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PARTE SESTA Indice della Parte Sesta: Verso una teoria della democrazia globale. Capitolo I: Approcci filosofici alla democrazia Capitolo II: Approcci scientifici alla democrazia Capitolo III: Verso una teoria della democrazia globale Annesso: L’Illuminismo pedagogico. Bibliografia Questa parte sesta presenta una discussione generale sulla prospettiva della democrazia globale: problematiche generali, limiti e possibilità. Nel primo e il secondo capitolo si espongono alcune teorie filosofiche e scientifiche della democrazia. Cercando di superare i limiti dei due tipi di approcci, l’autore trae profitto dalla ricerca illustrata nelle cinque parti precedenti per proporre, nel terzo capitolo, la propria proposta di Teoria della Democrazia Globale. Capitolo I Approcci filosofici alla democrazia Chiamo filosofici quegli approcci alla democrazia che, facendo a meno del ricorso ai dati storici e concreti, finiscono per assumere una postura troppo astratta e ideologica. Marx distingueva la sua opera politica, che definiva “scientifica”, da quella, “utopistica”, degli altri autori socialisti. Però, al tramontare del suo secolo e nel passaggio al XX secolo, si è continuato, e molto, a scrivere filosoficamente sulla sua dottrina politica, che è stata assunta, in Russia soprattutto (Lenin, Stalin), come la teoria madre della “democrazia socialista” in particolare, distinta da quella “formale”. La distinzione fra democrazia “formale” e democrazia “sostanziale” fu poi contestata da autori che, come Kelsen e Schumpeter, hanno affidato proprio alla forma e alla procedura la sostanza della democraticità di un sistema politico, rigettando la vulgata marxista che voleva che formale significasse vuoto, indiretto, rappresentativo e dunque parlamentare, mentre sostanziale indicasse pieno, diretto e partecipativo. In effetti, è stato nel nome dell’azione, del rompere gli indugi e del non farsi manovrare da oscure potenze che i due dittatori, prima Benito Mussolini, poi Adolf Hitler, si sono imposti sui rispettivi parlamenti, italiano e tedesco (questo prescinde dall’interpretazione di Negt, secondo la quale si trattò di una reazione alla presa del potere dei comunisti in Russia: Negt, 1987). Nel parlamento, appunto, si parla, non si agisce; il richiamo all’azione – qui e ora – è stata, infatti, una costante dell’approccio dittatoriale. Anche nei confronti della legge in quanto tale, i dittatori nutrono il profondo sospetto che essa serva solo a camuffare e a nascondere la volontà del più forte (il Carl Schmitt delle categorie del “politico”, in effetti, può anche essere usato per giustificare questo punto di vista). Anche questo problema, allora, che nasconde una profonda ingiustizia, viene rapidamente superato dai dittatori col ricorso all’uomo d’azione – nel caso della dittatura fascista, il duce – capace per definizione di individuare le azioni da fare e di farle, trascinando il popolo dietro di sé, o – nel caso della dittatura comunista – col ricorso alla dittatura del proletariato, e del partito comunista, in particolare, in quanto questi non è che la guida, illuminata ed illuminante, del percorso emancipativo ed emancipatorio del popolo (anche nei discorsi dei leader sovietici post-Stalin, come Crusciov, questi tratti sono facilmente rintracciabili). In campo internazionale, le dittature fasciste italiana, tedesca e giapponese della prima metà del XX secolo hanno condotto una politica di aggressione violenta e militare, spregiudicata e globale. Fondandosi sui presupposti giustificativi “miglioristi” (nel caso tedesco ed italiano) e “protettivi” (di protezione, cioè, da parte del Giappone nei confronti del resto dell’Asia aggredita commercialmente e finanziariamente dall’Europa), questi tre paesi hanno tentato di appropriarsi manu militari dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia. A carico dei loro avversari, le tre dittature hanno fatto valere l’argomento che anche gli USA, ai tempi della loro fondazione, hanno perpetrato senza pietà lo sterminio delle popolazioni native americane, mentre le altre “cosiddette democrazie” europee avevano schiavizzato, colonizzato e sfruttato, per secoli, tutti gli altri continenti. – Argomenti che hanno, certamente, una loro forza, come qualche attuale storico e critico della democrazia, come un Michael Mann, ha messo crudamente in luce (Stannard, 2001; Mann, 2005). Argomenti come questi sono invece del tutto assenti nelle decisioni politiche estere delle dittature del dopoguerra – che sembrano essere motivate, piuttosto, da mere considerazioni strategiche di sopravvivenza nello schema della guerra fredda. Il caso delle politiche estere delle dittature comuniste – la sovietica, fin quando è durata, la cubana e la cinese, ancora installate – è stato particolare, in quanto esse hanno inteso promuovere o sostenere le “rivoluzioni proletarie nazionali” in altri paesi, allargando così la propria zona di influenza del mondo, nel tentativo di giungere un giorno ad un comunismo internazionale pienamente realizzato. Le varie Internazionali comuniste susseguitesi nel tempo, dai tempi di Marx fino a Breznev, si sono nutrite di queste motivazioni. Le dittature post-1990 di Corea del Nord e di Cuba presentano, in effetti, retoriche di mobilitazione permanente del tipo classico della dittatura, anche se, com’è noto, le tinte sono assai più cariche per quanto riguarda il primo caso che non il secondo. Il caso dell’Iran è particolare, in quanto qui c’è un partito religioso che detiene il potere politico in maniera pressoché esclusiva, basato su assunti di ricorso all’azione simili a quelli che abbiamo visto adesso per il caso delle dittature fascista o comunista. Inoltre, anche qui, la separatezza della sede politica decisionale dal resto del mondo sociale e politico del paese rende l’Iran un caso specifico di dittatura. La situazione del Venezuela è ancora diversa, in quanto è controversa l’applicazione qui del termine dittatura, dato che costituzionalmente il Venezuela è una democrazia, dove il capogoverno (in linea con la tradizione caudillista dell’America Latina) esercita una forte leadership ideologica, culturale e socio-politica, ma senza superare le soglie della dittatura. Anche la Russia post-1991 costituisce un caso ancora a parte, in cui tratti dittatoriali si mescolano a tratti democratici, almeno per quel che riguarda la politica interna. Tratti dittatoriali sono più chiari nelle altre ex-repubbliche socialiste sovietiche, dove ex-dirigenti del PCUS si trovano ancora oggi al potere, con modi che di democratico hanno ben poco. Le dittature contemporanee africane, come quelle latinoamericane o europee del secondo dopoguerra, presentano solo aspetti di gestione violenta e militare del potere, e non vi compaiono elementi importanti per il nostro studio sulla teoria della democrazia, né nazionale né globale (per quanto di recente siano stati avanzati dubbi, da parte africana, nei confronti del Tribunale Criminale dell’Aja, accusata di giudicare, soprattutto, dittatori africani, trascurando gli altri). Se prescindiamo, dunque, dall’uso della parola democrazia fatto dai dittatori di tutti i tipi – da Mussolini a Mao –, comunque rimane vero che l’uso di essa da parte di tanti leader politici di ogni orientamento e latitudine – da statisti, pensatori e leader come Woodrow Wilson, Rabindranath Tagore, Kitaro Nishida, Antonio Labriola, Antonio Gramsci, Aimé César, Léopold Senghor, Mohandas Gandhi, Ben Bella, Suharto, Sukarno, Ernesto Guevara, Franz Fanon, Konrad Adenauer, John F. Kennedy, Willi Brandt, Julius Nyerere, Helmut Kohl, François Mitterand, Altiero Spinelli, e gli altri padri della Comunità europea, Cheick Anta Diop, il Dalai Lama, Paulo Freire, Don Lorenzo Milano, Ivan Illich, Nelson Mandela (per citare un’ampia scelta) – è stato un uso largo, a volte metaforico, e in questo senso filosofico. Ovviamente, è diverso il caso delle opere filosofico-politiche sistematiche, anche se hanno soltanto sfiorato l’oggetto democrazia (un elenco di questi autori è semplicemente troppo lungo, ma dovrebbe comunque includere almeno i seguenti: Benedetto Croce, José Mariategui, Jacques Maritain, Carl Schmitt, Georgy Lukacs, Herbart Marcuse, Norberto Bobbio, Hanna Arendt, Karl Popper, Isaiah Berlin, Masao, Suzuki, Taha Hussein, Louis Althusser, Jean-Paul Sartre, Michel Foucault, Jacques Derrida, Agnes Heller, Jurgen Habermas, Mohamed Khatibi, Abdallah Laroui, Mohammed Al-Jabri, Mohammed Arkoun, John Rawls, Robert Nozick, Richard Rorty, Thomas Nagel, Richard Rorty, Alain Badiou, Albert Hirschman, Pietro Barcellona, Ralph Dahrendorf, Moses Finley, Pierre Bourdieu, Alain Finkielkraut, Reyes Mate, José Scannone, Enrique Dussel, Michael Walzer, Noam Chomski, Niklas Luhmann, Gianni Vattimo, Martha Nussbaum, Stefano Rodotà, Valentin Mudimbe, Fabien Eboussi Boulaga, François Lyotard, Bernard Williams, Anthony Giddens, Lijphart, Robert Dahl, Michael Gorbaciov, Ulrich Beck, Giorgio Agamben, Slavoj Zizek, Ikeda, Robert Dworkin, Ali Mazrui, Charles Taylor, Jon Elster, Zygmut Bauman, Francis Fukuyama, Antonio Negri, Sandel, Thomas Scanlon, Fernando Savater, Massimo Cacciari, Danilo Zolo, Luigi Ferrajoli, Paul Singer, Amy Gutman, Achille Mbembe). Talvolta, negli scritti di polemisti, uomini di cultura o di religione, africani, arabi e asiatici, gli argomenti anti-colonialisti si sommano a temi di tipo socialista o comunista; ma questo accoppiamento, per quanto importante, non è affatto una costante in questo tipo di letteratura (si pensi solo a Gandhi, o al Nasser del “socialismo arabo”, o ai leader africani del primo decennio post-indipendenza, 1960-70, quando non era ancora prevalsa l’onda delle dittature). In effetti, più che di comunismo, sarebbe corretto dire che in questi autori è il tema della giustizia sociale che si affianca più spesso a quello dell’anti-colonialismo, sicché è come se, in generale, questo tema trabocchi dalla dimensione nazionale, interno ad un paese, a quella internazionale – la giustizia sociale applicata al livello di giustizia fra le nazioni (in fondo, in effetti, il colonialismo è, al di là delle motivazioni buoniste delle democrazie europee che l’hanno praticato – il “fardello dell’uomo bianco” –, una questione di sopruso praticato da una nazione su un’altra). Rispetto al comunismo in quanto tale, sono state molte le remore espresse da importanti leader anti-colonialisti, da Césaire e Senghor a Mandela, da Gandhi e Nehru a Suharto, fino allo stesso generale vietnamita Giap, critico contro l’elite comunista al potere nel suo paese dopo la guerra contro gli USA. L’anti-colonialismo è un caso molto importante nell’ambito dello studio della Teoria della democrazia globale, perché vi si riflette, esattamente, la questione della giustizia fra le nazioni, incluso il rispetto dei patrimoni culturali e di civiltà, che dovrebbe essere esercitato da tutte le nazioni fra loro. Tutti gli autori citati hanno reso evidente, in un modo o nell’altro, il ruolo ingiusto e ambiguo giocato dalle elite dei loro paesi nei confronti delle lotte di liberazione. Queste elite, infatti, sono state spesso alleate dei paesi stranieri dominatori, e hanno fatto questo per comunanza d’interessi con gli aggressori stranieri nello sfruttamento del loro stesso popolo (tratto, questo, che accomuna le situazioni colonialistiche del XX secolo a quelle analoghe di sopraffazione internazionale del secolo precedente anche all’interno della stessa Europa: per esempio, della Francia o dell’Austria nei confronti dell’Italia). Solo quando tali elite hanno tagliato i ponti con gli sfruttatori esterni, si sono fatte coraggio ed hanno accettato di guidare una lotta di liberazione veramente nazionale, in effetti, solo allora si è ottenuto il risultato dell’indipendenza nazionale. Tuttavia, anche qui non mancano le perplessità. Le esperienze storiche di liberazione nazionale e di indipendenza ci mostrano come, anche nelle storie di successo, non tutto fila liscio. Spesso accade che il fronte di lotta per l’indipendenza, una volta ottenuto il maggiore risultato sperato (appunto, l’indipendenza dal paese colonialista), si rompa anche in maniera violenta, e le diverse fazioni, ora libere dalla comune preoccupazione, combattono fra di loro per conseguire la supremazia all’interno del paese liberato dall’oppressore straniero, o dal regime fantoccio che rappresentava tale dominatore straniero in patria, o anche solo dal regime nazionale, che però tollerava, magari con un proprio tornaconto, le indebite, quanto insopportabili, pressioni straniere. La Cina è, forse, il caso più emblematico di questo genere di situazioni: una volta tramontato l’Impero, nel 1911, e superato poi il dominio giapponese, dal 1937 al 1945, i due exalleati Chiang e Mao si fanno la guerra fra loro, senza esclusione di colpi, fino alla totale estromissione del Kuomintang dalla Cina continentale a Taiwan (e quest’Isola, già colonia della Spagna – storia nella storia –, venne così nuovamente riconquistata da un altro straniero, prima la Spagna ora il Kuomintang, sicché le popolazioni native dovettero rifugiarsi in zone marginali della propria isola, divenendovi sempre più una minoranza, che oggi conta solo qualche centinaia di migliaia di persone). Ancora, un’altra, ed altrettanto diffusa, esperienza storica è quella di paesi che, una volta ottenuta l’indipendenza dal paese straniero oppressore, continuano a restare soggiogati, volenti o nolenti (e spesso, di nuovo, con la mediazione ingiusta ed ambigua delle stesse elite di prima, già leader della lotta indipendentista e ora riciclate in nuove cricche economico-finanziarie), al dominio straniero. In questi casi si parla, e non a torto, di ri-colonizzazione o di post-colonialismo, intendendo alludere ad un colonialismo soltanto velato, ma non meno importante di quello, esplicito, precedente. Fra gli approcci filosofici oggi più importanti includo i seguenti: la teoria del contratto sociale (Rawls), la teoria della democrazia deliberativa (Habermas, Held, Benhabib, Urbinati), e la teoria democratico-cosmopolitica (Hoeffe, 1999; Archibugi, 2008; 1999; Beardsworth, 2011). In Il diritto dei popoli (1999) Rawls trasporta in campo internazionale il modello del “contratto sociale” da lui già applicato (in A Theory of Justice) nell’ambito di una nazione sola. Ipotizzando che gruppi diversi di persone siano portatori di diversi interessi, Rawls immagina che un “consenso minimo” possa essere trovato non tanto sui contenuti, quanto piuttosto sulle procedure e le regole per giungere a delle decisioni valide per tutti (lui lo chiama “consenso per intersezione”). Qui l’ONU diventa, per la sede internazionale, quello che è il parlamento per la sede nazionale. Nella tradizione della democrazia cosmopolitica aperta da Habermas, Seyla Benhabib ha pubblicato nel 2006 un breve volume in cui argomenta a favore del passaggio dal diritto internazionale al diritto cosmopolitico, un passaggio che, secondo la sua ipotesi, nell’evoluzione della società civile globale successivamente al 1948: “Le norme di giustizia internazionale sorgono nella maggior parte dei casi attraverso impegni derivanti da trattati e accordi bilaterali o multilaterali tra gli Stati e i loro rappresentanti. Questi regolano le relazioni tra gli Stati e altri attori che sono autorizzati ad agire come rappresentanti degli Stati in diversi campi, che vanno dall’industria al commercio, alla guerra e alla sicurezza, all’ambiente e all’informazione. Le norme di giustizia cosmopolitiche,invece, quali che siamo le circostanze della loro origine giuridica, vincolano gli individui in quanto persone morali e giuridiche di una società civile globale. Anche se le norme cosmopolitiche che derivano da accordi simili a trattati, quale può essere considerata la Carta dell’Onu per gli Stati firmatari, la loro peculiarità è che dotano di diritti e titoli gli individui, non gli Stati e i loro rappresentanti. Questo è il carattere distintivo dei molti accordi sui diritti umani firmati dopo la seconda guerra mondiale. Essi indicano un passaggio definitivo da un modello di diritto internazionale basato su trattati tra Stati a un diritto cosmopolitico inteso come diritto pubblico internazionale che vincola e sottomette il volere degli Stati sovrani” (Benhabib, 2008; ed or 2006, pp. 14-15). Quest’ultima frase indica la contraddizione fondamentale alla luce della quale Benhabib conduce la sua argomentazione: fra la sovranità dello stato, cioè, anche l’autodeterminazione democratica, e le norme della giustizia cosmopolitica (idem, p. 18). Recuperando indicazioni sia dal maestro Habermas, sia dalla Nussbaum, la tensione che qui si pone è quella di un’etica del discorso che trascenda i confini dello Stato-nazione, ovvero di un “amore per il proprio paese” che cozza con “l’amore per l’umanità”. Il “diritto di avere diritti”, frase ad effetto della Arendt (ripresa recentemente da Stefano Rodotà, 2013), richiama l’attenzione prima di tutto sull’individuo, ponendolo, come dire?, al riparo dallo stato. Per la Benhabib, le “iterazioni democratiche” – cioè, successivi ripassi dei processi che ci hanno portato ad acquisire sempre nuovi diritti, o “diritti di nuova generazione”, per dirla con Bobbio – possono aiutare a superare questa contraddizione (idem, p. 64 e p. 109). Sostenendo che “gli stranieri possono diventare residente, e i residenti possono diventare cittadini” (idem, p. 105) e che dunque “le democrazie hanno bisogno di confini porosi” (ibidem), la Benhabib esplicitamente contrasta il punto di Rawls: “La concezione rawlsiana dei popoli come universi morali chiusi è fallace da un punto di vista non soltanto empirico, ma anche normativo” (idem, p. 106). Archibugi e Beetham hanno pubblicato insieme un volume nel 1998 in occasione del cinquantenario della Dichiarazione universale dei diritti umani (1948) (Archibugi, Beetham, 1998). Il libro è in qualche modo celebrativo: vi si riconosce il percorso, a luce e ombre, fino al riconoscimento dei “diritti inalienabili” dell’uomo, la questione cruciale della divisione del potere, il passaggio dal giusnaturalismo al giuspositivismo, il fatto che la lista dei diritti è sempre aperta (da quelli politici a quelli civili, poi quelli economici, sociali, culturali, etc.), l’inglobamento delle varie dichiarazioni dei diritti africani, poi asiatici, islamici, e via dicendo, il rapporto problematico fra the West and the Rest. Beetham nota “la divisione disciplinare che ha assegnato lo studio della democrazia alla scienza politica e quello dei diritti umani alla legge e alla giurisprudenza”, lamentando la scarsa connessione fra questi due campi di studio” (idem, p. 26). Il discorso, in fondo, è molto semplice: le istituzioni democratiche devono difendere i diritti umani di tutti i cittadini, inclusi diritti politici, la libertà individuale, la sicurezza personale, la garanzia di essere sottoposti eventualmente ad un procedimento giudiziario regolare (idem, p. 29). Beetham affronta il classico punto del “prezzo dei diritti”, se, cioè, la promozione dei diritti è sempre possibile, o se bisogna prima soddisfare alcune condizioni economiche preliminari – questa era l’argomento del comunismo sovietico e, oggi, di tutti i sistemi autoritari (idem, p. 48). Ovviamente, il problema si pone anche nelle “democrazie sviluppate” (è l’argomento di Galbraith), dove gli “appagati” possono benissimo cospirare fra di loro per tenere lontani i “nonappagati” dal godimento dei loro diritti, con tutti i risvolti che questo schema comporta nei paesi dove “la democrazia è ancora debole”. Un altro punto debole nella teoria dei diritti universali è la questione dei diritti culturali, molto sensibile, come abbiamo visto, negli anni ’90, quando nel West è comparsa la massa dei migranti provenienti dal Rest e portatori delle loro culture, spesso non facilmente conciliabili con la “cultura democratica” (idem, p. 55). Infine, Archibugi (sostenuto da Norberto Bobbio, Luigi Bonanate ed altri studiosi italiani) identifica i due grandi ostacoli ad un autentico impianto della “democrazia cosmopolitica”: 1. la conflittualità internazionale e 2. la globalizzazione economica (idem, p. 75; al contrario, i “comunitaristi”, come Danilo Zolo, ritengono impossibile estendere la democrazia in quanto essa richiede una specifica cultura, formatasi col tempo, che se non è veramente abito personale, difficilmente può servire da collante fra gruppi sociali culturalmente troppo distanti: così in Zolo, 1995. Argomenti simili sono in Kymlicka, Taylor, Fraser). Il punto problematico, che a me comunque sembra che Archibugi non superi, è quello posto da Bobbio: “È possibile essere democratici in un universo non democratico?” (idem, p. 83, ripetuta in Archibugi, 2008, p. 85). La sua soluzione, la democrazia cosmopolitica, si situa a metà strada fra il modello confederale e il modello confederale: “La democrazia cosmopolitica è quindi un progetto che aspira a sviluppare la democrazia nelle nazioni, tra gli stati e a livello globale” (idem, p. 99 e p. 102. Archibugi, mantenendo una netta differenza fra democrazie e non-democrazie, e avvicinandosi, a mio parere, al progetto teorico di Thomas Pogge, riprende e approfondisce la sua idea di “democrazia cosmopolitica” nel suo volume successivo: Archibugi, 2008, p. 112). Gli argomenti di Beetham e Archibugi sono ripresi da Otfried Hoeffe (Hoeffe, 2007; ed or 1999, che propende per la “repubblica mondiale secondo il principio di sussidiarietà” e contro un “Leviatano globale”: capitoli VIII, IX, X e XI). Il punto di riferimento ultimo di tutti questi teorici rimane il Kant della Pace perpetua. Rispetto a tutti questi approcci, la mia impressione è che quello dei comunitaristi (tanto diversi quanto Charles Taylor e Alesdayr McIntyre, Will Kymlicka e Nancy Fraser) abbia solo segnato la stagione degli anni ’90, lasciando poco di duraturo alla Filosofia politica. Malgrado l’abbondanza di riferimenti a dati concreti (ma estremamente selezionati ad hoc), io ritengo che anche la “scienza politica della democrazia” coltivata negli USA debba essere collocata fra le teorie filosofiche; tuttavia, pretendendosi scientifica, questa scuola di pensiero sarà trattata nel prossimo paragrafo. Capitolo II Approcci scientifici alla democrazia Se gli approcci che fanno poco riferimento all’analisi dei casi concreti possono a giusto titolo essere detti filosofici, senza che questo risulti in nulla diminutivo della loro importanza (soprattutto, quando sono veramente filosofici), ma possono soddisfare poco chi ha desiderio di arrivare a certezze in qualche modo conclusive (come legami di cause ed effetti, per non dire leggi vere e proprie), gli approcci scientifici alla democrazia, o che pretendono di essere tali, spesso rimangono fin troppo aderenti a situazioni contingenti e non riescono a risalire ad un livello sufficientemente generale, tale da diventare degni del livello scientifico vero e proprio. In genere, si considera che la scienza politica come tale nasca con l’opera di autori come Ostrogorski, Vilfredo Pareto, Alberto Michels, Gaetano Mosca, John Hotelling, Hans Kelsen, John M. Keynes, la “scuola di Chicago” (Lasswell), Joseph Schumpeter, von Mises – subito “a ridosso”, per così dire, di Max Weber e di Emile Durkheim. Con questi autori le osservazioni sui governi e i partiti di massa di inizio XX secolo, nonché sui fatti economici, si sono fatte più sistematiche, e questo ha posto le basi per lo studio di “leggi politiche” e “leggi economiche” – dunque, per la scienza della politica. John M. Keynes, sulla base della sua esperienza dopo la prima guerra mondiale e poi durante la Grande depressione degli USA, pubblicando nel 1936 il Trattato dell’occupazione, interesse e moneta, intendeva esprimere precisi punti di vista scientifici su connessioni fra fatti economici, dove a determinate cause seguivano ineluttabilmente determinati effetti – la ripresa economica sarebbe stata determinata dall’aumento del potere d’acquisto nazionale, dalla possibilità per le banche di prestare denaro a basso tasso di interesse, dall’aumento di fiducia dei cittadini nelle obbligazioni e nelle azioni pubbliche, e dalla politica di lavori pubblici e di alti salari. Dalla stessa Inghilterra era venuta, durante la guerra, un’indicazione programmatica che aveva avuto larga eco nel mondo ed aveva rilanciato in Europa lo spirito e le idee del New Deal: nel 1942 l’economista keynesiano William Beveridge aveva pubblicato il Report on Social Insurance and Allied Service, successivamente approvato dalla maggioranza del parlamento, in cui si prospettava come compito essenziale dei governi la piena occupazione e la protezione generale dei cittadini, da raggiungere mediante un decisivo ampliamento del ruolo assistenziale dello Stato” (Villari, 1972, p. 591). Questo Report riprendeva l’idea rooseveltiana della “libertà dal bisogno” ed era in gran parte ispirato alle idee di Keynes. Autori come i seguenti: Friedrik Hayek, Giovanni Sartori, Martin Seymour Lipset, Stein Rokkan, Juan Linz, Charles Tilly, Gabriel Almond, Sydney Verba, James Buchanan, Leonardo Morlino, appartengono ad una scuola di pensiero che si autopercepisce come scientifica in quanto si basa su osservazioni sul terreno e la comparazione di case-studies. Ovviamente, lo stesso fa la scuola opposta di pensiero, gli appartenenti alla teoria centro-periferia – Raul Prebish, Immanuel Wallerstein, Gianni Arrighi, Samir Amin, Gunder Frank. I secondi non trascurano lo studio della politica interna degli stati, ma certamente preferiscono le Relazioni Internazionali. Da questo punto di vista il loro contro-altare è costituito senza dubbio dalla scuola realista – Hans Morgenthau, Henry Kissinger, Michael Walz, Samuel Huntington, Kennan, Keohane, Angelo Panebianco. Entrambi queste scuole, pur che opposte, si ritengono scientifiche. Scientifici si auto-dichiarono anche autori che simpatizzano per sponde opposte fra di loro – gli autori di sinistra amano rifarsi a Karl Polanji, Paul Sweezy, Michael Mann, David Graeber, Michael Chossudovski, Serge Latouche, Luciano Gallino, Paul Collier, Paul Krouch, Georg Corm, Jeremy Rifkin, Jeffrey Sachs. Altri sono scientifici senza richiamarsi ad alcun paradigma o affiliazione particolare (per esempio, per quanto Amartya Sen stimi Gunnar Myrdal o Kenneth Arrow, difficilmente lo si potrebbe affiliato a loro). Sen, in particolare, grazie al complesso teorico dell’approccio delle capacità, ad un mantenuto punto di vista democratico e allo strumento della comparazione nella teoria economica nazionale ed internazionale, è riuscito a forgiare un originale approccio scientifico che ha trovato una congeniale applicazione nei Rapporti annuali dell’UNDP. Il problema con tutti questi approcci è che non tengono conto in maniera molto superficiale e marginale della dimensione storica, il che invece è nel massimo conto nella Teoria della democrazia globale presentata in questa tesi dove viene considerata una maniera per acquisire scientificità per i propri principi. Capitolo III La Teoria della Democrazia Globale Nel 2000 l’allora presidente dell’Iran, Mohamed Khatami, presentò una mozione, intitolata Dialogue among Civilizations and Cultures, che fu approvata all’unanimità dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Dall’epoca, l’UNESCO, incaricata di mettere in pratica tale mozione, ha tenuto regolarmente delle riunioni di alto livello fra capi di stato e rappresentanti che, però, dopo l’11 settembre 2001, hanno diminuito di molto la loro importanza. Qualche filosofo della politica, come Fred Dallmayr, si è provato a ricavarne delle indicazioni per una politica democratica globale (Dallmayr, 2002 e 2007). Il passo che sto cercando di fare è quello di ricavare dalla ricerca storica e filosofica presentata nei capitoli precedenti la base per una Teoria della democrazia globale compiuta, che sia valida anche come una teoria politica delle Relazioni Internazionali. La ricerca esposta nei capitoli precedenti ci consegna un’immagine essenzialmente etnica della democrazia. Da Atene a Roma, dai Comuni italiani e olandesi dei secoli XII-XIV ai regimi “liberali e colonialisti” del XVIII e XIX secolo (Francia e Inghilterra), fino alla “democrazia imperialista” degli USA del XX secolo, la democrazia ha praticato la “guerra di bottino”, tal quale il regime autoritario nondemocratico, come politica estera, e il proprio tornaconto a scapito del benessere degli altri come mentalità normale, sia a livello nazionale che internazionale (da qui, il “dovere del buon cittadino” dell’adulto buon cittadino qua servitore del proprio stato – al limite, contro l’incolumità degli altri stati). La cultura della democrazia etnica richiede che il cittadino “buon democratico” sia una persona non-critica (soprattutto, quando si tratta di comprendere le conseguenze delle proprie azioni), con una mente non-scientifica (soprattutto, quando si tratta di superare gli stereotipi e i pregiudizi), che egli/ella sia una persona non-civile (soprattutto, quando si tratta di comprendere che anche quelle degli altri sono civiltà), che non si cura dell’ambiente (soprattutto, quando si tratta di quello degli altri), essendo cresciuto in un sistema educativo normale, cioè, dove non si è imparato a dibattere i proprio pensieri e a prendere posizione rispetto ai grandi problemi dell’umanità. Non c’è dubbio che, come diceva Democrito di Abdera e come ha ripetuto ai giorni nostri Norberto Bobbio, la peggiore democrazia è sempre preferibile alla migliore dittatura (e Churchill, forse, con maggiore arguzia). Tuttavia, questo non ci esime (anzi!) dal cercare i modi per migliorarla. Portare all’estremo limite i difetti della democrazia sopra esposti è, secondo me, il modo migliore per comprendere i rimedi da mettere in essere – e l’educazione è il modo migliore per fare diventare coscienti tutti i cittadini delle democrazie delle proprie contraddizioni. Per questi motivi la Teoria della democrazia globale che sto proponendo fa riferimento in maniera fondamentale all’educazione – come teoria e come prassi. Come teoria, pertanto, questa Teoria si pone come un “aggiornamento” della teoria di Dewey esposta cento anni fa in Democracy and Education. Come prassi, questa Teoria fa degli educatori gli agenti primi della democrazia globale, spingendoli a promuovere connessioni globali fra di loro e i loro pubblici, di bambini e di adulti (nei due capitoli seguenti si daranno chiarimenti sull’Illuminismo pedagogico e sull’educazione internazionale democratica). Il punto centrale della Teoria della democrazia globale è che essa pone la democrazia come un problema mondiale. È centrale, perché questa posizione, da sé sola, mostra come la democrazia di una nazione sia qualcosa di natura diversa dalla democrazia globale; infatti, il limite di una democrazia nazionale (secondo il modo della democrazia etnica, storicamente prevalente, per non dire unico) è la necessità di venire a patti con le altre democrazie e, soprattutto, con le non-democrazie, al fine di non scendere in guerra sia contro le prime (anche se, in caso, mai direttamente), sia, e soprattutto, contro le seconde. Da questo punto di vista, concordo con quanto, già nel 1964, un critico tedesco, Peter Badura, faceva notare – cioè, che la democrazia internazionale non è il risultato del trasferimento alla dimensione internazionale di una democrazia nazionale: “Una forma efficace di democrazia internazionale può essere presentata e realizzata soltanto se ci si rende conto che tale forma non può essere creata trasferendo alle istituzioni internazionali le figure storicamente concrete che la democrazia ha assunto nei diritti costituzionali nazionali. Essa deve essere pensata ex novo, considerando le particolari condizioni in cui il potere viene fondato ed esercitato a livello internazionale” (citato da Boeckenfoerde, 2010, p. 192). Aggiungo che, quindi, la democrazia globale non è la somma di tutte le democrazie nazionali o etniche – l’etnico essendo il limite che come tale la democrazia deve superare per diventare globale, cioè, non-etnica. Questo superamento pone dei problemi prima di tutti teorici, che qui cercherò di illustrare, traendo spunto da un bilancio della situazione attuale. Economisti e scienziati sociali, Organismi internazionali e filantropi hanno tentato recentemente di quantificare il “problema dei problemi”, la povertà nel mondo, in maniera tale che si possa cercare una soluzione tecnica (per fare tre esempi: Paul Collier, l’UNDP, Bill Gates). Sembra essere comune a tutt’e tre questi tipi di sforzi il dichiarare di voler procedere a come alleviare il problema, come se si desse per scontato che risolverlo fosse impossibile per principio – dunque, a mantenerlo prodursi e riprodursi, per poi poterlo alleviare – ma a vantaggio di chi? Molte sono le proposte per cambiare l’ONU – dal Consiglio di sicurezza e il potere di veto, al numero di stati che hanno facoltà di intervenire, etc. A me pare che il punto centrale sia il seguente: l’ONU dovrebbe essere accreditato da tutti gli stati membri come una centrale di intelligence che fornisce annualmente un rapporto sullo stato del Pianeta in termini di risorse energetiche disponibili per consentire il loro utilizzo tale che nessun cittadino del mondo possa essere ridotto alla fame, alla malattia, alla morte e alla dipendenza da altri. Da questo punto di vista, bisogna capovolgere l’inadeguato e dannoso principio della scuola realista delle Relazioni Internazionali, secondo il quale, essendo l’ambiente internazionale uno spazio anarchico, non importa quale sia il governo in carica in un determinato stato (di sinistra o di destra), quello stato dovrà comunque usare tutti gli strumenti in suo possesso (militari o diplomatici) per competere contro gli altri per accaparrarsi le risorse del Pianeta utili alla sua sopravvivenza. Al contrario, la Teoria della democrazia globale afferma il seguente principio: non importa quale governo sia in carica in un dato momento in un determinato stato (di sinistra o di destra), nessuno stato può comunque mai superare il limite della quota di risorse assegnato ad esso dall’ONU. La questione della riforma dell’ONU, ovviamente, non è solo politica e tecnica, ma anche culturale – e questo ci porta alla questione della differenza dei valori delle diverse civiltà, soprattutto al punto dei valori universali. Ci si chiede se l’islam sia compatibile con la democrazia (El-Alaoui, 1995), se i valori asiatici lo siano altrettanto (Cassen, 1995), e poi quelli africani, quelli degli Indios americani etc. Tutto questo riportare tutte le civiltà ai parametri della democrazia dell’Occidente, preso come tertium comparationis e unità di misura, proprio quando è storicamente certo che l’Occidente ha creato lo iato di ricchezza che oggi lo separa dal resto del mondo, è palesemente scorretto (giustamente, Alain Gresh si chiede se non sia per caso lo stesso Occidente a tradire i propri valori nel momento in cui si occupa, come se ne occupa, del Terzo Mondo, cioè, continuando ad allargare lo iato fra Nord e Sud: Gresh, 1995). Soddisfare il diritto all’alimentazione e fare finire la vergogna della fame nel mondo rimane un pio desiderio. A Davos nel 1999, nella riunione delle persone e degli enti più ricchi del mondo, ci ha provato inutilmente Kofi Annan, allora segretario delle Nazioni Unite a convincere i “potenti” ad impegnarsi a sottoscrivere un apposito Patto globale, ingaggiando una battaglia, persa in partenza, fra il diritto all’alimentazione e il Washington Consensus (Ziegler, Special Rapporteur dell’ONU sul diritto all’alimentazione, 2000 e 2001). La fame e le malattie ci portano dritti alla questione economica – dall’avvento del neoliberismo negli anni ’90 fino all’attuale crisi economico-finanziaria globale (George, Sabelli, 1994; George, 1995; Chossudovsky, 1995 e 1998). Il paradosso di una presidenza USA democratica, quella di Bill Clinton, che vuole la sopprimere la legge Glass Steagall del 1933, che saggiamente separava le banche commerciali dalle banche di investimento, rischia di mettere totalmente in cantina l’idea di Stiglitz sul ruolo regolatore dello stato in economia e assicura invece una supremazia senza controllo alcuno al potere dell’economia e della finanza internazionali (Stiglitz, 1989; De Brie, 1996; giustamente, Luciano Gallino parla di finanz-capitalismo: Gallino, 2011). Da qui siamo portati al problema dei rapporti fra politica interna e politica esterna di uno stato – e non solo sotto l’aspetto della politica militare e geo-politica, ma anche e soprattutto finanziaria. È, infatti, negli anni ’90 che comincia la storia di una politica economico-finanziaria di una nazione che, in realtà, viene pilotata da poteri economicofinanziari esterni (i casi del Messico e del Brasile sono esemplari sotto questo aspetto). Non è certo un caso che le misure proposte da James Tobin, economista americano Premio Nobel di Economia, relative alla tassazione delle transazioni in divisa siano sempre state malviste dai poteri economici internazionali, e quasi mai fatte applicare. Inoltre, è appurato che esistono e funzionano delle misure politiche alternative a quelle “incoraggiate” dalla Banca Mondiale e dal FMI (bassi tassi reali di interessi per “stimolare” l’investimento produttivo e politiche monetarie di lotta contro l’inflazione, a detrimento degli industriali e dei consumatori), che sono state invece praticate con successo dal Cile (che ha utilizzato il proprio sistema fiscale nazionale, riducendo i tassi di interesse reali) e dalla Corea del Sud (che ha ristretto la circolazione dei capitali stranieri, senza contrariare una crescita elevata e un’integrazione nell’economia mondiale: Sachs, Avril 1995). Il WTO, a partire dal 1995, ha moltiplicato questi problemi. A parte il fatto che, nel mondo macro-regionalizzato, gli scambi commerciali crescono più all’interno di ogni singola macro-regione (UE, NAFTA, APEC, MERCOSUR – e anche qui l’Africa resta indietro …), piuttosto che con l’esterno, la nascita del WTO spinge il lavoro ad abbandonare i paesi più sviluppati, dove il lavoro costa di più ed è più protetto. Paradossalmente, i paesi del Sud del mondo diventano i più attivi nel cancellare i diritti dei lavoratori, proprio per potere attirare gli investimenti produttivi. Infatti, la “clausola sociale” prevista dal WTO, e cioè, la difesa dei diritti dell’uomo e il quadro della società democratica, sono qui veramente pura retorica: paradossalmente, l’abolizione del lavoro forzato, la non-discriminazione nell’impiego, l’età minima di accesso all’impiego, la libertà sindacale, il diritto di negoziazione collettiva, etc., pur che “imprescindibili” per il WTO, diventano di fatto tutte condizioni penalizzanti per quei paesi che vogliano attirare capitali. Quel che manca, in complessivo, come sottolinea Planchou, è un’organizzazione mondiale della solidarietà, “une organisation globale des avantages comparatifs pour dépasser les blocages actuels” (Planchou, 1995). È un vecchio topos della retorica anti-democratica quello della democrazia solamente come un trucco utilizzato dalle oligarchie per prendere in giro le masse (così argomenta Luciano Canfora in Critica della retorica democratica). Il raggiro delle masse, in realtà, dovrebbe essere evitato dal sistema di regole studiate e previste dai teorici della democrazia. Infatti, proprio per evitare questo tipo di penose prese in giro, tali studiosi (da Lipset a Sartori, da Dahl a Merlino) hanno identificato i parametri della “democrazia normale” e di quella democrazia che tale non è. Come abbiamo già visto sopra, questo tipo di approccio, malgrado la sagacia degli autori, finisce per avallare anche l’Italia come un caso di “democrazia normale” (tale è per Somaini, 2009), mentre che viene da chiedersi se l’Italia di Berlusconi non faccia persino scuola – come si prende in giro un intero paese (Musso, Pineau, 1995). La semplificazione democratica fa sì che esistano solo due schieramenti, uno del centro-sinistra e uno del centro-destra (così in Europa come negli USA), che addirittura tendono ad identificarsi l’uno con l’altro – e dunque a ridurre la politica a mera amministrazione senza più alcun dibattito politico, dove il cittadino è ridotto a telespettatore che tifa per uno schieramento o per l’altro, mentre crescono gli astensionisti (come già negli USA, così ora anche in Europa), insieme a, guarda caso, la xenofobia (De Brie, Juin 1995; Amin, la farsa democratica). Siamo portati, da qui, alla questione del rapporto fra stato e costituzione (flessibile o rigida, secondo la forte differenziazione introdotta da Luigi Ferrajoli: Ferrajoli, 2007 e soprattutto 2013). Le libertà dei cittadini, inclusa quella di iniziativa economica, fanno pendant con l’autonomia dello stato in cui vivono, rispetto alle organizzazione internazionali. Ma, se lo sfondo internazionale fa da limite alle politiche estere degli stati, ecco che tali limiti si ripercuotono sui cittadini. I casi del Sud Africa e del Cile negli anni 1990 sono emblematici da questo punto di vista: i due paesi avrebbero dovuto passare dai regimi dittatoriali alla democrazia, ma le condizioni nelle quali tale passaggio sono state negoziate a livello di economia internazionale hanno trasformato da positivo in negativo tale “passaggio irreversibile” – e i cittadini di questi paesi sono rimasti impigliati in una non-democrazia economica (altri esempi dello stesso periodo che possono essere portati qui sono l’Algeria, il Kurdistan turco, l’Ecuador e il Perù – mentre un esempio di dialogo che, almeno per un po’, ha pagato è quello dello Sri Lanka a metà anni ’90: Meyer, 1995). Se i poteri economici internazionali hanno di fatto il diritto di intromettersi nella vita interna di un paese e dei suoi cittadini, il discorso sul diritto di ingerenza negli affari interni di uno stato nel caso in cui qui sia provato che il governo viola i diritti dei cittadini rimane una questione controversa (da questo punto di vista, ha ragione Ramon Chornet, 1995, ad argomentare che si applicano sempre due pesi e due misura: in Palestina, che pure è colonizzata a forza da Israele, la comunità internazionale non interviene mai adeguatamente, mentre in tanti altri caso sì – perché?). Un altro aspetto importante dell’intromissione dall’esterno negli affari interni di un paese è quello del traffico di armi. Anche paesi che, come l’Italia, hanno il divieto di vendere armi, aggirano normalmente tale divieto ed esportano armi – una questione che è molto più raffinata di quella, molto più palese, degli armamenti nucleari e della loro eventuale riduzione, come gli accordi START (Rotblat, Steinberger, Udgaonkar, sous la dir de, 1995). Un altro aspetto importante ancora, che da nazionale è ormai diventato internazionale, è quello dell’ambiente – dall’amianto all’inquinamento (che da un paese viaggia verso gli altri), dagli alimenti impropri per gli animali allevati (la mucca pazza) all’eco-mafia, dall’uranio impoverito al cambiamento climatico, dallo smaltimento degli armamenti nei mari degli altri paesi fino all’invio di rifiuti tossici verso paesi dalle legislazioni ambientali “permissive”. Anche la giustizia internazionale – oltre alle importanti esperienze delle “commissioni verità e riconciliazioni” degli anni ‘90, che diventano un paradigma della possibilità della rinascita della democrazia, in Sud Africa come in America Latina e altrove – diventa un’importante issue in questo contesto di discorso (Lemoine, 1996; Cassen, 1996; sull’arresto di Pinochet a Londra, vedi Jean, 2001; per una giustizia indipendente e internazionale, vedi Chemillier-Gendreau, 2001). Al di là dell’OIT, che denuncia regolarmente il lavoro minorile, dobbiamo comprendere che qui la giustizia si mescola inevitabilmente con la sicurezza democratica e la difesa dai poteri finanziari incontrollati – e che invece, in una democrazia, dovrebbero esserlo, come infatti richiede lo storico dell’UNDP Ruben Mendez (Mendez, 1992 e 1996 dove propone una Bourse mondiale des devises). In questo campo, dunque, ha una grande importanza la proposta avanzata di recente dal nuovo presidente della Tunisia Marzouki, che pressa per la creazione di una Corte costituzionale internazionale che obblighi i paesi a rispettare la loro parola data. Anche la questione dei rifugiati nel mondo contemporaneo ci mette davanti alla dimensione internazionale dei conflitti (Le Monde diplomatique, Avril 2001, pp. 18-19, riporta uno specchio completo della situazione nel 2001), per non parlare dei migranti in quanto tali, che sono ormai un fenomeno planetario (Decornoy, 1996; Pampanini 2010). Il fenomeno della droga (e dell’AIDS, quando è ad esso connesso) è l’altra grande emergenza nazional-internazionale degli ultimi due decenni (Labrousse, 1993; Wallon, sous la dir de, 1993). Lemoine, 2001 argomenta sull’ambiguità della guerra globale alla droga condotta dagli USA, che fa questa guerra fuori dal suo territorio, in Colombia e altrove, in maniera tale da non interrogarsi troppo sul malcontento interno al paese, fonte del bisogno di droga. In Italia, lo scrittore e giornalista Roberto Saviano, già noto per le sue denunce contro la mafia a livello nazionale, parla ora di narco-capitalismo internazionale (Saviano, 2013). Questo elenco di problemi, che da nazionali sono diventati negli ultimi vent’anni internazionali, mi suggerisce l’idea che, in effetti, tutti i termini-e-pensieri che normalmente utilizziamo (e fra di essi diritto, educazione, democrazia) ricevono, com’è normale, una parte del loro significato dal mondo nel quale essi si adoperano. Da questo punto di vista, possiamo dire che questi problemi (che possiamo, ovviamente, allungare) hanno un significato che è formato, per una parte, dal loro stesso riferimento storico e concettuale e, per un’altra parte, dal tipo di mondo nel quale essi sono pensati e discussi. Prendiamo, per esempio, il termine costituzione. Al tempo dell’inizio del nazismo e successivamente della seconda guerra mondiale (la seconda metà degli anni ’30), McIlwain dedicò delle importanti lezioni sul costituzionalismo, difendendolo a spada tratta contro la “semplificazione” di essa e del parlamento che stavano operando a quel tempo Mussolini e Hitler e, data la circostanza del tempo in cui parlava, l’autore mostrava elogiativamente l’evoluzione della costituzione come strumento politico di giustizia ed imparzialità, da Atene agli USA. Ora, è ovvio che questo stesso termine, costituzione, ha un significato specifico e ricco che proviene dalla lunga storia europea moderna quando, in Europa stessa, si trattava di combattere gli assolutismi nel nome del giusnaturalismo prima e, poi, del giuspositivismo. Ma è altrettanto ovvio che tale significato è cambiato cambiando il mondo: se prendiamo, per esempio, la Carta costituzionale dell’Unione Europea approvata dai parlamenti degli stati perché i popoli, con i referendum, la bocciano, c’è di che rimanere perplessi sulla democraticità dell’operazione. Cambia il mondo nel quale parliamo di concetti che ci servono per andare avanti, e di conseguenza cambia almeno una parte del loro significato. Questo è vero anche per diritto, educazione e democrazia – e soprattutto per Relazioni Internazionali – considerato che proprio il mondo in cui tali relazioni si esercitano è cambiato, e cambia. Il primo punto che mi serve focalizzare è, infatti, il concetto di mondo, che negli ultimi due decenni, in seguito alla macro-regionalizzazione, può essere pensato come “contesto di contesti”. Nel periodo dell’imperialismo e del colonialismo (dalla pace di Westfalia alla seconda guerra mondiale), gli imperi erano i contesti significativi per i sudditi che vi abitavano. Gli imperi, infatti, spesso multiculturali, erano dei macrocosmi all’interno dei quali i sudditi realizzavano la loro vita – dunque, i loro contesti di vita, spesso unici (per l’Europa, per esempio, si pensi al Concerto Europeo di Metternich e poi di Bismarck). Nello scenario internazionale – appunto, il “contesto di contesti” – tali imperi erano i soggetti attivi che interagivano fra di loro. Tutto questo è andato avanti fino alla seconda guerra mondiale – ed è stata la grande stagione del mondo come “spazio anarchico” concettualizzato dai primi teorici realisti delle Relazioni Internazionali, da Hans Morgenthau a Henry Kissinger. Questa concettualizzazione rimane in piedi anche dopo la fine della seconda guerra mondiale, benché in realtà si possa affermare che sia il costituirsi dei due blocchi più il Fronte dei Non-Allineati, sia la rinata ONU, siano stati tutti fattori che hanno cambiato il mondo. Ora, il mondo non è più quello spazio anarchico dove ciascuno stato (o impero) cerca di sopravvivere come meglio può e in tutti i modi possibili, ma è il contesto di tre contesti: il blocco “democratico”, il blocco sovietico, i Non-Allineati. Dopo il 1990 il mondo è cambiato nuovamente: si creano macro-regioni (UE, UA, NAFTA, ASEAN, MERCOSUR) che sono insiemi (e soggetti) diversi da quelli già esistenti (OECD, Lega araba: Laidi, 1996; il numero 4, dicembre 1995 di Etudes internationales pubblica sul tema delle istituzioni regionali come garanzia di sicurezza internazionale). A questo punto, si sviluppa la globalizzazione, e le Nazioni Unite prendono l’iniziativa di intestarsi l’impegno per lo sviluppo, l’ambiente, l’educazione, la salute e il “lavoro decente”. Dieci anni dopo, dall’iniziativa di Porto Alegre, nasce il World Social Forum, animatore dell’alter-mondializzazione. Questo è il mondo nel quale vive oggi l’umanità: le macro-regioni, da una parte, e, dall’altra, i vertici mondiali (l’ONU e le sue varie agenzie, e i diversi World Fora: il Sociale, il Politico, l’Economico, l’Educativo – più o meno attivi ed incisivi). Il secondo concetto fondamentale che mi serve sviluppare è quello di passaggi irreversibili attraverso i quali, come la storia ci insegna, la democrazia non si è mai compiuta, o è stata sempre postergata. L’esame di questi passaggi irreversibili, non tanto quelli precedenti al XX secolo, ma soprattutto quelli su cui ha fatto focus la ricerca illustrata nei capitoli dedicati a quest’ultimo secolo, ci mostra che, se la soluzione ad un problema viene cercata al livello nazionale, essa non viene mai trovata o, se viene trovata, non è di tipo democratico. All’inizio del secolo, semplicemente, i partiti ad orientamento socialista venivano boicottati dai partiti monarchici e liberali, più forti e già installati; le elezioni erano limitate alle sole popolazioni maschili, o a sezioni di esse; i sindacati venivano circuiti dalla parte padronale; gli operai venivano invogliati a prendere il fucile e ad andare alla guerra contro gli altri operai-soldati degli altri paesi, secondo lo schema della democrazia etnica (che vedremo meglio sotto); quando la guerra finisce, l’operaio-soldato si trasforma in consumatore, quando può, o in povero se vive nelle “grandi periferie” del sistema-mondo; dopo la decolonizzazione, le dittature in Africa hanno messo a tacere, quasi definitivamente, ogni aspirazione all’educazione e all’emancipazione; la corsa al denaro e alle armi, dagli anni ’90 ad oggi, ha trasformato i cittadini i tele-spettatori passivi e tifosi di club politici; lo stesso sistema di “check and balance”, considerato il più affidabile dai teorici della democrazia, viene falsato dalle influenze dall’esterno, apposta rese opache ai parlamenti rappresentanti dei popoli in maniera tale da poter favorire i potentati economico-finanziari internazionali. Il terzo e ultimo pilastro della Teoria della democrazia globale che sto per presentare è il concetto di democrazia etnica. La democrazia di Atene era un affare limitato ai soli possidenti maschi residenti nella città-stato, i poveri interni essendo gli ex-nemici sconfitti in battaglia; quando questa democrazia si allargò ai meno abbienti, si mantenne la clausola etnica, mentre le alleanze con altre città-stato, preventivamente trasformate, anche manu militari, in regimi politici amici, si andavano allargando al fine di preparare nuove “guerre di bottino”. Il limite a questo gioco all’espansione fu riscontrato prima in Filippo il Macedone, poi, e definitivamente, in Roma – due sistemi politici non-democratici e ben più potenti, ma che giocavano all’esterno al loro stesso gioco, la “guerra di bottino”. Quando ogni bagliore della democrazia si è spento e dopo che il silenzio è sceso sulla sua idea per secoli, la ripresa di una vita comunale e di uno stile diverso di organizzare la vita sociale all’interno delle mura della città non ha cambiato la mentalità etnica: i Comuni italiani e olandesi hanno significativamente continuato a funzionare all’esterno esattamente come i sistemi politici non-democratici, cioè, con la “guerra di bottino”, in termini commerciali ed economici prima, e militari poi. Il capitale che si è formato a partire dalla fine del Medio Evo ha funzionato a cerchi sempre più larghi fino all’attuale globalizzazione, trascendendo nelle sue vette i limiti etnici o religiosi (dove capi di stato e banchiere si prestavano, e si prestano, favori a vicenda), ma lasciando ben divisi e in guerra fra di loro i popoli sottomessi e irretiti in ideologie e religioni divisive. Quando gli USA sono apparsi sulla scena internazionale come potenza mondiale politicamente alternativa (in quanto sistema repubblicano e democratico), essi hanno dovuto e voluto funzionare, ancora una volta, al livello internazionale come le altre potenze imperiali: la “guerra di bottino”, recuperando così la tradizione ateniese della democrazia etnica. Tenendo ora a mente questi tre concetti – mondo, passaggi irreversibili e democrazia etnica – ci rendiamo conto della necessità di una Teoria della democrazia globale – infatti, è evidente che solo una democrazia internazionale sola può travalicare i limiti dell’etnos. Prima di tutto, è chiaro che la democrazia nazionale e la democrazia internazionale non sono due cose della stessa natura, benché si influenzino a vicenda notevolmente. Per questo – secondo punto – mi sembra che lo spunto di Mohammed Khatami, il dialogo fra civiltà, benché annientato dall’attentato delle Torre Gemelle, debba essere ripreso e posto a fondamento di un ipotetico “governo del mondo”, cioè, dell’ONU. A me sembra che questa idea sia anche migliore di quella dell’interdipendenza di Gorbaciov, che è rimasta seppellita dalla globalizzazione, perché nell’idea di Khatami il governo del mondo non è affidato ad un meccanismo politico-amministrativo senza anima e cieco, ma scaturisce dal dialogo fra entità, le civiltà, che sono ciascuna una visione diversa del mondo. In questo punto, più che nell’architettura istituzionale immaginata, nella capacità di dialogo fra cittadini cosmopolitici (e non solo dei loro governi ed istituzioni), sta la differenza fra la “democrazia globale” che sto presentando e il progetto di “democrazia cosmopolitica” degli altri autori delle teorie del “contratto sociale”, della democrazia deliberativa e del realismo. È chiaro che le civiltà non devono essere assunte come essenze, come punti di vista sul mondo immodificabili. Il mondo ha oggi un’agenda dove troviamo tutti quei problemi che, come abbiamo visto, da nazionali sono diventati tutti internazionali, a partire proprio dalla democrazia. Per questo motivo, proprio il dialogo, che deve esercitarsi su tutti i problemi, sarà lo strumento illuminato che guiderà la trasformazione stessa delle civiltà – in dialogo: “Una comunità di interdipendenza diviene una comunità morale solo se stabilisce di risolvere questioni di comune interesse mediante procedure dialogiche alle quali tutti prendono parte. Con ‘tutti’ intendo l’umanità intera, non perché sia necessario appellarsi a una qualche teoria filosofica essenzialista della natura umana, ma perché la condizione di interdipendenza planetaria ha creato una situazione di scambio, influenza e interazione reciproci di portata mondiale” (Benhabib, 2005, p. 62). Vediamo ora di dare una definizione della Teoria della Democrazia Globale con dei punti chiari: 1. la democrazia non si ha in un paese solo – si ha, cioè, se vige fra tutti i paesi del mondo; 2. la dimensione economica deve essere contemplata nella teoria del controllo del potere da parte della democrazia – dunque, questa dimensione deve essere aggiunta alle già contemplate dimensioni del legislativo, esecutivo e giudiziario; 3. l’educazione alla democrazia, nel suo essere di carattere internazionale, deve basarsi sul dialogo fra civiltà; 4. fondamentalmente, tale educazione democratica si converte nel dovere da parte di tutti i sistemi educativi di informare e far comprendere i maggiori problemi dell’umanità, di far dibattere e di far prendere posizione rispetto ad essi a tutti i cittadini; 5. l’ONU deve essere trasformata in modo da funzionare come un ente, riconosciuto da tutti gli stati, che regola le Relazioni Internazionali, secondo questo principio: non importa quale sia il sistema politico vigente all’interno di ciascuno stato, ciascuno stato si deve impegnare a rispettare il limite della porzione di risorse energetiche disponibili del pianeta indicato dall’ONU, sulla base di studi scientifici attendibili e condivisi dalla comunità scientifica internazionale. Annesso I L’Illuminismo pedagogico L’Illuminismo pedagogico è un complesso teorico che l’autore ha sviluppato lungo tre decenni di attività e di ricerca da educatore (1973-2003), formato da quattro teorie già proposte dall’autore (Pampanini, 2006; ed spagnola 2008): 1. la Teoria degli archetipi educativi (Pedagogia immaginale), 2. la Teoria dell’agire educativo; 3. la Teoria politica dell’istituzione educativa, e 4. la Teoria regionale dell’educazione comparata. Legenda: ME.S.C.E. = MEditerranean Society of Comparative Education A.F.R.I.C.E. = Africa For Research In Comparative Education I.O.C.E.S. = Indian Ocean Comparative Education Society G.C.E.S. = Gulf Comparative Education Society R.L.A.E.C. = Red Latino Americano de Educacion Comparada Ciascuna Teoria, a sua volta, costituisce un programma di ricerca e di azione educativa che l’autore ha sviluppato successivamente nella sua attività di ricerca e di azione pratica nel campo dell’Educazione comparata, della pratica educativa come educatore e come militante nell’azione dei diritti umani. Paragrafo 1 Gli archetipi educativi: implicazioni filosofiche e politiche La Pedagogia immaginale: - Pampanini, G. (2006). Wisdom and Madness. A Comparative Study on Educational Archetypes. Catania: CUECM Cooperativa Universitaria Editoriale Catanese di Magistero. - Pampanini, G. (2007). The Reasoning and Its Flaws. Catania: CUECM. - Pampanini, G. (2012). A Dialogue Among Civilization. World Philosophy of Education – An Essay. Catania: CUECM. Nella storia, almeno fino all’Età moderna, ciascuna civiltà ha sviluppato una propria tradizione di Educazione legata ad alcune figure-leader che hanno finito per assumere la posizione di archetipo. Per usare la “teoria generale dell’educazione” di Le Thanh Khoi e il connesso concetto di civiltà come “unità di analisi”, è facile identificare particolari uomini che hanno giocato quel ruolo all’interno della loro civiltà, come LaoTse, Confucio, Budda, Gesù, Mohammed, etc. Partendo da questi grandi esempi di educatori leader, l’indagine stoica nelle varie tradizioni di Educazione, perfino nell’Età moderna, dovrebbe ricostruire come quegli archetipi hanno continuato ad ispirare i successivi educatori, contribuendo a forgiare i modi dell’Educazione in generale, non solo all’interno della loro stessa tradizione, ma, soprattutto dopo l’inizio dell’era di intensificazione della comunicazione internazionale, anche le tradizioni degli altri. Secondo la Pedagogia immaginale, l’Educazione oggi è un insieme di istituzioni, attività e attori la cui “forma” può essere propriamente compresa se si cerca di guardare al continuo appeal archetipico che discende dalle radici delle diverse civiltà. Non solo questo: per giungere ad un reale “dialogo fra civiltà” in Educazione, la Pedagogia immaginale propone che ciascun insegnante, educatore o ricercatore in Educazione non solo dovrebbe frequentare la propria tradizione di Educazione, ma anche quelle degli altri, per dare ai suoi pubblici una versione illuminata degli archetipi educativi. Paragrafo 2 L’agire educativo: implicazioni filosofiche e politiche La Teoria dell’Agire Educativo: - Pampanini, G. 2005. Education and Didactics. The One-World Approach. Catania: CUECM Cooperativa Universitaria Editoriale Catanese di Magistero. - Pampanini, G. (2011). Intercultural Intelligence. Catania: CUECM. - Pampanini, G. (2013). Democratizzare l’educazione. Come l’intercultura e la neuropedagogia stanno democratizzando il nostro modo di fare educazione. Catania: CUECM. La TAE intende fornire all’insegnante e all’educatore un complesso di griglie utili a catturare la complessità delle sue attività educative monitorando la corretta realizzazione di esse. Partendo da griglie generali connesse a categorie larghe e obiettivi tassonomici, la serie di griglie giunge fino alle micro-dimensioni di un vasto parco di tipi di attività educative. Particolarmente sensibile alle nuove acquisizioni delle neuro-scienze, la TAE enfatizza l’importanza del linguaggio e della cultura in Educazione, in particolare della retorica come “arte del persuadere e del convincere”. Facendo un uso corretto e fruttuoso delle diverse figure retoriche, l’educatore si trova in una posizione di focalizzare i vari modi in cui egli e ella produce il suo discorso davanti ai suoi pubblici secondo le tradizione retoriche dell’Educazione a cui i suoi pubblici appartengono. La TAE è concepita in accordo alla visione generale dell’Educazione proposta dall’Illuminismo pedagogico, un complesso teorico che mira ad aiutare gli individui a trovare responsabilmente e “dopo dovuta considerazione” la propria posizione all’interno della catena inter-umana che lega tutti gli esseri umani fra di loro su questa terra. Paragrafo 3 L’istituzione educativa: implicazioni filosofiche e politiche La Teoria Politica dell’Istituzione Educativa: - Pampanini, G. 2006. Théorie politique de l’institution éducative. Catania: CUECM Cooperativa Universitaria Editoriale Catanese di Magistero (www.cuecm.it ). - Pampanini, G., ed. (2011). 1st PA.RE.R.E. Pampanini Report on the Right to Education, 2011. Foreword: Vernor Muñoz. After-word: Samir Amin (www.cuecm.it ). - Pampanini, G. Teoria della democrazia mondiale. Tesi di dottorato. Schemi generali della TPIE. Alla base della TPIE ci sono tre assunzioni: 1. l’ideologia della scuola moderna successiva alla Seconda Guerra Mondiale “ha dimenticato” di inserire la cultura come un valore principale dell’Educazione; al contrario, si è affermato che, più si era liberi dalla cultura, più si era moderni. 2. L’istituzione educativa dovrebbe normativamente garantire a tutti i suoi pubblici il diritto a conoscere e comprendere i maggiori problemi del mondo odierno, in modo che ciascuno possa scegliere la propria posizione nella catena inter-umana in modo ponderato. 3. Le politiche educative dovrebbero essere concepite non solo in termini di “politiche educative”, ma anche in termini di consapevolezza personale delle conseguenze politiche delle proprie azioni. Con queste tre assunzioni basiche in mente, la TPIE: 1. afferma il diritto/dovere di ciascun educatore a frequentare tutte le diverse tradizioni in Educazione al fine di favorire un’interpretazione illuminata di essi alla luce del “dialogo fra civiltà”: la democrazia viene qui concepita come il risultato atteso da tale dialogo; 2. ritiene il duro lavoro professionale dell’educatore (qualunque ne sia la specialità) come un lavoro pubblico di qualità; 3. sostiene che il lavoro professionale dell’educatore debba essere seriamente accompagnato da un impegno intellettuale di alto livello, che possa migliorare la comprensione di ciascuno di ciò che la responsabilità personale è e dovrebbe essere, grazie all’Educazione. Paragrafo 4 L’approccio comparativo macro-regionale: implicazioni filosofiche e politiche La Teoria Regionale dell’Educazione Comparata: - Pampanini, G. 2004, Critical Essay on Comparative Education. 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