiorno, menù da 30 euro TABERNA RECINA Via Recina 22 Tel. 06.7000423 Chiuso domenica, menù da 30euro LOCANDA STELLA D’ORO (con camere) Via Mazzini 8 Tel. 0524-597122 Chiuso lunedì, menù da 40 euro DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE GELATERIA TESTA Corso Re Umberto 56 Tel. 011-599775 IL GELATO DI SAN CRISPINO Via Acaia 56 Tel. 06.70450412 GELATERIA SANELLI Piazza del Popolo 2 Tel. 0524-574261 3,5 mln Il fatturato annuo dell’industria del gelato 50 mln Gli italiani che dichiarano di amare il gelato Quando la fisica entra in cucina ‘‘ Carlo Goldoni A Napoli poi conviene cedere la mano per i sorbetti. Hanno de’ sapori squisiti; e quello ch’è rimarcabile per la salute, sono lavorati con la neve, e non col ghiaccio DAVIDE CASSI n un fine settimana d’aprile, nella tradizionalissima gelateria Sanelli di Salsomaggiore, ha mosso i primi passi una piccola rivoluzione: il gelato all’azoto liquido è entrato a far parte della lista dei prodotti offerti ai clienti. La tecnica di preparazione, in sé, non è nuova: la liquefazione dell’azoto è precedente all’invenzione del frigorifero, ed è documentato che, già all’inizio del Novecento, fisici giocherelloni preparavano il gelato estemporaneo nel giardino di casa. Ma, per oltre un secolo, l’azoto liquido è rimasto appannaggio di tecnici e scienziati, inesperti di pasticceria: per questo, il congelamento rapidissimo delle creme tra vapori densi era considerato una sorta di spettacolo da illusionisti, piuttosto che un’impareggiabile tecnica di cucina. La novità di questi ultimi anni è la scoperta delle potenzialità gastronomiche dell’azoto liquido, e la novità dell’ultimo mese è la possibilità di deliziarsene, offerta a tutti gli avventori di una normale gelateria, e al prezzo di un gelato comune. La preparazione del gelato estemporaneo è di una semplicità disarmante: si versa la base in una pentola e, mescolando velocemente con una frusta, si aggiunge l’azoto liquido, finché il tutto non si è trasformato in una morbida crema gelata. Il processo è velocissimo: tralasciando il record mondiale di due gelatieri particolarmente robusti, Comini e Pendin, (un chilo di gelato in tredici secondi), un comune mortale ce la fa in un minuto. Più impressionante è il risultato: eccezionalmente soffice, morbido, cremoso. Rinfresca la bocca senza congelarla e sprigiona aromi più intensi e prolungati. Merito dell’azoto liquido, che, dai suoi meno 195,8 gradi centigradi, evapora rapidamente a contatto con la base, sottraendole calore e gonfiandola di microscopiche bollicine. Il congelamento ultrarapido produce poco ghiaccio, ma sotto forma di infiniti cristalli piccolissimi: così piccoli da non essere percepiti al tatto, ma tanto numerosi da addensare la crema come farebbe una polvere fine. La minore quantità di ghiaccio sottrae meno calore alla bocca, che così resta piacevolmente fresca senza ghiacciarsi, pronta ad apprezzare gli aromi e i sapori di un nuovo boccone. Anche l’aspetto visivo migliora, e i colori sono più intensi. Le bollicine, poi, sono d’aria profumata, perché l’azoto è il principale componente dell’aria (78%) ed estrae con grande efficienza gli aromi dagli ingredienti. Non è difficile procurarsi l’azoto liquido: basta cercare sulle pagine gialle un fornitore di gas tecnici. Vi costa intorno ai 50 centesimi al litro, ma con quel litro potete preparare anche quattro chili di gelato. I contenitori in cui si conserva ormai sono alla portata di tutti: un “bidone” da venticinque litri si trova a meno di 500 euro ed è praticamente indistruttibile. Ma il fascino della nuova tecnica sta soprattutto nella possibilità di trasformare in gelato praticamente ogni base liquida, senza l’utilizzo di quegli additivi e addensanti che inibiscono aromi e sapori e lasciano la bocca appiccicosa. Con l’azoto liquido possiamo congelare all’istante un succo di frutta appena spremuto, il caffè appena uscito dalla macchina, il latte appena munto, controllando di persona la qualità delle nostre materie prime. Le possibilità divengono ancora maggiori, se includiamo la vasta gamma di gelati salati, che si possono produrre partendo da basi alla birra, all’olio d’oliva, ai centrifugati di verdura. È strano dirlo, ma la gastronomia dell’azoto liquido è ancora all’età della pietra: come se avessimo da poco scoperto il fuoco e stessimo iniziando a studiare cosa e come con esso si può cuocere. Provatelo, dunque, perché vi riserverà piacevolissime sorprese. (L’autore è gastronomo e docente di fisica all’Università di Parma) ‘‘ Repubblica Nazionale 49 21/05/2006 I Da PAMELA FANCIULLA Marsilio editore Sorba Torta Barozzi È uno dei frutti antichi di ritorno sulle nostre tavole. Usato per il suo gusto asprigno nelle marmellate, se raccolto dopo le gelate e lasciato appassire sotto la paglia, acquista gusto morbido, che ben si sposa con la base crema La ricetta segretissima della mitica torta al cioccolato & caffè prodotta da un secolo a Vignola si trasforma in gelato. Merito dell’emiliano Corrado Sanelli, che ben la conosce Gli adepti al culto della Torta Barozzi ne sono entusiasti 50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 MAGGIO 2006 le tendenze Una pioggia di rose, camelie, margherite. Sulle t-shirt, sulle gonne estive, sugli spolverini. Ma anche sulle borse, sugli accessori e sui gioielli. È il gran ritorno della moda floreale, un trionfo neo-romantico che riempie le vetrine senza però penalizzare la grinta e la vitalità delle donne e delle ragazze degli anni duemila Fantasie colorate SEMPREVERDE Arriva dall’archivio storico di Roberta di Camerino la riedizione di una borsa “evergreen” con la classica chiusura a scatto IN BIANCO E NERO Fiori in bianco e nero, effetto optical art, per le borse a tracolla di Stefanel. La stessa stampa floreale si ritrova su gonne e camicie che si ispira alla moda dei figli dei fiori UN’ESPLOSIONE DI PETALI Un fiore gigante con tanto di petali coloratissimi per la borsa di Braccialini che crea un effetto “gardening” OMAGGIO ALLA CAMELIA È la classica borsa Chanel che, in questa versione, rende omaggio ai fiori a partire dalla camelia, il simbolo della maison Fiori style E la donna si veste di papaveri LAURA ASNAGHI tampati, ricamati, intarsiati, traforati su ogni genere di materiale. I fiori si prendono la rivincita e, dopo anni di oblio, tornano a invadere gli armadi. Per tutta l’estate, si assisterà a un vero trionfo delle fantasie floreali, con fiumi di margherite, camelie, papaveri e peonie sparse su eterei chiffon, sete impalpabili e cotoni. Non c’è collezione che non sia contagiata da questa ventata bucolica. Che ha tra i suoi esponenti più prestigiosi Ken Scott, il cui marchio è tornato di recente sul mercato con una vitalità prorompente e fantasie fiorite che piacciono anche alle ragazzine. «Il fiore ha mille vite e aiuta a sognare — spiega Gianfranco Ferré — e, in più, evoca con immediatezza immagini di femminilità e di dolcezza. Per noi stilisti è avvincente reinterpretare i fiori, tema che ha una grande versatilità e che può essere declinato con molteplici tecniche». Tornano gli abiti che sono un inno alla natura ma non c’è nulla di sdolcinato in questa moda estiva, solo apparentemente romantica. Infatti, basta vedere come Frida Giannini, la stilista di Gucci, ha mixato i fiori della collezione, già in vendita nelle boutique, per rendersi conto che petali e corolle non sono il manifesto di una donna arrendevole. Anzi. Da Gucci, la maglia a fiori si porta con pantaloni di taglio maschile, proprio per tenere le distanze da abbinamenti troppo sdolcinati. Fiori sì, ma per donne grintose, che in amore sono loro a fare la prima mossa. Come le fan dei Dolce & Gabbana, innamorate delle stampe con i papaveri mescolati alle spighe. «Il rosso dei papaveri è espressione della passione — spiegano i due stilisti — sono fiori semplici e sofisticati allo stesso tempo, proprio come le donne che noi vestiamo». Chi, da sempre, propone i fiori è Anna Molinari di Blumarine, ribattezzata la «regina delle rose». Petali e boccioli scarlatti campeggiano su t-shirt, golf, gonne e spolverini, perfetti per donne solari ed esuberanti. Anche Alberta Ferretti è una fan del floreale. «Il fiore è simbolo di rinascita e in più stimola il buon umore — dice la stilista — e spero che i miei abiti siano in grado di trasmettere questa sensazione». Nella folta schiera di stilisti che esaltano il «flower power» c’è anche Valentino: «Adoro i fiori — ammette — non potrei vivere senza. L’orchidea bianca è la mia preferita, insieme alle peonie, alle rose e all’ibiscus. I fiori per me sono una fonte di ispirazione. Sono la felicità. Ecco perché, in ogni mia collezione, c’è sempre un riferimento ai fiori». Tra i bucolici spinti, un posto d’onore va ad Antonio Marras che osa fantasie in versione gigante accostate in modo apparentemente discordante. Nella sua linea, ma anche in quella di Kenzo che lui disegna, i ricami floreali si ispirano a quelli tipici della tradizione sarda o a quelli riprodotti su antichi kimono giapponesi. Un mix tra l’etnico e le antiche tradizioni orientali che Marras sa interpretare alla perfezione. I fiori dilagano, si impossessano di borse (come nel caso di Fendi, Etro, Dior, Prada e Moschino), di abiti (Armani, Missoni, Mariella Burani, Amuleti J., Coveri e Vuitton) e anche di gioielli. Coco Chanel, che ha fatto della camelia il suo simbolo, ha una intera collezione di preziosi con petali, corolle e pistilli in zaffiri, rubini, smeraldi e diamanti. L’ESTATE Tanto che, nella storia della moda, la caA COLORI melia si associa immediatamente a Coco Fiori e colori Chanel. Fiori anche per la gioielleria di Cha go-go ristian Dior, dove l’oro si fonde con smalti per la e tutte le più belle pietre preziose. collezione estiva di Benetton con abiti, pantaloni e giacchini fioriti Repubblica Nazionale 50 21/05/2006 S IL GIARDINO ANCHE A TAVOLA Quella dei fiori è una piacevole mania che va oltre l’abbigliamento e dilaga anche sui piatti della collezione Driade “Kosmo Tws Rami” disegnata da Vittorio Locatelli FLOWER POWER INTIMO DI STAGIONE Intimissimi segue il trend di stagione e propone biancheria intima con fiori delicati che si alternano a pizzi romantici. Le stesse stampe si ritrovano su bikini, costumi e piccoli top Anche Sisley esalta il “potere dei fiori” con abiti estivi, tagliati come una sottoveste dalle stampe vivaci DOMENICA 21 MAGGIO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51 SULLE SPALLE CON CLASSE È in seta preziosa lo scialle da gran sera con lunghe frange (nella foto a sinistra), firmato da Valentino I ramages di fiori dai colori delicati sono ricamati su un fondo beige PASSEGGIANDO SOTTO IL SOLE Fiori stilizzati per il cappello Louis Vuitton, con tanto di fascia, che celebra un’estate all’insegna dei colori della natura Il vintage contadino delle ragazze hippie IL FASCINO DELLA ZEPPA La tendenza contamina anche Miu Miu che punta sui sandali con zeppa e tacco alto decorati con tessuti dalle stampe floreali ELIO FIORUCCI e, come sostengono alcuni, un nome può influenzare il destino, sicuramente il mio l’ha fatto, eccome. Fiorucci è in realtà un diminutivo che vuol dire piccoli fiori... Non è quindi un caso che io abbia vissuto (e continui a vivere) tutta la mia vita con lo spirito leggero e sognante di un figlio dei fiori e che i fiori siano diventati anche il leit-motiv delle mie creazioni, quasi una magnifica ossessione. Ho sempre guardato con ammirazione e stupore a questa magia che si rinnova a ogni stagione: la natura si addormenta e, quando è il momento giusto, come per incanto, allo scadere di un’ora, di un minuto, di un secondo, in qualsiasi luogo e a qualsiasi latitudine si risveglia e compie il miracolo. In un punto preciso della Terra, ma anche di un semplice vaso sul nostro balcone, spunta una creatura bellissima e colorata, uguale a migliaia di altre, ma diversa. E siccome nella vita abbiamo continuamente bisogno di favole, questa mi sembra sia davvero tra le più intriganti e, soprattutto, non dobbiamo fare nulla per inventarcela, perché ce l’abbiamo lì, continuamente a portata di mano e di sguardo. Una bellezza spesso paragonata a quella femminile: non si dice infatti «bella come un fiore»? La bellezza ma anche la delicatezza con una valenza profonda. Il fiore è da sempre inteso come simbolo di nascita e di vita, eterna tentazione di pittori, musicisti, poeti. La primavera del Botticelli ne è un esempio eclatante, un trionfale e armonioso incontro tra queste felici similitudini. Anche nel mio lavoro il fiore e la decorazione floreale hanno sempre avuto una parte molto rilevante. Nell’immaginario collettivo, se si pensa allo stile di Elio Fiorucci, vengono infatti in mente soprattutto i fiori e i colori vivacissimi, quasi invadenti. Ne ho davvero utilizzati di tutti i tipi, dalle rose inglesi descritte nel Gattopardo, con la loro sensuale carnalità, all’archetipo del fiore stilizzato e riprodotto all’infinito dal maestro della pop-art Andy Warhol. Fino all’ibiscus dei mari tropicali e ai fiorellini di quei vestitini un po’ imperfetti e sbilenchi che hanno un non so che di conosciuto, di polveroso e nello stesso tempo di molto moderno, come se fossero appartenuti alle madri, alle nonne, alle donne contadine ma anche alle ragazze hippy e trasgressive che hanno segnato la storia degli anni Settanta. Perché penso che la memoria sia importante e il fiore sia da sempre al centro di una complessa rappresentazione interiore, un’esperienza totale che coinvolge tutti i sensi, un’incomprensibile alchimia emotiva. Ma ciò che mi sembra ancora oscuro e misterioso è come possa quella sua apparente fragilità ispirare sentimenti e pensieri sicuramente tra i più intensi. Ora i fiori ritornano, in tutte le collezioni estive, come fresca decorazione del corpo. Ma non solo. I fiori tornano anche nel design, con mobili, accessori e oggetti d’uso quotidiano che si rifanno alla bellezza incontaminata della natura. I tempi sono cambiati e sono cambiate le regole estetiche ma l’apparenza romantica degli abiti contemporanei trasmette, ancora una volta, tutta la loro forza magica, seduttiva e miracolosa. S DISEGNATI PER STUPIRE Sono super decorati gli zoccoli, con tacco alto, della linea Moschino. Sulla fascia è applicato un fiore gigante con otto petali ritagliati in pelle Repubblica Nazionale 51 21/05/2006 L’ORA DEL TÈ Nel revival del floreale non poteva mancare la classica tazzina da tè inglese, della linea “Royal Albert” , distribuita in Italia da Michielotto STILE INGLESE Sono fiori che si ispirano alla campagna inglese quelli che Ballantyne ha usato per la sua collezione estiva: le righe si mescolano ai fiori con delicatezza STIVALI PER L’ESTATE Gli stivali estivi realizzati da Giuseppe Zanotti sono in canvas di cotone con fiori ricamati a mano I NUOVI GIOIELLI UNA ROSA AI PIEDI Sono di Christian Lacroix, il geniale stilista dell’alta moda francese, i sandali con rosa gigante che si portano anche con un tubino Questo anello con fiori smaltati a mano, mescolati a pietre preziose, fa parte della collezione Dior Joaillerie disegnata da Victoire de Castellane 52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 MAGGIO 2006 l’incontro Esordì nel 1971 con rimmel, lunghi capelli biondi e piume di pavone Oggi, a 58 anni, la sua testa è lucida come una palla da biliardo e il suo passato da rocker è morto e sepolto Il genio dei sintetizzatori è diventato un inventore di “paesaggi sonori” e un maître-à-penser della musica: “ M’indigna la confusione tra una persona e la sua arte È questo che mi ha allontanato dal rock, l’equazione tra personalità e celebrità che trovo falsa, diseducativa, insopportabile” Divi discreti Brian Eno Repubblica Nazionale 52 21/05/2006 «D LONDRA io ha deciso di regalare il mondo a Budda. Così compra un nastro per infiocchettarlo. Quarantaduemila chilometri di nastro, equivalente alla circonferenza della Terra. Ma al momento di infiocchettarlo, si rende conto che gli hanno venduto un metro di nastro in eccesso. Quanto spazio dovrà lasciare tra la crosta terrestre e il nastro per compensare quel metro in più?». Un giorno a pranzo con Brian Eno, in un ristorante italiano di Londra, può diventare un’esperienza impegnativa. Sceglie lui tutte le pietanze per gli invitati. Pretende di indovinare i gusti di ognuno, e ci riesce. Poi, all’antipasto, incomincia a sfidare i commensali con quiz che mandano tutti in tilt, irrisolvibili senza l’uso della calcolatrice (severamente proibita dal regolamento). Nel loft dell’artista l’atmosfera è più distesa. Sulla lavagna all’ingresso c’è attaccato il promemoria per un concerto di Kanye West. «Non tragga conclusioni affrettate. Ho due figlie, di quattordici e sedici anni, al concerto ci andrò con loro, non vado pazzo per il rap», puntualizza. L’inventore della musica d’ambiente protegge trentacinque anni di storia d’artista in un luminoso open space di Notting Hill. Alcuni operai stanno cercando di far uscire dalla porta sul giardino un magnifico esemplare di pianoforte a coda che per qualche giorno è rimasto nello studio. «Un ospite d’onore», dice Eno, accarezzandolo con gli occhi per l’ultima volta. «In realtà io l’ho solo sfiorato, a suonarlo ho chiamato una professionista, Joanna McGregor. Mi sono limitato a registrare alcune sue magnifiche esecuzioni di partiture di John Downham». Brian cataloga suoni; solo frammenti di tutto quel che compone e usa per le sue installazioni, a Pechino, Lione, Monaco, León, Istanbul, finiscono su disco. Un archivio vivo e prezioso, che giace lì tra biografie di Elvis, volumi sui costruttivisti russi e Vendere la guerra-La propaganda come arma d’inganno di massa, il libro in cui Sheldon Rampton e John Stauber teorizzano che l’11 settembre è stato solo uno strumento per giustificare l’invasione dell’Iraq. In un articolo pubblicato nel 2003 sull’Obser- ver, Eno si pronunciò chiaramente contro l’occupazione militare, spiegando quanto sia «difficile controllare la manipolazione delle notizie che i governi fanno per assecondare interessi ideologici e politici. Il controllo sociale delle democrazie occidentali è più sottile della propaganda. Io infatti lo chiamo “propagenda”, non il controllo del nostro pensiero ma delle nostre opinioni». «Brian, Brian, ci sei?», la voce arriva stridula dal vicolo, Eno fa segno a tutti di tacere. «Dille che non ci sono», sussurra alla sua collaboratrice, «oggi non ho tempo per Prue». «Brian non farti negare, ti ho visto», squittisce Prue, prima che Jane («la produttrice del produttore», la chiama lui) abbia il tempo di proferire parola. «Ho ospiti oggi Prue, ci parliamo domani». La vecchina del condominio bussa quando ne ha voglia, e soprattutto quando sente buona musica uscire dal vicolo. «Poverina, è in crisi di astinenza, per giorni ha ascoltato le note del pianoforte di Joanna, ma non ha mai potuto bussare alla porta perché avevo appeso fuori un cartello che vietava a chiunque di disturbare». La sobrietà, il buon gusto e l’intelligenza che lo circondano non lasciano intuire quel passato da rocker, morto e sepolto, con i Roxy Music. Brian Eno, 58 anni, esordì nel 1971 con rimmel, fondotinta, lunghi capelli biondi (oggi la testa è lucida come una palla da biliardo) e piume di pavone. Era geniale con i sintetizzatori in quel contesto rock, ma non si sentiva tagliato per la musica dei grandi numeri e se ne andò dopo due capolavori per diventare un professore di musica minimale e un inventore di sound landscapes, paesaggi sonori. Oggi, più che produttore, è un maître-àpenser della musica contemporanea. Uno stilista dei suoni che per David Bowie ha progettato la leggendaria trilogia berlinese (Low, Heroes e Lodger), per i Talking Heads l’inconfondibile minimal punk fiore all’occhiello di David Byrne, e per gli U2 il suono epico che ha esaltato la voce dell’evangelizzatore più potente della storia del rock. «Non ci sono parole per definire l’intelligenza di Bono. Lo capisci subito e immediatamente dopo ti rendi conto che è più intelligente di quanto pensavi. Lavorare con lui è stato facile: io, al contrario delle rockstar, mi sveglio presto e comincio in tempo a organizzare il lavoro per la giornata. Quando gli U2 arrivavano in studio, avevamo già parecchie idee sulle quali discutere. Poi li lasciavo da soli a elaborarle, ma li caricavo anche di “compiti a casa”, spunti che il giorno successivo pretendevo di trovare sviluppati. Solo su una cosa Bono e io non siamo d’accordo. Lui pensa che per cambiare il mondo sia indispensabile scendere a patti con le istituzioni esistenti, di conseguenza convincere il governo americano a spendere più soldi in aiuti. Spero che ci riesca, ma la mia posizione è diversa, io ritengo che il problema fondamentale siano proprio le no- stre istituzioni, quindi dobbiamo lottare per cambiarle. Ma ci vuole fegato per fare quel che fa, trattare con quella gente, questo glielo riconosco». L’ultima installazione l’ha fatta a Pechino, al Ritan Park, «un cerchio magico che una volta veniva usato per funzioni religiose. Pensavo che la Cina fosse uguale al Giappone, dove tutti sono schiavi della propria gentilezza. Invece lì ci si danno pacche sulle spalle come in Italia. La più grande qualità dei cinesi è la flessibilità, ed è esattamente questo che gli occidentali temono, la capacità di adattarsi facilmente a un nuovo ambiente, a una nuova professione. La Cina è un paese affascinante per uno come me che non ha il culto della personalità. Tutto nella cultura occidentale è un incitamento all’autocelebrazione e al consumismo: diventare più ricchi, avere una macchina più grande, vestiti più costosi, donne più belle. Più consumi più sei importante. Più consumi più sei visibile. Non mi piace, sono felice che questo non sia un problema che mi af- La musica non è mai stata una lingua universale. Negli anni ’60 e ’70 credevamo che fosse riuscita a smuovere le coscienze, ma era solo presunzione FOTO GETTY IMAGES GIUSEPPE VIDETTI fligge. Non mi sono mai svegliato la mattina pensando “oggi vado a comprarmi un’automobile”. Dimenticherei anche di comprare il pane se non lo annotassi sulla mia agenda». I giornali inglesi continuano, anno dopo anno, a vagheggiare una riunione dei Roxy Music, lo schivo Brian non si preoccupa più neanche di smentire. Chi lo conosce sa che un suo ritorno nell’arena del rock sarebbe un paradosso. Non solo l’artista non ama rivangare il passato, ma raramente parla della sua musica, che per definizione è discreta, mai invadente e studiata per migliorare acusticamente l’ambiente in cui è diffusa (Music for airports fu composto con questo obiettivo). «Se c’è una cosa che mi rompe è parlare di me. Ho 58 anni, cos’altro ho da dire? Non mi considero un soggetto interessante. M’indigna la confusione, particolarmente pronunciata in Italia, che si fa tra una persona e la sua arte. Non c’è nessuna connessione tra l’opera e il suo autore, e se c’è non mi interessa. La musica pop si nutre proprio di questo ambiguo rapporto, generato da un’immagine romantica che viene attribuita all’artista. Questo è quel che mi ha allontanato dal rock, l’equazione indispensabile tra personalità e celebrità che trovo falsa, diseducativa, insopportabile. Oggi, non paghi di idolatrare i divi, abbiamo incominciato a seguire morbosamente il privato di gente comune, attraverso i reality show. Una vera e propria piaga sociale: dovremmo prendere dei provvedimenti e curarci. Per decenni la capitale di questa follia è stata l’America. Ma adesso gli Usa si dibattono in problemi ben più gravi: all’interno degli States vivono due comunità distinte che sono diverse almeno quanto i tedeschi e gli albanesi: quelli che hanno votato per Bush e quelli che non hanno votato per Bush. È una frattura religiosa, politica, sociale ed economica che ha spaccato la popolazione di fronte alle scelte più importanti del Paese. Continuano ad erigere muri sempre più alti per difendere il proprio territorio, controlli capillari negli aeroporti, impronte digitali e fotografie, ma non hanno ancora capito che il nemico è dentro le mura. E a questo punto la mia visione politica non coincide più con quella di Bono». A malapena ricorda di aver dato i diritti a Nanni Moretti per inserire la sua incantevole By this river (da Before and after science, 1977) nella colonna sonora di La stanza del figlio. «Un bel film, ma ora non ricordo la trama. A proposito... L’altro giorno ho visto il film più bello degli ultimi anni, Caché, di Michael Haneke, con Daniel Auteuil e Juliette Binoche». La collaborazione con Paul Simon, per il quale ha prodotto Surprise, un disco appena uscito, sembra preistoria. All’orizzonte ci sono mille altri impegni, e nessuno lo vede come protagonista. «Non penso più a me stesso come a un musicista, mi trascuro. Dovrei prendermi più cura di me. Cerco di scrivere ap- punti su un’agenda, per ricordare che è l’ora di comprarmi un nuovo paio di scarpe o un abito. Quindici minuti al giorno per ricordarmi che esisto. La mia esistenza è in bilico tra due estremi: creatività e banalità, tipo rispondere alle mille domande che la gente mi fa per posta o per e-mail. Quando compongo o creo, sono completamente fuori da me stesso, in una sorta di trance. Ho sempre avuto l’abilità di arrendermi completamente a quel che ascolto o che faccio, di scomparire quasi. Quando ho nelle orecchie una musica che mi piace, non sono più io. Ecco perché mi è sempre piaciuto ascoltare canzoni, ammirare quadri, guardare film, perché mi annullano, ed è una sensazione che mi piace. Fin da piccolo, fin da quando ascoltavo i soldati americani cantare quelle magnifiche canzoni doo-wop. Ho preso tutto da mio padre, faceva il postino (nonostante il nome altisonante del figlio, Brian Peter George St. Baptiste de la Salle Eno), e non mi ha mai insegnato che un uomo dovrebbe sprecare del tempo a pensare a se stesso. Prendiamo ad esempio gli ultimi due giorni della mia vita: come potevo pensare a me con un pianoforte come quello in casa e una fantastica pianista che lo suonava? Mi sono isolato dal mondo, ho staccato il telefono, sbarrato la porta. Mi spaventa l’impossibilità della gente di stare in un posto alla volta. Sul treno tutti guardano gli sms sul cellulare, in automobile ascoltano la radio, a casa la tv. Questo è un problema che mi rende molto suscettibile». Inutile insistere a parlare di musica, Brian è in partenza per l’Egitto, ha già le piramidi negli occhi. «Cosa dovrei fare per non essere un turista banale?», chiede. Poi conclude: «La musica non è mai stata una lingua universale. Meno che mai ai tempi di Bach e Beethoven. Negli anni Sessanta e Settanta credevamo che fosse riuscita a smuovere le coscienze e a parlare una sorta di lingua universale, ma era solo presunzione. Chi ha mai ascoltato un’opera cinese? È totalmente incomprensibile al nostro orecchio, e il pubblico esplode in applausi fragorosi nei momenti che a noi sembrano meno adatti». La scatola nera che contiene le “Strategie oblique”, sorta di tarocchi che ha elaborato con Peter Schmidt, è sul tavolo. Le usa sempre? «Sì, ogni giorno. Sono i miei “I King”». Fruga nel mazzo, estrae una carta, c’è scritto: «Resisti al cambiamento con tutte le tue forze».