I paesaggi d`Europa tra storia, arte e natura
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I paesaggi d`Europa tra storia, arte e natura
I paesaggi d’Europa tra storia, arte e natura Atti della Conferenza Trilaterale di Ricerca 2005-2007 Die Kultur der Landschaft in Europa Akten der Trilateralen Forschungskonferenz 2005-2007 Les paysages d’Europe entre histoire, art, nature Actes de l’Atelier de Recherche Trilatéral 2005-2007 A cura di – édité par – herausgegeben von: RITA COLANTONIO VENTURELLI VILLA VIGONI Deutsch-Italienisches Zentrum Centro Italo-Tedesco 2008 I paesaggi d’Europa tra storia, arte e natura Atti della Conferenza Trilaterale di Ricerca 2005-2007 Die Kultur der Landschaft in Europa Akten der Trilateralen Forschungskonferenz 2005-2007 Les paysages d’Europe entre histoire, art, nature Actes de l’Atelier de Recherche Trilatéral 2005-2007 A cura di – édité par – herausgegeben von: RITA COLANTONIO VENTURELLI Cura redazionale e impaginazione – révision et mise en page – Redaktion und Satz: ANKE ELISABETH FISCHER VILLA VIGONI Deutsch-Italienisches Zentrum Centro Italo-Tedesco Via Giulio Vigoni 1 I-22017 Loveno di Menaggio (CO) www.villavigoni.eu 2008 INDICE – INDÈXE – INHALT Introduzione – introduction – Einleitung RITA COLANTONIO VENTURELLI Alcune riflessioni sulla possibilità di definire un nuovo modello culturale di paesaggio europeo 7 Prima parte – première partie – erster Teil I paesaggi d’Europa nelle scienze della vita, del territorio, dell’uomo e della società Les paysages d’Europe comme objets des sciences de la Vie, de la Terre, de l’Homme et de la Société Die Landschaften Europas in den Natur-, Kultur- und Gesellschaftswissenschaften RITA COLANTONIO VENTURELLI – ANDREA GALLI – GIOVANNA PACI Multidisciplinarietà e ricomposizione del sapere. Un contributo per la gestione del paesaggio culturale GIORGIO MANGANI Topica del paesaggio 17 34 HANSJÖRG KÜSTER Natur und Landschaft in naturwissenschaftlicher Sicht: Zwei Begriffe, die unterschieden werden müssen ALFONS DWORSKI Architektur- und Landschaftsverständnis im Wandel von Ort und Zeit. Einige Episoden der europäischen Ideengeschichte am Leitfaden von Architektur- und Landschaftsbetrachtungen 44 49 YVES LUGINBÜHL Gouverner un paysage 62 FRANÇOISE DUBOST Un point de vue ethnologique sur l’esthétique du paysage 72 3 Seconda parte – deuxième partie – zweiter Teil I paesaggi d’Europa nella letteratura e nell’arte Les paysages d’Europe comme objets des démarches de connaissances des paysages en tant qu’œuvres de l’art et de la littérature Die Landschaften Europas in Literatur und Kunst RAFFAELE MILANI Determinazione di un’estetica del paesaggio 77 MICHEL COLLOT Paysage et identité(s) européenne(s) 82 YVES LUGINBÜHL Paysage et politique 90 GIORGIO MANGANI I casi della necessità 102 GABRIELLA ROVAGNATI Venezia: una leggenda. Declinazioni di un paesaggio nella letteratura tedesca 124 MICHEL COLLOT Le visible et l’invisible: les Paysages avec figures absentes de Philippe Jaccottet 157 RAFFAELE MILANI Il paesaggio letterario come paesaggio reale. Spunti da Gabriele D’Annunzio 166 4 Terza parte – troisième partie – dritter Teil I paesaggi d’Europa come progetti di paesaggio e di ‘governance’ Les paysages d’Europe comme projets de paysage et gouvernances de projets de paysage Die Landschaften Europas – Landschaftsplanung und ‚Governance’ RITA COLANTONIO VENTURELLI ET AL. Riflessioni metodologiche e applicative sulla gestione integrata del paesaggio 173 Il tempo libero sull’acqua: il “paesaggio delle ville storiche” del Lago di Como 189 Per un paesaggio della “produzione Marche-Italian Style”: il caso di studio dell’area metropolitana di Ancona 209 PIERRE DONADIEU Le paysage, identités paysagères et le développement durable urbain 236 GIOVANNI BUZZI La dimensione economica e sociale del paesaggio culturale extraurbano 250 PIERRE DONADIEU Le Landscape urbanism est-il un nouveau modèle de pratiques paysagistes ? 259 PAOLA BRANDUINI La gestione delle trasformazioni nel paesaggio agricolo periurbano. Permanenze storiche e paesaggi futuri 272 PIERRE DONADIEU Les professionnels du paysage et la construction des biens communs paysagers. Le cas de l’agriculture urbaine 291 Abstracts 306 Gli autori – les auteurs – die Autoren 327 5 Introduzione – introduction – Einleitung 6 RITA COLANTONIO VENTURELLI ALCUNE RIFLESSIONI SULLA POSSIBILITÀ DI DEFINIRE UN NUOVO MODELLO CULTURALE DI PAESAGGIO EUROPEO Was mir den Hauptantrieb gewährte, war das Bestreben die Erscheinungen der körperlichen Dinge in ihrem allgemeinen Zusammenhange, die Natur als ein durch innere Kräfte bewegtes und belebtes Ganze aufzufassen. (Ciò che mi ha dato la spinta principale è stata l’ispirazione a concepire i fenomeni degli oggetti fisici nella loro connessione generale, la natura come una totalità mantenuta in movimento e in vita da forze interiori.) Alexander von Humboldt 1. I presupposti storici In un momento in cui continua a interessare ancora molto il dibattito sulle radici religiose della cultura europea, sembra opportuno chiedersi se anche la cultura del territorio e del paesaggio possa essere ricondotta a una matrice comune. Si può dire che fino all’età medievale è riconoscibile un’impronta unitaria che, sotto certi aspetti, collegava alcune forme insediative dell’Europa occidentale. Infatti, l’impero romano aveva imposto alcuni principi organizzativi spaziali che, ad esclusione di Roma, si ripetevano costantemente, indipendentemente dalla tipicità dei singoli luoghi in cui venivano applicati: la colonizzazione aveva comunque un’ispirazione militare, e quindi delle regole inderogabili. Sugli impianti urbani e agrari romani, simili ovunque, trasformati più tardi dalle esigenze di adattamento alle conseguenze – del declino prima e della decadenza poi – dell’impero romano, si innestarono i modelli urbani e rurali medievali, dettati dagli sviluppi culturali che nel frattempo stavano gradatamente sostituendo il pragmatismo romano ed i nuovi principi ispiratori. Così, mentre il sistema politico ormai lasciava il posto alle forme più nuove, il territorio continuava a trasformarsi spontaneamente secondo un paradigma che manteneva ancora, anche nelle nuove espressioni spaziali, delle regole insediative simili in ogni luogo. Infatti, anche se le tradizioni locali della lavorazione agricola del suolo imponevano il risultato di un’immagine molto diversa da luogo a luogo, tuttavia la cartografia delle città medievali testimonia dei modelli che, pur nelle loro diverse declinazioni che formalmente denotano una nuova libertà di adattamento alle specifiche esigenze climatiche, orografiche e difensive, concettualmente ruotano tutti intorno a dei punti fissi. Essi 7 sono rappresentati dai luoghi collettivi religiosi e civili, a cui viene dedicata tutta l’attenzione progettuale. Infatti, nella città medievale esisteva una sorta di doppio regime, poiché, mentre una volta tracciato un quadro di riferimento articolato in areae, e cioè in unità di isolato, le abitazioni – di qualunque classe sociale – vi venivano edificate secondo i criteri dettati liberamente dal proprietario, l’obbiettivo prioritario dell’organizzazione urbana era quello dello spazio collettivo. Dunque, ciò che accomuna il paesaggio medievale non è un unico modello, ma la riconducibilità di numerose forme insediative ad alcuni modelli organizzativi e formali basati tutti su principi analoghi, peraltro non programmati né imposti, ma adattati ai luoghi in cui venivano applicati. Ed è questa una delle forme di equilibrio più interessanti tra l’assenza di precisi strumenti di piano, intesi nell’accezione attuale, come sembrano ribadire gli studi più recenti sulle rappresentazioni ideali disponibili, e la realizzazione delle esperienze costruttive degli edifici – quasi esclusivamente di quelli collettivi – affidate ai “mastri” senza una precisa organizzazione edilizia. Anche il paesaggio agrario ha un suo rapporto simile ovunque con la città: gli orti privati e i pascoli collettivi, le selve e i campi aperti sono lo sfondo costante dei castelli feudali come dei borghi inerpicati in posizione difensiva 1. Anch’essi riflettono un’opera di cura costante delle zone 2 produttive periurbane, fortemente collegata con i principi ispiratori del modello culturale che ha generato la rinascita medievale degli insediamenti urbani 3. Allora, dai documenti e dalle immagini disponibili, e alla luce delle interpretazioni che ne forniscono oggi le scuole più accreditate, sembra che si possano trarre alcune lezioni dal modello medievale che si sintetizzano in alcuni punti essenziali: • La libertà di adattamento dei principi ispiratori comuni del processo di trasformazione genera una specie di “piano strategico” che si sviluppa continuamente; • La mancanza di un controllo minuzioso dell’autorità politica sulle scelte di maggior dettaglio può contribuire all’organizzazione e all’espressione di una società più articolata; • L’enfasi data alle funzioni collettive è la base dello sviluppo dell’identità locale; • Il rapporto con il territorio extraurbano contribuisce in maniera sostanziale alla corretta organizzazione spaziale urbana. Il testo di riferimento più importante su questo tema rimane sempre E. SERENI, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari, 1961. 2 Per una riflessione molto approfondita e multidisciplinare sulla città medievale, si rimanda a: B. FRITSCHE – H.-J. GILOMEN – M. STERCKEN (a cura di), Städteplanung – Planungsstädte, Chronos, Zurigo, 2006. 3 A questo proposito, si rimanda al saggio: R. COLANTONIO VENTURELLI, Il paesaggio: concetto ed espressione fisica, “Nuova informazione bibliografica”, n°4, ottobre – dicembre 2006. 1 8 Forse, queste riflessioni sul paesaggio medievale possono essere considerate come alcune delle linee comuni da porre alle origini del paesaggio europeo, che poi si perderanno a causa della formazione di diverse identità culturali, della formazione e della separazione sempre più accentuata delle diverse culture nazionali, come ad esempio avviene per l’Umanesimo e per il Rinascimento, e quindi dello sviluppo dei differenti modelli di gestione del paesaggio. Pertanto, mentre in Italia si affermava un nuovo paradigma, quello medievale si sviluppava coerentemente nel resto dell’Europa, prolungandosi fino quasi al XVII secolo. Dai risultati emersi nei primi due incontri, il gruppo di lavoro della Conferenza di ricerca ha mostrato come in fondo anche oggi si può parlare di alcuni aspetti che accomunano le diverse forme di paesaggio, ma sembra che tra questi aspetti comuni prevalgano quelli negativi. Ciò che assimila tutti sembra essere l’appiattimento imputabile al diffondersi del modello culturale globale, con tutte le sue conseguenze di insostenibilità e di intollerabilità. Ebbene, è proprio su questi due punti che bisogna fondare l’azione futura: da un lato sulla diffusione dei problemi simili, e dall’altro sulle diverse esperienze culturali che possono essere messe a disposizione per risolverli. 2. I presupposti scientifici emersi dalla Conferenza di ricerca Sempre dalla Conferenza di ricerca, è emerso anche che l’orientamento scientifico multidisciplinare sembra rispondere in modo più appropriato all’esigenza di scegliere delle tracce per guidare il confronto interno del gruppo, ma anche per dare un contributo chiaro al dibattito internazionale che si sta svolgendo sul tema dei nuovi paesaggi. Come è noto, la matrice scientifica multidisciplinare non è una novità recente: il primo interprete del tentativo di organizzare le conoscenze scientifiche in questo senso è stato Alexander von Humboldt che dice: Es sind aber die Einzelheiten im Naturwissen ihrem inneren Wesen nach fähig wie durch eine aneignende Kraft sich gegenseitig zu befruchten. Die beschreibende Botanik, nicht mehr in den engen Kreis der Bestimmung von Geschlechtern und Arten festgebannt, führt den Beobachter, welcher ferne Ländern und hohe Gebirge durchwandert, zu der Lehre von der Geographischen Verteilung der Pflanzen über den Erdboden nach Maaßgabe der Entfernung von Aequator und der senkrechten Erhöhung des Standortes. Um nun wiederum die verwickelten Ursachen dieser Vertheilung aufzuklären, müssen die Gesetze der Temperatur-Verschiedenheit der Klimate wie der metereologischen Processe im Luftkreise erspähet werden. (Trad. it: I dettagli della conoscenza della natura sono per loro intima essenza capaci di integrarsi reciprocamente attraverso una forza di attrazione. La botanica descrittiva, non più delimitata nella ristretta cerchia della determinazione di generi e specie, conduce l’osservatore che attraversa paesi lontani e alte montagne alla teoria della distribuzione geografica delle piante sulla terra, secondo la misura della distanza dall’equatore e dell’altitudine del luogo. Per spiegare di nuovo le complesse ragioni di questa distribuzione si devono tenere presenti le diverse temperature dei climi e dei 9 processi meteorologici dell’atmosfera. Così, ogni classe di fenomeni conduce l’osservatore avido di conoscenza ad un’altra classe di fenomeni attraverso la quale essa viene sostenuta o dalla quale dipende) 4. Accanto alle potenzialità multidisciplinari, uno dei fattori che hanno permesso al gruppo di lavoro di avvalersi dei propri robusti presupposti operativi è stato quello dell’appartenenza dei suoi membri ai diversi riferimenti culturali legati inevitabilmente alle diverse origini geografiche. Questi due fattori, quello della multidisciplinarità e quello dell’internazionalizzazione, i quali si rivelano spesso degli ostacoli per un dibattito proficuo, hanno permesso al contrario di far collaborare le diverse scuole di pensiero, i diversi campi disciplinari e le diverse concezioni nazionali. Dunque, un tentativo di ricomporre i vari aspetti del sapere ha prodotto una base di lavoro comune per ricomporre una concezione scientifica unitaria, dal quale dedurre i presupposti per un possibile modello fisico: la (ri)composizione del sapere si è adoperata per la ricomposizione del paesaggio. Questa ricomposizione è avvenuta attraverso la ricerca, l’enfatizzazione e l’approfondimento delle interfacce, e non dei singoli campi; o meglio, dall’ottica comune di studiare i rapporti è scaturita quella prima idea del modello culturale integrato che ha poi aiutato a trasferire questi presupposti in un modello ispiratore formale del paesaggio. 3. Il nuovo modello culturale delineato Si possono rintracciare chiaramente alcune proposizioni del pensiero sviluppato durante i due incontri dedicati al confronto tra le diverse posizioni di partenza. Questo confronto si è svolto seguendo le tre declinazioni del concetto di paesaggio che hanno guidato il lavoro di tutto il gruppo: quella del paesaggio come racconto e invenzione, quella del paesaggio come scienza e rappresentazione, e quella del paesaggio come progetto e come governance. Si può dire che le posizioni dei singoli apporti si possono esprimere molto sinteticamente nell’espressione di queste tre diverse articolazioni, come segue. a) - Il paesaggio come racconto e invenzione Il paesaggio è un’immagine, quindi il paesaggio è la natura, ordinata secondo concetti estetici. Mentre la natura è un’entità oggettiva, che può essere influenzata solo con difficoltà, il paesaggio è un’ entità soggettiva, quindi una costruzione determinata dalla percezione dell’uomo 5. Dunque, l’estetica del paesaggio non deve limitarsi solo allo studio e all’analisi delle immagini del paesaggio stesso, per quanto ciò costituisca il suo ambito specifico, ma deve dirigere la sua attenzione verso un disegno organico A. VON HUMBOLDT, Kosmos, Eichborn, Francoforte, 2004, p. 3. U. KÜSTER, Kunst und Landschaft: Raum und Bild. Überlegungen zur Landschaft in der Kunstgeschichte und zu Bünhnenbildentwürfen von Pierre-Adrien Pâris, in: R. COLANTONIO VENTURELLI – K. TOBIAS (a cura di) La cultura del paesaggio, Olschki, Firenze, 2005. 4 5 10 dell’intervento dell’uomo nell’ambiente, inteso come specifico contesto fisico. Pertanto, attraverso l’interpretazione, subentra un’ulteriore categoria, che è centrale nella concezione estetica del paesaggio: quella dell’intenzionalità, della coerenza dell’intervento progettuale come ponte tra passato e futuro, tra memoria e nuove funzioni di spirito e materia. In questo senso, secondo Milani, “progettare significa ridefinire un disegno di relazioni, comporre un tessuto di forme” 6. b) - Il paesaggio come scienza e rappresentazione Secondo Donadieu, la costruzione di un futuro auspicabile è un progetto di società 7. Infatti, l’antitesi città – campagna è decisamente superata in vista del concetto di “campagna urbana”: così, l’ostilità si trasforma in collaborazione con la città. Dunque, i luoghi periurbani o “parchi di campagna” sono eco-simbolici, perché da un lato rinnovano e accrescono il valore ecologico dell’intero territorio urbano, mentre dall’altro rispondono alle esigenze di esprimere non solo l’identità locale, ma anche la concezione culturale corrente di spazio a servizio della collettività. Pertanto, il settore produttivo agricolo assume un nuovo ruolo economico e sociale complesso, e cioè quello di produttore di reddito integrato con varie altre attività, e insieme di sostegno allo sviluppo urbano fornendo, oltre agli spazi di riequilibrio ambientale, anche una parte dell’approvvigionamento alimentare della città. Allora, il contributo progettuale, che deriva dalla riconnessione tra la nuova ruralità e la nuova città, consiste nel proporre un significato diverso all’assetto del territorio urbano ed a quello periurbano, al territorio differenziato nelle strutture, ma organizzato in modo unitario sia dal punto di vista funzionale, sia da quello degli strumenti di pianificazione del territorio stesso. c) - Il paesaggio come progetto e come governance Seguendo le affermazioni di Hansjörg Küster 8, si può dire che, poiché il paesaggio è un prodotto della cultura dell’uomo, diventa tautologico parlare di paesaggio culturale. Invece, la natura è un’entità compiuta in sé, con le sue leggi intrinseche e con la sua tendenza alla stabilità che la porta a trasformarsi continuamente attraverso l’autoregolazione. Pertanto, per poter studiare il paesaggio è necessario rifarsi al concetto proposto da Alexander von Humboldt come sintesi di numerosi aspetti. Quest’ottica mette in crisi, ancora una volta, la frammentazione del sapere e le sue conseguenze negative che si sono ripercosse in molti campi. Tra le più pericolose, vi sono senz’altro quelle politiche, che condizionano a loro volta le modalità gestionali del paesaggio, ignorando il fatto che la vera scienza R. MILANI, Il paesaggio è un’avventura, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 165. P. DONADIEU, Campagne urbane, Donzelli, Roma, 2006. 8 H. KÜSTER, Geschichte der Landschaft in Mitteleuropea, C. H. Beck, München, 1995. 6 7 11 del paesaggio non fa capo ad una singola disciplina, ma è una sintesi delle conoscenze razionali e delle istanze emotive dell’uomo. Infatti, secondo il suggerimento di chi scrive e del gruppo di cui fa parte, esistono essenzialmente tre fattori delle politiche pianificative e gestionali del paesaggio: il patrimonio delle risorse, la conoscenza scientifica e tecnologica, e l’opinione pubblica. Quando questi tre fattori sono in equilibrio, e il punto focale di questo equilibrio viene definito ogni volta in modo diverso in funzione delle singole situazioni, la trasformazione del paesaggio proposta da un’azione di piano ha buone possibilità di riuscita. Dunque, si tratta di coinvolgere nel processo decisionale tutti gli attori interessati che costituiscono la cosiddetta governance. In uno dei due contributi portati alla Conferenza dagli studiosi che hanno seguito questo indirizzo viene dimostrato come, in due diversi casi di studio, sia stata proposta una precisa correlazione tra una strategia articolata di ricomposizione del paesaggio e la trasformazione della governance locale in una good governance, come espressione della collettività degli attori pubblici e privati che sono interessati a qualsiasi titolo alla gestione del paesaggio. Dunque, tornando alla posizione culturale espressa dalla Conferenza, essa si può riassumere per grandi linee nei seguenti punti chiave, i quali costituiscono una specie di “manifesto” del gruppo: • Il fatto che i problemi riguardanti il paesaggio sono comuni deve essere considerato un vantaggio; • La costruzione di un futuro auspicabile è un progetto di società; • Lavorare individualmente ed insieme per la ricomposizione del sapere può contribuire a formare un modello culturale complesso che si possa riflettere sulla formazione di alcuni principi ispiratori validi per la declinazione flessibile dei diversi paradigmi del paesaggio europeo; • Il concetto di paesaggio definito dal gruppo comprende due accezioni che si integrano, superando i rigidi confini tradizionali: - la prima accezione, secondo Raffaele Milani, suggerisce che “l’arte del paesaggio è un complesso di forme e dati percettivi, un prodotto del fare e della fantasia. Il paesaggio, nel suo statuto morfologico, non ha canoni e tecniche, non è un’attività, ma un rivelarsi di forme in consonanza con l’intervento materiale e immateriale dell’uomo” 9; - la seconda, tratta da Hansjörg Küster, afferma che il paesaggio è un prodotto della cultura dell’uomo, dunque dal punto di vista della scienza, la natura e il paesaggio sono due concetti che devono rimanere distinti; 9 R. MILANI, op. cit., p. 102. 12 • Quindi, poiché la matrice culturale da proporre deve essere in grado di integrare le due accezioni, essa non può che rifarsi alla matrice complessa che deriva dal pensiero di Alexander von Humboldt, attualizzandone il significato; • Dunque, l’ottica scientifica più adatta da seguire è quella multidisciplinare; • Per quanto riguarda le origini del paesaggio europeo, bisogna considerare alcuni spunti ricavati dai modelli culturali ed insediativi medievali come dei possibili paradigmi ispiratori da rendere attuali ed applicativi; • Per evitare che la riflessione scientifica svolta rimanga un prodotto esterno al mondo reale, è necessario rafforzare il rapporto del gruppo di lavoro con la governance del territorio e del paesaggio. In questo senso, i risultati prodotti si possono considerare un buon supporto che può contribuire allo sviluppo di quella good governance che è formata da tutti gli attori coinvolti nello sviluppo del nuovo paesaggio e europeo, ricomposto e disegnato per l’uomo. 4. Lo scenario del nuovo modello insediativo possibile e i primi riflessi del modello culturale proposto Le linee propositive del modello insediativo, che si può ipotizzare come conseguenza della costruzione del modello culturale esposto nei punti precedenti, sono il risultato di un autentico lavoro collettivo. Infatti, il gruppo degli studiosi che hanno partecipato alla Conferenza non ha seguito le modalità tradizionali della ricerca, secondo le quali ogni componente disciplinare fornisce un prodotto specifico, ma al contrario queste linee esprimono il dibattito che si è sviluppato durante gli incontri, in cui ciascuno ha messo a disposizione di tutti gli altri le proprie conoscenze. Pertanto, il modello insediativo possibile che viene proposto non consiste in una rappresentazione spaziale, ma in uno scenario in cui si traducono le riflessioni sulle tendenze culturali in atto, delle quali si escludono quelle che potrebbero esasperare l’incoerenza e la frammentazione culturale, e di conseguenza quella fisica. Dunque, non vengono proposte tanto delle ricette valide sempre e comunque, quanto la definizione di ciò che non deve essere in nessun modo presente. Pertanto vengono escluse le seguenti situazioni: • Mancanza di scenari di riferimento complessivi da scegliere ed adottare nei casi specifici; • Frattura tra i soggetti decisionali e gli attori interessati alla redazione degli strumenti gestionali del paesaggio; • Redazione di strumenti pianificativi che si occupano di un solo settore di intervento per volta, senza collocarsi in un quadro definito di organizzazione complessiva ed integrata del paesaggio nel suo complesso; 13 • Mancata considerazione della coscienza collettiva ed individuale della popolazione locale; • Mancata considerazione del “sentimento del paesaggio” che la cultura locale nutre nei confronti dei luoghi di appartenenza 10; • Scenari abitativi tutti uguali tra loro, accomunati dalla mancanza di uno stile organizzativo, come dimostrano la realtà, ma anche una certa concezione della globalizzazione pericolosamente malintesa; • Ruralità separata e/o confusa con la città; • Soluzioni prive di flessibilità. Le istanze fondamentali che ne derivano impongono, tra le caratteristiche irriununciabili, che l’uomo ritorni ad essere al centro delle azioni di trasformazione del paesaggio e dell’impiego delle sue risorse. Si tratta di porsi degli obbiettivi di sostegno delle trasformazioni compatibili con le scelte culturali, di crescita dell’identità e di tutela di tutte le dimensioni di cui l’uomo dispone. Pertanto, la dimensione estetica, ad esempio, deve avere almeno la stessa importanza di quella economica, e ciò in tutte le scelte che riguardano l’espressione fisica del modello culturale. E’ in questo senso che si può richiamare correttamente il fatto che il paesaggio è un rivelarsi di forme in consonanza con l’intervento materiale e immateriale dell’uomo, e quindi che il diritto alla bellezza, presente ad esempio nella costituzione finlandese, comincia ad esprimere anche sul piano giuridico un’esigenza ormai irrinunciabile dell’uomo. Quest’esigenza deve essere soddisfatta sia nel paesaggio urbano, sia in quello extraurbano, anzi forse qui la richiesta potrebbe essere ancora più forte, proprio in virtù di un senso di riequilibrio rispetto ad alcune situazioni urbane consolidate ed ormai difficili da contrastare. Ma che senso può avere parlare di paesaggio agrario e di ruralità in un momento in cui la popolazione urbana raggiunge il 70%, al termine del primo secolo “interamente urbano” – cioè in cui per cento anni di seguito essa ha superato costantemente il 50% della popolazione totale? Il valore della risposta sembra essere contenuto proprio nel fatto che tanto più la città acquista la sua importanza demografica e fisica, tanto più si cerca un rapporto con il territorio non urbano. Infatti, le nuove politiche agricole tengono conto sicuramente delle necessità ambientali, ma anche della produzione agricola che, pur subendo delle trasformazioni, rimane comunque un aspetto fondamentale, soprattutto se si riesce a rimettere in contatto e in rapporto con le esigenze alimentari della città. Dunque, si profila la possibilità di recuperare il significato antico del territorio extraurbano, che è sorto nel Medio Evo, sotto due aspetti: quello dell’integrazione del mercato locale con i prodotti del luogo, e quello della ricomposizione delle zone periferiche con le zone centrali attraverso la riorganizzazione funzionale ambientale dell’intera regione urbana. Ecco che il sostegno allo sviluppo dell’identità locale 10 Sul concetto di rigenerazione urbana si rimanda a: T. HALL, Urban Geography, Routledge, New York, 2005. 14 viene promosso partendo proprio da quelle situazioni marginali che sono state più a lungo le più degradate, e che al contrario possono offrire delle importanti possibilità di riequilibrio. Così, gli strappi, le ferite e le profonde lacerazioni di cui parla Milani, possono essere ricomposte progettando, e cioè ridefinendo un disegno di relazioni, componendo un tessuto di forme. Ma le forme rivelano un’organizzazione spaziale indifferenziata delle città, che sempre più spesso diventano delle metropoli generate dal modello della cultura della trascuratezza, dell’economia del commercio massificato, della ricerca più spietata della rendita urbana. Invece, la città ha bisogno di essere rigenerata, poiché il suo declino sembra essere denunciato da molte parti10. L’interpretazione dei problemi e delle loro cause deve produrre dei programmi che siano collocati nei diversi contesti storici, geografici e politici, ma prefigurati anche in base alla dimensione temporale, gradualmente, e a quella spaziale, per parti di città. Dunque, la rigenerazione fisica del paesaggio passa attraverso la rigenerazione del modello culturale che ne deve sostenere la trasformazione futura, proprio perché il paesaggio è l’espressione tangibile della cultura dell’uomo. Se è vero che i problemi sono generali e che le regole sono sempre meno locali, bensì sono nazionali o perfino internazionali, è tanto più vero che le soluzioni da trovare devono essere locali; ma attenzione: non è più la frammentazione che deve dominare, ma il rispetto di alcune valenze plurime che partono da una strategia comune, in modo tale che la governance locale vi si possa rapportare, declinando i paradigmi generali nei casi specifici. Altrettanto, si richiede che le singole realtà locali si confrontino con la strategia più vasta espressa dalla capacità di colloquiare con le istanze delle governance dei livelli superiori. Allora, rispondendo all’interrogativo iniziale riguardo alla possibilità di rintracciare delle radici comuni del paesaggio europeo, sicuramente la nostra risposta è positiva e tenta di essere unitaria; avvalendosi della ricchezza delle istanze scientifiche e culturali derivanti dalla pluralità dei soggetti partecipanti all’ “avventura” della Conferenza di ricerca, le radici culturali future forse possono scaturire da quell’idea di libertà che propongono Peter Hall e Ulrich Pfeiffer nel loro documento introduttivo all’Expo di Hannover del 2000, e cioè l’idea della libertà di circolazione degli abitanti sorretta dall’idea della libertà intellettuale e culturale: una visione futura ispirata al modello della civiltà ateniese 11. A nome di tutti i partecipanti alla Conferenza di ricerca e a nome mio personale desidero ringraziare la Deutsche Forschungsgemeinschaft, la Maison des Sciences de l’Homme di Parigi e l’Università di Trento per il generoso contributo che hanno dato per la realizzazione dell’intero progetto, nonché il personale di Villa Vigoni. In particolare, ringrazio Anke Fischer per la grande dedizione a questo complesso lavoro e Aurore Leconte, Tommaso Limonta, Julia Müller, Mirsini Nikodimou e Caterina Sala per la loro e attenta e puntuale collaborazione. 11 P. HALL – U. PFEIFFER, Urban 21, DVA, Stoccarda/Monaco, 2000. 15 Prima parte – première partie – erster Teil: I paesaggi d’Europa nelle scienze della vita, del territorio, dell’uomo e della società Les paysages d’Europe comme objets des sciences de la Vie, de la Terre, de l’Homme et de la Société Die Landschaften Europas in den Natur-, Kultur- und Gesellschaftswissenschaften 16 RITA COLANTONIO VENTURELLI – ANDREA GALLI – GIOVANNA PACI MULTIDISCIPLINARIETÀ E RICOMPOSIZIONE DEL SAPERE. UN CONTRIBUTO PER LA GESTIONE DEL PAESAGGIO CULTURALE Questo contributo è dedicato al professor Wolfgang Haber, che ha inaugurato con noi la stagione delle riflessioni sul paesaggio a Villa Vigoni. Nel documento scientifico preparatorio dell’EXPO 2000 di Hannover, pubblicato nel volume dal titolo Urban 21, con un’espressione molto felice, Peter Hall e Ulrich Pfeiffer dicono che con il XX secolo si è chiuso “il primo secolo interamente urbano”, volendo indicare che, per la prima volta nella sua storia, oltre il 50% della popolazione umana ha vissuto per cento anni di seguito concentrata nelle aree urbane 12. Questo dato statistico compendia in sé l’intreccio dei risultati di moltissimi processi fortemente interrelati tra loro che hanno trasformato lo stato dell’ambiente umano, con un ritmo sempre più accelerato, e hanno determinato nuovi ruoli e nuovi aspetti delle sue componenti – e cioè degli ecosistemi naturali, che comunque conservano delle leggi proprie, e degli ecosistemi trasformati dalla cultura dell’uomo, e quindi dalle sue capacità tecnologiche sviluppate attraverso i secoli, applicate sia alle funzioni insediative, sia al sistema rurale in tutti i suoi aspetti. Ma è proprio verso il suo compimento che questo secolo comincia a vedere il tramonto del suo stesso prodotto, e cioè di quella rivoluzione urbana che ha generato la città e che ora va declinando per lasciare il posto al risultato di una rivoluzione più recente, quella informatica. L’espressione fisica di questo nuovo prodotto culturale si comincia ad intravedere in un modello spaziale poco differenziato, in cui la città e la campagna sfumano una nell’altra, confondendosi e diffondendosi senza soluzione di continuità 13. Questi sono gli stadi più recenti del processo di trasformazione del paesaggio culturale, ma sicuramente non sono gli ultimi, dal momento che, per sua definizione, il paesaggio culturale è l’espressione fisica immediata del modello culturale che l’uomo sviluppa in quel momento specifico della sua storia. Ma l’uomo non è sempre esistito, quindi la sua opera di trasformazione del paesaggio naturale è cominciata ad un certo punto della storia della biosfera, e continuerà finché egli esisterà; però, se un giorno per ipotesi smettesse di esercitarvi la sua influenza, il paesaggio continuerebbe a trasformarsi ugualmente, seguendo quelle leggi intrinseche e spontanee che hanno regolato, regolano e 12 P. HALL – U. PFEIFFER, (a cura di), Urban 21, DVA, Stoccarda/Monaco, 2000. Per una esposizione molto lucida di questo tema, si rimanda a: P. ROSSI (a cura di), Modelli di città, Edizioni di Comunità, Torino, 2001. 13 17 regoleranno gli ecosistemi naturali. Allora, citando il titolo del primo capitolo dell’opera di Hansjörg Küster sulla storia del paesaggio della Mitteleuropa, si può dire che la storia del paesaggio nel suo complesso è “una storia senza inizio, senza data, senza fine” 14. E’ proprio seguendo questa impostazione che scaturisce il primo quesito a cui dare una risposta, indispensabile per proseguire nel ragionamento: che cosa si intende per paesaggio? Nell’ambito scientifico transdisciplinare, sembra fornire alcuni principi utili in questo senso l’ecologia nel suo campo di lavoro specifico dell’ecologia del paesaggio, secondo la quale il paesaggio si differenzia essenzialmente dal concetto di ambiente, definito sempre in senso soggettivo, e cioè riferito a un soggetto. Infatti esso è l’insieme eterogeneo degli elementi, dei processi e delle relazioni che costituiscono l’ecosfera, considerato nella sua natura di entità: - unitaria e differenziata, che ne fa un complesso unico, compiuto e articolato; - ecologico-sistemica, che lo definisce come un aggregato superiore di ecosistemi, o sistema di ecosistemi, naturali e antropici; - dinamica, che lo identifica con un processo evolutivo, nel quale si integrano le attività spontanee e quelle derivanti dall’azione della collettività umana, nella loro dimensione storica, materiale e culturale. Dunque, posto un paesaggio P e un soggetto S (vegetale, animale, umano, singolo o collettivo) in esso contenuto, si definisce ambiente relativo a S l’insieme degli elementi di P con i quali S intrattiene una qualsiasi relazione (le relazioni possono essere fisiche, chimiche, biologiche, psicologiche, sociali, percettive, culturali, ecc.). Ne deriva che la scienza ambientale studia le relazioni intercorrenti fra un soggetto prefissato e gli elementi del paesaggio che, nel loro complesso, ne definiscono l’ambiente stesso, in quanto legati al soggetto da determinate relazioni”. Seguendo quest’ottica scientifica, si può dire che la storia del rapporto tra l’uomo e l’ambiente si inserisce nella storia del paesaggio. Nella sua continua azione di inserimento, l’uomo ha trasformato delle porzioni di territorio che inizialmente erano molto ridotte, impiegando dei tempi piuttosto lunghi, ma che poi, utilizzando i suoi mezzi tecnologici sempre più avanzati, è riuscito ad ampliare sempre più, impiegando dei tempi sempre più ridotti. Dunque, la scala temporale e la scala spaziale si pongono in una relazione reciproca inversa. Infatti, mentre l’uomo segue le sue logiche ed attua le trasformazioni conseguenti, le evoluzioni del paesaggio naturale continuano secondo le leggi intrinseche, con tempi molto più lunghi di quelli, seppur lunghi, dell’azione antropica, e che, nella loro lentezza, continuerebbero a svilupparsi anche in un’ ipotetica assenza dell’uomo. La fig. 1 mostra il confronto tra i due tipi di azioni. 14 H. KÜSTER, Geschichte der Landschaft in Mitteleuropa, C.H.Beck, Monaco, 1995. 18 Schema (a) Schema (b) Fig. 1 – Confronto fra il processo della pianificazione tradizionale (metodo interdisciplinare) [schema (a) tratto da: R. Colantonio Venturelli – G. Gibelli, Ecologie, in: A. Clementi (a cura di), Interpretazioni di paesaggio, Moltemi, Roma, 2002] e il processo della pianificazione integrata [schema (b) tratto da: R. Colantonio Venturelli – G. Gibelli, Ecologie, op. cit.]. Pertanto, è molto diverso studiare un fenomeno collocandolo su una scala spaziale ampia o su una più ridotta, così come è molto diverso se viene inquadrato in una prospettiva temporale breve o in una più distesa: si ottengono risultati differenti, ma soprattutto più appropriati o meno appropriati allo scopo che si è prefissato. Poiché tutto deve essere commisurato agli obbiettivi della ricerca che si intende svolgere, si può proporre di passare in rassegna molto rapidamente alcuni dei modelli più noti del paesaggio culturale che si sono affermati nel tempo per capire come si possono prefigurare le potenzialità future in funzione dell’interpretazione dei modelli passati e di quello attuale. Tralasciando per il momento le trasformazioni del paesaggio avvenute secondo le sue leggi intrinseche, che determinano lo stato attuale degli apparati dell’habitat naturale, si può dire che quelle del paesaggio culturale si siano realizzate attraverso un intreccio continuo d’interrelazioni tra le strutture fisiche e le funzioni da esse ospitate che condiziona il paesaggio culturale. Dunque, questo rapporto di adattamento reciproco e continuo ha caratterizzato l’habitat umano e i suoi apparati, fin dall’inizio della sua storia, che coincide con la scoperta da parte dell’uomo delle sue capacità di piegare i processi naturali alle proprie esigenze produttive. 19 La rivoluzione agricola, poi quella urbana, poi quella energetica e infine la rivoluzione informatica, come viene indicata sempre più spesso, hanno sottolineato i passaggi più importanti di questa storia. Si possono confrontare in modo sintetico le tappe più note del processo d’interazione tra le strutture, le funzioni e i flussi di energia nell’habitat umano per avviare una riflessione sulle sue possibilità future. In particolare, il significato di questa operazione risulta più chiaro se si scelgono come zona di osservazione due territori che hanno subito delle evoluzioni in parte simili, ma in parte diverse negli stessi periodi considerati. A questo fine, sono stati prescelti due casi, entrambi italiani; il primo è situato nell’area geografica dell’Italia settentrionale, che è la sede di quella particolare forma di conurbazione denominata come la “megalopoli mediterranea”, e in particolare nella parte lombarda della pianura padana; il secondo caso è al centro della penisola, ai margini esterni di questa conurbazione, e praticamente coincide con la regione Marche. Nella storia dell’urbanizzazione del mondo occidentale si possono rinvenire alcuni modelli che hanno strutturato con forza e notevole persistenza la cultura urbana successiva e che spesso si sono contrapposti in una sorta di antagonismo ideologico e culturale. Pertanto, l’obbiettivo di questo contributo è quello di presentare alcuni di questi modelli, pur con la consapevolezza dell’inevitabile difficoltà di inscrivere in schemi unitari e conclusi tutte le realtà oggetto di analisi e del rischio di perdere in rigore e coerenza nella fase comparativa delle diverse situazioni, che sono schematizzate nella fig. 2. Fig. 2 – Schema dell’evoluzione storica del modello spaziale urbano, rurale ed ecologico del paesaggio 20 Fig. 2 – continua Il primo modello, certamente non in ordine di tempo, bensì di interesse per la nostra ricerca, è quello generato dalla cultura greca, una cultura fortemente identitaria, in cui la città è l’elemento attorno al quale si condensa l’appartenenza civica. E l’alterità è determinata in rapporto 15 all’esclusione dalla polis, che si manifesta con la netta chiusura verso i barbari e gli stranieri, ma anche con la chiusura di ogni città nei confronti dell’altra. Le contrapposizioni fra le diverse poleis sono determinate dall’ideologia del proprio ghenos su cui si fondano, il quale costituisce il contrassegno della loro reciproca differenza: i conflitti insorgono solo quando una polis tenta l’invasione dell’altra, altrimenti vi è pace nella riconosciuta differenza. Ogni città costituisce uno stato, con proprio statuto giuridico e politico. Il modello dell’antica Grecia è fortemente gerarchico, eppure non esclude il momento della reale partecipazione alla vicenda collettiva, che avviene nell’agorà, luogo deputato al confronto democratico. L’intero brano è di Valerio Romani, il quale, nel primo capitolo del suo libro intitolato Il paesaggio. Teoria e pianificazione (Franco Angeli, Milano, 1994) parla ancora più diffusamente delle differenze tra il concetto di ambiente e quello di paesaggio. 15 21 Il rapporto che lega la polis al suo territorio, dalla cui coltivazione la classe dominante trae la propria forza economica e sociale, è particolarmente importante; infatti, la città e la campagna non sono spazi rigorosamente distinti: i campi si trovano a ridosso delle case, gli orti stanno, non di rado, all'interno del centro abitato. Sorta ai piedi di un’altura per lo più scoscesa e fortificabile, l’acropolis che per tutta l’età arcaica è rimasta all’interno della polis, sprovvista di mura, mostra un reticolo viario disordinato e tortuoso, tra edifici piccoli e addossati l’uno all’altro. Molte città greche sorgono in prossimità della costa dove si trova il porto, vero e proprio centro urbano minore. L’insediamento avviene sempre in forma rispettosa della natura ed in rapporto di integrazione con essa. Al contrario, il modello romano rispecchia l’attitudine alla conquista della società che lo propone: l’insediamento, in questo caso, si manifesta in modo aggressivo nei confronti del territorio. Infatti, i Romani determinano un nuovo assetto urbano sulle terre verso le quali si espandono con la localizzazione di insediamenti posti in ragione della loro funzione strategica di coordinamento rispetto alla produzione agricola proveniente dai vasti ambiti rurali circostanti. I centri di nuova formazione privilegiano le zone pianeggianti di fondovalle, più accessibili per la logistica; la scelta dello spazio geografico per l’edificazione ex novo della città riflette un criterio selettivo che tiene conto di condizionamenti ambientali di carattere funzionale (la electio loci di Vitruvio) e di altri fattori quali la centralità territoriale, la posizione di rilievo nell’ambito dei percorsi e la vocazione insediativa dell’area, già interessata a importanti stanziamenti indigeni. Dovunque Roma abbia fatto pervenire le sue legioni, immediatamente dopo sorgeva una strada. La strada, si potrebbe dire oggi secondo una fortunata formula di un grande studioso dei mass-media, Mc Luhan, era il messaggio. La strada, cioè, era una protesi e un’arteria, era un prolungamento e un potenziamento dell’organismo imperiale, serviva a trasportare eserciti e merci, prodotti e idee 16. A connettere questa maglia insediativa e ad assicurarne i collegamenti con l’ Urbs è il sistema infrastrutturale delle Vie consolari e una serie di imponenti opere di ingegneria, quali ponti, viadotti, trafori, atte a superare agevolmente le difficoltà, anche orografiche, di collegamento. L’organizzazione dello spazio rurale è sottoposta alla ripartizione centuriale, che viene orientata rispettando le direzioni di decumani e cardines. Anche dal punto di vista sociale Roma rappresenta un modello completamente diverso rispetto a quello greco: infatti, esso è un modello di mescidanza. Dunque, il mondo romano fonda la propria identità sul diritto e non sul ghenos; ovvero, l’identità del civis romanus è predicabile all’infinito, mentre l’essere polites di Atene non lo è. Roma è una città-mondo, che accoglie chi vuole essere integrato al suo interno. Un altro modello estremamente importante per una ricostruzione delle tipologie urbane in ambito europeo è quello barocco, che, pur manifestandosi in forme e modi diversi, viene considerato come l’ultimo stile universale dell’arte europea. I suoi tratti principali sono il dinamismo, la predilezione 16 I. RICHMOND (a cura di ), Architettura e ingegneria, in J.P.V.D. BALDSON, I Romani, Il Saggiatore, Milano, p. 198, 1975. 22 per la forma aperta, che consente di cancellare idealmente i limiti spaziali per dare un’impressione di sconfinatezza. La concezione barocca, anticlassica per definizione, ha un intento dinamico e cinematografico e concepisce lo spazio come un processo, un divenire. La città viene progettata ricalcando la forma di figure geometriche quali il quadrato, l’ennagono, la stella (Karlsruhe), ma con disinvolta indifferenza per la topografia. La nuova unità urbanistica fondamentale diviene la strada, che si configura come asse prospettico grandioso capace di garantire un continuum architettonico e illusori effetti di prolungamento delle distanze. Essa assume sempre maggiore importanza anche come Via Triumphalis per la parata dell’esercito, espressione visibile della forza del potere. La città barocca ha un’impostazione con strade radiali che si aprono improvvisamente su grandi spazi, enormi piazze con edifici monumentali su cui essa converge, mentre lo sviluppo edilizio avviene prevalentemente in forma verticale, in quanto la città è ancora confinata entro le fortificazioni che la proteggono da minacce esterne. In concomitanza con l’emergere dello stile barocco in città, la campagna vive un periodo di grande trasformazione: verso la fine del ‘500, infatti, in Italia il paesaggio agrario consolida un processo che ha inizio nel Medioevo e per il quale esso si distingue a seconda delle aree geografiche. Ad esempio, in Lombardia esso viene caratterizzato dal sistema irriguo della marcita, che con i suoi canali ed i prati delimitati dalle piantate di gelso e vite alberata permette una diffusione crescente delle colture pratensi e, di conseguenza, di integrare le tecniche dell’allevamento con quelle dell’agricoltura. Così, la produzione si organizza attorno a grandi unità di trasformazione, quali le cascine che divengono il tipo edilizio della Pianura Padana irrigua; in questa regione sono a corte chiusa e si trovano al centro di più fondi accorpati. Nelle Marche, invece, il nuovo ordinamento agrario è fondato sul patto mezzadrile e, tra XV e XVI secolo, dà vita alla civiltà propriamente urbana, offrendo la traccia per un’urbanizzazione diffusa. Il sistema di conduzione mezzadrile prevede l’assegnazione al socio-colono di un podere da coltivare e di una casa per sé e la sua famiglia, con l’impegno di devolvere la metà del raccolto al proprietario. I suoi esiti sociali si esplicano in una sostanziale stabilità demografica, nel costante presidio del territorio, nella ripresa di un buon rapporto città - campagna, ovvero metropoli - colonia. Ad essere escluse dai benefici effetti dello sviluppo mezzadrile sono le aree montane più interne, anche se presentano comunque degli aspetti meno drammatici che nel resto d’Italia. Già a partire dal ‘700 divengono evidenti i germi di ciò che nel secolo successivo darà inizio alla rivoluzione paleo-industriale: nasce, infatti, un nuovo ordine capitalistico e con esso la “città borghese” libero-scambista. L’orologio scandisce implacabilmente le attività della giornata, che vengono così inquadrate in un ordine rigoroso. La logica del maggior profitto conduce a sfruttare più intensamente i suoli, a scopi sia residenziali, per la costruzione di slums destinati ad accogliere i nuovi servitori di una gleba meccanizzata, sia produttivi, per la costruzione di fabbriche. La città emblema di questo periodo è 23 la smoky town dove coesistono persistenze antiche, come la cattedrale, e opere del progresso, rappresentate dalle ciminiere. Invece, la campagna continua a mantenere i suoi caratteri peculiari che, in Italia, la eleggono a “bel paesaggio”, già decantato dai viaggiatori che ammirano il suo aspetto ameno e ordinato. In Lombardia, come in tutta la Pianura Padana, il paesaggio è caratterizzato da sistemazioni di tipo permanente ed intensivo, mentre in ambito umbro-marchigiano esse sono variegate, originando un’estetica del disegno del territorio che prevede “un grande e antico affresco fatto di alberate, fossi, querce camporili, siepi, filari e folignate di viti, case coloniche, canneti e salceti, strade campestri, laghetti o pozzi, alternanze di colture, alberi da frutta e olivi, tipico delle economie volte all’autosufficienza della famiglia mezzadrile” 17. Purtroppo, non viene dedicata la stessa attenzione al patrimonio forestale, in via di sempre più rapida degradazione a causa di disboscamenti e dissodamenti inconsulti. L’assalto alle selve cresce con ritmo più intenso nel Settecento, in concomitanza con un cospicuo aumento demografico e la messa a coltura dei boschi da parte della popolazione più povera, che cerca così di ottenere la quantità di cereali volta a soddisfare i suoi bisogni primari. Tutto questo ha un’altra ricaduta nella perdita del legame produttivo e soprattutto di relazione culturale con le zone montane che iniziano quindi ad essere marginalizzate; il rapporto con la “risorsa bosco” comincia infatti ad allentarsi proprio a causa dell’eliminazione di molte essenze arboree tradizionali: legno di quercia destinato ad essere impiegato come materiale da costruzione e nella cantieristica navale, legno di faggio per la produzione di carbone o di attrezzi, carpino e ghiande per l’alimentazione di ovini e suini, pietra da impiegare nell’edilizia. Così, viene a cadere il rapporto fra fitocenosi e zoocenosi, e cioè l’allevamento del bestiame, le attività artigianali legate alla montagna, la raccolta dei piccoli frutti del bosco e così via. L’identità del paesaggio, a cui si accennava in precedenza e che deriva da un lungo processo di costruzione collettiva dello stesso, in Italia viene messa in crisi dagli sconvolgimenti edilizi, e prima ancora sociali e territoriali, che a partire dal secondo dopoguerra hanno indotto delle modifiche sostanziali all’immagine tradizionale del nostro Paese. Infatti, il cambiamento radicale del quadro, che ha subito un’accelerazione a partire dagli anni ‘60, è stato determinato soprattutto dal progressivo abbandono del settore primario a favore di altre attività – l’industria manifatturiera, quella turistica ecc. – che hanno avuto un impatto pesante sul territorio. Ma oltre alle ripercussioni ambientali e paesistiche tutto ciò ha comportato anche un disorientamento della popolazione, che si è trovata nella difficoltà di non riuscire a governare dei processi di cambiamento radicali e celeri, così come fa notare Turri: Le modificazioni del paesaggio in passato erano lente, erano rapportate al ritmo dell’intervento manuale, paziente, prolungato nel tempo e quindi facilmente assorbibili sia dalla natura che dagli uomini: l’elemento nuovo gradualmente si inseriva nel quadro psicologico della gente. Ma quando l’inserimento, come è accaduto 17 S. ANSELMI, Marche, Laterza, Bari, 1975, p. 45. 24 negli ultimi decenni, è rapido, violento, l’assorbimento avviene con difficoltà o è rimandato alla successiva generazione 18. Tali trasformazioni sono determinate dall’evoluzione dei tempi storico-culturali: quelli che, infatti, erano i tempi lunghi dell’organizzazione della geografia, subiscono un’improvvisa accelerazione ad opera, innanzitutto, del mutato ambiente immateriale, e cioè socio-economico e politico. Quest’accelerazione produce una nuova vision, che non ha più rispondenza nell’agricoltura, ma nello sviluppo produttivo, il quale ha due caratterizzazioni: - il modello accentrato della grande industria, che esprime un’indifferenza localizzativa rispetto alle specificità territoriali e si insedia, quindi, per grandi poli, seguendo logiche proprie della produzione fordista (l’esempio italiano è quello del triangolo industriale Milano-Torino-Genova); - il modello del distretto produttivo della Terza Italia (Bagnasco 1977), che invece è forte di un radicamento complesso nel territorio, il quale costituisce allo stesso tempo sia il luogo dell’economia, sia quello della costruzione della società civile. Tale modello consiste in una forma di industrializzazione, diffusa prevalentemente nel Centro Italia, fondata su piccole e medie imprese e diluita sul territorio, di cui riutilizza preesistenze e strutture. Fu denominato Terza Italia per indicarne il presunto carattere di “economia periferica”, in quanto il centro del sistema produttivo veniva ancora considerato al Nord. Entrambi i modelli non sono più integrati rispetto alla sostenibilità che in precedenza veniva garantita dal presidio sul territorio e dalla difesa del suolo, ma ora comincia a dissolversi proprio con l’esodo verso quelle aree dove si vanno formando gli insediamenti produttivi. In ambito lombardo i grossi centri industriali e commerciali si espandono sempre di più, con uno sbilanciamento baricentrico verso Milano, che assume i caratteri di una città metropolitana, mentre, per quanto riguarda le Marche, si assiste a uno spopolamento dall’interno verso la costa e le aree di fondovalle. A tal proposito, si noti come le premesse del modello dei sistemi produttivi che si aggregano lungo le strutture lineari del pettine costiero-vallivo siano state gettate dalla ferrovia, il cui tracciato, dovendo correre in pianura e privilegiando quindi la costa, è già discriminante rispetto ad altre aree più interne o collinari. Negli ultimi venti anni circa si è verificato il passaggio dalla produzione fordista (di capitalismo sistemico, in cui la complessità della produzione viene suddivisa in moduli organizzativi elementari e standardizzati) a quella post-fordista (di capitalismo reticolare, che si avvale di tecnologie relazionali e, dunque, deterritorializzate), in cui la fabbrica non si lega più ad un luogo. Infatti, in un’economia postfordista, il sistema territoriale di piccole città e piccole imprese non costituisce più valore in sé, ma solo se inserito in un’ottica che è stata definita glocale, e cioè che attui una riterritorializzazione delle reti 18 E.TURRI, Il paesaggio come teatro, Marsilio, Padova, 1998, p. 48. 25 lunghe che competono globalmente ma hanno un ancoraggio locale. La rete funziona in questo caso come bene relazionale della comunità locale e del sistema territoriale che, grazie ad essa, può promuovere strategicamente le proprie risorse, mentre lo spazio cessa di essere euclideo per trasformarsi in uno spazio a geometria variabile a seconda delle connessioni attivate e la singola città vive solo se riesce a tramutarsi in nodo 19. Il territorio diventa un meta-territorio che funge da incubatore per le potenzialità locali e nel quale si realizza una vera e propria poliarchia, ovvero una distribuzione di poteri e funzioni articolati nel grande arcipelago dell’economia. La città cambia seguendo i mutamenti socio-economici: diventa sede delle economie immateriali (ICT), delle funzioni direzionali e dei servizi in risposta alle nuove domande sociali. Essa, in seguito alla crisi delle economie tradizionali, diventa teatro di enormi cambiamenti urbani: la dismissione, infatti, delle grandi aree industriali fordiste determina la riconversione degli spazi e costringe a un ripensamento delle strutture verso attività terziarie e quaternarie. In questo contesto, le infrastrutture non sono più importanti per movimentare le merci, bensì in chiave di accessibilità alle reti. Una delle tematiche maggiormente analizzate dagli studi urbani di area vasta riguarda la dispersione degli insediamenti, la città diffusa 20, caratterizzata da una forte dispersione a bassa intensità. Questo fenomeno riguarda ormai molte regioni europee, di cui ridisegna lo spazio urbano e trasforma l’habitat, modificando pratiche e usi del territorio 21. Si creano nuove figure, alternative a quelle della concentrazione. Figure che, ad un primo sguardo superficiale, potrebbero sembrare casuali e generatrici di caos, ma che invece seguono nuove e inedite regole proprie. Lo stesso concetto di prossimità cambia, e nascono relazioni sempre più estese tra spazio dei luoghi e spazio dei flussi. A tali modificazioni non sono estranei i processi socio-economici intervenuti nel tempo: la conquista di una enorme flessibilità tecnologica consente di decentrare gli impianti fuori dalla città consolidata. Di conseguenza anche le scelte residenziali si orientano all’esterno della città compatta, in zone dove il costo delle aree è minore, e minori sono anche i vincoli urbanistici ed istituzionali. Inizialmente l’abitazione “rururbana” incarna il desiderio di qualità ambientale di chi è costretto a subire la congestione, l’inquinamento e l’insicurezza della città. L’automobile svincola dalla fissità della residenza e permette maggiore accessibilità. L’elevata mobilità significa abitare un territorio allargato. Ma nel tempo questa tendenza alla dispersione insediativa si configura sempre meno come processo di tracimazione verso anelli via via più ampi, diventando, invece, processo di tarmatura 22 del territorio, con gravi ricadute anche su quegli aspetti che si proponeva di evitare (congestione, inquinamento, ecc.). La città contemporanea o post-urbana è il Cfr. G. DEMATTEIS in http://www.fub.it/telema/TELEMA15/Dematteis.html (marzo 2002). Si veda F. INDOVINA ET AL., La città diffusa, DAEST, Venezia, 1990. 21 Cfr. F. PAONE (a cura di), Le trasformazioni dell’habitat urbano in Europa, in “Urbanistica” n° 103/95 e S. MUNARIN – M.C. TOSI, Tracce di città, Franco Angeli, Milano, 2001. 22 Si fa qui riferimento alla definizione francese di mitage urbain. 19 20 26 luogo del decentramento e della diffusione, si incarna in sistemi urbani complessi dove divengono pervasivi residenza, lavoro, servizi, e si contrappone a quella tradizionale che mostra, invece, “un principio di continuità, di narrazione, di interrelazione tra le scale, di lunga durata delle regole e dei dispositivi dell’organizzazione spaziale” 23. La preferenza accordata al modello insediativo disperso si fonda su scelte eminentemente individuali e il sistema urbano che ne deriva si configura come “città senza memoria, disinteressata all’identità storica stratificata nei luoghi collettivi quanto invece protesa alla qualità di quelli privati” 24. La villetta è, infatti, il nuovo iconema della megalopoli padana (Turri 2000), insieme al capannone, sia esso fabbrica, ipermercato o luogo di stoccaggio. Le nuove figure insediative sono, quindi, quelle della dispersione, ma anche dell’espansione lineare lungo le strade di fondovalle e le infrastrutture della viabilità le quali, con logiche di razionalità minimale, vengono sfruttate come capitale fisso sociale che consente di realizzare economie di produzione per l’attività edificatoria. Si è visto come l’evoluzione dei modelli insediativi sia stata condizionata da mutamenti epocali in ambito socio-economico e culturale, che sono riconducibili a tre momenti fondamentali: - prima rivoluzione industriale, nata in Inghilterra tra il 1760 e il 1830, resa possibile dal carbon coke e dall’energia a vapore, che hanno soppiantato le forme energetiche fino ad allora in uso (energia solare, del fuoco, cinetica ottenuta dal lavoro animale); - seconda rivoluzione industriale, affermatasi tra gli anni Settanta dell’Ottocento e la prima guerra mondiale, azionata dalle nuove energie del petrolio e dell’elettricità; - terza rivoluzione industriale, sviluppatasi dopo il secondo dopoguerra, fondata sull’energia atomica e sull’informatica. Questa “terza ondata” 25, in cui le nuove tecnologie consentono scambi di informazioni in tempo reale con ogni angolo del globo, realizzando l’utopia dell’ubiquità, provoca lo scollamento fra urbs e civitas: il territorio, infatti, acquisisce una nuova aggettivazione, tramutandosi in territorio della rete”. Il paradigma della rete è quello che meglio sembra rispondere alla necessità di lavorare sulle relazioni tra i nodi del sistema urbano contemporaneo, sulla natura estensiva e policentrica del recente sviluppo territoriale. Innanzitutto è opportuno ricordare che la metafora reticolare si presta a una molteplicità di interpretazioni, di cui le più praticate sono quelle relative alle reti infrastrutturali e urbane. Esse, infatti, riescono, forse meglio delle altre, a cogliere i caratteri delle spinte alla diffusione. Ma esistono anche le reti economiche di cooperazione/competizione (rintracciabili nei distretti F. CHOAY, L’orizzonte del post-urbano, Officina, Roma, 1992, p. 22. E. MICELLI, La casa della città diffusa, in “Economia e società regionale”, n.55, 1996, p. 91. 25 A. TOFFLER, La terza ondata, Sperling e Kupfer, Milano, 1987. 23 24 27 produttivi interni al modello NEC), le reti del loisir (caratterizzate dalle relazioni fra “iperluoghi dell’esperienza”), e quelle ecologiche. Per fare ordine all’interno delle definizioni si potrebbe procedere a una prima distinzione tra reti ambientali (che, in un sorta di categorizzazione sulla scorta di “punto, linea, superficie”, accolgono i corridoi ecologici, il sistema dei parchi fluviali, di aree protette e parchi) e reti della mobilità. Queste ultime si distinguono ulteriormente in reti materiali (su cui viaggiano persone e cose) e reti immateriali (che veicolano informazioni e conoscenze). L’aspetto innovativo derivante dall’approccio in termini di rete consiste nel fornire una visione del sistema urbano come sistema di relazioni, crocevia di flussi – principalmente immateriali – che lo attraversano e lo collegano ad altri centri. Lo spazio di riferimento non è più, dunque, solo reale, bensì virtuale, all’interno del quale perdono consistenza le stesse nozioni di centro e periferia. Lo spazio non è più euclideo e isotropo, ma è uno spazio a geometria variabile, dove il vantaggio competitivo non è più garantito dalla prossimità fisica, bensì dalle sinergie reciproche che si instaurano tra i nodi del sistema e dall’accessibilità agli stessi. Se ci si sofferma sul concetto di “rete di città”, intendendo con ciò “un insieme di relazioni selettive ed orizzontali – non gerarchiche – tra centri, che consentono di ottenere una serie di vantaggi territoriali” 26, appare subito evidente che ogni singolo centro, indipendentemente dalla propria dimensione, può rafforzare il suo ruolo territoriale grazie alle esternalità di rete. Tale ruolo, infatti, viene determinato dalla scoperta e valorizzazione delle vocazioni proprie del centro 27. Il sistema reticolare si configura come aperto e costituisce una sorta di “internazionale delle città”, in cui si scambiano beni, informazioni, cultura e tutto quanto concorre a stimolare l’innovazione 28. Ma la pervasività della rete introduce a un equivoco di fondo, un concetto dicotomico e schizofrenico: da un lato si esalta la possibilità di globalizzazione, il senso di totalità e unitarietà, dall’altro emerge la minaccia della lacunarietà e della dimensione frattale del medesimo modello. In questo processo la città si trova disorientata, o meglio “disfatta” (Sernini 1988): da metropoli si trasforma in conurbazione urbana e poi in megalopoli, per infine tentare di recuperare un radicamento al territorio attraverso la carta dello sviluppo locale. La questione risiede nella presa di coscienza che la città, che oggi accoglie più della metà della popolazione mondiale, sta fallendo nel fornire risposte adeguate alla sfida di sostenibilità ecologica, sociale, economica. R. CAMAGNI – G. DE BLASIO (a cura di), Le reti di città: teoria, politiche e analisi nell’area padana, Franco Angeli, Milano, 1993. A tal proposito si veda A. BONOMI, Il distretto del piacere. Bollati Boringhieri, Torino, 2000. 28 Sul tema si vedano i contributi di: R. CAMAGNI (a cura di), Le reti di città, Franco Angeli, Milano, 2001; B. CURTI – L. DRAPPI, Gerarchie e reti di città, Franco Angeli, Milano, 1990; E. RULLANI, Città e cultura nell’economia delle reti, Il Mulino, Bologna, 2000; S. SASSEN, Città globali, Utet, Milano, 1997. 26 27 28 Le politiche urbane e gli strumenti cercano di adeguarsi, come testimoniano alcuni degli esempi migliori (Urban21, Forum mondiali, Convenzione europea del paesaggio, SDEC, Towards an Urban Renaissance), ma le strategie e le politiche istituzionali per una good governance non devono dimenticare che un’efficace azione locale si consegue solo con la partecipazione e il coinvolgimento proattivo della popolazione, perché la domanda di piano espressa dalla società sia tradotta in termini pianificativi sostenibili in modo multiforme. Questa schematizzazione non ha l’intenzione di presentare degli approfondimenti, ma piuttosto quella di mostrare uno sforzo metodologico per rendere sistematico un confronto tra i diversi modelli culturali e i loro influssi sulla formazione di quelli del paesaggio culturale; dunque, questa traccia potrebbe essere utilizzata per sviluppare ulteriormente una metodologia di ricerca che integri sia le riflessioni sulle tipologie strutturali e funzionali, sia quelle sulle tipologie culturali che le hanno generate, e che stanno generando il modello attuale e quello futuro, nella misura in cui ciò è prevedibile. Di qui scaturisce il secondo quesito: Ha senso continuare ad usare il concetto di scale spaziali e temporali per descrivere il paesaggio contemporaneo? E’ evidente come non sia possibile dare una risposta univoca a questo quesito, e soprattutto unitaria, che derivi da uno studio improntato ad un’unica ottica disciplinare. Infatti, si possono fare degli ottimi studi sulle strutture e sulle funzioni rivolti alla misurazione dei fenomeni, come fa prevalentemente la scuola tedesca dell’ecologia del paesaggio, oppure improntati alla progettazione, come avviene nel caso dell’ecologia del paesaggio praticata negli Stati Uniti 29. In questo modo, si può ottenere un numero molto elevato di informazioni sullo stato del paesaggio attuale, e si può dedurre con buona approssimazione e in modo spesso accettabile quale fosse lo stato fisico del paesaggio in una determinata epoca passata, ricostruendone la matrice che ha generato il modello predominante attraverso lo studio delle testimonianze con mezzi tecnologici sempre più avanzati. Ci si può spingere fino a ricostruire le esigenze estetiche che hanno generato il giardino all’italiana; quelle etiche che hanno tutelato le selve greche, i boschetti romani, i giardini giapponesi, ecc.; le esigenze produttive agricole, belliche e amministrative dei romani che hanno devastato i boschi e spartito il suolo attraverso la centuriatio; quelle culturali dei greci, che hanno inserito i teatri greci nella natura e quelle politiche che hanno ispirato la riforma territoriale di Clistene, ma anche, a latitudini diverse e a distanza di numerosi secoli, la muraglia cinese o il muro di Berlino; ed infine le esigenze più o meno corrette di risanamento ambientale alla base delle bonifiche e della cementificazione dei fiumi. Si può ricostruire tutto ciò, ma l’uomo, che ha operato queste trasformazioni secondo le sue esigenze di volta in volta diverse, come si è formato il modello culturale che ha determinato e generato La bibliografia relativa ai due filoni è molto ricca; in questa sede, valgano per tutti rispettivamente: H. LESER, Landschaftökologie, UTB, Stoccarda, 1991, e R.T.T. FORMAN – M. GODRON, Landscape Ecology, John Wiley & Sons, New York, 1986. 29 29 queste azioni? Quali dimensioni della sua cultura hanno inciso realmente sulla concezione del paesaggio che lo ha condotto alla formazione del modello culturale di quel momento? E poi, il passaggio da questo modello culturale alle trasformazioni fisiche del paesaggio è stato sempre così immediato? La divisione del sapere che ha caratterizzato il nostro modello culturale incide fortemente sulle difficoltà di dare una risposta univoca. Tra le lezioni che vengono dal passato, ce n’è una che può far riflettere sulle capacità espressive dell’antica unità del sapere: si può immaginare che Ambrogio Lorenzetti non volesse distinguere tra la teoria politica e l’organizzazione territoriale del paesaggio agrario suburbano attraverso le tecniche più raffinate, quando ideò il dipinto del Buon governo, in cui l’ordine politico e l’assetto equilibrato del territorio coincidono (fig. 3). Fig. 3 – Ambrogio Lorenzetti, Il Buon Governo, Museo Civico, Siena. In questo caso, come forse sempre avviene, il modello culturale influenza chi organizza il paesaggio, appunto il governo comunale, ma anche chi lo percepisce, lo valuta positivamente e lo descrive attraverso la trasmissione del suo significato ideale, che probabilmente ha anche un significato didascalico, come sembra che voglia esprimere Lorenzetti 30. Dunque, anche la percezione individuale e la coscienza collettiva hanno un ruolo fondamentale non solo nello studio della funzione d’informazione svolta dal paesaggio, ma anche nella sua formazione, come sostengono alcune ricerche molto recenti 31. Non mancano dei tentativi di ricostruire una storia unitaria attraverso la storia dell’ambiente 32 o attraverso la cosiddetta “Global history” 33 che possono essere senz’altro di aiuto in questa operazione. Però, quello che interessa più da vicino in questa sede è l’uso della lezione del passato per capire la nostra contemporaneità come la base per l’azione futura. In questo tentativo, la scienze umane hanno un compito essenziale. Dunque, si pone l’esigenza di ricomporre il sapere necessario per lo studio del paesaggio globale attraverso alcuni punti, quali ad esempio: Si veda, a questo proposito, E. SERENI, Storia del paesaggio agrario, Laterza, Bari, 1996. Per una trattazione molto lucida del tema, si rimanda a: B. JESSEL, Elements, characteristics and character – Information functions of landscapes in terms of indicators, di prossima pubblicazione in un volume collettivo di prossima pubblicazione. 32 J. R. MC NEILL, Qualcosa di nuovo sotto il sole, Einaudi, Torino, 2002. 33 Su questo tema si è tenuto un convegno molto significativo presso il Centro Italo-Tedesco Villa Vigoni nel maggio 2004. 30 31 30 - l’avvio del dialogo multidisciplinare indispensabile per creare gli strumenti culturali adatti all’interpretazione, allo studio e quindi alla gestione integrata del paesaggio; - il superamento delle collaborazioni tradizionali paratattiche per creare gli strumenti scientifici adatti, quali ad esempio degli indicatori sintetici spaziali e temporali, oppure strutturali e funzionali; - la collaborazione sintattica per riflettere sulle “interfacce” dei settori d’interesse disciplinare utili per individuare le possibili linee concrete di studio multidisciplinare. Ma allora a questo punto si pone il terzo quesito: Si possono stabilire dei parametri di lettura multidisciplinare del paesaggio? Verrebbe spontaneo rispondere che questi strumenti di lettura possono essere degli indicatori, i quali aiutano a descrivere e a misurare i fenomeni. Ma esistono dei rischi dovuti proprio alla divisione del sapere, che ha provocato una marcata dicotomia tra la ricerca scientifica e le sue applicazioni ai diversi livelli, e che ha generato in risposta la necessità sempre crescente dell’integrazione e dell’interdipendenza tra la teoria e le sue applicazioni 34. Quindi, è necessario tentare di innescare un processo continuo che, oltre a rispondere a questa esigenza, serva anche come una verifica sperimentale degli assunti teorici e come una possibilità di affinamento e di stimolo per alcuni nuovi temi di ricerca. E questo è tra gli scopi di questa serie di incontri di lavoro comune. Dunque, si possono provare ad individuare delle “famiglie“ di concetti comuni di carattere generale da cui far scaturire le misurazioni analitiche da applicare per una gestione corretta del paesaggio culturale. A questo scopo, si propone uno schema del tutto generale che mostra come le grandi categorie del paesaggio, quella naturale e quella culturale, suddivisa negli agroecosistemi e nei tecnoecosistemi, possano essere studiate incrociando le conoscenze relative alle varie scale spaziali e alle diverse scale temporali (fig. 4). 34 Su questo tema, si rimanda a: M. G. GIBELLI, Riflessioni conclusive, in M. G. GIBELLI (a cura di), Gli indicatori ecologici alla scala del paesaggio, Siep-Iale, Milano, 2003. 31 on a time scale (*) Natural and semi– natural systems Global landscape Semi –natural landscape on a spatial scale (**) Cultural landscape Agricultural and forest systems past present future (which have ceased to exert a direct action) (now exerting their action) Biological, soilSpontaneous biological, soil- related, geomorphological, related, geomorphological, and climatic processes and climatic influenced by processes in the close scarce relation relationship with to anthropic anthropic activities activities which often affects Indicators: their reactions detectable evidence and scientific Indicators: of reconstructions landscape ecology (relict flora, and normative paleosoil, paleobotanics) (which will presumably arise) Production processes as a function of man’s action and of economic requirements Production processes (^) requiring balancing among the different sectors involved Production processes (^) of different but interrelated sectors (e.g. agriculture + parks + tourism), which Indicators: determine flows historical of the of energy, agricultural people, landscape and of animals, landscape materials and ecology information Indicators: normative, socio-economic (e.g. equitability), statistical, of landscape ecology (gradients according to Müller and his model), agroecological 32 Spontaneous biological and soil-related processes requiring strong human management and support Indicators: of trends (e.g. heterogeneity of landscape evolution, ecological networks, reduction of soil erosion) Indicators: of trends (e.g. agro-ecological, ecological networks, transformations of the agricultural landscape) Urbanindustrial systems Productive, historical, social, economic, warrelated, landrelated, and urban processes Productive, social, economic, landrelated, and urban processes related to the flows of Indicators: individuals, historical of the information and urban landscape, energy of urban ecology Indicators: (structural and normative, functional, statistical, of according to urban ecology, Müller) of landscape ecology (structural and functional: gradients) social, economic, landrelated, and urban processes related to the flows of individuals, information and energy increasingly interrelated to the other types of systems and bound to them with a mutual dependence Indicators: of trends (*) years, decades, centuries (hundreds, thousands) (**) macro-regional, regional, local, sub-local (^) in a broad sense; they include the production of both material (farm produce) and immaterial (services) goods Fig. 4 – Internal processes of the landscape as a whole and types of the respective indicators Partendo da questo schema, ogni conoscenza disciplinare può rintracciare il suo campo di azione, e soprattutto riflettere sulle possibilità di collegarsi con le altre competenze presenti nel gruppo per riflettere sulle quelle interfacce comuni a due o più campi che permettono di fondere le analisi e i giudizi in modo più sintetico possibile, e quindi più significativo. Viene in mente che si potrebbe proporre un motto che interpreti lo spirito di questa operazione scientifica, quale ad esempio: “Ricomposizione del sapere per ricomporre il paesaggio”. 33 GIORGIO MANGANI TOPICA DEL PAESAGGIO 35 Prendere un interesse immediato alla bellezza della natura […] è sempre segno di un animo buono; e, quando questo interesse è abituale e si accoppia volentieri alla contemplazione della natura, esso mostra almeno una disposizione dell’animo favorevole al sentimento morale. Emmanuel Kant, Critica del Giudizio Urbino stava lassù, ignorata, isolata come un castello di ammalati. Chiunque saliva in piazza, cittadino o contadino, guardava il paesaggio e capiva ogni cosa. Paolo Volponi, La strada per Roma 1. Tra contenuto e forma Un’analisi molto sintetica delle idee e degli studi contemporanei sul paesaggio rivela una chiara e profonda dicotomia tra interpretazioni che si fondano sul contenuto oppure sulla percezione, della quale resta una eco nella definizione “ancipite” data del paesaggio dalla Convenzione europea (una determinata parte di territorio, come è percepita dalle popolazioni e il cui aspetto è dovuto a fattori naturali ed umani e alle loro interazioni). Le componenti geografica, ambientalista ed ecologica della famiglia di discipline che si sono dedicate allo studio del paesaggio hanno sottolineato, nell’ultimo secolo, il carattere “oggettivo” di questo concetto rispetto ai suoi aspetti percettivi ed estetici. Anche se non insensibili alla bellezza del paesaggio, geografia ed ecologia hanno manifestato sempre maggiore diffidenza per quel che, in esso, non fosse riconducibile ai dati fisici. Lo studio del paesaggio geografico per esempio, soprattutto in Italia, si è affermato proprio in opposizione al concetto estetico privilegiando l’analisi dei suoi fattori, costitutivi di una unità organica composta da elementi fisici, storici e sociali, naturali e antropici. Un percorso che, come ha sottolineato Eugenio Turri in un ormai classico manuale (Antropologia del paesaggio), ha cercato di sostituire la fisiologia alla fisionomia del paesaggio. E proprio i geografi più sensibili al paesaggio culturale e alle componenti sociali e soggettive costitutive del paesaggio come Eugenio Turri – lo ha notato Paolo D’Angelo – hanno preso le distanze 35 Pubblicato sul “Bollettino della Società Geografica Italiana”, n. 3 (2005), pp. 557-566. 34 dagli atteggiamenti contemplativi e pittorici del paesaggio, che appaiono un residuo dell’approccio estetico considerato aristocratico e legato alla cultura romantica e borghese. L’ecologia e le scienze ambientali, per parte loro, hanno strutturato il loro pensiero sulle nozioni di ecosistema, ecotopo, ecocomplesso, geosistema, che costituiscono una risposta, secondo la logica della complessità, agli atteggiamenti deterministici delle scienze di impianto positivistico. L’ecosistema e i suoi sinonimi si possono, dunque, considerare uno sforzo di mediazione messo in campo dall’ecologia per dialogare con le scienze umane, ma restano fondati sulle componenti oggettive del paesaggio. Essi possono includere alcuni fattori percettivi e culturali, ma la nozione fondativa della scienza ecologica, per l’attenzione che porta agli equilibri naturali, è strutturalmente antagonistica rispetto al possibile stravolgimento, per azione umana, di un equilibrio naturale rivolto alla creazione di un altro equilibrio. Anche la progettazione di un parco o di un giardino fondati su prevalenti modelli culturali, pure attenti all’equilibrio ambientale, sono alterazioni dell’ecosistema originario. Un parco o un giardino implicano una gestione artificiale, anche se complessa, della natura. La filosofia opposta a quella ecologica si fonda invece sul carattere prevalentemente percettivo e soggettivo del paesaggio, come quella codificata da Georg Simmel (1858-1918) nel primo ventennio del Novecento nella sua Filosofia del paesaggio: una Stimmung individuale, fondata sulla percezione di una organicità di elementi costitutivi. Questa idea, tradizionalmente caratteristica del romanticismo ottocentesco e della percezione pan-pittorica del paesaggio, ha ripreso nuovo vigore nei nostri anni in forme meno individualiste e più sociologiche, soprattutto in Francia. Secondo queste analisi (per es. nei lavori di Berque) il paesaggio è sempre un ecosistema e un simbolo assieme. Franco Farinelli, un geografo, ha parlato di “arguzia” del paesaggio per sottolineare questa sua duplice capacità di essere e di rappresentare, al tempo stesso, la cosa percepita. 2. Tentativi di convergenza Rispetto a questa contrapposizione profonda non è mancato chi ha cercato di recuperare un punto di mediazione e di convergenza tra le due sensibilità, apparentemente impegnate entrambe, in modo solidale, a combattere per la difesa del paesaggio, ma con idee profondamente diverse in proposito. Un primo tentativo di questo genere nasce dalla profonda consapevolezza sociale della minaccia che incombe nella nostra epoca sugli equilibri naturali. Essa tende a produrre una deriva psicologica ed epistemologica che porta alla fusione (per es. nei lavori di Tiezzi e Seel) delle idee della bellezza e della natura. Il carattere etico della natura, la sua capacità di fare attenzione agli equilibri diventa il fondamento della sua bellezza. Bello e buono coincidono. Vi è, anzi, chi arriva a sostenere, come Jay Appelton (The Experience of Landscape, 1996), che la percezione estetica del paesaggio è un residuo della 35 nostra tendenza, filogeneticamente trasmessa, a ricercare ambienti favorevoli alla sopravvivenza. Ci piacciono i paesaggi fluviali perché vi troviamo abbondanza di acqua, le vedute dall’alto (come sosteneva anche Yves Lacoste negli anni Settanta per censurare una cultura vedutistica fondata sull’estetica militare) perché più sicure, e così via. Un tentativo più complesso è quello del filosofo dello spazio Edward S. Casey (Representing Place, 2002), che contrappone il place (cioè il paesaggio) allo space. Egli sostituisce una contrapposizione forte alla relazione dialettica sostenuta dai geografi “umanisti” americani della scuola di Yi-Fu Tuan e di Robert D. Sack, che pensavano invece possibile una composizione tra i due momenti (per loro vi è, nello sviluppo dell’environment, una tendenza naturale verso l’equilibrio; certezza che oggi, probabilmente, ci appare meno fondata rispetto agli anni Sessanta). Per Casey lo space è uno spazio matematizzabile, astratto, isotropo e continuo, mentre il place è il luogo dei confini, delle singolarità, della percezione individuale. Il place ha un orizzonte, lo space no. Esso contiene l’insieme dei valori che hanno senso per l’uomo. Esso incorpora l’habitus di una comunità, cioè il repertorio dei suoi valori e dei suoi modelli comunitari. Tra le componenti del place è il paesaggio (cioè l’insieme dei suoi caratteri culturali) a svolgere la funzione di mediazione, necessaria (tra le generazioni e, orizzontalmente, tra le persone) per far interagire il self, l’individuo, con il luogo (“i luoghi, scrive Casey, non sono supporti esterni della nostra vita, essi sono in noi”). In questa funzione il paesaggio è un fattore dinamico. Se si concepisse infatti solo l’identità del place, cioè la sua specificità locale, saremmo costretti a contrapporre all’omologazione tendenziale dello space l’ “idiolocalismo” del place, con risultati paralizzanti (che è esattamente ciò che sta avvenendo oggi). Il paesaggio è, in altre parole, lo strumento dinamico che, grazie al peso su di esso esercitato dai valori culturali fluidi, la percezione, la storia, l’individuo e la società, consente un dialogo; non tanto tra place e space (come pensavano i geografi umanisti americani), che sarebbe una conversazione tra sordi, ma tra places differenti. Si tratta di una sintesi non lontana da quella proposta in Italia da Paolo D’Angelo (Estetica della natura, 2001), che parla di paesaggi come identità estetiche dei luoghi, dove l’identità non è considerata un loro requisito intrinseco, ma connesso alla loro percezione e, pertanto, fattore dinamico come quello suggerito da Casey. 3. Una prospettiva (geografica) retorico-linguistica Anche accettando le elaborazioni più recenti rivolte a valorizzare in forme nuove la dimensione culturale del landscape, le analisi che ho raccolto tendono a strutturare la relazione uomo/paesaggio nei termini di una relazione diretta. Se analizziamo il rapporto che sta all’origine della invenzione del paesaggio e del funzionamento retorico che agisce nella sua rappresentazione mentale, vediamo però che questa percezione non è 36 immediata, che essa segue un percorso filtrato da alcune strutture linguistiche e formali. Ciò avviene, inoltre, secondo un percorso per certi versi contrario a quello “naturale” e fondato su di una procedura molto precisa, persino codificata nei manuali retorici e mnemonici, strettamente connessa alla descrizione dei luoghi, che si fonda non tanto sulla meraviglia della natura, ma su una meraviglia artificiale (cioè prodotta dall’immaginario culturale), cui è demandata la percezione stessa e la comprensione della natura. Alla base delle mie osservazioni è la constatazione, dedotta soprattutto dalla storia della geografia, della cartografia e delle relazioni interculturali, che transfert di questo genere, anche quelli instaurati tra una comunità culturale e la natura, non sono fondati sulla trasparenza ma sull’Immaginario, nel senso proposto da Stephen Greenblatt (il quale ha chiarito che gli incontri, e gli scontri, tra le culture non si fondano su di un impatto tra “mondi” diversi, ma tra immaginari diversi, cioè tra le forme di rappresentazione immaginaria dei propri mondi e di quelli degli altri). Non c’è trasparenza nella relazione tra le culture, come non c’è tra cultura e natura. Il rapporto è filtrato dall’Immaginario, dal sistema “figurale” (cioè delle immagini) utilizzato in ciascuna cultura per memorizzare le informazioni di base, costitutive della comunità. E’ l’Immaginario a fungere da luogo di incontro tra le culture e tra natura e cultura. Poiché la percezione e la rappresentazione del paesaggio sono fondate, sin dall’origine, sui meccanismi che presiedono anche al funzionamento retorico della cartografia e della veduta paesaggistica, cercherò di trarre spunto, in questa trattazione, dai miei studi sulla teoria cartografica per spiegare cosa intendo per “topica del paesaggio”. 4. La contemplazione e la meditazione geografica Un’analisi della pragmatica (in senso linguistico) del comportamento geografico, cioè delle modalità in cui avviene la percezione, la significazione, la memorizzazione e la manipolazione delle informazioni geografiche, rivela come questi atti (cioè la contemplazione e la meditazione del paesaggio) si configurino, sin dall’inizio, come atti linguistici. Una questione analoga è sorta nella storia della cartografia, una disciplina che ha molti punti in comune con la teoria del paesaggio. Un’antichissima tradizione tendeva infatti a considerare le mappe di oggi come una evoluzione di originari segni pittorici, ovvero, in alternativa, di diagrammi primitivi. Edward Casey (sempre lui) ha chiarito che invece la mappa è, sin dalle sue origini, un prodotto di entrambe le tipologie di segno. Vi convivono simboli, pittogrammi e parole. Le parole possono anche non esserci, possono essere, cioè, sostituite da segni, ma questi designano (senza essere imitativi) le cose, o meglio i loro nomi (per esempio, il Mar Rosso, sulle carte geografiche, è rosso perché, secondo la logica dei rebus, indica il nome del mare, non la cosa significata). La struttura compositiva di una 37 mappa dimostra che, comunque, la relazione tra i pittogrammi, è una relazione linguistica. Non ci sono, come pensava William Warburton nel 1744 a proposito dei geroglifici, mappe extralinguistiche, pure icone, perché, come ha scritto David Freedberg, anche il processo che consente il riconoscimento del realismo che fonda la comprensione del codice imitativo dei pittogrammi è un processo costruito socialmente e linguisticamente. Dunque, le cose sono complicate sin dall’inizio. Quando compare una mappa è già entrata in funzione una mnemotecnica linguistica. Anche le pure immagini hanno bisogno, per essere comprese, di un linguaggio che si attiva all’atto dell’interpretazione. Il rapporto tra l’uomo e la natura non è un rapporto diretto, ma è mediato dal linguaggio e dalle sue strutture. Come nasce un paesaggio, in termini percettivi? Attraverso la delimitazione del suo spazio rispetto al continuum del territorio. E’ una scelta che nasce dalla percezione, mediata dall’immaginario culturale della comunità di cui il percettore fa parte. L’atto della contemplazione è una actio cum templo, cioè consiste nell’identificare, nel cielo, una porzione di spazio entro la quale avranno significato determinati fenomeni naturali (per es. il passaggio di uno stormo di uccelli, un fulmine, ecc.) da utilizzare per la divinazione. Identificato prima nel cielo, il templum proietta la sua ombra, la sua figura in terra e delimita lo spazio del sacro, ma anche lo spazio della città (che viene fondata secondo lo stesso procedimento). E’ lo spazio della cultura che si sovrappone alla natura. L’atto stesso della contemplazione quindi, si struttura, linguisticamente, come una mnemotecnica, come una scrittura. Ciò avviene attraverso una operazione molto precisa, cioè sovrapponendo allo spazio naturale uno spazio virtuale, immaginario, costituito di segni narrativi, una griglia di segni mentali (come era la centuriatio romana, che, prima di essere una lottizzazione territoriale, era un sistema per rendere comprensibile lo spazio attraverso la sovrapposizione di un sistema logico e narrativo, cioè strutturato di punti di riferimento). Questi segni culturali convivono con le emergenze della natura, contrassegnandole di narrazioni. La pianta e le altre componenti del paesaggio hanno un significato morale, religioso, sociale, sessuale, terapeutico secondo una logica di reciprocità. Ne ha dato, per la Grecia classica, un esempio illuminante Marcel Detienne ne I giardini di Adone. Lo spazio reale convive con quello culturale in modo materialmente efficiente: non c’è, non ci può essere, percezione di una parte del paesaggio naturale senza l’utilizzo di questa griglia di significati, perché il sistema delle narrazioni connesse ai luoghi non serve tanto a renderli simbolici, ma a individuarli, a percepirli. (Non è, in sintesi, la rappresentazione dello spazio ad essere simbolica, ma la simbolizzazione, la significazione ad essere cartografica). La cosa funziona nello stesso modo nella lettura della volta celeste, nell’astronomia e nell’astrologia. L’identificazione delle stelle è possibile rintracciando le costellazioni, che sono figure mnemoniche, narrative e simboliche (il carro, l’orsa, il toro) antropo e zoomorfe (o simili alle figure 38 naturali più comuni) utilizzate per orientarsi entro il continuum dello spazio celeste. Senza queste figure simboliche e culturali, la natura non si riesce neppure a “vederla”. Un comportamento di questo genere non è affatto esclusivo del mondo antico. Ricorderò in proposito il labirinto di Versailles, progettato da Le Brun e Le Nôtre alla fine del XVII secolo e concepito quale itinerario pedagogico per il delfino di Francia: esso era strutturato sulla sovrapposizione al luogo naturale di un sistema topografico di rappresentazioni morali, l’interpretazione delle quali consentiva, secondo un percorso logico (e moralmente edificante), di trovarne l’uscita. E ancora in piena stagione rivoluzionaria, a Parigi, la Convenzione discuteva di utilizzare i giardini del Luxembourg come sistema informativo del nuovo ordinamento dello stato basato sui dipartimenti provinciali fluviali, costruendo, attraverso immagini fatte di bosso e di sculture, una specie di mappa virtuale del paese sovrapposta ai giardini, in modo da consentire, passeggiando, un facile apprendimento popolare del nuovo sistema amministrativo. L’uso delle figure per memorizzare era così legato allo spazio che tutta la tradizione classica (arrivando fino ai nostri giorni attraverso la devozione religiosa cristiana) lo utilizzava non tanto per memorizzare le informazioni connesse ai luoghi, ma anzi impiegava i luoghi per memorizzare le informazioni generali. Le informazioni da memorizzare, cioè, venivano agganciate a figure collocate lungo un percorso noto (le aiuole di un giardino, le stanze, i loggiati, i palazzi e le città della memoria) per favorire la loro ordinata archiviazione, il loro recupero e l’eventuale riassemblaggio nella composizione retorica. Aristotele consigliava di usare mentalmente le lettere dell’alfabeto o le stanze di casa propria. Così, nel percorso a,b,c,d,e, se ci si fosse dimenticati di c, gli altri segmenti dell’itinerario mentale avrebbero potuto aiutare a recuperare l’informazione (la stanza o la figura) momentaneamente perduta. Geografia e cartografia (cioè la descrizione dei luoghi attraverso la scrittura, ovvero attraverso scrittura e figure assieme) diventavano così le scienze fondamentali dell’arte della memoria perché usavano figure (reali o mentali) collocate nello spazio. Strabone scrive chiaramente che questa è la funzione specifica della geografia: dare informazioni elementari, di base, attraverso i luoghi geografici (non sui luoghi geografici), cioè utilizzandoli come sistema retorico per ricordare le narrazioni connesse alle regioni e alle città: storie, miti, personaggi famosi, curiosità. Nel II secolo dC un maestro di scuola alessandrino, Dionigi Periegete, utilizza la mappa del mondo come un’enciclopedia per spiegare ai suoi studenti i rudimenti della cultura di base, non certo la geografia come la intendiamo noi oggi. A metà del Settecento e in pieno illuminismo i manuali di “geografia per fanciulli” fanno la stessa cosa. La descrizione e la rappresentazione dei luoghi (non c’è differenza) sono dunque una topica, cioè un repertorio di informazioni da utilizzare per la composizione retorica o anche per la scelta morale. Non c’è infatti differenza tra cercare l’exemplum giusto (cioè la citazione) per scrivere un’orazione, o da imitare in un comportamento. La memoria usa la topica per memorizzare, e, attraverso la giusta topica 39 (cioè implementando di esempi giusti il repertorio utilizzato), sarà facile accedere al giusto comportamento. La memoria è infatti la “porta della morale” e con essa la geografia (cioè la descrizione/rappresentazione della natura/topica secondo i meccanismi della contemplazione/meditazione). Se la contemplazione consiste quindi nell’identificare lo spazio significante sovrapponendolo a quello reale, la meditazione consiste nel recuperare mentalmente in quello spazio, attraverso l’osservazione delle figure (e quindi anche delle componenti del paesaggio/giardino: i topia), le informazioni loro connesse (dei concetti, oppure interi passi della tradizione. Memoria ad res, memoria ad verba). La topica/morale è così intima della topografia che quest’ultima viene considerata da Quintiliano (Inst. or. IX,2) la più efficace forma di persuasione. E anche l’arte dei topiarii (la topiographìa) cioè dei giardinieri, confusa con la topografia, è considerata, piuttosto che una manipolazione della natura, una composizione retorica dei significati connessi alle piante in funzione persuasiva. Costruire un giardino significa infatti, già nel mondo antico, costruire periodi e discorsi attraverso i significati dei fiori e delle piante, avvalendosi della loro bellezza per colpire l’emozione e radicarsi nella memoria del percettore. Giardini come biblioteche, come luoghi della meditazione e della scelta etica, nei quali, tuttavia, la meraviglia, non è prodotta dalla osservazione della natura, ma dalle narrazioni emotivamente rilevanti associate alle componenti naturali del paesaggio. Il paesaggio culturale è questo. La lettura della sua fisiologia non può distinguersi dalla fisionomia perché è quest’ultima, in quanto sistema linguistico, a consentire di leggere le sue componenti naturali. In questo comportamento paesaggi e mappe seguono le stesse modalità di funzionamento. Le mappe, come i paesaggi, non parlano di natura, ma di cultura. Non rappresentano luoghi, ma loci retorici. Non indicano cose, ma parole. La percezione è certamente un atto soggettivo, ma segue logiche linguistiche e retoriche codificate. Il paesaggio deve dunque essere bello perché fonda il suo funzionamento sulla capacità delle figure utilizzate di colpire l’emozione e favorire così il radicamento mnemonico (che è proporzionale all’emozione provata). Ma la sua prima percezione (ammesso che possa esistere) è già una percezione strutturata dai significati che evoca. La quale, a cascata, riprodurrà, nella manipolazione del paesaggio vero, una sua progressiva qualificazione territoriale come luogo “estetico”. In questo, credo abbia ragione Gombrich quando sostiene che la nostra percezione della natura è filtrata dall’arte. Ma l’arte è probabilmente solo uno dei suoi filtri, perché vi sono anche altre griglie sovrapponibili al paesaggio. In ogni caso, come ha ricordato David Freedberg, la percezione della realtà è mediata dalle costruzioni simboliche della società. Certi paesaggi vengono scelti perché più capaci di altri di rappresentare emotivamente le topiche di una comunità. Questa scelta favorisce poi l’ulteriore sviluppo 40 della funzione loro affidata, perché consolida socialmente la convinzione che quel paesaggio è bello e rappresenta qualche cosa di più di una qualità congiunturale. In questo modo la percezione della formapaesaggio agisce come le figure dei codici miniati. Esse venivano collocate prima del testo, per condizionarne la lettura secondo un registro programmato, oppure alla fine del testo per riassumerne i tratti pertinenti (quindi con la stessa funzione). In entranbi i casi le figure agivano con la logica delle costellazioni astrali: influivano, cioè, sullo skopòs della lettura, condizionandola emotivamente. Come le stelle agivano sullo skopòs della vita “guardando” l’ora della nascita (appunto, l’“oroscopo”). 5. Il paesaggio persuasivo Considerare il paesaggio secondo la pragmatica del suo funzionamento linguistico e retorico mi sembra consenta il ritrovamento, entro una sorta di analisi tecnologica delle strutture mentali, di una confluenza tra le analisi “contenutistiche” e quelle “formali” del paesaggio in campo. Essa gli restituisce la sua funzione simbolica, ma entro un processo socialmente mediato di costruzione di senso che evita probabilmente di tornare ai modelli romantici, senza perdere di vista le componenti “oggettive”. Il paesaggio infatti, in questa interpretazione, nasce da una percezione socialmente mediata, ma, in quanto repertorio morale, produce comportamenti e, quindi, perfeziona la realtà rispetto al modello. Nello stesso modo gli atlanti producono le identità nazionali (invece di documentarle) e le guide turistiche producono gli itinerari (agiscono, cioè, prima del successo sociale del percorso). La percezione individuale del paesaggio convive dunque, materialmente, con la sua funzione, codificata, di repertorio di informazioni, ma anche di teatro delle norme cui attenersi. I contadini marchigiani produttori di uno dei paesaggi più apprezzati d’Italia, segmento della piantata mediterranea, consideravano per esempio il loro paesaggio come un repertorio normativo di regole di comportamento e di significati morali dettati, ovviamente, dalle classi dirigenti. Come succede agli ecologisti che celebrano la bellezza dell’ecosistema, anche per i contadini la bellezza del paesaggio coincideva con il sistema dei valori inculcato dalle convenzioni. Il contadino sta in campagna, mentre il padrone sta in città e guarda dall’alto il paesaggio coltivato. La citazione di Volponi di apertura sottolinea come chi saliva a Urbino e vedeva il paesaggio agrario del Montefeltro coglieva ancora, nel secondo dopoguerra, il sistema delle relazioni sociali; capiva quel che c’era da capire. Reciprocamente, i signori (come nei due ritratti del duca Federico da Montefeltro e di Battista Sforza di Piero della Francesca) rappresentavano il buon governo del principe coincidente con il paesaggio coltivato e bonificato e, ancora due secoli dopo, si autorappresentavano come pastori arcadi nelle favole pastorali recitate nei loro teatri di corte. Non era solo il paesaggio rappresentato a funzionare da repertorio normativo, da topica, ma anche quello vero; che veniva infatti celebrato da aristocratici e viaggiatori come un giardino. 41 Il problema di oggi è che probabilmente il sistema dei significati connessi al territorio si è perso. Non abbiamo più il codice linguistico dei significati secondi connessi al territorio, quelli che lo trasformavano appunto in paesaggio (la stessa cosa è successa per la toponomastica, nata per dare “figure emotive” ai luoghi, derive meditative come quelle descritte da Proust nel capitolo Nomi di paesi della Recherche, oggi diventati puri segnali stradali). L’invadenza dei “non luoghi” di oggi non è solo di natura progettuale, è anche legata a questa carenza di significati meditativi connessi ai luoghi, sostituiti da pure funzioni; una vittoria dello space sul place. I paesaggi consentivano infatti derive interpretative, i “non luoghi” hanno solo sensi unici. Quanto esposto sin qui consente di comprendere le ragioni della tendenziale confluenza storica tra pensiero etico e cultura del paesaggio, anche prescindendo dalla componente conservativa e militante degli ambientalisti. La scelta etica è stata infatti epistemologicamente intrinseca alla scienza del paesaggio, perché fondata sui suoi stessi, intimi meccanismi di funzionamento. Ciò spiega perché Kant sostenesse che amare la natura equivaleva ad avere un animo buono; perché la geografia umanistica (per es. nel pensiero del geografo americano R. S. Sack), come l’ecologia del paesaggio, abbiano teso a identificarsi con la scelta etica e politica (“Il male, scrive Sack nel 1997 nel suo Homo Geographicus, è l’assenza di intrinseci valori geografici. Il luogo può diventare cattivo perché è carente di questi valori”). Spiega per quale motivo la Land Art americana e l’arte ambientale europea abbiano finito per trasformare l’opera in puro gesto simbolico, in azioni o installazioni, traducendola in puro atto concettuale, in “esempio” morale. D’altra parte, in tutta la tradizione classica (ma si trattava di un’immagine frequentemente presente anche sui frontespizi degli atlanti del Sette e Ottocento), la scelta etica era stata rappresentata dall’emblema di “Ercole al bivio” tra la strada stretta e in salita del bene e quella larga e in discesa del male. Un emblema che rappresentava concretamente la morale come un percorso nello spazio. 42 Riferimenti bibliografici J. APPELTON, The Experience of Landscape, Chichester-New York, J. Wiley & Sons, 1996. E. BATTISTI, Iconologia ed ecologia del giardino e del paesaggio, a cura di G. Saccaro Del Buffa, Firenze, Olschki, 2004. A. BERQUE, Les raisons du paysage, de la Chine antique aux environnements de synthèse, Paris, Hazan, 1995. J.M. BESSE, Face au monde. Atlas, jardins, géoramas, Paris, Desclèe De Brouwer, 2003. E. S. CASEY, Representing Place. Landscape, Painting and Maps, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2002. E. 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WARBURTON, Essai sur les hiéroglyphes des Egyptiens, Paris, 1744. 43 HANSJÖRG KÜSTER NATUR UND LANDSCHAFT IN NATURWISSENSCHAFTLICHER SICHT: ZWEI BEGRIFFE, DIE UNTERSCHIEDEN WERDEN MÜSSEN Im täglichen Sprachgebrauch des Deutschen, aber wohl auch anderer Sprachen, werden die Begriffe „Natur“ und „Landschaft“ häufig synonym gebraucht. Beide werden für gegensätzliche Bezeichnungen zu „Stadt“ oder auch „Kultur“ gehalten, etwa dann, wenn man sagt: „Ich gehe hinaus in die Natur.“ Man spricht im Deutschen von einem Gegensatz zwischen „Naturlandschaft“ und „Kulturlandschaft“. „Naturlandschaft“ ist vom Menschen bzw. seiner Kultur unbeeinflusst, „Kulturlandschaft“ durch Mensch und Kultur geprägt. Aus naturwissenschaftlicher Sicht sind diese Formen der Verwendung der Begriffe Natur und Landschaft einerseits, Naturlandschaft und Kulturlandschaft andererseits nicht akzeptabel. Die Entwicklung der modernen Biologie im 18. Jahrhundert setzte unter anderem mit der Klassifizierung von Erscheinungen der Natur ein: Arten von Tieren und Pflanzen wurden beschrieben, und zwar in einer Art und Weise, die jedem, der mit den Artbeschreibungen umgeht, klar macht, dass eine Art eine Konstante sei. Dabei ist in Wirklichkeit nur die Beschreibung der Art konstant, nicht aber die Gruppe der Individuen, die zu der Art gerechnet werden. Eine Klassifizierung der biologischen Vielfalt wäre auf andere Weise nicht möglich gewesen, doch muss klar betont werden, dass keine Gruppe von Lebewesen, die zu einer Art gerechnet werden, als Konstante aufgefasst werden darf: Diese Gruppe besteht aus Individuen, die entstehen und vergehen und niemals mit gleichen Eigenschaften wieder geboren werden. Die Entstehung immer wieder anderer Individuen ist eine wichtige Voraussetzung dafür, dass sich Populationen von Tieren oder Pflanzen im Lauf der Evolution weiter entwickeln. Auch die moderne Geographie begann ihre eigenständige Entwicklung unter anderem mit einer Einteilung der Welt in Landschaftsräume. Diese wurden ebenfalls als Konstanten beschrieben, und auch diese dürfen nicht als Konstanten aufgefasst werden. Denn in ihnen laufen ökologische Entwicklungen ab: Lebewesen entstehen und vergehen. Es kommt ferner zur Ausbildung eines irreversiblen Energieflusses: Bei der Photosynthese wird Lichtenergie in chemische Energie umgewandelt, und diese wird im Verlauf der Zellatmung in andere Energieformen transformiert, die letztlich als Wärmeenergie von der Zelle bzw. vom Ökosystem abgegeben werden. Dieser elementare Vorgang des Lebens, der in allen Ökosystemen und in allen geographisch definierten Landschaften abläuft, ist entscheidend dafür verantwortlich, dass sich deren Konstitutionen beständig verändern. 44 Organische Substanz wird zum Teil abgebaut, zum Teil sedimentiert, unter dem Einfluss von Lebewesen werden Gesteinsschichten zersetzt und ihre Bestandteile ins Meer gespült. Aus naturwissenschaftlicher Sicht sollte klar sein: Natur verändert sich unaufhörlich, und ein Ökosystem ist keine Konstante, sondern ein Prozess. Wir selbst und unsere Umwelt sind in diesen beständigen Wandel mit eingeschlossen. Die Menschen wollen sich aus einem elementaren kulturellen Antrieb auf einen solchen natürlichen Wandel nicht einlassen: Sie streben stabile Lebensbedingungen für sich als Individuen oder als Gruppe an. Ausdruck des Willens, stabile Lebensbedingungen zu schaffen, kann es aber dann gerade nicht sein, die Natur zu schützen. Denn ein Schutz der Natur bedeutet Schutz des Wandels – und den will man gerade dann nach Möglichkeit verhindern, wenn man stabile Bedingungen schaffen möchte. Im Gegensatz zur Natur kann Landschaft als stabile Größe gedacht werden. Sie ist ohnehin immer dann stabil, wenn ein Maler sie erkannt hat und auf einer Leinwand fixiert. Das Bild auf der Leinwand ist ebenso stabil wie die Beschreibung einer Pflanzen- oder Tierart und wie die auf einer Landkarte eingezeichnete Landschaft. Auf der Leinwand und auf der Landkarte besteht eine konstante Landschaft als eine Momentaufnahme von Natur, die sich in beständiger Wandlung befindet. Das fixierte Abbild der Natur kann als Leitbild fungieren: Aus vielen Gründen kann es die Überzeugung von Menschen sein, dieses Bild nicht nur auf der Leinwand, sondern auch in der „Realität ihrer Umwelt“ festzuhalten. Weil dabei aber akzeptiert werden muss, dass Natur sich stetig verändert, muss dann gegen die Veränderung vorgegangen werden: Bäume müssen geschnitten, Heideflächen beweidet werden, und Wiesen brauchen den regelmäßigen Schnitt. Aus diesen Ausführungen wird klar, dass Natur mit und ohne Menschen bestehen, das heißt: sich beständig verändern kann. Aber eine Landschaft existiert nur dann, wenn der Mensch sie bewusst (oder auch unbewusst) erkennt. Landschaft wird immer aus kultureller Sicht konstruiert oder definiert. Daher kann es prinzipiell keine Naturlandschaft geben. Auch dann, wenn Menschen auf eine „jungfräuliche“ Landschaft blicken, die noch nie zuvor berührt wurde, ist ihr Bild, das sie sich davon machen, eine Leistung der Kultur. Daraus folgt dann, dass der Begriff „Kulturlandschaft“ nicht verwendet werden muss. Er ist eine Tautologie, weil Landschaft immer kulturell bestimmt ist. Alles, was der Mensch betrachtet und im Geist oder in der Realität, „kulturell“ festhalten möchte, ist Landschaft. Während Natur niemals nachhaltig ist (weil sie sich verändert), kann das Bemühen der Menschen um die Bewahrung von Landschaft als Ziel von Nachhaltigkeit gedeutet werden. Weil sich Natur immer verändert, ist in ihr eine Nachhaltigkeit im Sinne von Stabilität nicht zu verwirklichen. Aber die stetige Pflege einer Landschaft, das stetige Bäumeschneiden, Pflügen, Ernten, Unkrautjäten 45 usw., hat etwas mit dem Anstreben von Nachhaltigkeit zu tun: Wenn alle diese Aktionen alljährlich erfolgen, erhält die Landschaft ein in jedem Jahr wieder gleiches oder nahezu gleiches Aussehen. Das Ziel, das dahinter steht, kann als Anstreben von Nachhaltigkeit umschrieben werden. Wenn man den Begriff Naturschutz ernst nimmt, so ist darunter ein Schutz der Dynamik zu verstehen. Diese Schutzstrategie besteht in der Praxis des Naturschutzes dann, wenn man sich für einen Prozessschutz entscheidet. Doch oft wird unter Naturschutz eher eine Bewahrung des Status quo verstanden, eines Zustandes, der mit Natur nichts zu tun hat, da ja Natur sich ständig wandelt. Das eigentliche Ziel, das dabei – mit dem Etikett „Naturschutz“ – verfolgt wird, ist der Schutz einer Landschaft, die Bewahrung eines Leitbildes mit allen darin enthaltenen Strukturen, auch einer Biodiversität, also bestimmter Pflanzen- und Tierarten. Dieses Ziel ist wichtig, aber man kann es nicht Naturschutz nennen. Es handelt sich dabei vielmehr um das zentrale Ziel des Landschaftsschutzes. Eine solche begriffliche Klarstellung ist keine philologische Spitzfindigkeit, sondern eine sachliche Notwendigkeit. Das Ziel, einen Zustand in unserer Umwelt zu bewahren, muss nämlich den Zustand nicht nur gegenüber den verändernden Eingriffen des Menschen bewahren, sondern auch – und das ist entscheidend – gegen die Dynamik der Natur. Stets ist ein kultureller Einfluss notwendig, um natürliche Veränderung zu verhindern und um nach Möglichkeit einen Zustand zu bewahren. Dies zeigt sich im Garten und in der Agrarlandschaft, in den Wäldern wie auf Heideflächen, die nur dann waldoffen bleiben, wenn dort regelmäßig Tiere auf die Weide geschickt werden. Die Gegebenheiten in einem solchen Ökosystem können mit naturwissenschaftlichen Analysemethoden untersucht werden. Den Naturwissenschaftlern sollte bei ihrer Arbeit aber immer klar sein, dass ihr Untersuchungsgegenstand von Natur aus keine Stabilität aufweist, sondern dass Stabilität angestrebt wird, wenn menschlicher bzw. kultureller Einfluss dafür sorgt. Man kann sich einer Landschaft nicht nur mit naturwissenschaftlichen Analysen nähern. Stets wird auch die Synthese gebraucht, die nach der Vorstellung Alexander von Humboldts vom Landschaftsmaler zu leisten ist. Das braucht nicht wörtlich genommen zu werden. Nicht jeder „Landschaftsmaler“ im Sinne Humboldts produziert etwas auf einer Leinwand. Ein Landschaftsmaler als Synthetiker kann auch etwas Schriftliches verfassen, eine Landkarte zeichnen oder ein Musikstück komponieren. Das Werk des Landschaftsmalers kann ebenso eine mit naturwissenschaftlichen Methoden geleistete Synthese sein. Wichtig ist, dass diese Synthese auf zahlreiche Aspekte eingeht und Zusammenhänge knüpft. Die Synthese ist genauso wenig wie die Analyse jemals abgeschlossen. Immer wieder können neue Details erforscht werden, aber auch immer wieder neue Zusammenhänge. Leider ist unsere heutige Wissenschaft, vor allem in den naturwissenschaftlichen Fächern, heute vorrangig auf Analyse bedacht; viele naturwissenschaftliche 46 Publikationsorgane akzeptieren nur eine Argumentationskette, die von einer Frage ausgeht, dann die Methode darstellt, Ergebnisse und eine Diskussion, aber damit die Synthese gerade nicht leistet. Es gibt zwar die literarische Form des wissenschaftlichen Essays, doch keine wirklichen Synthesen im Sinne Alexander von Humboldts. Die Landschaft müsste aber in Synthesen dargestellt werden, denn Planer (auch Politiker) brauchen diese. Mit Ergebnissen von Analysen können sie kaum etwas anfangen, und selbst können sie die Synthesen nicht leisten. Daher findet heute fahrlässigerweise sehr häufig eine Landschaftsplanung statt, ohne dass die Ausgangssituation der Landschaft in einer Synthese beschrieben ist. Wir verzichten auf die Synthesen einer Landschaftswissenschaft – und sind uns noch nicht einmal darüber bewusst! Landschaftswissenschaft ist nicht Geographie oder Landschaftsökologie, sie ist eine darüber oft weit hinaus reichende Synthese, die rational begründbares Wissen und emotionale Vorstellungen der Menschen ausdrücklich einbezieht. Wir brauchen die Landschaftswissenschaft vor allem als Basis für die Information von Planern, aber auch der allgemeinen Öffentlichkeit. Es ist wichtig, dass Fachleute und Laien sich um richtiges Hinsehen bemühen, bevor sie Entscheidungen treffen. Sie müssten vom Landschaftswissenschaftler, dem Landschaftsmaler im Sinne Alexander von Humboldts, im Betrachten der Landschaft unterrichtet werden. Dabei ist zunächst das zu beschreiben, was als scheinbarer Zustand erkennbar wird. Dieser kann dann in den Lauf einer Entwicklung eingeordnet werden. Dabei ist der kulturelle Einfluss, der gegen die natürliche Dynamik einwirkt, zu beschreiben. Jeder Mensch, der sich mit Landschaft befasst, kann auf sie Einfluss nehmen, in welcher Form sie bewahrt werden sollte. Die Bewahrung von Landschaft wird durch kein Naturgesetz festgeschrieben, sie ist auch nicht durch einen Staat oder durch die Jurisdiktion festgelegt. Kein Wissenschaftler allein, auch kein Künstler allein bestimmt den „richtigen“ Zustand einer Landschaft. Sondern alle Menschen sind aufgerufen, sich gemeinsam über das Erscheinungsbild „ihrer“ Landschaft in Gegenwart und Zukunft Gedanken zu machen. Diese Gedanken sind individuell und durchaus verschieden. Aber es ist unabdingbar, dass ein intersubjektiver Kompromiss darüber herbeigeführt wird, welche Landschaft geschützt werden soll – als Raum der Arbeit, als Raum der Erholung, als Raum der Empfindungen, als Heimat. Ein intersubjektiver Kompromiss über die Zukunft von Landschaft kann nur unter Menschen herbeigeführt werden, die etwas über die Landschaft wissen und die sich auch darüber bewusst sind, dass keine absolute Notwendigkeit besteht, diese oder jene Richtung für die Entwicklung der Landschaft zu wählen. Der intersubjektive Kompromiss ist keine Konstante, sondern er kann und muss immer wieder neu herbeigeführt werden. Ein Bewusstsein für Landschaft und ein Bewusstsein für den Charakter des intersubjektiven Kompromisses zu entwickeln sind eminent wichtige pädagogische Aufgaben, die sich aus der Beschäftigung mit der Wissenschaft von der Landschaft ergeben. Der 47 Schutz der Landschaft hängt daher sowohl von der Qualität der Synthesen als auch der Qualität der pädagogischen Arbeit ab. Nachhaltigkeit des Schutzes von Landschaft beruht also nicht in erster Linie auf Gesetzen der Natur oder der Jurisdiktion, sondern auf dem Verständnis der Menschen und der Kunst der Pädagogen, die sie unterrichten. 48 ALFONS DWORSKI ARCHITEKTUR- UND LANDSCHAFTSVERSTÄNDNIS IM WANDEL VON ORT UND ZEIT. EINIGE EPISODEN DER EUROPÄISCHEN IDEENGESCHICHTE AM LEITFADEN VON ARCHITEKTUR- UND LANDSCHAFTSBETRACHTUNGEN Vorbemerkungen zu den Begriffen „Architektur“ und „Landschaft“ Architektur in kulturwissenschaftlicher Perspektive Architektur wird in den folgenden Untersuchungen aus einer kulturwissenschaftlichen Perspektive betrachtet, damit treten sowohl technische als auch künstlerische Aspekte in den Hintergrund. Es ist nur von Bauwerken und materiellen, raumbildenden Artefakten die Rede. Also von Substanz. Dies im Gegensatz zum Begriff „Landschaft“, der eine vage Kategorie beinhaltet. Da Architektur Raum einnimmt… Da Architektur Raum einnimmt ist sie in jedem Fall an einen Ort gebunden. Meist ist der Ort mit einer geographisch eindeutigen Stelle identisch. Die Stelle kann auch qualitativ bestimmt sein, so z.B. ist ein Hausboot Architektur und an einen geographisch unbestimmten, aber nicht beliebigen Ort gebunden, an fahrbares Wasser. Ein solcher Ort konstituiert sich aus einer bestimmten Infrastruktur. Architektursimulationen im Cyberspace und übertragene Bedeutungen wie „Friedensarchitektur“ oder „Rechnerarchitektur“ sind ortlos, substanzlos und bleiben hier außer Betracht. Architektur für einen gegebenen Zweck Da Architektur von Menschen für einen gegebenen Zweck auf der Basis existenter Sinnkonzepte entworfen und hergestellt wird, sind zeitliche und räumliche Referenzmarken in eine zunächst menschenleere, maßstablose und geschichtslose Welt gesetzt. Architekturgeprägte menschliche Lebensentfaltungsräume werden auch baukulturelle Regionen genannt, womit die sinnstiftende Beziehung zwischen Mensch, Ort und Artefakt zum Ausdruck kommt. „Regionale Architektur“ Unter „Regionaler Architektur“ soll nicht mehr, aber auch nicht weniger als die Summe des baulichen Geschehens in einer bestimmten Region verstanden werden, es handelt sich also weder um eine historische noch um eine baukünstlerisch wertbestimmende Kategorie. Regionalismus hingegen ist eine soziokulturelle Einstellung, wonach das räumliche Sein – die Raumbindung – bestimmender für 49 das Bewusstsein sei, als soziales Sein bzw. Herrschaftsbindung. An diese Frage knüpfen sich auch die politischen Gegenentwürfe „Regionalismus“ versus „Internationalismus“ an. „Regionalistische Architektur“ Unter „Regionalistischer Architektur“ sollen architektonische Gestaltungen verstanden werden, denen bestimmte, in unterschiedlicher Weise von regionalen Strukturen inspirierte Stilprogramme zugrunde liegen. Man sollte deshalb nur von „Architektonischen Regionalismen“ sprechen, um die Vielfalt regionalistischer Phänomene im Auge zu behalten. Architektonischer Regionalismus ist also kein expliziter „Stil“ sondern eine Tendenz, eine implizite Art etwa auf problematische Seinslagen zu reagieren wie urbane Verelendung, kulturelle Identitätskrisen, Umweltdegradation oder Globalisierung. Was ist Landschaft? Ein nicht oder noch nicht gesehener bzw. erträumter Raum kann nicht Landschaft sein. Sehen oder träumen sind Modi menschlicher Wahrnehmungen. Wir wissen zum Beispiel nicht, ob Milben Landschaftsempfindungen haben, und wenn es so etwas gäbe, welche Wahrnehmungen sich daran knüpften. Landschaft ist demnach eine kulturell definierte Wahrnehmungskategorie, ein möglicher Sachverhalt, der durch menschliche Betrachtung eines Ausschnittes der Erdoberfläche entstehen kann. „Der Mensch ist das Maß aller Dinge.“ Genauer gesagt: Der menschliche Empfindungs- und Wahrnehmungsapparat ist das einzige Referenzsystem jeder dem Menschen zugänglichen Weltbeschreibung und jeder Welterkenntnis. Selbst die Götter mussten und müssen sich diesem Gesetz beugen, wenn sie in irgendeiner Weise wahrgenommen werden wollen. Begriffe wie „Natur“ und „Landschaft“ bezeichnen keine Existenzen per se wie etwa „Stein“ oder „Wurm“ sondern Aggregate menschlich interpretierter Sachverhalte und Raumwahrnehmungen. Substanz oder Sachverhalt? Einen substanziellen Begriff wie „Stein“ bzw. auch „Architektur“ kann man durch objektivierende Beschreibung zweifelsfrei definieren: Es wird festgelegt, dass ein Stein durch Stoff (Gestein, Mineral) und Gestalt (größer als Sandkorn und kleiner als Felsen) mit notwendiger und hinreichender Genauigkeit beschrieben werden kann. Damit ist auch festgelegt, was „Nicht-Stein“ ist. Der vage Sachverhalt „Landschaft“ lässt sich so weder fassen noch abgrenzen. Im alltäglichen deutschen Sprachgebrauch gibt es wenig Zweifel, was gemeint ist, wenn das Wort „Landschaft“ fällt. Praktisch immer ist durch einen Sinnzusammenhang klar, ob ein Bild (Wandschmuck), eine Traditionsgesellschaft oder eine attraktive Gegend gemeint ist. Weil hier ein flexibler Sprachgebrauch vorliegt, der in anderen Sprachen aus ähnlichen aber keineswegs gleichen inhaltlichen Schnittmengen 50 zusammengesetzt ist, kann es wohl eine alltagstaugliche, aber keine prinzipielle Gewissheit darüber geben, was Landschaft ist. Was ist nicht Landschaft? Ebenso aussichtslos sind die Versuche, prinzipiell zu fassen, was nicht Landschaft heißen soll. Dass zum Beispiel verwüstete Tagbaugruben zu den Strukturwandel-Folgelandschaften gezählt werden, ist zwar nicht populär, aber Stand der Forschung. Ob es aber zulässig wäre, etwa alle Blumentöpfe von Sevilla als Moleküle, als homöopathische Dosen von Landschaft zu interpretieren und damit in Fachkreisen innovativ zu werden, kann ein Streitfall sein. Manieristische Kunstgriffe dieser Art werden im Folgenden außer Betracht bleiben, so auch abgeleitete Anwendungen des Vokabels, die im Bereich der Politik, des Kunsthandels und der Poesie gebräuchlich sind. Bestimmte Sprachen erleichtern bzw. begünstigen bestimmte Denkstile, verweisen aber auch auf kulturspezifische, in der Praxis fast unüberwindliche Schranken der Verständigung über Welt- und Raumbeschreibungen. So müssen wir es für möglich halten und akzeptieren, dass es Kulturen gibt oder geben könnte, die Sachverhalte wie „Landschaft“ in Sprache und Weltbeschreibung nicht konzeptualisiert haben, die europäische Raumkategorien nicht brauchen und kennen, die sich aber mit einer den Europäern möglicherweise unzugänglichen Raumbeschreibung zweifelsfrei koordinieren und orientieren. So wird es erklärlich, dass etwa Australien dem heutigen europäisch-touristischen Blick sehenswerte und erhabene Landschaften bietet, und dieser Sachverhalt in den üblichen Medien dargestellt und kommuniziert werden kann. Die Ureinwohner, die sich selbst in untrennbarer, ständiger magischer Einheit mit dem heiligen Territorium begreifen, finden sich mit ihren, für uns jedoch im doppelten Wortsinn „unbeschreiblichen“ Orientierungssystemen – mit raumbildenden Gesängen, Traumpfaden und Churingas – erfolgreich und völlig andersartig zurecht. Landschaft ist eine Raumbeschreibung Der Rahmen des hier behandelten Landschaftsbegriffes ist demnach eine Kategorie menschlicher, genauer gesagt, europäischer Raumbeschreibung. Alle Fragen bezüglich der Landschaft basieren auf vorgelagerten oder historischen Fragen nach den jeweiligen Natur- und Raumbeziehungen. Ausgangspunkt ist immer die Frage, was das betrachtende Subjekt im Blick auf die überschaubare Geographie wahrnimmt, schätzt, sucht, beachtet, welche Interessen an Natur und Raum den Sachverhalt Landschaft konstituieren und wie sich das Subjekt in Beziehung zum Objekt bringt. Diese Beziehungen zu entschlüsseln ist in aufgeklärter Tradition Selbstbefragung und Empirie, in religiösen und mystischen Traditionen Offenbarung oder Gotteserfahrung. Das Bedürfnis nach umfassenden Raum- und Welterklärungen dürfte eine unverzichtbare anthropologische Konstante sein. 51 Ihre praktischen Ausformungen bilden einen breiten Fächer etwa zwischen den Gegensätzen von der Weltabgewandtheit hinduistischer Traditionen bis zum positiven Daseinsbezug manichäischer Mystik, wonach sich der schöpferische Lichtgott in der Lektüre des liber naturae offenbare. Die Regel ist, dass es eine Regel geben muss; die Beständigkeit liegt in der Vielfalt und im Wandel der Raummodelle. Raummodelle im Wandel Das vorherrschende Raummodell urbanisierter Gesellschaften am Beginn des 21. Jahrhunderts ist zwar noch vom bipolaren Stadt-Land Modell der europäischen Zivilisationsgeschichte bis etwa 1950 geprägt, wird aber seither zunehmend von Urbanisierungs- und Globalisierungsphänomenen aufgebrochen. In den allgemeinen Kulturwissenschaften gilt derzeit das Thema Spatial Shift als aktuell. Gemeint ist damit die progressive Auflösung eines physisch-zentrierten Raumes, wie er etwa in der historischen Begrifflichkeit von „Heimat“ verdichtet war, zugunsten ortloser Präsenzen. Konnte man das historische Raummodell mit einer handfest sichtbaren Zwiebel (Ringe um ein Zentrum) vergleichen, so kann man sich die ortlosen Präsenzen als großteils unsichtbares Rhizom oder Myzel (Netzwerk) verbildlichen. Zukünftige Raummodelle werden sich vielleicht im Wesentlichen aus Netzwerken von Orten und Nichtorten entwickeln. 36 Vorwiegend sesshafte Lebensentfaltungen Vorwiegend sesshafte Lebensentfaltungen in zeitlicher und räumlicher Kontinuität werden weniger, ausgedehntes Schweifen wird wieder zur Regel. In den kommenden Raummodellen wird die traditionelle Stadt-Land-Dialektik verblassen, und eine bis jetzt noch namenlose Raumkategorie wird mit komplexen, urbanistischen Begleiterscheinungen das durchdringen, was heute noch „offene, bäuerliche Kulturlandschaft“ genannt wird. Dies wird auch von der ehemals umfassenden Funktionalität zur einseitig touristisch-modischen Ästhetisierung von historischen Stadtkernen führen, die noch das System von baugeschichtlich aufeinander folgend gewachsenen Ringen zeigen. 37 Die neuen urbanisierten Kulturlandschaften müssen vollständige Lebensentfaltungsräume, bzw. Schweifgebiete sein. Ein kritischer Rückblick auf die dynamische Geschichte von Sesshaftigkeit versus Schweifen wird zeigen, dass menschliche Raummodelle evolutionär zu sehen sind: Vgl. dazu: M. KÜHN, Vom Ring zum Netz? Siedlungsstrukturelle Modelle zum Verhältnis von Großstadt und Landschaft in der Stadtregion. http://www.nsl.ethz.ch/index.php/en/content/view/full/343/. 37 Vgl.: http://landluft.server2.scalar.at/04/media/pdf/Doku_Wohnen_und_Arbeiten_in_Neupoella_Email.pdf. 36 52 Das Depot Von Anfang an steht das Wohnen an erster Stelle, es muss auch ohne jede „Hardware Architektur“ funktionieren; die Verhaltensweise steht vor dem Gebauten. Wie sich Menschen ohne Gebautes sozial in Raum und Zeit orientieren können, mag folgender Hinweis beleuchten: Die Aborigines in Australien haben keine Siedlungen oder Behausungen. Sie leben fast nackt, fast ohne technische Infrastruktur schweifend in der Wüste. Aber sie benötigen beispielsweise unbedingt einen eingegrabenen Stein, der mit einer symbolischen Ritzung Gemeinschaftsordnung und Recht für ein bestimmtes Territorium stiftet, der regelmäßig ausgegraben, betrachtet und wieder zurückgelegt wird. Er kann, aus unserem Blickwinkel gesehen, als magische Landkarte, Grundbuch und kosmisches Manifest eigener, unwidersprochener Existenz gelten und verstanden werden. Gewiss braucht der Mensch solche Depots. Dort müssen identitätsstiftende Objekte respektiert und unangefochten aufgehoben sein. Modernere, komplexere Erscheinungsformen von Depot sind z.B. Nekropolen, Kultplätze, Thesauri, Museen, Urkundensammlungen, Bibliotheken im öffentlichen Sektor und die wichtigen persönlichen Dinge im Privaten. Grabbeigaben sind das letzte individuelle Depot. Ob Datensätze im Cyberspace virtuelle Dokumente über Identität, Besitz und Vermögen das manifeste Depot ersetzen können, oder ob die elektronische Entmaterialisierung der persönlichen Habe zu merkwürdigem Übersprungverhalten, zu disfunktionalen Ersatzhandlungen führt, ist noch nicht klar. Vermutlich ist das zähe Beharren am freistehenden Einfamilienhaus, an einem Eigengrund den man besitzbekräftigend umschreiten kann, auch als Nachhall archaischen Territorialverhaltens zu verstehen. Der Initiationsplatz Aus der Mehrzahl einigermaßen kohärenter Gesellschaftsstrukturen könnte eine Tabelle temporärer nachfunktionaler Positionen abgeleitet werden: Die Spalten wären Lebensabschnitten zugeordnet: Kleinkinder, Schulkinder, Adoleszente bis hin zu Greisen, und in den Zeilen wären Funktionen bzw. Qualifikationen nach Status gereiht einzutragen wie: Töpfern, Kochen, Pflanzen, Jagen, Heilen, und Positionen wie Hirt, Weberin oder Schamane. Offensichtlich sind kulturspezifische Lebenssituationen, z.B. die Heiratsfähigkeit oder Ehrwürdigkeit des Greisenalters, wichtiger als abgezählte Lebensjahre. Übertritte einer Person aus einer Lebenssituation in eine andere werden in aller Regel öffentlich, an bestimmten, konsekrierten Initiationsplätzen nach zumeist dreiteiligen Übergangsritualen vollzogen: Ausgliederung, Neutralisierung und Angliederung. Dafür geeignete Plätze, an denen die Regeln des Alltagslebens außer Kraft gesetzt sind, müssen existieren, die Gesellschaftsstruktur wird raumrelevant. 53 Die tribale Raumkonstruktion z.B. der schon erwähnten Aborigenes kann als komplettes Basismodell von funktionsfähiger sozialer Raumkonstruktion gelten: An einer besonderen Stelle hat der Clan seinen Churingastein eingegraben, womit das Schweifgebiet gesichert ist. Das Depot ist in Ordnung. Ein Ort, wo die Toten, die Nicht-mehr-Lebenden, möglicherweise auch die Noch-nichtLebenden ständig anwesend sind. Saisonal sucht man einen neutralen Treffplatz der gesamten Stämme auf, jenseits der Alltagswelt. Dort liegen bevorzugt auch die Initiationsplätze, die „besonderen Orte des Austausches“: Rechtsfreie, bedenkliche und sogar verbotene Orte, bedrohlich und attraktiv zugleich. Dort finden die Auseinandersetzungen rivalisierender Lokalgruppen statt, dorthin werden Unreine und Unangepasste verbannt, dort wird aber auch unter Beachtung strikter Übergangsrituale Exogamie praktiziert. Um legal dorthin gelangen zu können sind gewisse Überschreitungsrituale, also „rites de passage“, notwendig. Wenn Riten und Raum einander unterstützen, sind die Initiationsplätze in Ordnung. Ein strukturell gleiches, ritualisiertes soziales Ereignis fand z.B. im 19. Jahrhundert statt, wenn etwa ein Augsburger Goldschmied auf die Walz ging: Zuerst wurde ein Verabschiedungsritual durchgeführt (=Verlassen der Heimat), dann eine Neutralisierung (=die Wanderschaft in Durchzugsräumen, Zunftkleidung) und zuletzt ein Angliederungsritual, z.B. eine zünftige Aufnahme bei einem Goldschmied in Hamburg (=rituelle Aufnahme in einer korrelierten Lokalgruppe). An diskreten Orten finden die Raufereien mit Rivalen statt, oft verbunden mit Sondierungen in der Damenwelt (=explorative Aggressionen in Initiationsräumen). Wir finden darin ein elementares räumliches Verhalten im Lebenszyklus junger Männer, die Phase manchmal aggressiver Exploration, die oft der Familiengründung vorangeht. 38 Antikes Raummodell Europäische Antike, Frühmittelalter: Die altgriechische Polis und ihre europäischen Folgeformen sind der Natur abgerungene Kulturbereiche, Verarbeitungsplätze, die komplementär zu den ländlich-dörflichen Gewinnungsplätzen zu verstehen sind. Vermutlich ist die bäuerliche Kulturlandschaft erst seit dem Hochmittelalter von fest verorteten Dörfern im heutigen Sinn gekennzeichnet. In Jütland und Schwaben wurden Gemarkungen erforscht, in denen die dörflichen Gebäude mehrmals verlegt wurden. Brandrodungsbauern in Südostasien verlegen heute noch ihre Dörfer, wenn die Wege zu den Anbaufeldern zu weit werden, oder wenn animistische Omina dies verlangen. Dies lässt ein geradezu fremd anmutendes Raummodell hervortreten: Das „Dorf“ ist im Wesentlichen nur die Gemarkung, das bewirtschaftbare Land. Die baulichen Anlagen sind eher als 38 Vgl.: http://de.wikipedia.org/wiki/Initiation. 54 mittelfristige Provisorien vorzustellen, die immer wieder, etwa im Generationentakt, verlegt wurden. Individualeigentum war unbekannt bzw. auf persönliche Habe eingeschränkt. Lediglich Kult- und Bestattungsplätze blieben über längere Zeit am gleichen Ort. Damit tritt uns sogar in der mitteleuropäischen Geschichte der Kulturlandschaft so etwas wie ein Halbnomadismus, eine innerhalb eines Schweifgebietes oszillierende und nur auf ein ortsfestes, kultisches Depot bezogene Raumkonzeption entgegen. Plakativ gesagt: Die eingezäunte Gemarkung, die bäuerlich genutzte Kulturlandschaft, ist der eigentliche Wohnraum; Haus und Dorf kommen später. Mittelalterliche Natur- und Raumbeziehung Beschwörung und Bekämpfung charakterisieren die mittelalterliche Naturbeziehung: Sowohl vorchristliche numinose Welterklärungen als auch der biblische Fluch: „Im Schweiße deines Angesichts...“ erzeugen eine defensiv aggressive Haltung gegenüber der Natur. Der Mythos von der Vertreibung aus dem Paradies kleidet ein Entfremdungstrauma in Bilder. Kultur wird als Zurückdrängen von Natur, als produktiver Ordnungseingriff in ein Chaos verstanden. Die Grundmuster der bäuerlichen Kulturlandschaft entstehen: Die bewirtschaftete Lichtung und Gemarkung als Keimzelle dörflicher Siedlung und, im Gegensatz dazu, der eher urbane Hortus conclusus, das Paradiesgärtlein, sind die Raumelemente, aus denen sich Modelle künftiger Siedlungen herleiten lassen. Die frühen Gesellschaften haben durchaus klassenspezifische Raumbindungen: Der Bauer, Dörfler, ist verpflichtet das Land zu bewirtschaften, ist damit an die Scholle gebunden. Der – schweifende – Jäger, Ritter, Adelige hat unter anderem die Pflicht, später das Vorrecht, dem Bauern Schutz zu geben, das heißt gefährliche Tiere und Menschen zu vertreiben bzw. zu vernichten. Was dem Bauern das Feld ist dem Jäger das Revier. Was dem Bauern das „Nutztier“ ist dem Herren das Wild. Die Ambivalenz von Reiz und Gefahr findet in der Wahl von Wappentieren bildlichen Ausdruck: Ein Bär zum Beispiel verweist darauf, dass der Träger sowohl Bären bannen kann, als auch selbst über Bärenkräfte verfügt; vielleicht ist dies eine Resonanz früherer totemistischer Vorstellungen vom Tier als Gott, Dämon und Ahne. Die mittelalterlich-frühneuzeitliche Architektur lässt deutlich das entsprechende Raummodell erkennen: Urlandschaft als Feindesland, Gemarkung als Verteidigungsgenossenschaft, Stadt als ein von der Natur gesäuberter bzw. die Natur dominierender Ort der Freiheit: Stadtmauern, Zäune, wehrhafte Sockelgeschosse, verschließbare Häuse, bevorzugte Verwendung von ewigem Stein vor vergänglichem Holz. Die Kommunikationsstruktur ist durch die Kriterien des Fußgehens, Reitens und des Karrenverkehrs geprägt. 55 Das Raummodell des europäischen Humanismus und der Aufklärung Die Begriffe „Humanismus“ und „Aufklärung“ sind hier in erster Linie als Sinnkonzepte und erst in zweiter Linie als Epochenbezeichnung gemeint. Kerngedanke dieser Sinnkonzepte ist das aristotelische Objektivierungsprojekt oder die Überzeugung, dass man in einer Kaskade logisch einwandfreier Schlüsse bis zu den „letzten Erkenntnissen und Wahrheiten“ vordringen könne. Hinsichtlich des Naturverständnisses bewirkt die cartesianische Wende eine folgenschwere Umkehrung der Dominanzverhältnisse: Die bislang beherrschenden und numinosen Kräfte der Natur wurden zu hantierbaren Forschungsgegenständen degradiert. Der rational erkenntnisfähige Mensch setzte sich selbst an einen beherrschenden Spitzenplatz über die Natur. Adel und hohe Geistlichkeit verlassen die engen, oft noch ummauerten Stadtpaläste und geometrisieren in noch nie dagewesener Weise die Landschaft. Die barocken Schlösser und Stifte sind solitäre Gesamtkunstwerke, in denen alle Aspekte von Landschaftsarchitektur einem integralen, oft allegorischen Bild von triumphaler Herrschaft dienen. Die undiszipliniert belassene Natur dient oft nur noch als Rohmaterial für groteske Dekorationen oder manieristische Kontrastkulissen. Am Vorabend der Französischen Revolution Am Vorabend der Französischen Revolution durchziehen Vorahnungen vom Bevorstehenden, vom unaufhaltsamen Fall der absolutistischen Hybris, die vorausdenkenden Köpfe. Wie oft in prekären Seinslagen einer urbanen Zivilisation, wendet sich nun ein mitunter irrational übersteigertes Interesse den vermeintlich elementaren Strukturen des Lebens zu. Adeliges Landleben, Borkenhütten und Schäferspiele im englischen Garten als Gegenkonzept und Neuanfang. Die Architekturtraktatisten versuchen ihre Erneuerungsthesen auf Urhüttentheorien, auf die Fragen nach der elementaren Conditio Humana abzustützen. Im Romantischen Klassizismus verbindet sich eine gesteigerte Sensibilität für das Naturhafte, die man den antiken Griechen unterstellt; „Edle Einfalt, stille Größe“, vermischt mit dem Topos vom ebenfalls edlen Wilden. Europäische Romantik Die nachnapoleonische Neuordnung Europas, der schrittweise Übergang von traditionslegitimierten (König-)Reichen zu territorial legitimierten und national verfassten Staaten, hat einen wesentlichen politischen Paradigmenwechsel zur Folge: Adel und Geistlichkeit des Ancien Régime leiteten ihren originären Herrschaftsanspruch aus einer Legitimationskette ab, die mit legendären Hierokratien begann und, über die griechisch-römische Antike vermittelt, den Anspruch alter europäischer Herrscherhäuser auf Gottes Gnadentum begründete. 56 Diese Legitimationskette zerriss um 1848 endgültig, die im Sinne der Aufklärung egalitär verstandene Frage nach der Conditio Humana richtete erstmalig den Blick auf das Volk als eigentliches Konstituens des politischen Staates und auf die Landschaft als Konstituens des Territorialstaates. 39 Vorformen der wissenschaftlichen Volkskunde gelangten zu akademischem Rang, patriotische Sammlungen von Lied- und Sagengut glichen vorweggenommenen Unabhängigkeitserklärungen. Volkskultur trat als eigenwertiger Kern nationaler Identität ins breite Bewusstsein, ländliche Haus- und Siedlungsformenkunde wurde in die akademische Architektenausbildung aufgenommen, nobilitierte Folklorismen mischten sich in die bildungsbürgerliche Wohnkultur. Diese regionalistische Grundströmung manifestierte sich in bemerkenswerten Auffächerungen von nationalen Natur- und Landschaftsbeziehungen: Nationalromantik und Regionalismus im Ostseeraum Die Architekturgeschichte der Länder um die baltische See ist über Jahrhunderte hinweg von einer prägnanten Schichtung von lokaler Volkskultur und überregionaler Elitekultur geprägt: der Deutsche Ritterorden, und die Hansespannen, ein relativ einheitliches Netzwerk von Herrschafts- und Handelsniederlassungen, über die ausgedehnten und vielfältigen Kulturräume der Pommern, Esten, Litauer, Polen, Russen, Karelier, Finnen, Schweden, Dänen und anderen. Ein Austausch zwischen der lokalsprachlichen Basiskultur und etwa dem französisch sprechenden Milieu der Herrschenden findet kaum statt. Dementsprechend wurde der großräumig verbreitete baltische Klassizismus der Herrschenden neben den lokalen, vernacularen Architekturen der Beherrschten zur architektonischen Parallelkultur. 40 Erst um 1850 wird etwa die bis dahin nur fragmentarisch niedergeschriebene Kalevala im Ganzen komplettiert als Nationalepos editiert, die erste Verschriftlichung der finnischen Sprache durch einen schwedischen Nationalromantiker (Lönnrot). Gesellius, Lindgren und Saarinen nehmen die Bildwelten der Kalevala in das Gestaltungsprogramm des Bahnhofs von Helsinki oder der Künstlerkolonie Hvitträsk auf. 41 Weil der Klassizismus als Stilprogramm deutscher, schwedischer bzw. russischer Fremdherrschaften empfunden und abgelehnt wurde, insbesondere von einer nationalromantisch inspirierten bildungsbürgerlichen Elite, den fortschrittlich orientierten „Jungfinnen“, war ein gerader und ebener Weg zur „Finnischen klassischen Moderne“ ohne faschistisches Katastrophenintermezzo bis in die Nachkriegszeit vorgezeichnet. Vgl.: http://de.wikipedia.org/wiki/Conditio_humana. Vgl.: http://www.nba.fi/en/seurasaari_museumhauser sowie http://de.wikipedia.org/wiki/Bild:Helsinki_Cathedral_in_July_2004.jpg. 41 Vgl.: http://de.wikipedia.org/wiki/Bild:Helsinki_Railway_Station_20050604.jpg; http://commons.wikimedia.org/wiki/Image:Hvittrask-3.jpg sowie http://www.broehan-museum.de/finnl5.htm#_ednref5. 39 40 57 Dieser führt über Alvar Aalto, Reima Pietilä, Kaija und Heikki Siren und anderen zu den „Finnischen Tugenden“, die in Deutschland und Österreich nach 1945 zu den wesentlichen Quellen architektonischer Inspiration werden. Nach der militant antiintellektuellen Blut-und-Boden-Sicht der NS-Episode eröffnet der „Skandinavische“ Blick auf Architektur und Landschaft neue Unbefangenheiten, sowohl in der Lektüre historischer Volksarchitektur als auch im Gestalten von neuem Bauen, einem poetischen Realismus. 42 Anders jedoch in Schweden, wo der gustavinische Klassizismus als bildungsbürgerlicher Nationalstil gültig blieb und sich die Architektur über Gunnar Asplund, Sigurd Leverentz und später Ralph Erskine in einer ungebrochene Linie hin zu einer subtil-zurückhaltenden Baukultur entwickelt. Das schwedische Natur- und Landschaftsgefühl fand in den Aquarellen von Carl Larsson weit überregionales Interesse und Verbreitung, bis heute sind die populären Bilder von schwedischer Landidylle durch Larssonsches Licht, Farben und Formen charakterisiert, die Produktgruppe „Skandinavische Landhausstil“ hält einen fixen Platz im Repertoire heutiger Einrichtungshäuser besetzt. 43 Nationalromantik und Regionalismus im deutschsprachigen Europa Im Gegensatz zu den meisten europäischen Staaten zerfiel das Habsburgerreich nach dem Wiener Kongress nicht in Nationalstaaten, sondern hatte noch rund 100 Jahre als „Donaumonarchie“, d.h. als Vielvölkerstaat, Bestand. Im krassen Gegensatz etwa zu Schweden, wo nationalromantische Tendenzen staatstragend bzw. königstreu wirksam wurden, hatten nationalromantische Programme in der Habsburg-Monarchie immer auch separatistische Aspekte. Expressiver Folklorismus charakterisiert z.B. das Werk von Dusan Jurkovic. 44 Exkurshaft sei hier ein Blick auf das komplizierte Verhältnis autoritärer Herrschaften zu regionalistischen Tendenzen gerichtet: Das „Dritte Reich“, die stalinistische Ära, das Mussolini-, Franco- und Salazarregime förderten einen kulturdiktatorisch definierten Staatsfolklorismus, eine soldatisch zu verstehende Heimattreue und verfolgten unnachsichtig autonome regionale Kulturen. So z.B. wurde Emil Steffans Elsässische Baufibel zwar in den späten 30er Jahren in Auftrag gegeben, doch erst Anfang der 80er Jahre publiziert. In Norddeutschland geht von der im späten 19. Jahrhundert von C.F. Haase gegründeten hannoverschen Bauhütte eine auf der Wiedererweckung der gotischen Backsteintradition begründete, regional-regionalistische Schule hervor. Diese Programmatik blieb über den Expressionismus hinaus fruchtbar. Hinweisend seien Fritz Höger, der Worpsweder Kreis und Meinhard von Gerkan genannt. Vgl.: http://commons.wikimedia.org/wiki/Image:Villa_Mairea.jpg. Vgl.: http://www.sub.su.se/national/pglob55.htm. 44 Siehe unter http://www.jurkovic.cz/. 42 43 58 In Süddeutschland wurde Theodor Fischer 45 im frühen 20. Jahrhundert Vaterfigur einer regionalistischen Schule, die sich als Synthese von klassischem Kanon, einer aus Naturformen hergeleiteten Ästhetik bzw. Proportionslehre und vermeintlich „Deutscher Baukultur“ verstand. Dem Theodor Fischer-Kreis zuzuordnen sind sowohl tendenziell moderne Architekten wie Bruno Taut und Lois Welzenbacher, als auch Konservative wie Paul Bonatz und Walter Schmitthenner. Hier sei eine Vermutung eingeschoben: Die „Modernen“ haben sich auf der Suche nach wesentlichen Anknüpfungspunkten für Erneuerung direkt mit Natur und Landschaft auseinandergesetzt, eine neue Lektüre des liber naturae gepflogen, während die „Konservativen“ mehr aus der Heimatidee und politischer Geschichte zu schöpfen versuchten. Die K.u.K.-Monarchie verstand sich leicht föderalistisch als Vielvölkerstaat und zugleich wesentlich zentralistisch, da der Führungsanspruch des Deutsch-Österreichischen Elements als vorausgesetzt und legitimiert galt. Die Staatsarchitektur blieb konservativ-historistisch. Die Wiener Moderne um 1900 verstand sich großmaßstäblich urban, mitunter radikal intellektuell. Mehrere Architekten der Wiener Otto-Wagner-Schule, die oft aus den slawisch-ungarischen Kronländern stammten, integrierten heimatliche Folklorismen in das dekorative Repertoire des Jugendstils: Jan Gocar, Max Fabiani, Joze Plecnik 46 und andere. „Neues Bauen“ versus „internationaler Heimatstil“ Im Zuge des Ersten Weltkrieges wurden sämtliche Positionen bürgerlicher Wert- und Kultursysteme destruiert und die scheinbar ewigen Gewebe von tradierten Zivilisationslinien zertrennt. Dadaismus und Avantgarde thematisierten die Nichtigkeit aller Regeln. Das „Neue Bauen“ versucht mit voraussetzungslosem humanistischen Blick auf die Welt den Anfang einer neuen, besseren und breiteren Zivilisation in qualitätvoller Einfachheit zu finden. 47 In aggressivem Gegensatz dazu stehen Regionalisten, Traditionalisten und Heimatschützer. Die Regionalisten reagieren – ähnlich wie hundert Jahre zuvor – mit dem Versuch, die gerissenen Fäden der Geschichte wieder zusammenzuknüpfen und darüber hinausgehend den Krieg als Läuterung und die Überlebenden als heldische Elite zu sehen. Bevorzugung des individuell Handwerklichen in Abwehr gegen die seriellen Industrieprodukte. 48 Vgl.: http://de.wikipedia.org/wiki/Theodor_Fischer. Vgl.: http://commons.wikimedia.org/wiki/Image:Plecnik_kapelica_Grad_Kacenstajn.JPG. 47 Vgl.: http://de.wikipedia.org/wiki/Bild:Weissenhof-Luftbild-2004.01.jpg sowie http://commons.wikimedia.org/wiki/Image:Weissenhof_photo_house_Hans_Scharoun_east_side_Stuttgart_Germany_20 05-10-08.jpg. 48 Vgl.: http://de.wikipedia.org/wiki/Bild:Stuttgart-Kochenhofsiedlung-2006.jpg. 45 46 59 Natur und Landschaft aus dem Resonanzboden faschistischer Gesellschafts- und Welterklärungen wahrgenommen, tritt nun in den Modalitäten von Sentiment, Heros und Pathos architektonisch in Erscheinung. 49 Dementsprechend findet die architektonische Umsetzung im so genannten Blut- und Bodenstil und dessen kleinbürgerlicher Schwachform, dem „internationalen Heimatstil“, statt. 50 Neue Wahrheitssuche In der Sackgasse der Salonkultur des Fin-de-Siècle wandte sich ein vertieftes Interesse der japanischen Kultur zu. Der „dekorationsbezogene Japonismus“ des späten 19. Jahrhunderts war ein wesentlicher Ideenzufluss des Jugendstils und des Art Nouveau. Anders jedoch inspirierte die elementare Klarheit, Material-, Maß- und Fügungsgerechtigkeit des „strukturbezogenen Japonismus“ Architekten wie Bruno Taut, Ludwig Mies van der Rohe, Konrad Wachsmann oder Phillip Johnson zu völlig neuen Raummodellen: Die Dialektik von freier Naturform und kunstvoller Regelhaftigkeit, von Dauer und Vergänglichkeit, von Reichtum und Leere, die Ästhetik des Kargen und die Identität von Außen- und Innenraum, die Reduktion auf räumliche Sachverhalte wie „Wand“ oder „Nichtwand“. 51 Eine der Arbeitshypothesen des Neuen Bauens ist die Voraussetzungslosigkeit und Geschichtslosigkeit von „Wahrheit“. Das Wahrheitsgebot in Konstruktion und Funktion verbietet jede Art von sentimentaler Aufladung oder Aufcodierung etwa mit Zeichen von Naturnähe. In den Traktaten der Moderne, etwa von Adolf Loos und Le Corbusier, wird eine wesentliche Unterscheidung zwischen Natürlichkeit und Naturförmigkeit getroffen: (sinngemäß:) dem Haus wohne eine andere Natürlichkeit inne als dem Baum. Die Authentizitätsforderung verlangt, dass nur tatsächliche Natur, und keinerlei Ableitung, in neuen Raumgefügen wirksam werden kann. In Nordamerika entwickelte Frank Lloyd Wright das Konzept des Hauses als Resonanz von Landschaft. Daraus folgt die radikale Hinterfragung eines geschlossenen Hauses, das nur vermittels Türen und Fenstern mit dem Umraum verbunden ist. Die „Zerstörung der Schachtel“ – so ein programmatischer Aufruf – erfordert die Neuinterpretation von Wänden und Öffnungen etwa als eine Elaboration freistehender, raumleitender Scheiben. 52 49 Vgl. zum Beispiel: http://www.lernort-vogelsang.de/essays/Architektur_auf_Vogelsang.php und http://de.wikipedia.org/wiki/Siegesdenkmal_Bozen. 50 Vgl.: http://www.geschichte-s-h.de/vonabisz/heimatschutzarchitektur.htm#top. 51 Vgl.: http://perso.orange.fr/laurent.buchard/Japonisme/index.html und http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/a/ab/Katsura.jpg. 52 Vgl.: http://www.e-architect.co.uk/boston/frank_lloyd_wright_house.htm und http://www.wirtzgallery.com/exhibitions/2003/2003_06/shulman/js07.html. 60 Neue Perspektiven der Natur- und Weltsicht Im Zuge der Weltraumforschung seit Mitte der 60er Jahre mit dem Höhepunkt der Mondlandung 1969 stehen unbezweifelbare Fotos vom „Blauen Planeten Erde“ allgemein und überall zur Verfügung. „Mondlandschaft“ wird zu einem neuen Wahrnehmungssachverhalt. Durch Abwürfe, kontrollierte Hinterlassenschaften und Staubspuren, die den Mond anthropogen verändern, entstehen Bereiche von Kulturlandschaft. Angesichts der blauen Kugel wird die Begrenztheit und Ganzheit der Erde sinnfällig. Globalisierung wird anschaulich, der Orbit zum Verkehrsraum. 1972 wird der erste Bericht des Club of Rome unter dem Motto „Unser Ziel ist die gemeinsame Sorge und Verantwortung um bzw. für die Zukunft der Menschheit!“ veröffentlicht. Die globale Sicht löst einen folgenschweren Wandel des Raummodelles aus: Belebter, belebbarer Raum als unverzichtbare und unvermehrbare Ressource. Unter den Geboten der Nachhaltigkeit erscheint die Kulturlandschaft der Zukunft als ein integrierter, netzartig oder rhizomatisch strukturierter Lebensentfaltungsraum. Zusammenfassung Landschaft ist ein menschlicher Wahrnehmungssachverhalt. Erst durch ein betrachtendes Subjekt wird eine geographische Gegebenheit zur Landschaft. Wahrnehmungen gründen sich auf bestimmte menschliche Umweltkenntnisse und auf bestimmte Interessen und Erwartungen. Diese, auf die natürliche Umgebung gerichteten Interessen, Erwartungen und Kenntnisse von Menschen sind eingefügt in und bedingt durch die historische, soziale und regionale Situation, die Weltbeschreibung des betrachtenden Subjekts oder der Gesellschaft. Durch Architektur werden die Regeln von Abgrenzung bzw. Verflechtung zwischen Innen und Außen manifestiert. Diesen Regeln liegt immer, zumindest implizit, eine bestimmte Haltung zu Natur und Landschaft, eine bestimmte Art von Raumgebrauch zugrunde. Bäuerlicher Raumgebrauch strukturiert die bäuerlichen Kulturlandschaften und authentischen regionalen Architekturtypologien. Bürgerlicher Raumgebrauch verwertet vorhandene Kulturlandschaften, gelegentlich im Einklang mit regionalistischen Programmen. Das historische ständisch-bipolare Raummodell, Bauernlandschaft versus Bürgerstadt, bildet die heutigen sozialen Gegebenheiten nicht mehr ab. In Zukunft werden rhizomatisch vernetzte, multifunktionale Lebensentfaltungsräume die weitere Ausformung der Kulturlandschaft und der Architektur zugleich bestimmen. Die Zukunft der Architektur ist mit der Zukunft der Landschaft identisch. 61 YVES LUGINBÜHL GOUVERNER UN PAYSAGE Né au XVème siècle et issu de l’aménagement du territoire aux Pays-Bas, le terme paysage a été approprié par de nombreux groupes d’acteurs dans les pays d’Europe occidentale. En premier lieu par le monde artistique qui, proche des sphères du pouvoir politique, a formalisé l’idéal du paysage tel que les sociétés pouvaient l’entrevoir, après deux siècles de crise alimentaire, démographique, sécuritaire et sanitaire. Cet idéal paysager représentait un pays beau comme une campagne prospère, offrant aux populations majoritairement paysannes une alimentation suffisamment riche, en paix, indemne d’épidémies et permettant un développement économique se traduisant par la croissance démographique. Si les Pays-Bas figurent en première ligne dans cet imaginaire social et politique, c’est sans doute parce qu’ils représentaient le symbole de la puissance guerrière et commerciale de l’Europe du nord, mais que se trouvant sur un territoire confiné par les marais et la mer, ils durent mettre en place un projet d’aménagement du territoire qui leur permettait d’ancrer cette puissance dans leur paysage, celui des polders. Ainsi est né le Landskap, c’est-à-dire le pays où l’on peut vivre et surtout bien vivre : un pays bucolique. Une majorité de scientifiques s’accorde pourtant pour affirmer que le terme « paysage » est issu du domaine artistique, mais sans avoir jamais vérifié le contexte d’où est issu le terme. Qu’il ait été approprié par les artistes et principalement par les peintres ne fait aucun doute, il n’en est pas pour autant né dans leur milieu. Mais il n’est pas certain non plus que les origines du terme soient identiques d’un pays à l’autre : le terme anglais « landscape » semble en effet avoir eu, dès son apparition un sens tourné vers le spectacle de la campagne, tel que les scènes peintes pouvait le représenter, au contraire des Pays-Bas où ce n’est qu’après que le terme, inscrit dans le domaine de l’aménagement fut approprié par les artistes. Il est encore difficile d’affirmer, en l’absence de recherches historiques sérieuses, que tous les termes des langues d’Europe occidentale ont des origines précisément connues. Il reste de nombreux doutes qui pourraient être levés si la recherche se consacrait à des analyses approfondies. On en reste désormais au tableau suivant des premières occurrences du terme dans les langues d’Europe occidentale, à quelques imprécisions près, pour la langue allemande en particulier dont certains font remonter la première occurrence du terme à 1502 ou même à l’époque médiévale : 62 Langues anglo- Langues latines saxonnes hollandais landskap 1462 portugais paisaggem 1548 allemand Landschaft 1520 ( ?) français paysage 1549 anglais Landscape ou italien paesaggio 1552 Landskipe 1598 espagnol paisaje 1708 Il serait d’ailleurs intéressant de compléter ce tableau avec les langues d’Europe centrale et orientale dont l’on sait que certains ont emprunté les mots à plusieurs langues d’Europe occidentale comme la Russie pour laquelle il existe deux termes, Landschaft qui renvoie au paysage géographique et paysage qui représente la part culturelle du spectacle des pays. D’autres langues d’Europe centrale ont un mot qui est en fait un suffixe qui doit s’adjoindre un autre mot pour signifier paysage rural, paysage urbain ; c’est le cas du hongrois « taj », notamment. Une succession des acteurs du paysage dans l’histoire Il paraît donc clair que le paysage a été tout d’abord un mot appartenant au langage de l’aménagement du territoire et qu’il était lié à l’émergence du capitalisme et à l’intérêt que les bourgeoisies européennes ont marqué à l’égard de l’investissement financier dans l’aménagement agricole des territoires, après une crise profonde des peuples européens due à de multiples facteurs : péjoration climatique, épidémies, guerres et incapacité du système économique à satisfaire les besoins essentiels des populations, c’est-à-dire l’alimentation. Celle-ci ne pouvait pas s’améliorer en raison de pratiques féodales qui opposaient au développement de l’élevage un obstacle technique et social : l’interdiction de clore les champs et la vaine pâture. La Renaissance constitue ainsi une période de calme relatif où les pouvoirs politiques entrevoient un espoir possible de procéder à des améliorations des systèmes agronomiques et d’entraîner un développement de la production animale ; mais si cet horizon idéal nourrissait la vision prospective des agronomes savants, les populations paysannes étaient encore et pour longtemps sous le joug écrasant des pouvoirs seigneuriaux qui ne voyaient pas forcément d’un œil favorable un changement dans la gestion territoriale dont ils tiraient leur profit principal et qui justifiait souvent leur place à la tête de leurs terres depuis des siècles. 63 Le paysage est alors passé dans le langage de l’art qui était le mieux à même de faire rêver les maîtres des territoires princiers qui pouvaient contempler, à travers les œuvres des peintres, les campagnes heureuses dont ils rêvaient pour eux-mêmes et peut-être pour leurs sujets, populations souvent misérables qui ne devaient pas avoir de nombreuses occasions d’admirer les toiles de pays bucoliques. Ces campagnes prospères, utopies paysagères, amorcèrent cependant un mouvement social à l’échelle de l’Europe entière, mais qui était strictement réservé à l’élite, aristocrates et bourgeois qui peu à peu, se mirent à découvrir les réalités des paysages peints par des artistes. Les acteurs qui se sont emparés du paysage à partir du XVIIème siècle mais surtout au XVIIIème sont ainsi les touristes. Alors que les voyages étaient souvent des épreuves pour ceux qui devaient traverser des pays dont le spectacle n’était encore pas souvent celui de la prospérité et du bonheur universel, les avancées de l’art et de la théologie scientifique permirent à ces populations favorisées d’orienter leurs regards vers la campagne, la mer ou les littoraux et les montagnes, dont l’image se renversa peu à peu, et passa d’un spectacle effrayant à celui du bucolique, du pastoral ou du sublime. C’est ce mouvement qui inventa le pittoresque de la fin du XVIIIème siècle et qui connut un succès considérable au XIXème siècle avec des publications nombreuses dans tous les pays d’Europe de géographies nationales puis régionales (la France pittoresque, l’Alsace pittoresque, par exemple). Ces pratiques touristiques se développèrent évidemment avec les chemins de fer et se manifestèrent par les guides touristiques, les grandes associations de tourisme et d’alpinisme, comme les clubs alpins 53 et le Touring Club 54. Le XIXème siècle est d’ailleurs une période féconde pour le paysage, mais qui a entraîné une dérive sémantique du terme, le réduisant aux paysages pittoresques ou sublimes, voire bucoliques, mais qui devaient être protégés du progrès technique. Cette signification entraîna dans divers pays européens la promulgation de lois de protection des paysages qui furent défendues par des personnages politiques auxquels se joignirent des artistes. C’est le cas en France où le député du Jura Charles Beauquier réussit à faire adopter par la France la loi sur la protection des monuments naturels ; il compta avec l’aide du Touring Club auquel adhéraient des artistes comme Cézanne ou George Sand. Ce processus politique et social, d’une certaine manière, a ramené le paysage dans le domaine de l’aménagement du territoire, même si de timides avancées, surtout utopistes, avaient été engagées en France notamment vers la fin du XVIIIème avec les théories des jardins et des paysages, comme celles du Comte d’Ermenonville, René-Louis de Girardin et de son architecte Jean-Marie Morel, qui virent dans l’aménagement du paysage le moyen de parvenir au bonheur universel. Le premier club alpin est anglais, créé en 1853 par Pocoke. C’est la même année que des artistes du mouvement des peintres de Barbizon obtiennent la protection de la forêt de Fontainebleau. 54 Il compta jusqu’à 80.000 adhérents en France, qui se réunissaient en comités locaux et pratiquaient des excursions où les membres dessinaient ou peignaient les paysages. 53 64 Mais ce sont les géographes qui avancèrent des théories plus construites au XIXème siècle. Alexander von Humboldt et Elisée Reclus sont les premiers à s’emparer du paysage et à proposer des réflexions sur ce que le terme recouvre, notamment Elisée Reclus qui adhère d’une certaine manière à l’idée de la dégradation des paysages par les pratiques sociales et en particulier celles des agriculteurs qui mutilent les arbres en les taillant pour se procurer du bois de chauffage. Mais cette notion n’est pas vraiment un de leurs paradigmes favoris. C’est seulement à la fin du XIXème siècle que l’Ecole de géographie française fait du paysage un concept qui permet de comprendre les relations entre la nature et les sociétés, à travers notamment la notion de « genre de vie ». A partir de ce moment, le paysage reste privilégié des géographes, jusqu’au moment où la géographie physique et la géographie humaine fassent éclater la géographie unitaire (ou presque) et s’opposent dans un combat théorique, après la Seconde guerre mondiale, et abandonnent pratiquement le paysage. En France, les géographes physiciens en font un concept qui n’a de sens que par rapport aux mouvements tectoniques et la géomorphologie, la géographie humaine l’abandonne sauf deux géographes qui l’inscrivent encore comme un concept qui explique les formes de l’apparence de la terre en cherchant à lier support physique et biologique et activités humaines. Le paysage entre dans la complexité Les années 1970 marquent, en France, un tournant dans les significations du paysage. A l’ancienne acception qui désigne les paysages remarquables, pittoresques, sublimes, bucoliques ou pastoraux s’ajoute une nouvelle signification qui fait du paysage, en quelques décennies, un concept complexe des approches scientifiques : il devient tout à la fois, s’étant chargé des anciennes conceptions qui ne disparaissent pas, mais auxquelles s’ajoutent celles que les sciences sociales et écologiques lui attribuent. D’un côté, le paysage devient ce que les activités sociales forment, par leurs pratiques, à la surface de la terre et auxquelles les sociétés attribuent des systèmes de valeurs esthétiques, symboliques et phénoménologiques. De l’autre, c'est-à-dire du côté de l’écologie, le paysage devient un concept renvoyant davantage aux flux de matière biologique et résultant des processus biophysiques. Par ailleurs, il est entré dans le domaine de l’aménagement du territoire, mais se débarrasse peu à peu, mais jamais totalement de l’ancienne conception bourgeoise ; il représente, pour les praticiens de l’aménagement du paysage, une voie qui tente de réinscrire le sensible dans un champ opératoire qui avait été considéré par ces mêmes praticiens comme trop empreint de scientificité ou plus exactement de scientisme. 65 Si le fossé qui existe entre les approches scientifiques et les pratiques des « paysagistes » ne se comble qu’avec difficulté, les sciences sociales et les sciences biologiques et écologiques se sont rapprochées pour faire du paysage un concept qui permet de comprendre les interactions entre le social et le naturel ; il est désormais admis presque unanimement que le paysage est à la fois un objet matériel et un processus immatériel : d’un côté les activités sociales transforment les paysages matériels par leurs pratiques et d’un autre, les transformations du paysage matériel modifient les représentations que les acteurs s’en font. Le paysage est au centre d’interactions continues et complexes qui agissent dans les deux sens, et non dans un seul, comme le terme impact, à la mode dans les années 1970, tendait à le sous-entendre. Le paysage est un concept complexe qui a une dimension matérielle et une dimension immatérielle et se trouve au cœur des interactions entre les sociétés et la nature. Afin de préciser cette complexité, un exemple de recherche interdisciplinaire qui a été engagée en France est développé ci-après : celui de la baie du Mont Saint-Michel et de ses bassins versants. L’exemple du Mont Saint-Michel et de sa baie Pendant des siècles, le Mont Saint-Michel, qui connût des phases différentes de construction fut un monument élevé à la religion et en particulier à l’Archange Saint-Michel qui terrassa le dragon, c’està-dire le diable sur le Mont Dol. Un monastère fut élevé pour célébrer le Saint et dès le Moyen Âge, le monument fut l’objet de multiples pèlerinages issus de toute l’Europe. On compta parmi ces pèlerins des enfants qui se dirigèrent vers le Mont Saint-Michel par bandes rassemblant plusieurs milliers de ces enfants abandonnés, venus chercher un espoir. Jusqu’en 1934, on allait au Mont par la voie des sables, en partant souvent de Genêts, petite commune situé sur la rive ouest du Contentin : des guides expérimentés conduisaient les pèlerins à travers les sables découverts à marée basse où il était risqué de s’aventurer en raison des sables mouvants et surtout de la rapidité de la mer montante qui avançait à la vitesse d’un « cheval au galop ». Au-delà des nombreuses légendes qui planent sur la baie, il est vrai que chaque année, de nombreux visiteurs se font prendre sur un banc de sable qui émerge pour quelques minutes encore de la marée montante et qui doivent leur salut au système de sécurité mis en place par la police avec des hélicoptères prêts à décoller dès qu’une alerte est donnée ; des vigiles inspectent la baie avec des jumelles en été pour dénicher les touristes imprudents et prévenir les secours. Pendant des siècles, le Mont Saint-Michel a été un monument religieux, objet de ces pèlerinages. Mais la foi a régressé et les touristes viennent pour la plupart pour voir le mont et contempler la marée montante ou les sables exondés à marée basse où de très nombreux oiseaux se déplacent à la recherche de vers ou de coquillages. A la foi a succédé la contemplation de la grande nature qui est l’une des manifestations les plus répandues du rapport social à la nature aujourd’hui. 66 Mais cette « île-mont », qui a été rattachée au continent en 1934 par une digue, connaît un processus biophysique inéluctable : l’ensablement de la baie et l’avancée des marais salés, espace couvert d’une végétation spécifique qui supporte le sel ; ces marais salés sont inondés lors des marées les plus fortes ; c’est là que des éleveurs envoient des moutons qui se nourrissent de ces plantes halophiles. Jusqu’à une date récente, les moutons étaient conduits par des bergers dans ces marais qui comportent de nombreux pièges et notamment les « criches », sortes de petits ravins pratiqués par l’eau qui redescend à marée descendante et qui creuse ces talwegs assez profonds où les moutons qui y tombent en voulant les traverser risquent de ne plus pouvoir sortir. La végétation des marais salés est composée de plantes diverses acceptant l’eau saumâtre : puccinellie, fétuque, soude, salicorne, aster des marais, et chiendent, pour ne citer que les plus répandues. C’est cette dernière espèce, le chiendent, qui est la cause des malheurs du Mont SaintMichel. En effet, depuis une quinzaine d’années, il s’étend sur les marais salés et constitue, lorsqu’il croît en hauteur, des pièges à sédiments. Bien évidemment, l’ensablement n’est pas dû uniquement à la progression du chiendent ; il est surtout dû aux courants marins qui tournent dans la baie et rapportent des quantités de sables considérables ; la progression du chiendent ne fait qu’accélérer le processus. Les études de sédimentologie et d’écologie ont alerté les pouvoirs publics du phénomène et des travaux gigantesques sont prévus et même engagés pour tenter de freiner l’ensablement qui risquerait de provoquer la fin d’une image mondialement réputée, celle du Mont Saint-Michel entouré des eaux ; en effet le Mont Saint-Michel est inscrit sur la liste du patrimoine mondial de l’UNESCO. Les ingénieurs qui ont étudié le processus en reconstituant dans une maquette immense les courants marins ont également accusé la digue de bloquer les sédiments qui ne peuvent pas poursuivre leur route avec les courants marins et qui se déposent de chaque côté de la digue. Aussi une mission Mont Saint-Michel a-t-elle été créée pour étudier un projet de désensablement de la baie : la démolition de la digue remplacée par une passerelle avec un véhicule automatisé de transport des touristes du continent vers le mont, la réalisation de parkings sur le continent alors qu’ils se trouvaient sur la digue et sur les sables près du Mont Saint-Michel, et un barrage sur le Couesnon, fleuve côtier qui débouche en face du mont : ce barrage aurait la fonction d’une chasse d’eau, se remplirait à marée haute, et à marée basse, les eaux emmagasinées seraient lâchées pour chasser les sédiments vers le large. Ce projet pharaonique est en cours de réalisation. Mais pour les chercheurs, il reste une question fondamentale à laquelle ils souhaiteraient bien pouvoir répondre : pourquoi le chiendent se répand-il sur les marais ? Pour eux, cette question s’inscrit dans une problématique de processus complexes qui lient le phénomène en question, la progression du chiendent à tout un ensemble de faits biologiques et physiques dans lesquels la modification des chaînes trophiques des êtres vivants (végétation, animaux) 67 de la baie et des bassins versants est primordiale : il devient ainsi presque impossible d’analyser un processus comme un fait simple et linéaire ; il entre dans un système où tout est lié et pour la compréhension duquel il faut tenir de multiples questions ensemble : si le chiendent s’étend, il faut aussi regarder ce qui se passe avec les populations des anatidés (canards) qui s’alimentent avec des plantes des marais, il est nécessaire d’analyser les répercussions que ce fait a sur les populations des poissons (bars) dont les femelles pondent dans les criches des marais, celles qui résultent des pratiques de chasse, celles qui se produisent sur les élevages de moules ou d’huîtres qui se nourrissent d’algues microscopiques (diatomées) que l’on trouve dans les marais, etc. Il faut donc changer les méthodes d’analyse et s’engager dans l’interdisciplinarité. C’est pourquoi une équipe réunissant des écologues, des géographes, des biogéographes et des agronomes a engagé un programme de recherche qui s’intitule : « « Gouverner la terre et la mer ». Les hypothèses formulées en première phase de ce programme pour tenter de comprendre la progression du chiendent sont les suivantes : – : modification génétique du chiendent – nitrification du milieu des prés salés – modification des pratiques des éleveurs de moutons Afin de vérifier ces hypothèses, il était nécessaire de procéder à un changement d’échelle d’analyse, d’assurer le passage de la baie maritime à la baie des bassins versants, en particulier pour tester l’hypothèse de la nitrification du milieu des prés salés qui peut provenir des rejets des effluents animaux dans les champs des bassins versants des fleuves côtiers qui se déversent dans la baie, comme le Couesnon, la Sélune, la Sée et le Guilloult. Et d’une manière générale, analyser comment les acteurs de la baie gouvernent les milieux. Comment analyser la gouvernance des milieux de la baie ? A cette question initiale qui consiste à se demander « Qui gouverne quoi, où, quand, et comment ? », l’équipe de chercheurs a répondu en analysant par des enquêtes les représentations et les pratiques des acteurs de la baie (agriculteurs, mytiliculteurs, acteurs institutionnels, acteurs politiques), a identifié les pôles de concentration de l’azote dans les bassins versants par une analyse biogéographique et a réalisé une cartographie floristique des prés salés. On entrera pas dans les détails méthodologiques de ces diverses analyses et on fournira ici quelques résultats des recherches, tout en attirant bien l’attention que ces résultats peuvent être remis en question par des recherches ultérieures. 68 Les agriculteurs gouvernent le milieu qu’ils mettent en production en fonction des facteurs économiques et de la rationalité du travail ; ce sont à la fois les questions de rendement et de la facilité des tâches qui guident leurs pratiques culturales : par exemple, ils localisent les parcelles de prairies de manière à ne pas avoir à déplacer les animaux sur de longues distances ; les parcelles de prairies sont en général proches du siège d’exploitation afin qu’ils puissent surveiller les animaux et les conduire à l’étable ou à la salle de traite de manière aisée, sans avoir à traverser une route. Par ailleurs ils raisonnent la fertilisation et l’épandage des excédents d’effluents animaux en fonction des normes imposées par les politiques : sachant que la norme de présence de nitrate dans l’eau est de 50 mg par litre, ils savent qu’ils ne doivent pas dépasser une certaine dose d’engrais ou de lisier dans les champs. C’est la norme qui guide leurs pratiques et non la volonté de respecter la qualité de l’eau ; comme le dit un agriculteur rencontré sur un bassin versant de la baie, ils ont perdu leur culture du milieu et ils possèdent davantage une culture technique qui s’inspire des normes des politiques. Cet enseignement doit cependant tenir compte de nuances qui s’expriment chez certains d’entre eux et qui montrent que tous les agriculteurs n’ont pas des pratiques rigoureusement identiques et qu’il existe un groupe d’agriculteurs qui se posent des questions sur leur métier et sur les conséquences de leurs pratiques. Mais d’une manière générale, il paraît clair qu’il y a chez eux une absence d’une conscience de participation à un processus qui affecte la baie du Mont Saint-Michel. Ils ne comprennent pas que leurs pratiques agricoles puissent avoir des répercussions sur le milieu de la baie, qui leur semble trop éloignée, bien que certains aient la vue sur le Mont Saint-Michel depuis chez eux. Il y a cependant une différence forte entre la baie normande et la baie bretonne : les agriculteurs bretons sont davantage encadrés par les syndicats agricoles et ils se conforment bien plus aux mots d’ordre de la profession. Par exemple, l’une des hypothèses secondaires du programme de recherche consistait à supposer que les agriculteurs normands avaient respecté le bocage, ses talus et ses haies. Les transformations normandes se sont produites récemment et rapidement, alors que les disparitions du bocage breton sont beaucoup plus anciennes et progressives, révélant que les agriculteurs bretons ont assez tôt suivi les mots d’ordre des syndicats pour s’adapter au changement, mais que cette adaptation a été progressive et non massive. En Normandie, les transformations du bocage sont récentes, manifestant davantage une résistance aux recommandations des syndicats, jusqu’à ce que la situation se renverse au profit de jeunes agriculteurs après la disparition de la classe âgée et attachée au bocage. Quant aux pratiques des éleveurs de moutons de prés salés, ils ont cherché à se passer des bergers qui conduisaient les troupeaux dans les marais : ils ont préféré clore les marais en Normandie et laisser les moutons divaguer à la recherche de leur nourriture. L’effet est un moins bon contrôle du tapis végétal et le chiendent qui est mangé à un stade jeune par les moutons a pu se développer ; en même temps, il est vraisemblable que les éleveurs ont complété l’alimentation des moutons avec de la 69 nourriture venue du continent. Dans la partie bretonne, les marais salés sont beaucoup moins étendus et sans doute plus dangereux. Les éleveurs continuent à utiliser des bergers. Il semble en outre vraisemblable que les éleveurs pratiquaient l’écobuage sur les parties des marais envahies par le chiendent. Cette pratique s’est arrêtée il y a environ 15 ans, ce qui correspond au début de l’extension du chiendent. Par ailleurs, les éleveurs entrent en concurrence sur les prés salés avec de nombreux autres acteurs : chasseurs de canards, pêcheurs à pied et touristes, qui gênent leur activité et le contrôle de la croissance de la végétation est moins rigoureuse. La « gouvernance du milieu marin et de l’estran est en outre complexifié par les interactions avec les activités des ostréiculteurs et des mytiliculteurs. Ces éleveurs de coquillages sont obligés de respecter un milieu marin indemne de bactéries en particulier fécales qui nuisent à la commercialisation des coquillages et surtout des moules qui filtrent l’eau de mer avec leur appareil digestif et ingèrent les diatomées, algues microscopiques qui leur donnent leur couleur orangée et fait leur réputation (moules de bouchot du Mont Saint-Michel). Les mytiliculteurs sont en conflit avec les agriculteurs qui déversent dans les champs les excédents d’effluents animaux, qui risquent d’entraîner vers la baie des bactéries fécales. Avec les éleveurs de moutons également, car les déjections de moutons sur les marais salés se mélangent à l’eau marine et la polluent. Il s’agit ainsi d’un premier conflit à l’égard de la gouvernance du milieu entre terre et mer. Mais les mytiliculteurs ont également souhaité étendre leur domaine d’élevage et ont installé des bouchots (piquets destinés à supporter les cordages auxquels se fixent les moules) vers l’est de la baie (et non vers l’ouest où ils entrent en concurrence avec les ostréiculteurs), dans une aire proche des marais salés exploités par les éleveurs de moutons. Cette extension ne s’est pas faite sans problème. Les mytiliculteurs qui étaient assez solidaires et réunis en un seul syndicat se sont dispersés et 4 syndicats ont vu le jour, révélant une perte de cohésion du groupe et de nouveaux conflits. Cependant, les mytiliculteurs manifestent une très bonne connaissance du milieu marin, en raison de la nécessité d’observer la qualité de l’eau et les conditions atmosphériques à cause des risques que la mer oppose à la pratique de l’élevage des coquillages. Cette connaissance du milieu marin se manifeste par une capacité d’observation minutieuse de la turbidité de l’eau, des conditions météorologiques, des courants marins, des marées, etc. Il s’agit ici d’une véritable culture écologique qui diffère de celle des agriculteurs. On remarque donc que la gestion du milieu marin et du milieu terrestre est l’objet de multiples facteurs tant biologiques que sociaux. C’est ce qui fait la complexité de la gouvernance de la terre et de la mer que les élus expérimentent avec beaucoup de difficultés. 70 Les pratiques institutionnelles et politiques de gestion de l’eau En effet, les élus municipaux se trouvent confrontés à la question de la gestion de l’eau pour l’approvisionnement de leurs électeurs et habitants de leur commune. L’augmentation des taux de nitrates dans l’eau potable leur pose évidemment un problème crucial. En général, les communes possèdent un système d’approvisionnement en eau autonome avec des captages dans les nappes phréatiques locales. Mais depuis les épandages des effluents azotés dans les champs par les agriculteurs, ils se trouvent devant un dilemme difficile à résoudre. S’ils souhaitent conserver une autonomie de la fourniture d’eau pour leur commune, ils doivent exercer un contrôle vigilants et rigoureux sur ces épandages et sur les pratiques agricoles. Mais ils savent bien que ces mêmes agriculteurs sont également des électeurs et que leur poids dans la population municipale est plus important que leur représentativité dans le corps électoral. Ils sont donc obligés de composer avec les agriculteurs pour éviter de les faire passer dans le camp des adversaires politiques. Une autre solution leur est offerte : connecter le réseau communal d’approvisionnement en eau à un réseau extérieur qui dépend d’un syndicat de distribution d’eau possédant une usine de traitement pas nanofiltration. Ainsi, l’eau aura des taux de nitrates faibles. Mais le coût du traitement de l’eau se répercute sur le prix de l’eau. En même temps, ils affranchissent les agriculteurs de pratiques plus écologiques et c’est la qualité de l’eau des nappes phréatiques qui s’en ressent. La gestion d’un paysage est donc une affaire complexe où de nombreux facteurs, politiques, écologiques, sociaux, etc., entrent en jeu et demandent une vigilance et une observation suffisamment large pour tenter de prendre en compte tous ces facteurs. Les décideurs ne sont pas forcément armés face à cette situation. Et les médias qui interviennent dans la transmission des informations simplifient souvent les connaissances transmises par les scientifiques parce qu’elles sont trop complexes pour leur public de lecteur. Gouverner un paysage est donc non seulement une affaire de politique et de gestion de données écologiques et sociales, mais également un processus de transfert des langages savants vers la sphère profane des simples habitants ou du monde politique. Or cette question du langage est primordiale, car c’est par le langage que les sensibilités à l’égard du cadre de vie et du paysage s’expriment et donnent un sens aux objectifs des politiques d’aménagement du territoire. C’est aussi par le langage que le paysage prend forme dans les représentations collectives qui élaborent les sensibilités populaires, fondement de la compréhension du monde. 71 FRANÇOISE DUBOST UN POINT DE VUE ETHNOLOGIQUE SUR L’ESTHETIQUE DU PAYSAGE La question de l’esthétique du paysage était au cœur d’une recherche que j’ai menée à l’occasion de la Loi Paysage de 1993. Pour donner du retentissement à cette loi, le ministère de l’Environnement avait lancé une campagne publique, demandant aux Français d’envoyer la photographie de leur paysage préféré avec un texte d’accompagnement. 9000 réponses avaient été recueillies. Une soixantaine de photos, les plus artistiques, avaient été sélectionnées pour faire l’objet d’une exposition et il fut demandé à un artiste réputé, Lucien Clergue, de les commenter. Restaient les milliers d’autres, dont la qualité esthétique était moindre mais qui présentaient néanmoins un intérêt majeur, puisqu’elles reflétaient l’image qu’ont les Français de leur paysage et indiquaient les raisons de leurs préférences. On m’a demandé d’analyser ce corpus. L’étude a montré que les Français s’intéressent bien moins aux paysages remarquables qu’aux paysages ordinaires, avec lesquels ils ont des liens affectifs ou familiers. Les hauts lieux, les grands sites naturels étaient quasiment absents, et à très peu d’exceptions près les photographes amateurs avaient une attache personnelle avec l’endroit photographié : lieu de naissance ou d’enfance, lieu de vacances, et plus souvent encore lieu de résidence. « Il suffit de regarder pour voir le beau à sa porte » : plusieurs textes affirmaient ainsi que le paysage le plus banal est idéalisé par la charge affective qu’il comporte. La dimension esthétique était également présente dans les réponses sous forme de dénonciation virulente des « nuisances » - dans certaines régions comme la Bretagne ou la Provence-Côte d’Azur, plus de la moitié des photos et des commentaires mettait l’accent sur les désastres et les saccages causés par l’urbanisation ou la modernisation agricole 55. Paysages quotidiens, paysages dégradés : on sait que la volonté de les prendre en compte et de ne pas s’en tenir aux paysages exceptionnels est affirmée avec force dans la Convention européenne du paysage. Quelle en est la conséquence pour l’esthétique du paysage ? Dans quelle mesure peut-on parler d’une esthétique ordinaire? A cette problématique de l’ordinaire et du remarquable, s’ajoute celle des modes de représentation du paysage. Et dans l’exemple que je viens de citer, de ce mode de représentation particulier qu’est la photographie. La photographie est à la fois un art (dont la légitimité en tant qu’art est reconnue, même si elle l’a été plus tardivement que la peinture ou la littérature), et une pratique d’amateur très courante, qui ne requière pas de compétence ou de savoir particuliers. Tout le monde photographie des paysages. Mais il faut aussi remarquer que cette distinction entre l’ordinaire et le remarquable, entre l’artiste et l’amateur, a été largement subvertie, à l’époque contemporaine, par les artistes eux-mêmes. 55 L. CLERGUE – F. DUBOST, Mon paysage (le paysage préféré des Français), Paris, Marval, 1995. 72 Pas seulement par ceux qui, comme Lucien Clergue, portent un jugement d’artiste sur des photos d’amateur. Mais de manière plus radicale, et je voudrais vous citer deux passages du livre de Jean Dubuffet, L’homme du commun à l’ouvrage – on sait que Jean Dubuffet, en marge d’une oeuvre artistique de grande importance, fut l’un des promoteurs de « l’art brut ». Un tel appétit de permanence est au cœur de l’homme qu’il désire avidement, et c’est bien touchant, une survie de ses joies et de ses vérités. Sa beauté, comme il voudrait la croire fixe, son étoile polaire ! – Qu’il y renonce ! Sa beauté languit et meurt comme tout ce qui est humain, une nouvelle et jeune beauté lui succède, qui vieillit à son tour. Nous nommons beau ce qui nous passionne, et rien ne passionne longtemps l’homme et seule est permanente sa passion, dont l’objet change. […] Ce qui enchantait nos pères ne nous enchante plus, ni même ce qui nous enchantait la semaine dernière 56. et plus loin, cet autre passage : Il est d’usage de regarder cette foi dans l’existence de la beauté, et le culte rendu à cette beauté, comme la justification capitale de la civilisation d’Occident. Le principe même de civilisation est inséparable de cette notion de beauté. Je trouve cette idée de beauté une maigre et peu ingénieuse invention. Je la trouve médiocrement exaltante […] Cette idée que notre monde serait constitué pour la plus grande part d’objets laids et d’endroits laids, tandis que les objets et endroits doués de beauté seraient des plus rares et difficiles à rencontrer, je ne la trouve pas très excitante. Il me semble que l’Occident, à perdre cette idée, ne ferait pas une grande perte. S’il prenait conscience que n’importe quel objet du monde est apte à constituer pour quiconque une base de fascination et d’illumination, il ferait là une meilleure prise. Cette idée-là, je pense, enrichirait plus la vie que l’idée grecque de beauté 57. Deux extraits bien caractéristiques de ce grand pourfendeur de la culture établie que fut Jean Dubuffet. Le premier d’entre eux, toutefois, rejoint un point de vue partagé par beaucoup d’historiens, de sociologues ou de philosophes : la notion du beau est relative, les jugements de goût varient dans le temps, il y a une historicité du paysage. Mais Dubuffet va bien au-delà : est beau tout objet (ou tout endroit) pourvu qu’il nous passionne, nous fascine, nous illumine. Cette affirmation nous aide-t-elle à pénétrer au cœur de l’expérience esthétique, à commencer par la plus ordinaire ? On retrouve cette problématique de l’ordinaire et du remarquable, appliquée aux représentations du paysage, et à la photographie en particulier, dans une recherche collective lancée par la Mission du patrimoine ethnologique au ministère de la Culture. Cette recherche, à laquelle j’ai participé, a abouti à la publication d’un livre, Paysage au pluriel 58 . Les ethnologues sont arrivés tardivement dans la recherche sur le paysage (bien après les philosophes, les historiens ou les géographes), et ils ont eu l’ambition d’utiliser cet appel d’offre pour construire un point de vue spécifiquement ethnologique. A la question « Qu’est-ce que le paysage ? » J. DUBUFFET, l’Homme du commun à l’ouvrage, Paris, Gallimard, 1973, p. 61. ibid. p. 72-73. 58 Paysage au pluriel. Pour une approche ethnologique des paysages. Textes réunis par Claudie Voisenat. Paris, Editions de la Maison des Sciences de l’Homme, 1995. 56 57 73 que posent tous les spécialistes du paysage (Raffaele Milani dans son livre L’arte del paesaggio, lui consacre un chapitre), ils ont substitué la question « Qui parle (ou ne parle pas) du paysage, comment et pourquoi ? ». C’est le parti pris commun, la règle du jeu à caractère proprement ethnologique, qui a donné sa cohérence à l’ensemble, même si l’appel d’offre n’était pas réservé aux seuls ethnologues et se voulait pluridisciplinaire. Qui parle (ou ne parle pas) du paysage ? L’absence du mot « paysage » dans le discours n’implique pas forcément l’absence du sentiment de paysage. Dans son live, Raffaele Milani admet que la sensibilité paysagère peut se frayer d’autres voies, s’exprimer par d’autres signes que ceux du langage et je suis de cet avis. La question de savoir si ce sentiment du paysage existe dans les sociétés exotiques fait cependant l’objet de débats chez les anthropologues. Dans le livre Paysage au pluriel, Maurice Bloch pose la question à propos des Zafimaniry, qui vivent dans une région forestière à l’est de Madagascar et cultivent des essarts conquis sur la forêt. Dans les premiers temps de son séjour, Maurice Bloch est frappé de l’importance extrême que les Zafimaniry accordent à la clarté et à la vue qu’ils peuvent avoir d’un point élevé. L’émotion qu’ils manifestent devant ces vues dégagées lui paraît proche de la sienne, mais il réalise ensuite son erreur : ils ne voient que leurs propres empreintes et celles de leurs ancêtres et valorisent par-dessus tout la clarté conquise au détriment de la forêt. Autrement dit, leur émotion se rapporte à une conception du monde tout à fait étrangère à la nôtre 59. Dans nos sociétés, le terme de paysage existe depuis quatre ou cinq siècles, il appartient au langage commun, même si tous ne l’emploient pas, ou n’ont pas les mêmes références historiques ou savantes. Et il existe pour tous des paysages consacrés, des modèles communs, des topoï, qui structurent la perception de l’espace. On connaît le rôle de la littérature et de la peinture dans la fabrication des modèles paysagers, mais comment sont-ils transmis aux gens ordinaires, ceux qui n’ont guère de culture littéraire ou artistique ? L’un des auteurs du livre, Alain Mazas, a étudié le rôle de l’école, notamment de l’école primaire. Dans les manuels de lecture, les descriptions occupent une grande place et apportent des clés de lecture du paysage en donnant les mots pour le dire. Les manuels de géographie, par leur analyse de traits caractéristiques, contribuent eux aussi et d’une autre manière à structurer l’imaginaire des enfants en l’enrichissant de motifs paysagers : le bois, le vallon, le sentier, la rivière… Martyne Perrot s’est intéressée au rôle de la carte postale (nous retrouvons ici la photographie) dans la valorisation touristique de l’Aubrac, ce haut plateau granitique, très dénudé, situé au cœur du Massif central. Les cartes postales autrefois valorisaient le paysage habité et travaillé, les pâturages à vaches, les champs de narcisses, les maisons de granit couvertes de lauzes de pierre. Aujourd’hui, l’image diffusée est celle de grands espaces découverts aux horizons immenses qui en font un lieu de 59 Voir aussi le débat avec Claude Lévi-Strauss, Philippe Descola et d’autres, «Les sociétés exotiques ont-elles des paysages ? », Etudes rurales, n° spécial « De l’agricole au paysage », n°121-124, janvier-décembre 1991, p. 151-158. 74 solitude et de dépaysement. C’est l’esthétique du vide qui fonde désormais l’originalité du pays (bien que l’on cueille toujours en Aubrac les narcisses qui servent de base à la parfumerie et qu’on y fabrique des fromages réputés et fort bien commercialisés). Yves Luginbühl a utilisé lui aussi les cartes postales et les photographies des dépliants touristiques dans une des contrées de Normandie, le Domfrontais, pour illustrer le décalage entre les représentations proposées et la réalité actuelle : les images montrent le modèle régional traditionnel, avec pommiers et vaches dans les prés, alors que les agriculteurs suppriment leurs arbres fruitiers, laissent le bocage se dégrader, et ont transformé nombre de pâtures en champs de maïs ; ou bien l’image proposée, parce que valorisante et signe de prospérité, est celle des élevages de chevaux, avec leurs belles demeures, leurs barrières blanches et leurs pelouses soignées, mais c’est une image d’emprunt : les haras qui sont nombreux dans les pays d’à côté, sont rares dans le Domfrontais. Dans un cas comme dans l’autre, le « paysage de convention » n’est plus le paysage réel. D’autres études enfin, trop nombreuses pour que je puisse les citer, analysent la diversité des regards portés sur un même espace. On sait que cette perception a varié dans le temps, elle varie aussi selon les gens. L’habitant ne regarde pas le paysage rural de la même façon que le touriste. Le chasseur et le randonneur, l’agriculteur et l’ingénieur écologue, les anciens habitants et les nouveaux installés ou les résidents secondaires, n’ont pas les mêmes représentations, ni les mêmes usages, ni les mêmes intérêts. Le paysage des uns n’est pas celui des autres, autant de sources de conflits, autant d’enjeux de pouvoir, autant d’objets d’analyse pour l’ethnologue qui se donne pour tâche de cerner le rôle du paysage dans l’imaginaire social. On ne peut espérer forger une esthétique commune et dépasser des conflits inévitables sans connaître la force affective et le poids symbolique qu’attachent au paysage ceux qui l’habitent et le transforment au jour le jour. 75 Seconda parte – deuxième partie – zweiter Teil I paesaggi d’Europa nella letteratura e nell’arte Les paysages d’Europe comme objets des démarches de connaissances des paysages en tant qu’œuvres de l’art et de la littérature Die Landschaften Europas in Literatur und Kunst 76 RAFFAELE MILANI DETERMINAZIONE DI UN’ESTETICA DEL PAESAGGIO 60 Vediamo apparire, nella conquista umana dello spazio naturale, nell’ansia di sfruttare il territorio, nell’operare senza sosta su forme e materiali, dei criteri di modificazione, descrizione e progettazione, come di tutela e conservazione che vengono ideati e messi a punto da un approccio multidisciplinare. Tali criteri disegnano diversi percorsi, tra modernità e tradizione. Il rapporto uomo-paesaggio mostra come essi cooperino a uno stesso avventuroso destino. E’ il lavoro a condurre l’uomo nel regno delle trasformazioni che lui stesso promuove, per il paesaggio è invece il complesso di varie mutazioni strutturali e naturali a organizzare il piano dei suoi segni evolutivi. Entrambi sembrano raccontare qualcosa perché vivono di un fare reciproco, come di uno scambio legato anche al mito e alla memoria: l’uno con un insieme di dati, usure del tempo, catastrofi, distruzioni, tutti elementi diffusi nei luoghi per segni sovrapposti e intrecciati, l’altro con un sistema di opere, immagini e sentimenti. Potremmo in un certo senso pensare a un incrocio di racconti, quello degli uomini e quello del territorio. L’acqua, la pietra e la terra da un lato, il contadino, lo scultore, l’architetto dall’altra. Tutto ciò ruota attorno al tema centrale dell’identità dei luoghi, lungo secoli di sconvolgimenti. Usiamo questa espressione, identità, proprio per affermare però un valore insignito dell’eterogeneità e del divenire. Il paesaggio è espressione della natura, del mito, della cultura, della storia. E’ scultura del tempo e dello spazio. Risulta illuminante, a questo proposito, un pensiero di Rosario Assunto. Leggiamo in Il paesaggio e l’estetica (1973): Il paesaggio è natura nella quale la civiltà rispecchia se stessa immedesimandosi nelle sue forme; le quali, una volta che la civiltà, una civiltà con tutta la sua storicità, si è in esse riconosciuta, si configurano ai nostri occhi come forme, a un tempo, della natura e della civiltà […]. Quasi tutto il paesaggio da noi conosciuto come naturale è un paesaggio plasmato, per così dire, dall’uomo: è natura cui la cultura ha impresso le proprie forme, senza però distruggerla in quanto natura; e anzi modellandola per ragioni che, in prima istanza, non erano estetiche, ma in sé implicavano quella che potremmo chiamare una coscienza estetica concomitante; e finivano con l’esaltare, mettendola in evidenza, la vocazione formale […] di cui la natura, in quanto materia, volta per volta si rivelava dotata. 61 La varietà di percezione e sentimento del paesaggio che è alla base di queste osservazioni muove anche dal tema dello sdoppiamento e dell’enigma, come affermava Rilke, per aprire alla nostra mente le immagini di ciò che appare reale, rappresentato, simbolico. Ma è allo stesso tempo un tema già descritto da Leopardi: All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà con gli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà 60 Vorrei ricordare coloro che, soprattutto negli anni sessanta e settanta, contribuirono a fornire una nuova critica del paesaggio: Rosario Assunto, Cesare Brandi, Lucio Gambi, Vittorio Gregotti, Emilio Sereni, Eugenio Turri. 61 R. ASSUNTO, Il paesaggio e l’estetica, Giannini, Napoli, 1973, vol. I, p. 365 e vol. II, p. 29. 77 un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione 62. Si schiude, con questa riflessione, un’immagine seconda, capace di aprire orizzonti più ampi, più profondi. Nel corso dei secoli, soprattutto nel Novecento, l’aspetto del territorio e la rappresentazione del paesaggio sono cambiati notevolmente. Osserviamo grandi mutamenti paralleli alle profonde modificazioni della sensibilità umana e della conoscenza. Ciò è avvenuto tra i modi della cultura e della storia, tra le immagini del simbolo e della critica, tra i valori della tradizione e dell’evoluzione. La teoria e l’esperienza si sono fuse nel tempo delle trasformazioni e delle memorie. Tuttavia è sempre questa immagine seconda che s’afferma in un disegno di verità. Il paesaggio, reale o immaginario, può risultare infatti come il prodigio di una verità dello sguardo, della mente, del sentimento che si muove insieme o in riferimento al movimento e al fare umano o naturale. Lo producono l’umanità e la storia, in una geografia ricchissima di culti, miti, divinità. In questo contesto la natura, spontanea o artificiale, materiale o artefatta, non è più divisa in due nature a seconda del lavoro dell’uomo e del principio dell’imitazione; essa è unica. Non si tratta più di stabilire se è l’uomo o la natura il nostro principale punto di riferimento, il motore attorno al quale muovere tutte le visioni. Di fronte alle più varie manifestazioni del mondo ci sentiamo trasportare oltre le presenze tangibili e fabrili per divenire, come diceva Jünger, contemplatori solitari in un belvedere affacciato sull’invisibile. La forma di un luogo non è un canone, ma una trama di segni che si modificano: contorni, sagome, linee disegnano figurazioni e arabeschi. Può identificarsi in una morfologia che incrocia sensibilità, emozioni, intuizioni, datità e che attira su di sé allegorie e simbologie. Essa, morfologia, vive di una propria vita estetica. All’origine del sentimento che proviamo per la vista di un paesaggio, c’è una fenomenologia degli elementi: il cipresso, l’ulivo, il castagno, il mandorlo o la quercia, una certa qualità della terra o della roccia ecc. Appaiono e scompaiono contorni, parti rilevate, fogge, strutture in mutamento. Un seme, posto nel terreno, germoglia, fiorisce, dà frutti, compone un oggetto, un orlato del paesaggio, un arabesco di linee. Una pietra, esposta all’erosione del tempo, crea nuove figurazioni. Tutto è in trasformazione, la natura, come la cultura. Il luogo non è fatto di astratte visioni, ma di un insieme di fattori: profilo, testura, colore, fioritura, crescita, deformazione ecc. Vive nell’architettura vegetale, fisica, e nell’atmosfera. La vita estetica attraversa il corso della vita biologica. L’insieme delle forme è una totalità composta da parti, legate non tanto da una relazione di giustapposizione e contiguità, quanto piuttosto da leggi intrinseche che tengono insieme il tutto: somiglianza, prossimità, simmetria, chiusura, continuità di direzione e loro opposti. La condizione dell’assetto e la relazione tra 62 G. LEOPARDI, Zibaldone, a cura di Rolando Damiani, Milano, Mondadori, 1997, pp. 2077-2078. 78 gli elementi fanno emergere le forme alla vista. Il suo campo percettivo è un campo dinamico che tende a una struttura. La composizione e l’articolazione dell’arte del paesaggio si rivela anche nelle materie: terra, roccia, sabbia ecc. Non ci sono, come nell’arte in senso stretto o nell’artigianato prezioso, materiali ricchi o poveri. Lo splendore della sabbia o della pietra può superare quello di una vena d’oro. I materiali sono l’aspetto esteriore, sensibile degli elementi fisici. L’osservatore dirige e ricrea le direttrici insite in essi. Il paesaggio porta alla luce una materia sensibile che riconduce a se stessa come presenza o come essenza delle cose allo stesso tempo. Dalle leggi della forma e della descrizione dei materiali, come dal loro uso più estremo, emerge la costituzione estetica del paesaggio: una composizione di caratteri, secondo impressioni legate alla densità fisica dei corpi, ma anche alla loro smaterializzazione, come quando esse sono assunte in una categoria affettiva. E l’architettura vi ha un ruolo centrale, con il suo produrre in relazione alla terra abitata che mostra tipologie di ordine tecnico e simbolico per congiungere ciò che è fisico e spirituale. In questo modo, si raggiunge una promozione umana di tipo plurisensoriale e poietica. Il paesaggio può essere inteso come una categoria dinamica, plurivoca e transculturale. La situazione mostra il risultato della cultura e della storia. Abbiamo infatti una visione dell’ambiente composta da numerosi elementi. Paesi, villaggi, borghi, montagne, spazi coltivati, foreste, fiumi, grandi e piccoli spazi naturali appartengono al nostro repertorio umano di appartenenza: contadini, mercanti, viaggiatori, esploratori, guerrieri, pellegrini, ecc. Dai vari documenti sui distretti territoriali, dalle varie carte dei luoghi, dai vari diari di viaggio, si trae un immenso catalogo di immagini del mondo. Superfici, luci e forme compongono un ordine delle cose i cui effetti lasciano emergere continue relazioni fra architettura e natura. La relazione indica il paesaggio come risultato di un continuo scambio. L’esperienza estetica, nell’intreccio di percezione, conoscenze, lavoro, rappresentazione e contemplazione, prevede l’interazione tra uomo e ambiente. Dal punto di vista progettuale ciò significa cogliere, nei paesaggi, i transiti tra la memoria e la necessità del nuovo per un equilibrio tra passato e futuro, affermando un’ipotesi allo stesso tempo conservativa e inventiva se riusciamo a collegare le diverse funzioni e utilizzazioni dei luoghi. L’intervento è in sostanza il paesaggio come prodotto di un trattamento compositivo della natura intorno a noi. Possono essere impiegate delle tecniche di modificazione del suo assetto morfologico e dei suoi codici visivi capace di esprimere i caratteri di quel certo luogo, oppure possono essere impiegate delle modificazioni di rappresentazione dello stesso luogo, attraverso citazioni che spingono a separare, elevando l’uno o l’altro aspetto, lo sguardo del soggetto e i tratti distintivi dell’oggetto naturale o urbano. Sembra che il paesaggio spontaneo o costruito si presentino ai nostri occhi riuscendo a enunciare una vera poetica, una vera pratica e teoria del mondo intorno a noi. In questo senso possiamo dire, con Simmel, che il paesaggio esprime la natura che si rivela esteticamente. 79 C’è infatti un disegno di forme in mutamento nella storia del territorio come dell’animo umano, espressione di un’identità che abbiamo sottolineato essere composita. Il paesaggio è dunque sia reale, un’arte fornita dal fare e dalla cultura di un popolo, sia mentale, legato alla rappresentazione e alla visione del mondo. E’ quest’identità composita, insieme al principio di “relazione”, che dovrà essere messa in campo. La scelta di qualità estetiche dipenderà dalle regole del gusto, della tradizione, della conservazione, dai processi di innovazione rispetto alle risorse. Non vi sono regole assolute. Ogni particolare situazione va analizzata nel suo contesto e nelle decisioni che assumono le comunità. Si può aggiungere che il paesaggio viene comunemente percepito e sentito nell’amore del passeggiare e del viaggiare. Inoltre il paesaggio aperto dal viaggio porta i segni dell’incontro e del dono. Il viaggio è legato a una ricerca dell’altro e a un desiderio di esplorare mondi ignoti. In quest’avventura possiamo dire che l’esperienza si mostra anche nel segno di un regalo. Vogliamo incontrare persone nuove e sperimentare cose nuove, ma siamo spinti anche dal desiderio di allontanarci da ciò che è ripetitivo e abitudinario. Attraversiamo paesi sconosciuti, parliamo con gente mai vista prima, confrontiamo la nostra identità con quella di altri. Sotto il segno della relazione e del contatto riceviamo e diamo in umiltà, cercando di imparare dal mondo che non conosciamo, affrontando lezioni di vita. Gli oggetti che offriamo agli amici lontani, al nostro ritorno, vive di uno scambio tra i luoghi, risente della cultura di provenienza. Dietro un oggetto, piccolo o grande che sia, sorgono i paesaggi: un universo di situazioni, persone, cose, immagini, sentimenti, profumi, suoni. Anch’essi sono un regalo che appare e si sparge tra le cose ricevute, comprate, avute per caso. Il dono, come il viaggio, vive nel ricordo. Vediamo e sentiamo sempre frammenti di realtà e di esperienze che cerchiamo poi di ricomporre. Mettiamo in ordine fotografie, diapositive, filmati, appunti, ma sono le immagini che abbiamo dentro di noi che ristabiliscono un legame con quei documenti. In fondo, tutte queste immagini frammentarie ci portano sempre tra rovine e, se questi pezzi appartengono al passato, l’impressione si fa più forte. Claude Lévi-Strauss, in Tristi Tropici, aveva notato l’analogia tra ricordo e rovina, facendo un discorso ricco di sapienti metafore. Il tempo, più che estinguere i ricordi travolti da un fluire incessante, costruisce, con i frammenti dell’esperienza vissuta, delle fondamenta utili al mio procedere verso un equilibrio e una visione d’insieme più chiara. C’è un ordine del presente e un ordine del passato che entrano nello spazio gettato tra il mio sguardo e il suo oggetto. Nello spazio intermedio osserviamo un agitarsi di ricordi confinanti, con crolli improvvisi di certezze e scomposizioni di date, luoghi e della loro relazione; emergono particolari, soccombono periodi interi. Alle cancellazioni inspiegabili corrispondono curiose evoluzioni di deboli tracce lontane. Avvenimenti tra loro senza apparente rapporto volano gli uni sugli altri per arrestarsi improvvisamente in una costruzione della mente che li trattiene in un disegno complessivo. Il ricordo è una rete nella quale cadono i resti della vita vissuta. Il dono vi appartiene pienamente e si scompone nell’affetto delle cose e delle persone ritrovate o riconosciute. 80 La narrazione, orale o scritta, è il filo che intesse le varie parti dell’esistenza e della storia: diamo un nome alle cose e le colleghiamo tra loro. Siamo spinti a credere nell’esistenza di una lingua universale, forse anche di un’eloquenza stessa della natura. Potremmo definire una visita o una passeggiata attraverso una serie di punti panoramici e di movimenti, in modo da interpretare le cose intorno a noi come un’articolazione di immagini che ci accompagnano e ci corrispondono, come un insieme di segni che ricordano appunto una lingua. Quest’esperienza ricca di datità, di metafore, di pensieri, è una fluttuazione simile anche alla musica ed è in sostanza irriproducibile. Il mondo, riprodotto tecnicamente, non soddisfa il nostro animo che vuole andare oltre la miseria di una copia meramente meccanica e afferrare la verità di questo linguaggio o di questa lingua se vogliamo pensare a un insieme più organico di segni. Dalla terra, dal cielo, dalle nuvole, dai lampi, dal mare, dai deserti, dalle varie manifestazioni della natura traspare un linguaggio inafferrabile, sospeso, fatto di tracce, di cenni che ci rimanda a una sintonia segreta, a quella che potremmo chiamare scrittura cifrata della natura, a un geroglifico delle forme intorno a noi. Sembra nascosta nei boschi, nei muschi e nelle pietre una cifra segreta che non riusciamo subito a trascrivere o a capire. Il registro linguistico è composito. Siamo trascinati in una percezione dalle tinte oracolari e misteriose, o dalle felici conciliazioni e associazioni, oppure ancora dalle atmosfere oniriche. La nostra arte sarà data dalla capacità di afferrare queste letture e interpretazioni. Su tutto si manifesta l’ordine di una profondità insondabile. Il mondo sembra rivelare una mistica grammaticale, una scrittura cifrata ovunque dispiegata. Leggiamo le nuvole, gli astri, i gusci d’uovo, le conchiglie e le pietre come infiniti segni di questa scrittura magica, segretissima. La natura diventa un rifugio, l’uomo torna in se stesso attraverso la lingua delle pietre, degli alberi, degli animali. S’appresta anche un vero e proprio dialogo con la natura. In una pagina di grande suggestione, Van Gogh ha confessato: “Vedo che la natura mi parla, mi dice qualcosa come se stenografassi. In questa stenografia possono esserci parole indecifrabili, errori o lacune, ma qualcosa è rimasto di ciò che hanno detto quel bosco o quella spiaggia o quella figura” 63. Dalle foglie, dai fiori, dai tronchi d’alberi, dai ruscelli, dalla tenera erba della piccola valle tra i monti, come dalla roccia si compongono misteriosi e segreti sussurri, lamenti e grida che il vento trasforma in una soffice scrittura sparsa nell’aria, in un canto della terra. Per terminare, si può dire, con una formula tanto sintetica quanto magistrale di Simmel, che “il paesaggio è natura che si rivela esteticamente”. Tutto il mondo delle forme, delle percezioni e dei sentimenti ne è implicato. 63 Lettera del 1882, n. 228, in Tutte le lettere, 3 voll., a cura di M. Donvito e B. Casavecchia, Silvana Ed., Milano, 1959. 81 MICHEL COLLOT PAYSAGE ET IDENTITE(S) EUROPEENNE(S) L’Europe apparaît aujourd’hui à beaucoup de ses citoyens comme une machine technocratique, ou un vaste marché. Si l’on veut lui donner une âme, et construire son unité, il faut se tourner vers son patrimoine culturel, et chercher en lui ce qui peut parler le plus directement aux européens par-delà les frontières. Mon hypothèse est que le paysage est un des lieux dans lesquels une identité européenne peut s’incarner et se construire. Lieu de mémoire, mais aussi lieu de rencontre et horizon de la construction européenne Dans un texte récent, intitulé Une certaine idée de l’Europe 64, George Steiner fait du paysage un des quatre piliers de l’identité culturelle de l’Europe. Si l’on veut que la notion d’Europe ne reste pas une entité lointaine et désincarnée, il faut la faire vivre dans l’expérience concrète de ses habitants : « Même la plus abstraite, la plus spéculative des idées doit être ancrée dans la réalité, dans la substance des choses » 65. L’Europe s’incarne aux yeux de Steiner dans ses paysages, comme dans ses cafés ou dans les noms de ses rues. S’il y a une culture européenne, elle commence avec l’agriculture et la gestion des espaces naturels ; elle inclut les usages sociaux et quotidiens de ces espaces, que sont l’urbanisme ou le tourisme. C’est aussi une culture du sensible et de la sensibilité, qui est façonnée par l’art et par la littérature, mais qui ne s’y réduit pas. Le paysage permet donc d’ancrer l’identité européenne à la fois dans l’expérience la plus commune et la plus concrète et dans la culture la plus savante. La définition classique de l’identité européenne tend à l’identifier avec quelque notion abstraite : la liberté individuelle, la Nation, la Raison. Le paysage fournit au contraire un fondement sensible à l’idée européenne. Cela ne relève pas pour autant d’une démarche irrationaliste ou nationaliste, mais d’une autre rationalité, d’ « une raison qui ne lâcherait pas en route le sensible », comme le souhaitait le poète Francis Ponge 66. Cette recherche des fondements sensibles d’une identité ouverte anime par exemple le projet d’un recensement des lieux de mémoire européens. Pierre Nora propose d’y inclure, au même titre que les hauts lieux de la culture et de l’Histoire européennes, « les lieux géographiques, que ce soient les grands fleuves, comme le Rhin ou le Danube, que ce soient les grands massifs, comme les Alpes » 67. Cette « topologie de la mémoire européenne » aurait le double avantage d’être concrète et de Arles, Actes Sud, 2005. Une certaine idée de l’Europe, op. cit., p. 23. 66 « La nouvelle Araignée », Pièces, Œuvres complètes, Bibliothèque de la Pléiade, t. I, Paris, 1999, p. 801. 67 Dans Europe sans rivage, Actes du symposium sur l’identité culturelle européenne, Paris, Albin Michel, 1988. 64 65 82 transgresser les frontières ; il s’agit, aux yeux de Nora, d’échapper à la coupure entre une identité nationale close sur elle-même et une identité européenne abstraite, introuvable : de « trouver le collectif, mais dans le national, le générique, mais dans le spécifique ». Il me semble que le paysage a joué et peut jouer encore dans l’avenir un rôle important dans cet échange entre l’expérience concrète et les constructions symboliques, entre les identités locales et nationales et une identité européenne en devenir. Pour le comprendre, il suffit de revenir aux origines du mot paysage et à ses définitions les plus simples ; si les langues romanes ont eu besoin de ce mot nouveau, formé par suffixation à partir du mot pays, c’est que le paysage n’est pas le pays, mais une image du pays. Cette image exprime certes l’attachement au pays, mais elle le met aussi à distance et en déborde les limites, en l’ouvrant à un horizon. Cette notion, que j’ai étudiée ailleurs 68 me semble indissociable de la conception européenne du paysage ; elle permet de concilier, la singularité d’un point de vue avec l’ouverture à l’autre et à l’univers, le local et le global. L’horizon donne au paysage ses contours et sa physionomie, mais il l’articule aussi à un ailleurs. S’il trace une frontière autour du pays, celle-ci est perméable, et mobile ; elle est une invitation au voyage. L’invention du paysage a coïncidé avec la découverte de terres nouvelles et lointaines, qui ont considérablement élargi la vision du monde des européens. Le paysage apparaît ainsi comme un espace transitionnel, qui offre un modèle pour concevoir une identité ouverte, dont l’affirmation n’exclut pas l’ouverture à l’altérité. S’il existe une identité européenne, elle suppose le respect de la diversité culturelle des pays qu’elle réunit, et l’échange avec les autres continents. Ce ne peut être qu’une identité plurielle et ouverte, comme l’indique la graphie adoptée pour mon titre. Or le paysage me semble avoir été souvent et pouvoir être encore aujourd’hui un des lieux où construire une telle identité. Le passé Dans son livre sur les Les figures paysagères de la nation 69, François Walter insiste sur le rôle qu’a joué le paysage en Europe, du XVIème au XXème siècle, dans l’affirmation et la constructions des identités nationales. C’est indiscutable, mais ce qui ne l’est pas moins, c’est que les grands moments d’émergence de la notion de paysage et de son expression linguistique, artistique et littéraire ont largement débordé les frontières nationales : il existe une culture européenne du paysage. Je me bornerai à en citer quelques exemples particulièrement révélateurs. L’invention du mot paysage lui-même témoigne d’une circulation intense et rapide des idées et des pratiques artistiques d’un pays d’Europe à l’autre. Si l’on en croit les recherches de C. Franceschi, le 68 69 Voir mes essais sur L’Horizon fabuleux, Paris, Corti, 1988 ; et La Poésie moderne et la structure d’horizon, Paris, PUF, 1989. Les figures paysagères de la nation : territoire et paysage en Europe (16ème-20ème siècles), Paris, Éditions de l’EHESS, 2004. 83 terme serait d’abord apparu en français dans le milieu des artistes italiens travaillant à la décoration du château de Fontainebleau : ce serait donc le fruit d’une coopération franco-italienne 70. Sur le modèle et à la suite du mot français ont été forgés très rapidement les mots italiens, espagnols, portugais. Le mot allemand Landschaft existait déjà, mais avec un sens différent ; c’est sur le modèle de ce mot ancien qu’a été créé le mot néerlandais landschap, dont le sens pictural a été adopté en allemand, et dont la formation a inspiré le mot anglais landscape. C’est un bel exemple de traduction d’une langue à une autre, qu’il faut mettre en parallèle avec les échanges qui existaient entre les foyers de création artistique où s’inventait la peinture de paysage, en Flandre, en Allemagne et en Italie notamment. On peut donc dire que la notion et l’art du paysage sont dès l’origine largement européens. François Walter fait remarquer lui-même que les paysages de Patinir, souvent considéré comme le premier peintre de paysage en Occident 71 « juxtaposent en dépit de toute vraisemblance les éléments les plus divers du paysage européen : les terres cultivées, les forêts, les montagnes, les cours d’eau et les cités » 72. Plus tard, ce sont deux peintres français, Poussin et Claude, qui, à partir de l’héritage gréco-latin, celui de Virgile et de Théocrite, inventeront la campagne romaine, qui va être pour longtemps vue par les touristes à travers le modèle pictural du classicisme à la française. La découverte et la promotion artistique et littéraire des Alpes est un autre temps fort de l’histoire du paysage en Europe, comme l’ont montré les travaux de Claude Reichler 73. Elle a concerné simultanément plusieurs pays, et pas seulement ceux dont le territoire fait partie de l’arc alpin. Les Alpes de Haller ont connu par exemple un succès largement européen, grâce aux traductions qui s’en sont très vite répandues. À la même époque, la mode du « jardin anglais » fait tache d’huile sur le continent et va marquer durablement la physionomie des paysages européens : Taine voit par exemple dans les environs du Lac Majeur « la fraîcheur d’un paysage anglais parmi les nobles lignes d’un tableau de Claude Lorrain » 74. Un autre exemple plus récent de ces « convergences européennes » 75 est fourni par la politique de protection des paysages qui s’est développée simultanément dans plusieurs pays d’Europe, entre 1900 et 1930. La coopération dans ce domaine s’est renforcée depuis une vingtaine d’années, du fait la prise de conscience de la menace écologique, qui ignore les frontières. Les « éco-artistes » américains Helen et Newton Harrisson ont intitulé Peninsula Europe une série d’installations où la carte du continent M. COLLOT (dir.), Les Enjeux du paysage, Bruxelles, Ousia, 1997. C’est à son propos que Dürer emploie, pour la première fois en allemand, semble-t-il, le terme de Landschaftsmaler, dans une lettre de 1521. 72 François Walter, op. cit., p. 152. 73 Voir notamment La Découverte des Alpes et la question du paysage, Chêne-Bourg, Georg, 2002. 74 Cité par F. WALTER, op. cit., p. 168. 75 F. WALTER, op. cit., p. 248. 70 71 84 est travaillée de manière à effacer les frontières politiques pour faire apparaître les traits géophysiques qui fondent son unité : chaînes de montagnes ou grands fleuves par exemple 76. Cette prise de conscience des menaces qui pèsent sur un patrimoine naturel et culturel commun a abouti à l’élaboration d’une Convention européenne du paysage, signée à Florence en 2000, qui présente à la fois un état des lieux et une perspective d’avenir. Le présent et l’avenir Par son aptitude à dépasser les frontières, le paysage peut contribuer à la constitution d’une mémoire européenne, mais aussi à celle d’une identité européenne encore à venir. Il a un rôle à jouer dans la construction d’une Europe, « unie dans la diversité », car il peut exprimer à la fois une individualité, l’attachement à un « pays », aux singularités locales, régionales, ou nationales, et l’ouverture au monde. Il se construit en effet à partir du point de vue d’un individu sur une étendue de pays que l’horizon délimite mais ouvre aussi à l’appel de l’ailleurs. Le lien entre paysage et identité se situe à trois niveaux distincts mais complémentaires. Le paysage que j’aime est « mon paysage », lié à mes valeurs les plus intimes ; mais il est aussi lié aux valeurs d’une communauté, région ou pays, sans pour autant se fermer aux apports de modèles étrangers, qui contribuent à la construction d’une culture européenne. La Convention européenne du paysage a consacré ce rôle du paysage et bien pris en compte cette triple dimension : « Le paysage », lit-on dans son préambule, « concourt à l’élaboration des cultures locales et […] représente une composante fondamentale du patrimoine culturel et naturel de l’Europe, contribuant à l’épanouissement des êtres humains et à la consolidation de l’identité européenne » 77. Le commentaire qui l’accompagne insiste sur l’articulation de ces multiples identités : individuelle, régionale ou nationale et européenne : La reconnaissance d’un rôle actif des citoyens dans les décisions qui concernent leurs paysages peut leur donner l’occasion de s’identifier avec les territoires et les villes où ils travaillent et occupent leur temps de loisir. En renforçant la relation des citoyens avec leurs lieux de vie, ils seront en mesure de consolider à la fois leurs identités et les diversités locales et régionales en vue de leur épanouissement personnel, social et culturel. […] Les paysages d’Europe présentent un intérêt local, mais ont aussi une valeur pour l’ensemble de la population européenne. Ils sont appréciés au-delà du territoire qu’ils recouvrent et des frontières nationales. Une présentation de ce projet est disponible à l’adresse suivante : www.schweisfurth.de/peninsula-europe.html. Le texte de la convention est disponible à l’adresse suivante : http://conventions.coe.int/Treaty/fr/Treaties/Html/176.htm. 76 77 85 Mais de quelle identité européenne cette attention au paysage peut-elle être aujourd’hui porteuse ? Je ne pourrai à ce propos qu’émettre quelques hypothèses, en m’appuyant sur les réflexions des quelques intellectuels et écrivains qui ont récemment essayé de cerner cette identité fuyante, et qui, pour ce faire, ont eu eux aussi recours à l’image ou à la notion de paysage. Vers une identité européenne ? L’identité européenne qui tend à se dégager de ces réflexions ne saurait résulter de la somme des identités nationales, ni de leur synthèse, mais plutôt de leur mise en dialogue. C’était déjà en 1987 l’idée directrice d’un livre d’Edgar Morin, qui plaçait l’Europe sous le signe de la complexité : « L’Europe est un Complexe (complexus : ce qui est tissé ensemble) dont le propre est d’assembler sans les confondre les plus grandes diversités et d’associer les contraires » 78. Si l’Europe a une identité, elle se fonde sur sa diversité ; si elle a une unité, elle ne peut être que plurielle, unitas multiplex. N’étant plus en mesure d’imposer sa civilisation comme universelle, elle doit affirmer son identité par la mise en valeur de sa différence et de sa diversité, menacées par l’impérialisme d’autres modèles, et par une mondialisation uniformisatrice : La nouvelle conscience européenne est de plus en plus sensible à la diversité culturelle sans pareille de l’Europe ; elle comprend que cette diversité constitue son patrimoine ; elle perçoit de mieux en mieux que la culture européenne est une polyculture 79. Et ce n’est pas à mes yeux un hasard si Edgar Morin fait ici intervenir la référence aux paysages comme manifestation sensible et exemplaire de cette unidiversité : L’effet propre de la conscience et du mouvement écologiques, en ce qui concerne la culture européenne, c’est qu’il préservent non seulement les diversités animales et végétales, non seulement la beauté et la diversité des paysages européens, mais aussi les diversités ethniques et régionales 80. Après la chute du mur de Berlin, l’Europe a vu s’accroitre à la fois l’espoir d’une réunification et le risque d’une résurgence des nationalismes, qui s’est manifestée de façon sanglante dans les Balkans dans les années 1990. Cela a conduit les intellectuels à distinguer l’affirmation d’une identité européenne de toute revendication étroitement identitaire. C’est le sens du Manifeste de Strasbourg signé en novembre 1991 par les écrivains qui participaient au Carrefour des Littératures européennes : L’histoire européenne inlassablement le répète : les périodes d’épanouissement culturel coïncident avec la multiplication des échanges et des contacts avec l’extérieur ; les époques de Penser l’Europe, Paris, Gallimard, 1987, p. 25. Ibidem, p. 149. 80 Ibidem, p. 150. 78 79 86 décadence et d’effondrement se caractérisent par une recherche stérile de valeurs propres, la peur de l’Autre et le repli sur soi. L’espace culturel européen déborde toujours l’espace politique, et l’identité nationale s’aiguise toujours à l’active reconnaissance de celle des autres 81. Pour construire son identité l’Europe doit s’ouvrir à un double horizon : l’horizon interne des diverses cultures qui la composent et l’horizon externe du monde qui l’entoure : « Il n’y aura pas de renouveau en Europe sans une audacieuse ouverture de la conscience aux autres hommes, aux autres nations, aux autres cultures » 82. Il faut donc « penser l’Europe à ses frontières », comme le proposait le programme « géophilosophie de l’Europe » animé en 1992 par Jean-Luc Nancy. Celui-ci recourt à la dialectique du pays et du paysage pour essayer de faire comprendre comment l’Europe peut se constituer à la fois comme une vue d’ensemble, un paysage, et comme une multiplicité et une diversité de pays : L’Europe n’est rien d’autre qu’une mosaïque de pays — un paysage de pays […] Je dirais volontiers qu’un tel paysage est — une écriture. Un « paysage », ce serait la combinaison d’un ensemble, de sa rythmique, ou de sa modulation, et de la singularité des « vues » qui peuvent le peindre ou l’écrire. Chacune étant, sur le mode leibnizien, pars totalis du paysage, mais aucune n’en formant la totalisation ni l’identification 83. De cette ouverture à la diversité et à la pluralité, la géographie de l’Europe offre plusieurs images possibles, notamment celles qui insistent sur sa position à l’extrémité du continent Eurasiatique. Celle de la Péninsule, par exemple, que nous avons rencontrée chez les Harrisson, et que Gonzague de Reynold relevait déjà chez Noblot en 1725 : « L’Europe est une grande presqu’île » 84. Autre image géographique récurrente : celle du cap, qu’employait Valéry dans son texte de 1919 sur La crise de l’esprit : Qu’est-ce donc que cette Europe ? C’est une sorte de cap du vieux continent, un appendice occidental de l’Asie. Elle regarde naturellement vers l’Ouest. Au sud, elle borde une illustre mer dont le rôle, je devrais dire la fonction, a été merveilleusement efficace dans l’élaboration de l’esprit européen 85 C’est cette image que Jacques Derrida a reprise dans une conférence prononcée à Turin en 1990 : « Dans sa géographie physique et dans ce qu’on a souvent appelé, comme le faisait Husserl par exemple, sa géographie spirituelle, l’Europe s’est toujours reconnue elle-même comme un cap » 86. Derrida voit dans cette position géographique de l’Europe, baignée de toutes côtés par les mers et par l’Océan, l’emblème d’une identité paradoxale, ouverte à l’altérité : Désir d’Europe, Paris, La Différence, p. 7. Ibidem, p. 8. 83 Penser l’Europe à ses frontières, La Tour d’Aigues, éditions de l’Aube, 1993, p. 15-16. 84 Cité par G. DE REYNOLD, Qu’est-ce que l’Europe ?, Paris, Egloff, 1941. 85 Œuvres complètes, Bibliothèque de la Pléiade, tome I, Paris, Gallimard, 1957, p. 1004. 86 L’Autre Cap, Minuit, 1991, p. 24. 81 82 87 Le propre d’une culture, c’est de n’être pas identique à elle-même. Non pas de n’avoir pas d’identité, mais de ne pouvoir s’identifier […] que dans la non-identité à soi ou, si vous préférez, la différence avec soi. Il n’y a pas de culture ou d’identité culturelle sans cette différence avec soi 87. Cette ouverture à l’altérité va de pair avec une ouverture au devenir, qui rend l’Europe capable de changer de cap : « Et si c’était cela, l’Europe, l’ouverture à une histoire pour laquelle le changement de cap, le rapport à l’autre cap ou à l’autre du cap est ressenti comme toujours possible ? ». S’impose dès lors l’image de l’horizon, que Derrida relève dans beaucoup de discours sur l’Europe, celui de Valéry par exemple : Valéry observe, il regarde, il envisage l’Europe, il y voit un visage, une persona, il la considère comme un chef, c’à d un cap. Cette tête a aussi des yeux, elle est tournée d’un certain côté, elle scrute l’horizon et veille dans une direction déterminée 88. « L’Europe se voit à l’horizon » 89, remarque Derrida, mais il prend ses distances vis-à-vis de cette image, car comme Lévinas il ne voit dans l’horizon qu’une limite (« l’horizon, c’est, en grec, la limite »), alors qu’il est aussi une ouverture sur l’ailleurs et sur l’inconnu. Orientée vers l’Océan, ce cap qu’est l’Europe n’est-il pas tourné vers ces autres mondes qui l’ont conduit à sortir d’elle-même et dont la découverte a profondément renouvelé sa culture et son identité ? Que cet appel du large et de l’horizon ait à voir avec l’identité européenne, on pourrait en trouver une confirmation du côté de l’étymologie du mot Europe lui-même. Elle est très incertaine et a fait l’objet d’interprétations très diverses ; mais toutes semblent établir un lien entre le nom de l’Europe et l’horizon. Les unes font venir le mot de l’hébreu Ereb ; il désignerait alors « le pays du couchant ». Regardant vers le soleil couchant l’Europe peut y voir l’image de son déclin inéluctable, comme c’est le cas chez Hölderlin, qui fait de l’Europe l’Hespérie ; mais on peut y voir au contraire un appel au mouvement, au dépassement : pour Claudel, par exemple, c’est l’appel du soleil couchant, « l’appel de l’horizon et de la mort » qui a poussé Christophe Colomb à découvrir l’Amérique. Les autres font d’Europe un mot d’origine grecque, forgé à partir d’ops : le regard, et d’euru, qui signifie large. Il signifierait donc « aux larges yeux », « qui voit large », ou « qui voit loin ». C’est le sens que retenaient par exemple les fondateurs de la revue Europe, et que je ferai mien pour conclure. Dans le premier numéro de cette « revue de culture internationale », René Arcos, élargissait la conscience européenne aux apports venus de tous les horizons. Et c’est une fois encore l’image du paysage qui lui permettait de penser ce nécessaire échange entre « la patrie européenne » et l’ailleurs : Ibidem, p. 16. Ibidem, p. 25. 89 Ibidem, p. 33. 87 88 88 Europe […] le beau nom, et comme il convient à la race clairvoyante qui le reçut par hasard en héritage ! Et comme il nous oblige à nous en montrer plus dignes encore, afin que nous devions vraiment des Européens, des hommes qui voient largement, — qui découvrent, dans les lignes du visage de leur province, le prolongement d’autres provinces à l’infini, — qui lisent partout des parentés et des concordances, et s’en éprouvent agrandis90. En prenant soin de ses provinces et de leurs paysages, en préservant ce qu’ils reflètent d’une identité locale, régionale, ou nationale, l’Europe ne se replie pas pour autant sur elle-même ni sur son passé. Car tout paysage communique d’horizon en horizon avec le monde entier et avec l’avenir. Le paysage est donc pour l’Europe à la fois une origine où se ressourcer et un horizon vers lequel se dépasser. L’identité qu’elle peut ainsi construire ne résulte ni du sol ni du sang ; elle est de l’ordre du projet. C’est une identité-horizon. 90 Europe, n°1, février 1923, p. 110. 89 YVES LUGINBÜHL PAYSAGE ET POLITIQUE Que le paysage entretienne avec la politique des liens étroits ne fait aucun doute. Les transformations des paysages sont le plus souvent liées à des politiques économiques qui agissent sur l’état de l’occupation du sol : la PAC intervient dans la distribution spatiale des productions agricoles et dans la concentration des exploitations agricoles, entraînant des modifications du parcellaire ; avant elle la politique française de remembrement a provoqué indirectement la disparition de nombreuses haies séparant les parcelles. Dans un autre registre, les politiques de logement et d’urbanisme modifient l’aspect des villes, les étendent sur des territoires auparavant ruraux et agricoles. Mais le lien entre l’évolution politique européenne et les paysages n’a jamais fait l’objet de véritable réflexion approfondie, alors que les changements survenus dans la pensée politique au cours des siècles a une relation très forte avec les sens que le paysage a recouverts et la place qu’il a tenue dans les préoccupations des milieux du pouvoir ; les pouvoirs princier, seigneurial, royal, puis républicain ont en effet eu une influence déterminante sur la manière de penser et d’organiser les territoires, et par là sur les paysages. Même avant que le terme existe dans les langues européennes, les pouvoirs avaient un regard tendu vers la formalisation d’un paysage en accord avec leur pensée politique. C’est cette trajectoire de la relation entre paysage et politique qui sera retracée rapidement ici, mais qui demanderait bien évidemment des développements plus amples. Comprendre ces relations entre la pensée politique et la pensée du paysage exige cependant certaines conditions qui n’ont jusqu’alors pas vraiment été remplies par les courants scientifiques qui ont émis des théories épistémologiques sur le paysage : - tout d’abord, remettre le paysage dans son contexte historique et ne pas le penser par rapport au contexte actuel, - expliciter les relations entre les sociétés et la nature, - préciser la nature des rapports sociaux, - et approfondir le rapport à l’esthétique. C’est seulement si l’on pense le rapport entre paysage et politique dans cet ensemble de conditions, sans les dissocier, que la trajectoire du terme et son succès actuel, notamment avec la Convention Européenne du Paysage qui a été ratifiée par de nombreux pays européens, peut être comprise. 90 I. Avant le paysage : régime féodal Une pensée paysagère du territoire Le contrôle du territoire était bien évidemment primordial pour les seigneurs et princes de l’époque féodale. La féodalité, qui supposait des rapports de domination de l’aristocratie sur les vassaux ne pouvait se passer de la maîtrise de l’espace sur lequel celle-ci régnait. Rien cependant, en dehors des représentations picturales des territoires de cette époque ne laissait supposer que le pouvoir princier avait comme objectif de maîtriser en même temps le paysage lui-même. Mais ces représentations sont pourtant édifiantes. La célèbre fresque qu’Ambrogio Lorenzetti peignit en 1336 sur les murs d’une des salles du palais ducal de Sienne révèle en effet une pensée du paysage, en l’absence du terme « paesaggio » dans la langue italienne. La fresque, intitulée Le bon et le mauvais gouvernement montre, dans une allégorie de la relation entre pouvoir et paysage, les effets d’un bon gouvernement, d’un côté et d’un mauvais gouvernement, de l’autre. Réalisée à une période où Florence et Sienne se faisaient la guerre et envahissaient régulièrement le territoire du voisin avec des armées qui pillaient les biens et les hommes, cette fresque illustre une sorte d’utopie féodale, à travers une représentation d’un beau paysage gouverné par un bon gouvernement qui sait faire régner la justice : la scène du bon gouvernement représente en effet un procès où les justiciables attendent d’être jugés, pendant que la société vaque à ses activités productrices de biens, alimentaires et autres. La ville et la campagne, d’égale dimension, sont en pleine effervescence de travail et de production : on bat le blé, une caravane apporte à la ville les denrées qui lui sont nécessaires, des paysans chassent les oiseaux qui pillent les raisins de la vigne, le duc de Sienne sort de la ville pour inspecter la société sur laquelle il règne et qui lui montre que tout le monde travaille, en paix. Dans la ville, c’est le même tableau : artisans et maçons sont au travail, les commerçants sont dans leurs boutiques,… mais les bourgeois richement vêtus dansent au milieu de la place, heureux et désœuvrés. Travail, paix, justice, efficacité du pouvoir, mais pour une élite sociale qui profite de ce climat de prospérité et de tranquillité. La société féodale n’est pas égalitaire, mais l’ordre règne et le paysage le révèle. Le mauvais gouvernement offre un spectacle différent et même totalement inverse : la ville a pris une dimension plus grande, la campagne est parcourue par des bandes de pillards, les villages sont en feu ; la ville est livrée au meurtre, au viol et au pillage. Pas de pouvoir juste, c’est, comme le montrent les inscriptions sur la fresque, le règne de l’avarice, de l’orgueil, de l’injustice, etc. Le personnage au centre du mauvais gouvernement ressemble au diable, le rôle de l’église dans cette époque est évidemment essentiel pour mieux comprendre la pensée politique et du territoire. 91 Cette représentation du rapport entre pouvoir et paysage est évidemment fortement symbolique. Mais elle apporte un enseignement essentiel : il existe bien une pensée de ce rapport qui repose sur la capacité du pouvoir à maîtriser le territoire et le mettre en production pour une société inégalitaire certes, mais où toutes les classes sociales profitent de ce pouvoir de contrôle. Le pays est bien gouverné, il nourrit sa population et apporte la paix. Les règles de la féodalité Si l’on revient à une description plus froide de la société médiévale, le tableau éclaire l’évolution qui suivra cette période : les pays sont en effet régis par les règles de la féodalité : - la propriété est alors réservée au seigneurs et au clergé, ou aux riches bourgeois et aux laboureurs. - Les terres sont concédées aux paysans sous des formes diverses avec des régimes de loyers ou de métayage. - La règle générale en Europe (du nord surtout) est l’interdiction de clore son champ pour permettre l’usage de la vaine pâture. - Les rapports entre la société médiévale et les ressources naturelles sont régis par des règles orales et surtout par les droits d’usage et les corvées. Ces droits et devoirs impliquent des rapports à la nature particuliers qu’il serait trop long de développer ici. - Mais il existe de nombreuses exceptions, y compris dans la clôture des champs qui peut être autorisée, mais alors pour protéger les cultures contre les animaux qui divaguent dans les chemins et les terres collectives, le plus souvent terres pauvres, marais, maquis, landes, forêts. La terre collective dont la forme varie selon les pays est la terre des pauvres, qu’ils défendent âprement contre les seigneurs qui souhaitent en faire des terrains de chasse. Un système économique de contraintes L’économie de ce système féodal est une économie contrainte par les règles seigneuriales nombreuses qui bloquent toute évolution. Les cultures majoritaires sont des céréales panifiables et quelques cultures industrielles textiles et oléagineuses. Les cultures protéiques sont rares (fèves, lupins, notamment). L’élevage est limité aux terres incultes et collectives ou les forêts. Ce système limite ainsi la production animale pourtant souhaitable mais que les riches se réservent : les très nombreux procès révèlent une lutte difficile entre ceux qui ont accès aux territoires de chasse, les seigneurs, et les autres, qui sont limités aux terres collectives et aux tenures concédées par ceux qui tiennent le pouvoir. 92 En outre toutes les activités sont soumises au ban et à de multiples contraintes fiscales qui grèvent l’activité. Les crises de la féodalité Ce système ne durera pas au-delà du XIVème siècle : à partir de la moitié de ce siècle, une crise profonde marque les sociétés européennes. Cette crise ne peut se comprendre par une unique cause ; c’est la convergence de plusieurs facteurs qui intervient pour entraîner ces sociétés pourtant relativement prospères dans un fort déclin démographique : - La contradiction du système agricole qui demande, en phase d’expansion démographique, comme ce fut le cas aux XIIème et XIIIème siècles, une extension des cultures panifiables. Cette extension diminue d’autant les terres vouées à l’élevage qui ne fournit pas suffisamment d’alimentation protéique aux populations. - L’arrivée de la peste en Europe, qui touche inégalement certes les pays, mais qui entraîne de nombreuses disparitions de population. - Une péjoration climatique qui, avec plusieurs étés humides et froids, des hivers très rigoureux, provoque des famines et entraîne des morts nombreuses. - La guerre de cent ans qui débute au même moment. C’est donc une véritable crise sociale qui se manifeste et qui ne prendra fin que vers le milieu du XVème siècle, avec, évidemment des variations géographiques dans le continent européen. II. Le renouveau du XVème siècle : la « Renaissance » Renaître : ce verbe symbolise parfaitement cette nouvelle période qui naît après la phase de crises sociales et qui fait dire ainsi aux sociétés européennes que le temps est venu d’un projet de nouveau territoire qui rompt avec un système obsolète et les conduisant dans une impasse. De très nombreux facteurs interviennent dans cette renaissance, mais ce qui présente ici un intérêt particulier est l’apparition du terme paysage dans les langues européennes et qui ouvre une perspective sur l’avenir. Cette apparition a été souvent, mais à tort, présentée comme une initiative des milieux artistiques. En fait le premier mot qui signifie « paysage » dans les langues européennes est d’origine flamande et sa signification renvoie clairement à l’aménagement du territoire. Il est vrai cependant que les autres langues qui adoptent le terme le placeront dans le domaine de la production de l’art, mais le 93 processus de transfert du domaine de l’aménagement à celui de l’art se comprend aisément à la lumière de l’usage du mot en Hollande. Dates des premières occurrences du mot paysage dans les langues d’Europe occidentale Langues anglosaxonnes Concepì Date connue de la première occurrence Hollande Landskap 1462 Allemagne Landschaft 1502 Angleterre Landscape (ou Landskipe) 1598 Portugal Paisagem 1548 France Paysage 1549 Italie Paesaggio 1552 Espagne Paisaje 1708 Langues latines Les Pays-Bas offrent en effet un exemple significatif du sens du mot à la Renaissance, dans un contexte qu’il est nécessaire de rappeler pour permettre de bien comprendre la place du mot dans la société flamande : la Hollande est considérée à cette époque comme un pays phare qui tient sa puissance à son économie fondée sur le commerce et appuyée par une flotte commerciale et militaire développée. Mais elle est en même temps un pays exigu, dont une grande part du territoire est occupée par des marais. Pour préserver sa place dans l’Europe du nord, la Hollande se lance alors dans une entreprise systématique de colonisation de la mer par la technique éprouvée des polders, qui avait, certes, débuté plus tôt, mais qui connaît à ce moment un regain décisif. Ce projet se manifeste ainsi par une vision prospective du pays qui devient le « Landskap », traduisible par « le pays où l’on peut vivre ». Projet de territoire, le Landskap constitue une utopie paysagère qui permet d’étendre le domaine agricole pour nourrir une population croissante et alimenter la marine en marins et en denrées commercialisables. Le Landskap contribue donc à la richesse du pays et l’on comprend mieux ainsi que cette représentation de la campagne prospère qui apparaît comme les fonds des tableaux de l’époque ait eu un tel succès. Les artistes participent, en « artialisant » cette vision utopique, selon le terme proposé par Alain ROGER, au renforcement d’un pays prospère et riche, aux campagnes bucoliques, où vit une paysannerie heureuse. En outre, les polders qui sont réalisés sur la mer intérieure de la Hollande, le Zuyder Zee, permettent, dans les premières années de la colonisation de produire de l’herbe qui sert à nourrir les animaux, comme en témoignent certaines toiles du XVème siècle. L’agriculture hollandaise 94 connaît ainsi une phase de modernisation qui n’a rien évidemment de commun avec l’agriculture intensive actuelle, mais qui procure à la population une alimentation plus riche où la viande et les produits laitiers ne sont pas aussi faiblement représentés que dans l’époque médiévale. C’est ainsi que le modèle paysager pastoral s’impose, à côté du modèle bucolique. Mais ces deux modèles ne sont en fait que des réminiscences de la culture antique : le bucolique et le pastoral renvoie à Virgile, mais également à la culture chrétienne (le berger qui conduit son troupeau vers de verts pâturages et des eaux paisibles 91). Cette esthétique accompagne l’utopie paysagère qui est également un projet économique ne profitant pas de manière égalitaire à l’ensemble de la société, mais qui permet l’accès à une alimentation plus riche, composée d’une proportion plus importante de protéines 92. Si les théories scientifiques de l’époque ne sont pas encore prêtes à conceptualiser cette amélioration de l’alimentation, il n’en reste pas moins que les agronomes de nombreux pays s’engagent sur la voie de la découverte des bienfaits de l’élevage dans la pratique agricole et dans une réflexion sur les avantages d’être propriétaire de ses champs, ce qui n’était pas le cas dans la majeure partie des paysanneries européennes, où la pratique des terres collectives était encore âprement défendue contre les abus des seigneurs qui y voyaient l’opportunité d’y développer des territoires de chasse ou des forêts. III. Nouveau contexte politique : Monarchie constitutionnelle et libéralisme Le XVIIIème siècle inaugure une nouvelle période qui sera déterminante pour le paysage, non seulement dans ses formes, mais aussi dans sa pensée. Alors que l’Europe des élites s’engage dans la critique de la monarchie absolue et recherche les voies de la liberté d’expression et des droits de l’homme, l’Angleterre met en pratique les principes d’une monarchie constitutionnelle, mais surtout instaure un nouvel ordre politique et économique, devançant par là la théorie économique qu’Adam SMITH précise dans « La richesse des nations ». Rompant avec les règles de la féodalité, l’Angleterre met en place la propriété individuelle du sol. En réalité, dès le XIIème siècle, le pays avait commencé à instaurer le droit à enclore les champs pour l’élevage, mais c’est en 1750 que le véritable mouvement en faveur de la propriété individuelle se produit, consolidé en 1801, puis en 1845 et 1860 que le parlement anglais met fin par divers « enclosures acts » à la règle féodale. Voir le Psaume 23, cantique de David, Nouveau Testament : « L’Eternel est mon berger, je ne manquerai de rien. Il me fait reposer dans de verts pâturages, Il me dirige près des eaux paisibles » 92 Bien évidemment, cette pratique ne donne pas lieu à une conceptualisation théorique de l’alimentation, puisque c’est bien plus tard, au XXème siècle que l’équilibre alimentaire entre glucides, protides et lipides sera théorisé. 91 95 Dans le même temps, les agronomes anglais, suivant la tendance qui s’est manifestée en Europe, inventent la culture des herbages, graminées (ray-grass, fétuque), mais surtout légumineuses (sainfoin, trèfle et luzerne) qui permettent d’enrichir le sol en azote et évitent le repos de la terre par la jachère. Cette révolution technique qui accompagne la révolution politique et foncière conduit à la transformation du paysage anglais : le bocage, paysage de prairies encloses et contenant le bétail s’étend massivement en Angleterre 93 que la France suivra un peu plus tard, au XIXème siècle, après l’instauration de la propriété individuelle du sol par la Révolution française. Le projet anglais constitue un véritable projet économique et social, qui entraîne le pays dans une révolution agricole, qui favorise l’élevage, mais également industrielle. En effet, les gentlemen farmers qui contribuent à la transformation de la campagne anglaise sont également souvent des entrepreneurs de l’industrie qui se développe dans la même période : industrie charbonnière, métallurgique et textile où les petits paysans, chassés de la campagne par le rachat massif de l’espace par les couches riches de la population viennent constituer la main d’œuvre nécessaire aux usines. C’est d’ailleurs à cette période que l’exode rural se produit, entraînant la constitution de grands domaines agricoles où les aristocrates et grands bourgeois sollicitent les concepteurs de jardins94 pour édifier les fameux parcs anglais ; ceux-ci rompent avec le style français géométrique et mettent en scène dans les campagnes des parcs imitant la nature, faite de courbes de formes sinueuses, parodiant le modèle pastoral. C’est ainsi que se développe une nouvelle sensibilité à la nature, qui trouvera son point culminant avec ce projet esthétique où la nature « naturelle » est le modèle et où les traces de l’artificialité doivent disparaître. William GILPIN, critique d’art anglais précise les principes de cette esthétique qui élimine du paysage les traces du travail humain et de la pénibilité : le beau paysage doit être naturel et ne pas révéler les activités humaines. Ce modèle aura un succès important au-delà des frontières de l’Angleterre, puisqu’il s’imposera comme le modèle esthétique du jardin dans la majorité des pays d’Europe au XIXème siècle. IV. Nouveau contexte politique : la démocratie Les nouveaux régimes politiques démocratiques qui se mettent en place progressivement en Europe inaugurent une nouvelle pensée de la nature. Mais en fait, cette pensée hérite de l’histoire et les modèles qui sont apparus dans les périodes antérieures sont toujours opératoires, même s’ils ne sont pas totalement mis en scène de manière identique. La culture paysagère qui s’est développée en Europe est faite de l’accumulation des modèles historiques mais s’y ajoutent également des références issues de 93 94 Au milieu du XIXème siècle, 21% du territoire anglais était enclos, soit 28000 km2. Les plus connus sont Capability Brown et Humphrey Repton. 96 l’apparition des sensibilités sociales locales. Celles-ci existaient certainement auparavant, mais elles étaient enfouies et ne pouvaient pas s’exprimer en absence de la démocratie. L’absolutisme et le centralisme (comme en France) écrasaient les aspirations locales. C’est après les années 1960 que les nouvelles sensibilités sociales sont apparues, notamment en y introduisant des préoccupations environnementales. Le paysage s’est ainsi enrichi du versant écologique et a perdu le sens esthétique qui prévalait au XIXème siècle et qui lui donnait un sens bourgeois et sélectif dénoncé par les scientifiques qui s’y sont de nouveau intéressés à partir de cette période des années soixante. Les nombreuse recherches réalisées un peu partout en Europe révèlent en effet une pensée sociale du paysage qui se structure autour des modèles anciens et des représentations du XVème siècle, mais qui se complexifie avec les revendications sociales locales. Que reste-t-il de l’utopie paysagère? En premier lieu, il est manifeste que le caractère utopique du paysage a subsisté : lorsque des individus sont interrogés sur le sens du paysage, la première réaction est claire : un paysage est toujours beau. Le mot lui-même renvoie à un spectacle agréable, faisant re-émerger la signification que lui donnaient la société hollandaise de la Renaissance. Toujours beau, le paysage s’appuie sur deux valeurs sociales qui se déclinent dans le langage par l’intermédiaire de substantifs et de qualificatifs pouvant être rangés sous ces deux valeurs : - la beauté - la liberté La beauté est alors synonyme d’harmonie, terme souvent utilisé lorsque l’on parle de paysage, et cette harmonie peut être celle - des formes : il s’agit alors de l’harmonie esthétique - des hommes avec la nature : c’est la préoccupation écologique qui se manifeste - des hommes entre eux : c’est alors l’harmonie sociale La liberté renvoie à - celle de jouir de la nature, d’y accéder sans contrainte - celle de la façonner selon ses besoins et ses aspirations. Bien évidemment, ces divers aspects de la beauté et de la liberté sont plus ou moins développés dans le discours des individus selon leur appartenance à un groupe social défini. L’harmonie esthétique est davantage présente chez les cadres que chez les ouvriers qui prônent eux-mêmes l’harmonie sociale. 97 Les agriculteurs revendiquent la liberté de façonner le paysage selon leurs besoins (la production), alors que chez les classes d’âge jeune, la liberté renvoie davantage à celle d’agir, de se déplacer ou de s’exprimer sans contrainte. La laideur des paysages dégradés Cependant, si le premier sens du paysage est positif, la réflexion sur la situation actuelle soulève la question de la laideur des paysages dégradés. Cette laideur s’oppose terme à terme aux deux valeurs qui font du paysage un concept utopique. La laideur renvoie effectivement : • - aux questions esthétiques (disharmonie des formes) • - aux questions écologiques (le spectacle d’un lac pollué ne peut être satisfaisant) • - aux questions sociales : un ensemble d’immeubles de banlieue ne peut être un beau paysage, car son spectacle renvoie au chômage, à la délinquance, à la drogue. Parallèlement à la liberté s’opposent les contraintes de la vie en société et qui imposent à l’individu des obstacles comme l’impossibilité d’accéder à des espaces appropriés par une minorité sociale (les plages privées du littoral par exemple) ou la difficulté pour les jeunes de s’exprimer en toute liberté dans les espaces publics qu’ils estiment trop policés. Les représentations sociales des paysages : trois échelles Mais ce qui caractérise fondamentalement les représentations sociales des paysages est leur structure selon trois échelles : une échelle « globale », une échelle locale et une échelle individuelle. • L’échelle globale est celle qui pourrait être considérée comme la culture académique que diffusent les grands médias (la culture artistique des musées, la culture littéraire, photographique et cinématographique, etc.) ; cette échelle culturelle est peut-être celle qui fait partie de l’identité européenne. Elle se structure autour des modèles paysagers dont le bucolique et le pastoral auxquels s’ajoutent le sublime, le pittoresque, le régional, le pittoresque écologique) • L’échelle locale est celle qui se manifeste dans une société vivant dans un territoire délimité. Elle renvoie à la mémoire sociale du lieu, aux rapports sociaux qui s’établissent dans ce territoire et qui peuvent s’exprimer par des conflits, ou encore par une culture du milieu « naturel », culture empirique élaborée par la confrontation de l’individu à la matérialité des objets qui composent le paysage. 98 • L’échelle individuelle est celle de la culture de l’individu considéré comme unique : c’est l’expérience paysagère que celui-ci se forge dans sa trajectoire sociale et qui n’est pas réductible à celle du groupe. Imbrication des échelles Ces trois échelles ne sont pas dissociées les unes des autres dans la représentation du paysage que se construit l’individu : elles s’imbriquent et permettent de comprendre pourquoi des avis contradictoires peuvent exister chez un même individu : un même paysage peut en effet, être à la fois considéré comme beau parce qu’il répond au modèle « global » et comme laid parce qu’il correspond à l’échelle locale. Dans la Beauce, région de plaine céréalière du bassin parisien, il n’est pas rare que des habitants affirment que le paysage créé par le blé ondoyant sous le vent au soleil couchant soit beau (référence au poème de Charles Péguy) et soit également laid, parce qu’il renvoie à la condition des ouvriers agricoles qui se louaient auprès des hobereaux pour la moisson, tâche pénible et dure qui a laissé une mémoire sociale vivace dans la population beauceronne. Un autre exemple cité par Victor HUGO vient également confirmer cette contradiction : dans « Histoire d’un crime », Victor HUGO raconte qu’il est dans un train dans l’est de la France peu après 1870. Il s’endort et en se réveillant, découvre par la fenêtre du train le paysage bucolique d’un vallon verdoyant. Demandant à son voisin où ils se trouvent, celui-ci répond : « Sedan » 95. Le paysage du vallon se transforme alors en scène de guerre avec les cadavres des fantassins et les éclairs des canons. Par ailleurs, l’évaluation d’un paysage par un individu est rarement univoque. Elle est le plus souvent complexe, car elle fait référence aux différentes dimensions qui ont été évoquées, c'est-à-dire la dimension esthétique, la dimension sociale et la dimension écologique. Il est donc nécessaire d’envisager les différentes échelles pour comprendre comment un individu apprécie un paysage et comment cette appréciation peut donner lieu à des contradictions. L’évolution des représentations sociales des paysages Ces représentations sociales des paysages ne sont pas stables. Elles évoluent avec le contexte social, politique, écologique et économique ; les nouvelles sensibilités qui sont apparues à partir des années soixante doivent en effet leur apparition à la forte recomposition sociale qui s’est manifestée dans les sociétés européennes avec l’élargissement des classes moyennes et l’émergence des préoccupations environnementales. 95 Référence à la bataille de Sedan où la France perdit la guerre contre les Allemands le 2 septembre 1870 et où Napoléon III capitula. 99 Avant les années 1990, le plus souvent, le paysage était synonyme de campagne pour la majorité des Français. Depuis cette date, les représentations ont changé : le paysage est devenu la nature, la campagne s’effaçant pour n’être plus qu’en seconde position après la campagne dans les avis des individus interrogés. Cette transformation des représentations sociales sont dues à un ensemble de facteurs parmi lesquels la crise agricole et alimentaire avec l’encéphalite spongiforme bovine, les nitrates dans les eaux superficielles et profondes, la fièvre aphteuse, la grippe aviaire, etc. Ces crises ont modifié l’image que les Français se faisaient des agriculteurs. Ceux-ci sont devenus des entrepreneurs qui n’ont pas la même image que les paysans d’autrefois, censés savoir gérer la nature et ne pas entraîner des problèmes écologiques. Ceci ne signifie pourtant pas que la campagne a disparu des représentations sociales : elle est toujours présente, mais elle est devenue la campagne nostalgique des paysans. Le paysage est la nature lointaine, parce qu’elle seule est indemne des dégradations causées par les hommes. C’est en tout cas ce qu’affirment les jeunes pour lesquels le paysage rêvé est la savane africaine, le grand nord ou la forêt d’Amazonie ; mais ces avis changent selon les groupes sociaux et en particulier les classes âgée en restent à la campagne pour désigner le beau paysage. Il serait d’ailleurs possible de développer ici les fortes disparités sociales de ces représentations du paysage. Nouveaux rapports au paysage Ces nouveaux rapports au paysage et à la nature ont introduit des modifications dans le sens même du terme. Le paysage se rapproche progressivement du cadre de vie, alors qu’il était réduit avant la Seconde Guerre Mondiale aux paysages remarquables. Désormais, la plupart des individus voient dans le paysage ce qui est autour d’eux, même si l’ancienne conception subsiste. Ce changement se manifeste par de nouvelles exigences de la société qui souhaite davantage se préoccuper de son cadre de vie et participer aux décisions qui le transforment. C’est dans ce sens que la Convention Européenne du Paysage milite pour un paysage « citoyen », où les populations donnent leur avis et participent à tous les stades de l’élaboration des politiques et des projets d’aménagement. Bien évidemment, il est encore trop tôt pour affirmer que toute la société s’est engagée dans cette voie ; il s’agit d’une tendance forte qui n’est pas encore vraiment opératoire dans les pays de démocratie récente comme les pays d’Europe centrale où tout acte collectif réactive les souvenirs d’une période de pouvoir désormais haï. Mais la tendance existe et particulièrement à l’échelle locale où les élus se trouvent confrontés à des revendications ou des contestations des décisions prises sans avis de la population. 100 La Convention Européenne du Paysage qui prône la participation des populations à l’élaboration du cadre de vie reçoit ainsi un vif succès dans la majeure partie des pays d’Europe : elle est la convention européenne la plus ratifiée de toutes les conventions que le Conseil de l’Europe a élaborées. Il est sans doute difficile que cette tendance se manifestera par des faits parfaitement conformes à ce qui est défendu dans la Convention Européenne du Paysage, mais le mouvement est lancé et il ne peut que se développer. On ne peut que le souhaiter pour le bien-être des populations européennes. Conclusion : nécessité de repenser le projet de paysage Ces transformations des représentations sociales des paysages et du contexte dont elles sont indissociables incite ainsi à revoir les méthodes d’élaboration des projets d’aménagement et des politiques publiques : - tout d’abord, en rapprochant la recherche de l’action politique qui sont le plus souvent encore séparées par un fossé d’ignorance mutuelle et qui campent souvent sur leurs positions respectives. - Ce qui signifie également que les savoirs savants ont autant de rôle à avoir dans l’action politique que les savoirs profanes : les connaissances empiriques des habitants d’un lieu sont des savoirs qui peuvent avoir une place essentielle dans la compréhension d’un lieu et dans son aménagement. - Les projets et les politiques publiques ne peuvent plus se concevoir comme des orientations contraignantes venues des sphères du politique sans que les divers acteurs soient consultés et associés aux décisions. On comprend pourquoi les formes de procédures contractuelles soient aujourd’hui plus enclines à correspondre à des objectifs partagés et discutés. - Même si les modèles paysagers anciens sont toujours opératoires, il est nécessaire d’inventer de nouveaux modèles qui correspondent aux formes de production de nouveaux paysages mais qui affirment la nécessité impérative de renouveler la symbolique du vivant. 101 GIORGIO MANGANI I CASI DELLA NECESSITÀ 1. Due luoghi “laureati” La relazione da me presentata nella prima sessione del Convegno sul Paesaggio Culturale di Villa Vigoni, nel gennaio 2005, era incentrata sulla spiegazione del funzionamento del paesaggio come “topica”, repertorio di significati e valori morali costitutivi dell’identità locale. La presente relazione costituisce l’esemplificazione, attraverso l’analisi di due casi particolari, del metodo e delle osservazioni teoriche da me proposte nel 2005. Su suggerimento degli organizzatori del convegno ho scelto il paesaggio del Lario e quello delle Marche come modelli. Il primo per omaggio nei confronti dell’istituzione che ci ospita e il secondo perché è materia che conosco meglio di altre. Il confronto dei due “casi” mi era apparso originariamente una sfida piuttosto difficile. Ma in fase di approfondimento ho potuto cogliere tratti comuni nella percezione del sentimento del paesaggio legati al peso e al comune ruolo svoltovi dall’attività meditativa individuale, anche se le forme nelle quali questa sensibilità si è manifestata sono state molto diverse, se non opposte, nei due territori. Per necessità di modellizzazione ho forse anche accentuato, nella trattazione, le differenze e le opposizioni tra i due sentimenti paesistici, ma era una necessità dovuta all’intento di proporre i due casi come occasione per discutere nel merito di come, secondo me, funziona il sentimento del paesaggio, cioè il “paesaggio culturale”, tema della nostra comune indagine. L’analisi compiuta ha trovato un singolare punto di contatto tra le due località del quale ho preso più completa consapevolezza solo a compimento della stesura della relazione. Entrambi i sentimenti del paesaggio trovano, infatti, nel lauro e nel suo simbolismo un passaggio strategico. Benedetto Giovio, storico locale, ricorda nella lettera XXIV che il nome del Lario potrebbe derivare dai numerosi lauri che abbondano sulle sue rive, oppure da un uccello, il Laro, una specie di nibbio, che si ciba di pesci. La mia analisi ha posto in risalto, nell’esame dei documenti, il ruolo centrale rappresentato dalle ville pliniane e dai loro simbolismi nella definizione del sentimento del paesaggio locale. Poiché l’altra villa posseduta da Plinio era stata edificata nei pressi di Ostia e di Laurento, nel podere chiamato Laurentinum, è probabile che il simbolo del lauro abbia avuto un ruolo importante, secondo l’immaginario geografico e paesaggistico di Plinio (nel senso che ho cercato di ricostruire in questo lavoro), nelle implicazioni culturali e simboliche dei due luoghi. 102 Il lauro, in quanto arbusto sempreverde, era per la cultura romana il simbolo della fama e della vita eterna che la fama garantiva, come anche il mito di Dafne esemplificava. Di alloro si copriva il capo il generale vittorioso, che portava anche un ramoscello di alloro in mano. L’arbusto divenne poi esclusivo degli imperatori romani, per poi trasformarsi nel simbolo caratteristico del martirio per i santi. Piante di alloro costituivano la struttura portante di giardini autorevoli come quelli della casa di Livia (moglie di Augusto), nell’età del principato. Quanto alle Marche, il peso esercitato da Loreto (originariamente il laureto di Recanati dove si andò a posare la santa Casa di Nazareth), dal suo santuario e dalla devozione del rosario nella diffusione e nel radicamento del senso del paesaggio è stato così forte, come ho cercato di spiegare qui e in altri miei precedenti lavori, da rendere il lauro e la rosa mariana due pietre miliari dei processi simbolici connessi al paesaggio marchigiano. Indipendentemente dall’etimo toponomastico delle due località, che restano tuttavia assai omofone (cosa che, nella logica del simbolo, le rende automaticamente anche etimologicamente imparentate), il simbolismo del lauro deve dunque aver giocato un peso significativo nel sentimento locale in entrambi i casi studiati. In entrambi i contesti geografici il simbolismo del lauro è la spia di un modo di percepire il paesaggio di cui si è forse persa consapevolezza in età moderna, ma che continua ad agire in qualche maniera sotto traccia. 2. In sintesi Il sentimento del paesaggio del Lario si presenta modellato sulla valorizzazione delle proprie specificità (a cominciare da Plinio il giovane, che ne esalta per primo la sua bellezza e ricchezza, fino a Gianfranco Miglio, nei nostri tempi, uno degli ideologi del Leghismo) secondo uno stile di pensiero vicino alla filologia umanistica nell’ambiente colto, ma in maniera non troppo diversa nel sentimento popolare, come avviene nel diffuso culto di San Lucio, il santo formaggiaio della Val Cavargna. Questa attenzione per gli aspetti caratteristici, corografici del Lario sembra conseguenza della considerazione attribuita ad alcuni aspetti “deterministici” della storia e della natura che, nel porre l’attenzione sulle cause materiali, favoriscono una sensibilità per la “personalità” del luogo, invece di deprimerla. Per contro, il sentimento del paesaggio delle Marche, dalle sue origini nei secoli XIII-XIV (i secoli della ricolonizzazione agricola e dello sviluppo dell’insediamento urbano) fino alle campagne pubblicitarie della Regione (che si riconoscono nel motto “L’Italia in una regione”), si concentra soprattutto nella celebrazione dei suoi aspetti “esemplari”, microcosmici dell’Italia, con l’effetto di deprimerne la coscienza storica e identitaria a vantaggio però di una sorta di “metafisica” del paesaggio universale. 103 In entrambi i casi ha giocato un ruolo strategico il sentimento religioso del paesaggio e del territorio. Nel Lario tuttavia sono entrati in gioco la tradizione umanistica e classica del giardino e della villa (intesi come luoghi della meditazione), introdotte pesantemente nella percezione del paesaggio dallo storico locale Paolo Giovio, nel XVI secolo, autore di una sua fortunata descrizione. Nelle Marche, invece, soprattutto dopo il secolo XVI, quando il santuario lauretano diventa un’arma devozionale contro la riforma protestante, il sentimento del paesaggio, tradizionalmente coltivato nell’ambiente monastico locale, viene come “pastorizzato”, epurato di sensibilità empiriche, trasformato in un paradigma della meditazione interiore (ciò avviene in ambiente religioso, ma in forme che persistono anche in contesti laici e persino agnostici come nella “metafisica della siepe” di Giacomo Leopardi, nella quale è l’impedimento della vista del paesaggio, causato dalla siepe, a favorire l’effetto meditativo e immaginopoietico). Potremmo definire, per gusto del paradosso, barbaro, cioè rivolto ad una tendenza individualizzante, l’atteggiamento nordico, che è, invece, dei due presi in esame, quello più intramato di valori umanistici e classici, e greco quello marchigiano, più tendente ad allontanarsi dalla dimensione locale alla ricerca di sensazioni universali. 3. Il Lario Il primo autore a celebrare le “singolarità” del Lario è C. Plinio Cecilio Secondo il giovane, in alcune delle sue lettere. I Plini sembra siano stati tra i primi romani ad apprezzare questi luoghi e ad acquistarvi delle proprietà. Nella lettera a Romano (IX, 7), Plinio dice di possedere nel Lario diverse ville, ma soprattutto fa cenno a due di esse, che chiama rispettivamente “Tragedia” e “Commedia”. “Una, alta costruita sugli scogli come a Baia, si affaccia sul lago; l’altra, costruita anch’essa secondo il modo di Baia, è sulla riva del lago. Pertanto sono solito chiamare, dice, quella “Tragedia” e questa “Commedia”; quella perché si erge quasi sui coturni, questa invece sugli zoccoli. Ciascuna ha le sue attrattive; e l’una e l’altra sono maggiormente care a chi le possiede, appunto per la loro stessa diversità” (la Copia della retorica). Questo passo è estremamente significativo dei meccanismi che si stanno attivando, nel II secolo dC, nel costruire un certo atteggiamento verso il luogo, destinato a durare nel tempo. Vi si sottolinea intanto il ruolo centrale della “varietà”: le due ville sono complementari, come i due sentimenti morali verso il “teatro del mondo” (che era un tormentone della filosofia stoica prima di diventarlo della morale cristiana), il tragico e il comico, ed è la loro integrazione che dà alla percezione del paesaggio il carattere della varietà. Poi c’è il carattere topico della vita in villa, come esso si è ormai codificato in questo periodo nella cultura romana. Nella contrapposizione otium/negotioum che aveva caratterizzato l’età repubblicana, 104 che codificava le funzioni della domus romana contrapposta alla villa suburbana (dove si sceneggiava il rapporto tra l’impegno politico della città e il disimpegno della residenza di campagna), il ruolo centrale era stato fino a quel momento affidato alla domus. Ma in età imperiale è la vita in villa ad assumere una nuova centralità. L’attività meditativa, tradizionalmente praticata in villa, è infatti quel che resta alla classe dirigente romana di rango senatorio nell’età del potere assoluto. La villa, anzi, sta diventando la metafora dell’impero. Roma è la domus e l’intera penisola è il suo giardino, sicché tutto il paese, se non l’impero, vengono immaginati come una sorta di villa, come succede nella villa adriana di Tivoli, microcosmo nel quale ogni padiglione rappresenta e sta per una diversa regione dell’impero. La vita di Plinio nella villa lariana è dunque dedita all’attività meditativa (contrapposta al negotium politico) perché il paesaggio, come il giardino, svolge la funzione di aiuto per la memorizzazione delle informazioni (fiori, piante e animali, i topiai, sono simboli, figure del repertorio culturale memorizzato e recuperato alla coscienza attraverso l’osservazione): una topica. Figura retorica della topica sono infatti la caccia e la pesca, cioè la procedura usata per rintracciare sui repertori (libri o giardini della memoria), attraverso i simboli mnemonici cui sono stati associati, i passi della letteratura, della mitologia e della tradizione che si vogliono recuperare. E infatti Plinio sottolinea delle sue ville lariane la facilità di pesca. “Dalla villa chiamata ‘Commedia’ puoi pescare tu stesso e gettare l’amo dalla tua camera e quasi dal letto (il letto e il cubiculum erano i luoghi della meditazione e della ruminatio mnemonica: dove, quindi, si esercitava la pesca retorica), come se fossi in barca”. L’attività meditativa è facilitata dalla ricchezza dei pesci e dalla posizione della villa sulla riva. Ma la distinzione tragedia/commedia, apparentemente motivata dalla diversa quota dei due edifici è in realtà una metafora delle due forme diverse di sentimento del paesaggio che si traduce in percezione morale del mondo. In entrambi i casi è la posizione dell’osservatore a determinare il sentimento: lo sguardo tragico, tradizionalmente rappresentato, nel mondo rinascimentale, dal pianto (verso la condizione del mondo) di Eraclito, è uno sguardo dall’alto che censura la miseria umana; quello della commedia, rappresentato dal riso di Democrito, ci riporta in mezzo al mondo per censurare in altro modo la vita umana. In entrambi i casi, la tragedia e la commedia rappresentano le condizioni della vita umana come maschera che recita la sua parte nel gran teatro del mondo. Il paesaggio lariano, con il suo repertorio di fauna acquatica e di flora lacustre, si presenta dunque agli occhi di Plinio come luogo della topica, come una sorta di enciclopedia ad uso della meditazione in villa. Anche il caso della cosidetta “fonte pliniana”, che getta acqua in maniera intermittente (Ep. IV, 30) viene percepito come un modello del funzionamento degli oceani (“O anche questa fonte ha lo stesso modo di comportarsi dell’oceano, e per la stessa ragione per cui esso si avanza e si ritira, anche questo modesto corso d’acqua alternativamente si contrae e si ingrossa?”). 105 Con Plinio il Lario è già un modello retorico. Ma è con Paolo Giovio che esso assume in età moderna, nel XVI secolo, i caratteri di un luogo “singolare” e “memorabile”. Il rapporto con la prima celebrazione del genius loci è garantito dall’imitazione umanistica che caratterizza il pensiero di Giovio; anzi dei due Giovio, Paolo e suo fratello maggiore Benedetto, antiquario, archeologo e studioso del Lario, uomo di memoria prodigiosa, che offre l’occasione per contrapporre retoricamente, e secondo l’abitudine umanistica, i due fratelli comaschi ai due Plinii (il vecchio e il giovane), come se avvenisse l’ideale trasmissione di un testimone della tradizione dagli uni agli altri. Benedetto Giovio (1471-1545), più anziano di Paolo, fu cultore di storia e di archeologia, con particolare interesse per la storia del Comasco. Sue una Historia patria rimasta inedita sino al 1629, De templis et coenobiis civitatis et agri comensis, De prisco urbis situ et publicis aedificiis. Anche se la descrizione del Lario è tradizionalmente materia riservata al più noto fratello, autore della Chorographia Larii, Benedetto non fu meno impegnato di Paolo nel percepire e tramandare il senso del luogo. Lo fece anche in una serie di Carmina (oggi alla Braidense di Milano, AE XI 27) tra i quali alcuni dedicati alle fonti del Comasco, composti nel 1529, secondo la tradizione umanistica e petrarchesca, e la serie In tres deos monticulas (1532), per i santi protettori delle montagne lariane, tra i quali quello dedicato a San Lucio. Paolo Giovio (1486-1552) aveva invece studiato medicina a Pavia e a Padova, ma dopo aver esercitato per poco tempo l’arte medica a Como, si era dedicato alla storia, abbracciando la carriera ecclesiastica, trasferendosi a Roma alla corte papale, diventando (nel 1528) vescovo di Nocera de’ Pagani, ed entrando poi al servizio del cardinale Alessandro Farnese. La sua opera principale sono le Historiae, dedicate prevalentemente alla narrazione dei suoi anni e alla celebrazione dei suoi protettori, ma è noto anche per importanti studi sulle imprese (Dialogo dell’imprese militari e amorose, edito postumo a Roma nel 1555), allora di gran moda, e per i suoi Elogia (Venezia 1546 e Firenze 1551), versione a stampa dei ritratti dei personaggi illustri di tutti i tempi che egli aveva materialmente raccolto nel Museo, allestito proprio nella sua villa di Como. Nel suo ritiro comasco, Paolo si sentiva e si identificava, infatti, con Cicerone a Tusculum, con Aulo Gellio nella villa di Erode Attico, con Plinio al Laurentinum, ma anche con Landino a Camaldoli o Poliziano nella villa medicea di Fiesole. Nel suo periodo romano (1513-21), con lo stesso animo, aveva celebrato e frequentato la casa dello jesino segretario papale Angelo Colocci, i giardini del quale, presso la chiesa di Santa Susanna, erano stati allora identificati con quelli di Sallustio (gli umanistici “Horti sallustiani”). Il giardino era, come nella tradizione monastica e petrarchesca, il luogo della cultura: una biblioteca. 106 I Giovio (originariamente Zobio), originari dell’isola comacina, vantavano testimonianze di un loro ruolo autorevole nella classe dirigente locale sin dal secolo XII, dopo, cioè, lo smantellamento del castello, avvenuto nel 1169. La famiglia sembra collegata al patronato dell’insediamento monastico che prese luogo nell’isola nel secolo XIII come Hospitalis de insula, poi dedicato a S. Maria Maddalena (il rapporto è confermato dallo stesso Paolo Giovio nel Larius (1537) quando scrive di “Balbiano, sobborgo dell’isola, dove la mia famiglia possiede ricordi dei suoi antenati, cioè un podere e fabbricati di singolare munificenza anche se ormai in rovina”. Nel 1596 i Giovio vendettero la loro proprietà al cardinale Tolomeo Gallio che vi farà erigere l’attuale palazzo Balbiano). L’isola, posta al cuore del lago e luogo di origine della famiglia, è dunque il tramite per il quale la figura di Paolo Giovio si identifica come genius loci del Lario. L’isola compare infatti nello stemma di famiglia. “Ancor oggi, scrive Paolo Giovio nella sua descrizione del Lario, inoltre, sullo stemma gentilizio portiamo, a ricordo della nostra origine, il castello dell’isola circondato tutt’intorno dal lago; con l’aggiunta dell’aquila romana concessaci a titolo d’onore da Federico Barbarossa, come da poco tempo abbiamo aggiunte le colonne d’Ercole concesseci dall’imperatore Carlo V come segno della sua generosa approvazione per i miei lavori letterari”. Lo stemma è stato ritrovato recentemente rappresentato su di un arazzo oggi al Victoria and Albert Museum di Londra con un prato fiorito, definito tradizionalmente “millefiori”, appartenuto agli ultimi eredi della famiglia e ancora esposto nel palazzo di Como prima del 1894 insieme ad altri arazzi che sceneggiano il motto di famiglia coniato da Giovio: “Fato prudentia minor”. Il significato del motto e dello stemma, cui era aggiunta a volte la parola greca ANAGKE (necessità) sono strategici per la comprensione del sentimento del paesaggio del Lario coniato e diffuso dai due Giovio nelle loro opere e replicato dalla letteratura e trattatistica locale successive fino ai nostri giorni. Il motto voleva infatti significare, ricodificando in senso contrario un precedente motto di Virgilio (Georgiche, I, 1415-1416) Fato prudentia maior, e quindi con forte determinazione, che la prudentia (cioè la virtù umana come se la poteva rappresentare un esponente di spicco del rinascimento italiano) non riesce a competere con il fato (che Giovio intendeva in senso classico, anche se dichiarava in maniera un poco conformista di considerarlo la divina provvedienza cristiana). L’uomo, per quanto virtuoso, è sempre in un equilibrio instabile, in balìa degli eventi voluti e amministrati dal fato. Concetto ribadito da Anagke, che non era altro se non la morale cui rimandava Plinio quando richiamava il rapporto simbolico tra la tragedia e la commedia rappresentato dalle sue ville lariane: l’uomo, cioè, attore tragico o comico sulla scena della vita, costretto a recitare il copione voluto dal fato, oggetto del pianto di Eraclito e del riso di Democrito. 107 Il tema della necessità tornava come un tormentone esistenziale anche in una impresa di Giovio ispirata alla leggenda che i castori, i testicoli dei quali erano noti per le loro proprietà medicinali, conoscendo il motivo per il quale venivano cacciati, si recidevano i testicoli a morsi lasciandoli come preda ai loro persecutori per garantirsi la fuga. L’impresa, forse motivata da un grande amore troncato forzatamente nel periodo padovano, era sovrastata anch’essa dalla parola anagke. Per comprendere in che modo questa sensibilità sia all’origine del sentimento del paesaggio di Giovio dobbiamo considerare alcuni fattori della sua biografia intellettuale. Innanzitutto Giovio aveva studiato medicina a Padova e la scienza medica del tempo era profondamente imparentata (specie a Padova) con la scienza astrologica. Esisteva una specifica branca, la medicina astrologica, che curava organi e malanni in relazione alla loro condizione di “corrispondenti” nel corpo umano (inteso come un microcosmo) dei corpi celesti studiati dall’astrologia e delle loro “proprietà”. Giovio era stato inoltre allievo di Pomponazzi, grande teorico del determinismo astrologico. Nell’identificare nello stemma famigliare l’isola comacina, come centro e origine del casato in stretta connessione con il motto e i suoi significati, Giovio riprendeva e applicava, dunque, con metodo e precisione, la tradizione della geografia astrologica tolemaica. Tolomeo aveva descritto nella Tetrabiblos come non solo gli individui, ma anche le regioni geografiche e le popolazioni che le abitavano, avevano “impresse” nel loro dna (in relazione alla posizione geografico/astrologica da essi occupata, in somiglianza con quello che accadeva nella medicina astrologica) le caratteristiche dei loro modi di vivere e della loro storia. Le stelle condizionavano usi, costumi e storia dei popoli a seconda della loro posizione geografica (Jean Bodin, qualche anno dopo, alla ricerca di una scienza della politica, e applicandovi lo stesso principio, estenderà l’influenza delle stelle anche alle “costituzioni” delle nazioni). Le singolarità dei luoghi erano dunque qualcosa di più di semplici curiosità, erano espressione e sintomo di leggi deterministiche della natura, regolate da dio, che diversificavano a sua volontà le regioni del mondo. Le diversità erano un segno della provvidenza. Nel complesso simbolico di gusto medievale degli arazzi “millefiori” che ospitavano lo stemma di famiglia, il giardino fiorito e popolato di animali (in genere usato nell’iconografia della devozione mariana come “prato simbolico e mistico” e luogo della meditazione e della preghiera) non era dunque altro che un “paesaggio-mondo” nel quale compariva in posizione centrale il Lario e l’isola comacina con il suo castello per rappresentare la propria personalità geografica identificandosi con la famiglia Giovio. Il “luogo” era una premessa deterministica del successo e dell’immortale fama concessa alla propria patria dal letterato e storico rinascimentale grazie alle trattazioni delle sue Historiae e dei suoi Elogia. La fama era un requisito provvidenziale dei Giovio che traeva origine e linfa dalla loro origine comasca (ma che vi si riverberava con positivi effetti). 108 Il concetto veniva ribadito in una medaglia coniata negli ultimi anni di vita di Giovio, incisa da Francesco da S. Gallo, nella quale egli veniva rappresentato come medico mentre teneva con una mano il grande In folio delle sue Historiae e con l’altra avvicinava al libro un uomo nudo disteso sul pavimento. La frase in calce spiegava, come d’uso, il concetto della figura: Nunc denique vives, ora finalmente vivrai. L’attività storica di Giovio, ben più di quella di medico, era in grado di garantire la vita eterna attraverso la fama prodotta dalle sue opere, assai più importante di un effimero ristabilimento fisico reso possibile dall’arte medica. La filosofia morale (e l’assimilabile idea del paesaggio lariano) di Giovio, così incentrate sui fattori deterministici dell’astrologia, cercarono tuttavia di aprire uno spiraglio alla speranza, di dare un qualche senso a quel “minor” della sua divisa che pure riservava uno spazio di manovra, anche se marginale, alla prudentia (che, nella cultura rinascimentale, significava proprio la capacità di scegliere le azioni da adottare nel comportamento sulla scorta delle esperienze umane e storiche precedenti, in questo senso la storia era magistra vitae). A questo scopo fu dedicata pertanto l’altra sua ragione di vita, la collezione di ritratti di personaggi illustri. Anche questo non era senza significato. Gli effetti del fato potevano essere cioè compensati dall’exemplum. La prudenza aveva un’efficacia minore del fato, ma poteva comunque ingaggiare una battaglia con le stelle avvalendosi dell’aiuto degli esempi morali rappresentati dalla vita dei grandi personaggi. La storia tornava a rappresentare, anche negli Elogia e nel collezionismo di Giovio, la funzione di repertorio di esempi da imitare e da rievocare alla memoria. La stessa funzione attribuita da Giovio e da Plinio ai loro giardini e al paesaggio del Lario. E infatti la collezione dei ritratti fu allestita da Giovio proprio nella villa sul lago (Giovio cercò di acquistare, senza riuscirvi, anche la fonte pliniana, e si dovette accontentare di organizzare nei suoi pressi dei piacevoli pic nic cortigiani per i più autorevoli ospiti). Con l’aiuto di questi esempi, percepiti come nella tradizione cristiana dei santi, il rinascimentale Paolo Giovio intendeva dunque offrire ai visitatori del Lario (e ai lettori dei suoi Elogia, repertorio portatile dei ritratti raccolti nella villa) un supporto morale (cioè suscettibile di “imitazione” umanistica) alle scelte imposte dal caso e dal fato nella vita di ciascuno. Già ai tempi della redazione del Larius il progetto del Museo era iniziato e sarà terminato nel 1543. “A sinistra, per chi salpi dal Borgo Vico, scrive Giovio intorno al 1537, c’era una volta l’ombrosissimo platano di Plinio, immortalato nelle sue lettere; e là, in memoria di lui ed in onore delle Muse e di Apollo, sto edificando il mio Museo che godrà di una magnifica vista”. Ma è il fratello Benedetto a descriverlo meglio e nel dettaglio nella sua lettera allo stesso Paolo che ne tratta secondo i canoni tardo medievali e umanistici dell’Ubi sunt? (cioè il ritornello utilizzato per rappresentare letterariamente le rovine di Roma: “dove sono ora i grandi edifici del potente popolo di Roma? Dove gli eserciti che conquistarono il mondo?” ecc. Tipico luogo comune delle descrizioni geografiche, caratterizzavano la trattazione delle prime guide di Roma, i Mirabilia Urbis Romae). 109 Gli edifici, come gli uomini, sono mortali, scrive Benedetto Giovio, per cui bisogna soccorrere, per garantire l’immortalità, con la letteratura. La descrizione del Museo – come poi avvenne davvero – è dunque più capace di garantire, grazie alla fama che gli assicura, il ricordo tributato dai posteri alla grande collezione. Il Museo di Paolo Giovio [scrive Benedetto] è situato non lontano dalla città di Como, nel sobborgo sulla sinistra della città. […] Dopo la porta che dà adito alla costruzione, c’è un atrio e poi un lungo portico sostenuto da colonne di pietra. Dal portico si entra in una grande sala che guarda a oriente: è quella propriamente chiamata “Museo” perché un famoso pittore vi ha dipinto le nove Muse e Apollo, recanti gli strumenti musicali e le altre insegne che gli antichi poeti loro attribuivano. Nel salone c’è una porta che mette su una terrazza prospiciente il lago, circondata da cancellate di ferro, perché vi si possa stare con sicurezza ed ammirare il lago o a gettar l’amo per pescare. […] Dal cortile si può passare in un altro porticato, anch’esso sostenuto da colonne e tutto coperto di dipinti: sono specialmente ritratti di poeti contemporanei, che si vedon salire il Parnaso diretti alla fonte Ippocrene. […] In mezzo al portico zampilla una fontana – la cui acqua proviene, incanalata, da una sorgente del vicino colle – costituita da una statua di marmo che emette acqua dai seni. […] Vi è anche, vicino al salone che si chiama propriamente “Museo”, una stanzetta destinata allo studio e allo scrivere e riservata ai ritratti o ai busti di tutti gli studiosi nativi di Como. La celebre collezione gioviana, poi ampiamente imitata nel mondo rinascimentale, era solo la parte più originale, dunque, di una collezione più ampia dedicata alla celebrazione delle Muse (come era stato il Museion di Alessandria, che era in sostanza una biblioteca), strutturata in “stanze della memoria” (parti di un complessivo palazzo della memoria costituito dalla villa, nel quale va sottolineata l’attenzione per i personaggi nativi di Como come ulteriore segno del genius loci) secondo i precetti della scienza mnemonica antica. La villa era, come era di moda al tempo di Giovio, un vero e proprio “teatro del mondo” nel quale era costume raccogliere, dietro o sotto i busti dei personaggi, copia delle loro opere più celebri). Per molti anni lo storico comasco investì gran parte delle proprie risorse per raccogliere e commissionare copie dei ritratti degli uomini celebri della storia e del suo tempo. Caratteristica dei ritratti doveva però essere il loro realismo, la loro rassomiglianza all’originale e al volto. Seguace di Pomponazzi, Giovio non poteva infatti non seguire e condividere le teorie fisiognomiche che venivano codificate in quegli anni dal napoletano Giambattista della Porta. Il volto portava impressi i segni della vita riservata a ciascuno dal fato. Come avveniva per i luoghi geografici, i loro segni distintivi, i loro “caratteri” erano il modo per rintracciare, come su una carta geografica o un paranatellonta (trascrizione su carta della posizione degli astri alla nascita compilata dagli astrologi) i fattori condizionanti della vita (come si vede, anche la collezione degli esempi morali era, a sua volta, il risultato di un compromesso tra il fato e la prudenza). La geografia era la fisiognomica dei luoghi; la fisiognomica la mappatura dei caratteri antropologici. C’era una specie di “quantificazione del qualitativo”. L’attenzione per gli aspetti deterministici, cioè, della vita e della natura, favoriva un’attenzione nuova per i “caratteri” dei volti, come dei luoghi, per le loro singolarità, trasformando l’osservazione empirica fondata sugli exempla della tradizione retorica (cioè una 110 topica di associazioni figurali del tutto soggettiva) in un metodo razionale che valorizzava il dato empirico e preludeva allo sviluppo della scienza galileiana. Fu per questo motivo, grazie a questa sensibilità “semiotica”, che Giovio potè esercitarsi in una delle più significative e dettagliate descrizioni del Lario. La descrizione fu redatta da Paolo Giovio come omaggio retorico-cortigiano al senatore Francesco Sfrondati che aveva ricevuto nel 1537, in cambio di un’ambasceria presso Francesco I di Francia per conto di Carlo V, i diritti feudali di conte della parte orientale del Lario. Il testo, presentato come resoconto di un vero viaggio lungo il lago redatto in pochi giorni, raccolse probabilmente lettere e documenti di tempi diversi restando nella biblioteca di casa Sfrondati fino a quando Dionisio Semenzaio ne fece lettura presso di loro e lo fece stampare, nel 1559, dallo Ziletti di Venezia con il titolo Descriptio Larii Lacus. Il testo è la fonte del capitolo sul lago apparso sull’atlante Theatrum orbis terrraum (Anversa, dall’edizione 1606) di Abramo Ortelio che garantì alla descrizione gioviana prestigio e fama internazionali. Come ha scritto Ernst Gombrich 96, il testo di Giovio sul Lario è una delle prime testimonianze moderne di sensibilità estetica per la natura, ma soprattutto della capacità di cogliere i caratteri specifici del luogo. Giovio non fa, tuttavia, che applicare alla descrizione del lago l’impianto retorico dei suoi Elogia, la raccolta di biografie esemplari, sul modello di Plutarco, che faceva da corrispettivo letterario della sua collezione di ritratti. Egli, cioè, rintraccia alcuni “caratteri”. Giovio era infatti interessato alla geografia e alla corografia (oltre che sul Lario, scrisse una Descriptio Britanniae ed una dell’Etiopia, intrattenendo rapporti di grande stima con Gorge Lily, amico e collaboratore del cartografo e geografo dei Paesi Bassi, Abramo Ortelio, che aveva utilizzato come fonte). Ma anche i suoi cataloghi come il De romanis piscibus, 1524, facevano parte di una attenzione elogiativa per i luoghi, percepiti sempre come loci retorici, secondo la tradizione umanistica e petrarchesca. Redigere un catalogo, fondato necessariamente su un codice descrittivo, significava infatti adottare la retorica dell’elogio. Il descrivere, in quanto procedura che “faceva vedere” le cose, implicava procedure persuasive e pubblicitarie del tutto note agli autori e al pubblico del tempo. Per questo motivo Giovio fu tra i primi estimatori dei paesaggi simbolici (parerga) dei dipinti di Dosso Dossi, considerati normalmente, ai suoi tempi, un genere minore. Nella biografia, nella fisiognomica e nella corografia quel che si doveva fare infatti era rintracciare nel continuum dei segni, quelli che avevano un significato, quelli caratteristici. La stessa cosa era successa nella compilazione dei ritratti che astrologi di fama come Gerolamo Cardano redigevano a conclusione dei loro calcoli appuntati tachigraficamente sui paranatellonta. Le prime trattazioni biografiche, nel secolo XVI, furono infatti adattamenti di profili astrologici come quelli redatti da Gaurico e da Cardano. Nel 96 E. GOMBRICH, Norma e forma. Studi sull’arte nel Rinascimento, Mondadori Electa, Milano, 2003, p. 113 ss. 111 XVII secolo un altro grande medico inglese, Gabriel Harvey, considerava gli Elogia di Paolo Giovio come degli oroscopi. Come si vede la geografia astrologica, la fisiognomica e la trattazione degli exempla morali e storici si confondevano in un comune registro compositivo. Si trattava comunque di elogia, e infatti vennero generalmente confusi come generi apparentati. Apparteneva all’elogio anche il genere corografico: le prime descrizioni di città erano state infatti degli elogi (come il Panatenaico di Elio Aristide o l’Elogio di Firenze di Bruni), ed erano percepite come elogi figurati anche le prime vedute di città apparse a stampa nelle botteghe di Roma e di Venezia ai primi del Cinquecento, con grande successo di mercato. A chiarire il contesto di “genere” della trattazione di Giovio (cioè la tendenza a considerare il Lario non solo un luogo geografico ma anche, e prevalentemente, un locus retorico) la descrizione del lago riprendeva gli argomenti di Plinio. Si cercava, per esempio, di rintracciare la “Commedia” nella villa di un tale Sigismondo, sottolineando che era dotata di una ricca fonte dalla quale “si può pescare dalle finestre con l’amo e la canna” (dove è evidente il ritornello dell’associazione retorica e simbolica villa/pesca insistito, nella trattazione, fino alla noia). E anche la “Tragedia” veniva rintracciata nel luogo in cui era stato poi costruito il castello fatto abbattere da Gian Galeazzo Visconti quaranta anni prima della stesura del testo. Le osservazioni di Benedetto e Paolo Giovio sul Lario, recuperando i fondamenti della tradizione classica e presentandosi come esercizio retorico umanistico rinascimentale capace di “sceneggiare” diverse istanze della cultura del tempo (dalla sensibilità per l’astrologia e per gli emblemi alla caratterizzazione dei luoghi in senso cartografico; e infatti ne fu tratta nel Larius una mappa a corredo) divennero ben presto la nuova “topica” della regione lacustre, il repertorio di informazioni, narrazioni e argomenti cui attingere per ulteriori descrizioni come quelle di Francesco Cigalini (De nobilitate patriae, 1554 ca), di Tommaso Porcacchi (La nobiltà della Città di Como, 1568, definita la prima guida turistica del Lario), di Luigi Rusca (Il Lario, rime, 1626), fino alla monumentale antologia critica di Gianfranco Miglio (Larius, 1959). Così le osservazioni e tipizzazioni di Giovio divennero un modo per orientare lo sguardo e la percezione futura del Lario, per creare, cioè, un “paesaggio culturale”. 3.1. La devozione di San Lucio Quel che si nota a osservare oggi le ingenue e azzardate interpretazioni corografiche del grande storico rinascimentale comasco (azzardate anche per il suo tempo, visto che le sue teorie storiografiche e morali gli provocarono accuse di scarsa ortodossia; cosa poco commendevole per un vescovo quale era) è il loro tentativo di imbastire, entro un paradigma prevalentemente etico, un’interpretazione “scientifica” e morale assieme del comportamento umano e del genius loci locale (capaci di favorire 112 l’attenzione per i caratteri originali del luogo) che trova una sponda nel diffuso sentimento religioso popolare lariano legato alla cosidetta “Confessio Rhetica”, cioè il modo specifico nel quale le istanze della devotio moderna e della riforma furono percepite e vissute da queste parti. Come è noto, uno degli argomenti di contrasto tra cattolici e riformati fu proprio la teoria della predestinazione della salvezza (solfidianismo, sola fide salus) e il dibattito sul “libero arbitrio” che riprendeva i temi cari all’emblema di Giovio. Qualche traccia di eresia può aver sfiorato il pensiero del letterato comasco, che tuttavia pare piuttosto attratto dalla tradizione ermetica che dalla Riforma, ma certamente fu Benedetto a essere in frequente contatto con autorevoli pensatori vicini alla cultura riformata, come Erasmo e Melantone. Ma tutto l’ambiente comasco, valtellinese e svizzero nei dintorni del lago sembra avere accarezzato un sentimento particolare della sensibilità religiosa incentrato sul ruolo centrale della carità come fattore determinante della salvezza spirituale. Questa sensibilità per la carità fu sceneggiata in forme che toccano profondamente il sentimento del paesaggio e dei luoghi. Nel 1576 per esempio, una nobile famiglia di Teglio, in Valtellina, i Besta, imparentati con i Giovio, avevano fatto affrescare una sala da pranzo del loro palazzo con un mappamondo a forma di cuore, derivato da quello stampato dall’editore riformato Karl Vopel nel 1545 a Colonia, in occasione del matrimonio di Carlo I Besta (cattolico) con Anna Travers (calvinista). Il mappamondo cordiforme era diventato in quegli anni una specie di icona eretica (Mercatore, che ne aveva stampato uno nel 1538, aveva passato guai seri rischiando la pena capitale) per via del significato che il cuore aveva assunto nell’iconografia popolare delle sette: la carità. Il tema della carità era infatti centrale in tutte le sensibilità delle sette riformate. Esso rappresentava in sostanza il rapporto intimo, avversato dalla Chiesa romana, che le nuove confessioni religiose predicavano di stabilire con dio. Il cuore, toccato da dio, diventava caritatevole, viceversa la carità era il sentimento che creava le condizioni ideali per venire illuminati e quindi salvati, sia pure per imprescrutabile scelta divina. Questo argomento era diventato centrale, a metà del XVI secolo, nei movimenti eretici della Valtellina e dei Grigioni, componenti la cosidetta “Confessio Rhetica”, una chiesa che intendeva rivendicare la propria autonomia da Roma, ma anche dalla Diocesi di Milano. A introdurre il ruolo centrale della carità nella vicina Valtellina, dal 1542 ca, era stato l’eretico Camillo Renato. Per lui al centro della fede era l’interiorizzazione del messaggio di Cristo che avveniva attraverso l’atto mistico della mensa del Signore. Questo atto consisteva nella manducatio, cioè nel ricordo della cena di Cristo, che nella tradizione monastica medievale consisteva nella ruminatio, cioè il richiamo mentale delle informazioni memorizzate attraverso l’aiuto di figure e simboli. Poiché il cuore era considerato l’organo della memoria (in quanto essa si radicava soprattutto grazie a immagini emotive capaci di colpire l’immaginazione), si capisce come potesse essere considerato efficace e simbolico 113 rappresentare in una sala da pranzo il mondo a forma di cuore. Attraverso il ricordo/ruminatio della cena del Signore (solo ricordo, senza implicazioni ortodosse come la presenza transustanziale di Cristo) il corpo mistico veniva immagazzinato, incorporato e impresso (come una forma sulla cera, si diceva) nel cuore. Il Cor/Pus di Cristo diventava cuore (cor), cioè memoria e, di lì, seme che germogliava macerandosi (pus), creando le condizioni per generare un uomo totalmente nuovo. La funzione della carità nella trasformazione interiore dell’uomo era argomento centrale anche in opere devozionali di sensibilità riformata come il Beneficio di Cristo (Venezia 1543), molto diffuse anche nell’ambiente popolare valtellinese e comasco. E’ significativo che nel nord Europa si fosse arrivati a concepire la carità come una figura cartografica del mondo. Nell’ambiente dotto degli umanisti del nord questo significava che il mondo, come il cuore umano, era il luogo in cui doveva avvenire la scelta morale, la lotta tra il bene e il male, dove la virtù umana (e rinascimentale) doveva liberarsi dalle catene del demonio. Qualcosa di molto simile a quello che pensavano i due Giovio progettando la loro collezione di ritratti a scopo morale sulle rive del lago, percepito come il luogo della meditazione e quindi della memoria. Ma anche al livello popolare le cose non stavano diversamente. L’antica tradizione di ospitalità di viaggiatori e pellegrini che si era radicata lungo i valichi alpini aveva già codificato in San Lucio uno dei suoi exempla morali più diffusi, del tutto analogo a quelli paludati di Paolo Giovio. L’oratorio di San Lucio di Cavargna, in quota 1542 m slm, sorge, infatti, ancora oggi, in prossimità del passo omonimo e rappresenta, oltre al culto del santo (che ha qui probabilmente la sua tomba), un luogo di passaggio e di ospitalità per i viaggiatori. Il culto di San Lucio (Luguzzone, Uguzo, Uguccione) si configura, infatti, come una celebrazione dell’ospitalità gratuita e sacra delle valli alpine e dell’alpeggio, nella probabile crisi che essa incontra al passaggio verso una società in cui le antiche consuetudini feudali impattano nuovi diritti di proprietà borghesi. Il santo, umile operaio formaggiaio, viene infatti cacciato dal proprio padrone perché solito regalare ai poveri pezzi del formaggio prodotto. Passato alle dipendenze di un altro padrone, più liberale, Lucio è all’origine di una miracolosa abbondanza e viene ucciso per vendetta e invidia dal vecchio padrone. L’immagine classica di Lucio è con la forma di formaggio rotonda in mano e con il coltello che serve a tagliare il pezzo della forma destinato alla carità. L’atto caritativo diventa qui la celebrazione dei diritti consuetudinari di montagna e della necessità del mutuo soccorso. Ma la devozione popolare prima e poi, dalla fine del xvi secolo, l’autorità ecclesiastica (quando, con Carlo e Federico Borromeo, si cerca di rilanciare, in chiave controriformista, la devozione popolare prima snobbata) trasformano la devozione di San Lucio nella apoteosi della carità che cerca di ritessere le trame della devozione lombarda verso l’ortodossia in una regione come questa pericolosamente attraversata da diffuse sensibilità riformate. 114 Una mappa della regione che rappresenta il territorio del Lago di Lugano e della Val Cavargna registra infatti come avvenuta, nel xviii secolo, questa celebrazione del santo formaggiaio come nume tutelare dell’area, cooptato nel pantheon della Diocesi milanese, a fianco delle sue autorità religiose, il culto del quale riceve il pellegrinaggio di San Carlo Borromeo all’Oratorio di Cavargna nel 1582 e quello di Federico nel 1606. La carità rientrava in questo modo nell’alveo della comunità di fede romana. Se tuttavia andiamo al nucleo costitutivo del culto di San Lucio e del formaggio vi registriamo invece diversi segmenti di quel sentimento del paesaggio venato di determinismo riformato diffuso negli strati popolari di queste parti. In un famoso libro, Carlo Ginzburg ha ricostruito, per esempio, come un mugnaio friulano condannato per eresia avesse concepito l’origine del mondo, invece che per creazione divina, come evoluzione materiale dalla “materia grossa” originaria, in maniera non troppo dissimile a quello che succede nella trasformazione del latte in caglio dal quale si ricava il formaggio. Anche se si trattava di una lettura piuttosto originale di testi popolari come Il fioretto della bibbia, l’interpretazione di Menocchio, così si chiamava, sembra tradire una tendenza creativa e popolare a vedere nel formaggio una dimensione simbolica, ma anche contemporaneamente materialistica, oggi difficile da comprendere. Nel suo ragionamento il mugnaio friulano, come ha osservato Ginzburg, aveva dimostrato infatti una capacità protoscientifica di trovare spiegazioni plausibili ed empiriche alla genesi del mondo a partire dalle informazioni a lui disponibili. Oltre a offrire un modello cosmogonico popolare, nel culto di San Lucio il formaggio diventava anche uno strumento della carità e sottolineava il carattere provvidenziale della “varietà” e abbondanza della natura che in quegli stessi anni un altro eretico che aveva avuto rapporti con Camillo Renato e aveva frequentato la Valtellina e il palazzo Besta di Teglio, Ortensio Lando, andava predicando nel suo Commentario delle più notabili e mostruose cose d’Italia, 1548 (dove per mostruose si devono intendere le singolarità dei luoghi in senso positivo). Il tema della “diversità”, delle “singolarità”, come si vede, era imparentato con una sensibilità, diffusa nella regione, sia al livello colto che popolare, di tipo deterministico. Se le classi dirigenti potevano registrare nel mappamondo cordiforme le coordinate per orientarsi nelle loro scelte morali è ben possibile che le classi popolari vedessero nel formaggio qualche cosa di più articolato e complesso di un genere alimentare, capace di dare al suo dispensatore la capacità di garantire la prosperità, l’ospitalità, la cura dei mali della vista (forse per deriva linguistica da Lucio/Lux, ma certo anche l’illuminazione del cuore caritativo aveva il suo peso). Il rapporto con il caglio spiega anche, forse, per quale motivo il culto di San Lucio e quello di San Rocco, da queste parti, si siano a un certo punto sovrapposti e identificati (anche nella data della festività, il 12 luglio). In entrambi i casi la carità era evidentemente centrale, ma le pustole e la cura della 115 peste, caratteristiche di San Rocco, sembrano ben conciliabili con la confidenza del santo formaggiaio con gli agenti mutageni della materia, i batteri alla genesi del caglio del latte. Il sentimento del paesaggio del Lario, dunque, per tracciare un primo, sommario bilancio, sembra incardinato su alcuni argomenti che ci sembrano invariati nel tempo: - la ricchezza e varietà della natura (l’acqua, il pesce, i frutti dell’alpeggio), analizzate con un forte senso del determinismo, percepite come tratti “caratteristici” di una personalità locale che trova un corrispettivo nel carattere degli abitanti; - l’ospitalità e la carità, come espressione dei valori di una “comunità” di montagna che si confronta socialmente con la natura. Entrambi questi sentimenti hanno tuttavia, nella cultura alta come in quella bassa, la consapevolezza delle limitazioni imposte dalle leggi naturali, cui si può sopperire con la virtù, la coscienza sociale, la genialità, ma senza eccessi di fiducia, facendo sempre attenzione alle limitazioni imposte alle scelte possibili. Fato prudentia minor. La consapevolezza degli aspetti deterministici dell’esistenza e della natura è tuttavia, a sua volta, capace di valorizzare un forte sentimento identitario locale che registra soprattutto nella tradizione storica i suoi caratteri originali. In età moderna e sotto il peso di ideologie di più ampia portata ed efficacia rispetto alle tradizioni locali, il peso del modello gioviano della villa-teatro del mondo evolverà verso il sistema delle ville del lago e dei loro giardini. Il modello caritativo, ma protomaterialistico, del santo formaggiaio si muoverà verso una cultura diffusa rivolta allo sfruttamento della natura fondato sulla tecnologia, ma anche ispirato a valori filantropici e di progresso sociale, quali quelli testimoniati dai fondatori di Villa Vigoni. Per un effetto evolutivo i fattori deterministici enfatizzati dalla tradizione classica e riformata si sono nel tempo trasformati in ciò che poteva apparire originariamente impossibile: la fiducia in se stessi e per il progresso. 4. Le Marche Differentemente dal Lario, ove il sentimento del luogo viene codificato sulla base di modelli retorici classici con caratteri specifici dal XVI secolo, nelle Marche, regione tradizionalmente agricola e intensamente coltivata sin dall’età romana, prevedibilmente disseminata di culti legati alla fertilità (come quelli della dea Cupra che si sviluppano nella tarda antichità), il sentimento del paesaggio deve essersi formato e diffuso abbastanza presto. 116 Fu tuttavia proprio nella fase in cui la selva aveva riconquistato gran parte del territorio coltivato, nei secoli V-X dC, che si deve essere diffuso un sentimento del paesaggio nuovo, ispirato dalle tecniche meditative monastiche. Il modello monastico di tipo orientale trovò nelle Marche probabilmente un terreno fertile, vista la tradizione culturale bizantina delle città adriatiche e i contatti marittimi e commerciali mai interrottisi. Questa sensibilità monastica per la vita eremitica, facilitata dalla diffusa presenza di selve e di boschi, tuttavia, recuperò, anche qui, ma entro i canoni del nuovo pensiero cristiano, le forme della meditazione antica, legata all’utilizzo del giardino, dell’orto e della selva per l’esercizio della memorizzazione. Giardino, orto e selva, come era già avvenuto nel mondo greco-romano, furono i luoghi della preghiera perché i fiori e le piante, in quanto figure mnemoniche, agivano quali veicoli della memoria, sia nella fase della memorizzazione che in quella del richiamo degli argomenti. Si andava a scuola nel giardino e nel giardino si recuperavano le informazioni richiamate alla mente dalle stesse immagini usate per imprimersele nella memoria. Anche le biblioteche, quando cominciarono a essere costruite, presero il nome dei giardini, la silva silvarum, il viridarium, il giardino fiorito, e i loro armaria venivano percepiti e chiamati come le aiuole del giardino. Le tecniche meditative che regolavano l’input e l’output mnemonico furono codificate dai Cistercensi e le Marche furono una delle uniche tre aree italiane in cui si insediarono due monasteri cistercensi, eretti a Fiastra dal 1142 e a Chiaravalle (nel 1172) nei pressi di Ancona, con il nome di S. Maria in Castagnola, entro un ampio bosco di castagni ancora visibile nelle corografie del xv secolo. La tempestiva diffusione in questa regione della predicazione e dei monasteri francescani introdusse, dal XIII secolo, nuove pratiche particolarmente significative per lo sviluppo di un particolare sentimento del paesaggio. I francescani furono infatti all’origine di una sensibilità religiosa fondata sull’emotività, destinata cioè a coinvolgere l’uditorio delle nuove piccole città che dal XIII secolo cominciavano a popolarsi e a sorgere nel paesaggio marchigiano in fase di nuova colonizzazione agricola, il “bel paesaggio” agrario che si andava coltivando tra le diverse città. Nelle Marche, come accadde a Siena, il “buon governo” fu così percepito a partire dalla constatazione del “bel paesaggio” intensamente coltivato, segno di un rapporto corretto con il governo della città e frutto dell’istituto della “mezzadria”, il patto colonico che cominciava a diffondersi. I francescani predicano nel XIII-XV secolo l’interiorizzazione dell’immagine della passione come i pastori di sensibilità riformata della Valtellina due secoli dopo. Essi cercano di creare le condizioni per un miglioramento delle condizioni di vita materiali delle masse urbane; ma anche per favorire la speranza di una salvezza futura basata sulle opere di misericordia, sull’intercessione della Vergine, dei santi, e per l’effetto positivo delle opere pie dei vivi a vantaggio dei defunti. 117 Essi adottano in questa strategia un approccio “materialistico” al divino: santificano la natura come espressione della provvidenza e primo approccio all’Itinerarium mentis in deum (come codificato dal francescano Bonaventura da Bagnoregio); cercano di sviluppare un proto welfare urbano, si adoperano per attivare microprestiti su pegno per le classi povere ma non completamente inerti. In questa strategia mirata sulle folle urbane, la predicazione francescana fa ampio uso delle tecniche retoriche antiche, accentuando la funzione didattica dell’exemplum. Essi cercano in sostanza di sviluppare l’orazione mentale dei devoti, utilizzando nelle prediche, nelle macchine d’altare come negli opuscoli a stampa figure emotivamente efficaci, capaci di aiutare l’interiorizzazione e la memorizzazione del messaggio cristiano. In questo sforzo essi sono tra i primi a mettere a punto la cosidetta “composizione di luogo”; una tecnica retorica applicata alla predicazione, ma anche all’orazione mentale individuale, che, secondo i canoni dell’arte della memoria antica, utilizzava uno spazio noto, come quello di una città, o le stanze di un palazzo, per sceneggiare e memorizzare le scene della passione e della vita di Cristo poste nella giusta sequenza. Siamo in grado di ricostruire questa tecnica meditativa – portata alle sue massime capacità retoriche probabilmente dalla predicazione di Bernardino da Siena – da alcuni testi devozionali editi solo nel XV secolo, che debbono aver codificato una pratica che sembra molto vicina alla sensibilità della più originaria predicazione francescana. La fonte principale è il Zardino de oration fructuosa attribuito a Nicola da Osimo (1370 ca – 1453), ma probabilmente da attribuirsi a un autore a noi sconosciuto, vicino ai progetti di riforma religiosa dei veneziani Ludovico Barbo e Lorenzo Giustiniani, redatto alla metà del secolo, ma edito a Venezia nel 1494. Già nel titolo il testo si richiama alla tradizione della meditazione che trovava ideale ambientazione nel giardino, nell’orto o nella selva, in modo particolare nella devozione mariana. Non a caso il testo è stato posto in relazione con il Prato spirituale di Giovanni Mosco, che era di cultura e formazione orientale, e con la pratica del rosario. L’origine veneziana di questa sensibilità non costituisce un ostacolo a considerare quanto predicato nel Zardino esemplificativo della sensibilità religiosa marchigiana. Ciò sia per i consistenti legami che sono storicamente intercorsi tra Marche e Veneto, ma anche per i rapporti che lo stampatore dell’opera, Bernardino Benati, ha avuto con altri predicatori francescani marchigiani come il beato Marco da Montegallo, teorico dei Monti di pietà, che presso la stessa stamperia pubblicava, negli stessi anni, sue opere molto simili come la Corona della preziosa Vergene Maria Madre, il Libro intitulato de la divina lege e la Tabula de la salute, la trattazione dei quali si incentra sulle immagini mentali, suscitate dal testo con l’aiuto di alcune tabulae. 118 Il Zardino mira a diffondere, come molti altri testi francescani di questo periodo, l’orazione “affettuosa”, cioè fondata sulla capacità di rivivere interiormente la passione di Cristo. Strumento retorico per ottenere questa partecipazione emotiva individuale e intima dell’orante è appunto la cosidetta “composizione di luogo” (qui teorizzata), cioè l’ambientazione della scena in un luogo, aperto o chiuso, noto al devoto (o all’uditorio, qualora si tratti di predicazione) e quindi in grado di rendergli familiare la scena e di consentirne la più facile memorizzazione. Il meccanismo non è altro che l’applicazione alla devozione religiosa di uno dei precetti dell’arte della memoria antica, ma esso deve essersi affinato, entro la cultura francescana, dopo l’esperienza delle sacre rappresentazioni e dei presepi viventi, l’invenzione dei quali la tradizione attribuisce al santo di Assisi. La rievocazione del presepe attraverso la partecipazione emotiva dei fedeli, entro un paesaggio noto come quello di casa propria, aveva un potenziale devozionale molto forte e se ne trova una eco iconografica molto longeva, che comincia nel XIV secolo, nei santi patroni raffigurati con le città a loro dedicate rappresentate in forme realistiche, con tratti caratteristici, che arriva sino ai nostri giorni. Origine o conseguenza della pratica diffusa tra Marche e Umbria dei presepi viventi, la composizione di luogo ha trovato qui un terreno di coltura piuttosto fertile e spiega i motivi profondi del tradizionale municipalismo della regione. E’ infatti attraverso l’interiorizzazione di questi paesaggi, urbani o rurali, che si è sviluppata, con la preghiera interiore, la soggettività, la consapevolezza di sé dei marchigiani, come individui e come comunità. Non si tratta infatti di immagini paesaggistiche, ma di icone della memoria, preliminari ed essenziali per lo sviluppo della stessa consapevolezza della soggettività, cresciuta proprio con la pratica della preghiera interiore. Questo atteggiamento ci consente di comprendere meglio come il senso del paesaggio umbromarchigiano passasse attraverso una simbolizzazione individualizzata, profondamente influenzata dalla predicazione francescana. La tradizione dei manuali mnemonici antichi saccheggiati dagli estensori delle Artes praedicandi prescriveva infatti che le immagini paesistiche utilizzate dovevano essere realistiche ma sufficientemente indefinite perché ciascun orante vi potesse agganciare le catene meditative personali. Ognuno aveva le proprie immagini mentali. La stessa percezione del monte, tratto caratteristico del sistema paesaggistico marchigiano incentrato, come è noto, sulle colline, era una percezione filtrata dall’idea del Calvario. L’iconografia dei Monti di pietà, per esempio, sviluppatisi e teorizzati prima che altrove tra Umbria e Marche, nel XV secolo, si basava sulla figura del “monte” a forma di tumulo sormontato dal vessillo di Cristo e dalla figura della passione. Il “monte” era, nelle argomentazioni a favore della creazione di questi istituti di credito caritativi, il gruzzolo di denaro che i devoti sottoscrittori dovevano offrire per consentire l’attivazione dei Monti di pietà. Ma l’associazione mentale con il Calvario fondava il retropensiero 119 costituito dalla salvezza dell’anima dell’offerente, a sua volta fondato su una argomentazione che ricalcava la logica della rendita finanziaria: paghi uno ora per avere dieci nell’aldilà. Dopo una lunga tradizione medievale che aveva visto nel monte il luogo del peccato e del diavolo, l’istituzione dei Monti di pietà era sintomo di una più positiva percezione popolare dell’ascensione, negli stessi anni in cui il Purgatorio cominciava a venire rappresentato come una montagna dove la speranza non era più totalmente negata. Queste aspirazioni sociali erano maturate, entro il paesaggio urbano, per effetto della mediazione francescana. La tecnica della composizione di luogo, che troviamo codificata nel XV secolo nei manuali devozionali, andava di pari passo, nelle Marche, con una precoce pratica della devozione mariana connessa all’impiego del rosario. Il rosario, costituito di cento grani di legno di rosa, non era altro però che un giardino virtuale e portatile che consentiva, entro il progetto di interiorizzazione dell’orazione mentale, l’inanellamento di una serie di immagini, ripetute per essere mandate più facilmente a memoria, del tutto analogo alle procedure adottate nel mondo antico e pagano per memorizzare (grazie ai giardini, gli orti, i loggiati) passi o concetti della tradizione. La composizione di luogo da una parte e la recitazione del rosario dall’altra, (connessa a una vasta letteratura, anche a stampa, che applicava questa tecnica a forme di devozione più complesse come il Prato mistico, ecc.) sono dunque all’origine dello specifico sentimento del paesaggio della cultura marchigiana. Per quanto la predicazione francescana debba aver svolto un ruolo particolarmente efficace, anche altri ordini mendicanti si ritrovarono in questo genere di sensibilità, e in alcuni casi essi vennero proprio fondati nelle Marche, come è il caso dei brettinesi e dei silvestrini (dei quali ultimi si comprende facilmente la devozione silvestre), cui si affiancarono, con gli stessi strumenti teorici e devozionali, i domenicani e gli agostiniani. La devozione del rosario era già ampiamente diffusa nelle Marche nel XIV e XV secolo, ma sarà con il santuario di Loreto a diventare nota nel mondo e a rappresentare il nuovo modo di pregare e di percepire l’orazione mentale dell’età della Riforma Cattolica, della quale Loreto e il suo santuario mariano diventano nel XVI secolo l’avamposto strategico (il motivo della nascita a Loreto piuttosto che altrove di questo culto è, a questo punto, facilmente comprensibile). La pratica del rosario è anzi all’origine del mito della Santa Casa di Loreto. Concepito probabilmente come pratica meditativa di origine orientale e poi codificata dai cistercensi, l’orazione mentale messa in moto dal rosario era una variante della contemplazione intima del tempio di Gerusalemme, inteso come sistema di simboli della storia sacra. L’orante meditava immaginando di elevarsi in volo e di vedere il tempio, come descritto nel libro di Ezechiele, e di coglierne i significati 120 profondi. Sicché la recita del rosario diventava analoga alla forma di levitazione mentale sul palazzo della memoria (il tempio di Salomone). Rosario e composizione di luogo facevano uso degli stessi strumenti. E insieme essi davano origine al mito della Santa Casa di Maria che si trasferiva materialmente e in volo da Nazareth al “Laureto” di Recanati (assimilabile al giardino e all’orto meditativo). La stessa santa Casa era appunto un palazzo della memoria costituito di una sola stanza. La pratica del rosario e del culto mariano, diffusisi in tutto il mondo e soprattutto nelle aree dell’Europa dell’est ove aveva attecchito l’eresia riformata, fecero il successo di questa forma di preghiera originariamente praticata soprattutto nell’Italia centrale. Nell’Anconitana di Ruzante i marchigiani venivano già presi in giro, nel XVI secolo, per l’eccesso di devozione legata alla circolazione dei santini e dei rosari di Loreto. Strutturato nel solco della meditazione religiosa, il senso del paesaggio dei marchigiani si presenta allora come fondativo dell’identità locale, ma nello stesso tempo come incapace di incorporarsi nella storia. Esso è componente strutturale dell’identità locale perché, in quanto strumento dell’esercizio del pensiero, ha contribuito a fare da contenitore e veicolo dei pensieri più intimi e come tale a costruire, entro le icone delle “città della memoria”, il senso stesso dell’individuo. Ma, trattandosi di veicoli e strumenti di un realismo prevalentemente retorico e persuasivo, queste immagini sono state tradizionalmente percepite piuttosto per liberarsi dai vincoli della storia e della geografia che per valorizzarne gli aspetti identitari. Le “catene” del rosario (cioè le associazioni mnemonico-immaginative provocate dalla meditazione dei sacri misteri condotte nel rosario) erano infatti considerate capaci di “liberare”, giocando sul doppio significato, il fedele dai vincoli dell’egoismo. Così, quando la vittoria di Lepanto (il 7 ottobre 1571) dei Cristiani contro i Turchi fu attribuita alla devozione del rosario, le catene che avevano legato i cristiani prigionieri ai remi delle galee nemiche furono portate personalmente da don Giovanni d’Austria, capo della spedizione militare, a Loreto per essere fuse e diventare i nuovi cancelli del santuario (cioè un presidio del culto mariano). Le catene (del rosario) “liberavano” dal peccato e rendevano il miles christianus consapevolmente attrezzato contro l’eresia di ogni tipo e lo elevavano verso una condizione superiore, libera da orpelli terreni. Il senso del paesaggio dei marchigiani, laico e religioso, che ne deriva, sembra dunque identificabile piuttosto nella negazione della singolarità dei luoghi, nella prevalente ricerca di una loro “esemplarità”. Loreto è diventata già nel XVI secolo un simbolo universale (e ancora oggi è una specie di territorio apolide). Recanati, altro santuario laico della poesia, è diventata il luogo della metafisica del paesaggio piuttosto che di un paesaggio, per effetto della negazione del vedere, e quindi dell’attivazione dell’immaginazione immortalata da Giacomo Leopardi nell’Infinito. 121 E anche Urbino e il paesaggio del Montefeltro di Paolo Volponi, pure se descritti con realismo e con senso profondo del territorio, hanno assunto nella sua opera il carattere ideale di capitali, neoruraliste, della reazione al neocapitalismo industriale del secondo dopoguerra. Le Marche hanno prodotto un modo che definirei “arcadico” di concepire il paesaggio (e infatti l’Arcadia fu fondata a Roma nel 1690, e si sviluppò per effetto di un gruppo di possidenti agrari prevalentemente marchigiani, sotto la custodia del maceratese Giovanni Mario Crescimbeni e sotto un papa, urbinate, Clemente XIV Albani, che voleva rilanciare l’economia pontificia attraverso la riforma agraria), trasformandolo in pura energia emotiva e immaginaria. Pensato come strumento di liberazione, questo paesaggio ha però finito (come i presepi di San Francesco) per essere piuttosto una forma mentale che un veicolo per trasmettere valori specifici e storici. Anche l’efficacia delle immagini del paesaggio agrario del più grande fotografo marchigiano, Mario Giacomelli, sta forse nella loro astorica matericità, nella loro funzione di icone astratte, delle quali è inutile spiegare il significato. Percepito come pura energia emotiva, allora, il senso del paesaggio marchigiano può ritrovarsi nella ricerca contemporanea, di cui registriamo ogni giorno la casistica nel territorio di oggi, di nuove tipologie di abitazioni considerate come “tradizionali” ma che fondono in forme postmoderne il cotto del mattone, l’elemento tradizionale, con l’estetica del Mulino bianco e dei ranch texani della serie “Spaghetti Western”. Ripensato entro la griglia di riferimenti culturali oggi dettati dal cinema e dalla televisione, il senso del paesaggio marchigiano continua nell’assemblaggio creativo di componenti narrative che confermano lo statuto emotivo che esso ha esercitato, nel lungo periodo, nella cultura delle Marche. 122 Bibliografia AA.VV., San Lucio di Cavargna. Il Santo, la chiesa, il culto, l’iconografia, Cavargna, 2000. AA.VV., Paolo Giovio. Il Rinascimento e la memoria, atti del convegno (Como, 3-5 Giugno 1983), in “Raccolta storica” pubblicata dalla Società Storica Comense, vol. 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Conviene quindi rinunciare a priori a ogni velleità di proporre un quadro esaustivo di questa declinazione del paesaggio affrontata con il medium del linguaggio e procedere non solo limitando il proprio campo d’azione, ma anche nella piena consapevolezza di offrire soltanto qualche exempla. Partendo da una prospettiva germanistica, mi limiterò qui a segnalare alcuni modi della letteratura tedesca di proporre un determinato paesaggio, tentando un approccio che non sia del tutto arbitrario, ma non abbia neppure alcuna pretesa di sistematicità. Ovviamente questa antologia altro non vuol essere che il nucleo di un eventuale work in progress, passibile di una dilatazione ad libitum. Una volta deciso di circoscrivere per il momento la scelta a qualche indicazione paradigmatica, il passo ulteriore è stato quello di individuare quali soggetti potessero essere funzionali a questo scopo. Si è quindi tralasciato il genere teatrale, che non manca certo di descrizioni paesaggistiche, ma richiede per le sue peculiarità di genere, una contestualizzazione di più ampio respiro perché se ne possano cogliere le sfumature. Più immediato è invece l’impatto che permettono di raggiungere prosa e poesia, i due generi da cui – almeno inizialmente – si è pensato di trarre brani, adatti e far intendere come i diversi scrittori affrontino il problema, senza che si renda indispensabile un inquadramento del testo in una rete troppo ampia di nessi e relazioni. Poiché l’esemplarità in letteratura è tipica del genere della leggenda – l’etimologia di legenda (in latino la forma neutra plurale sostantivata del participio futuro passivo del verbo legere) fa riferimento all’abitudine diffusa nei monasteri medioevali di leggere ad alta voce in refettorio durante la consumazione dei pasti, brani tratti dalle vite dei santi proposti ai confratelli come modelli di edificazione -, ci si è chiesti che cosa, nella letteratura di lingua tedesca, costituisca da sempre un paesaggio leggendario. Una delle possibili risposte, fra le più appariscenti per chi è di madrelingua italiana, è stata: Venezia. Poeti e letterati di lingua tedesca non cessano di cantare questa città che è insieme luogo e atmosfera, realtà e immaginario, concretezza e metafora, bellezza e putrescenza, estasi e malattia, sensualità e menzogna, verità e maschera. Ecco dunque qualche esempio di come la città lagunare è stata recepita da alcuni poeti e letterati d’origine austriaca o tedesca. *** 124 Originario della Turingia, Johann Jacob Wilhelm Heinse (1746-1803), dopo aver soggiornato in Italia per tre anni (1780-1783), diede alle stampe il suo romanzo Ardinghello ovvero le isole felici (1787), una “storia italiana” come recita il sottotitolo, ambientato nel Rinascimento. Il testo è considerato importante perché è, nella letteratura tedesca, uno dei primi romanzi che ha per protagonista un artista – in questo caso un pittore della scuola di Tiziano – e che è una delle ultime espressioni del movimento libertario dello Sturm und Drang. Proprio a Venezia, Heinse fa incontrare al suo eroe la prima donna che determinerà in maniera significativa il suo destino e nella stessa città gli fa giungere la notizia della morte di suo padre, assassinato a Creta. Così per Ardinghello Venezia è, oltre che luogo perturbante per la sua vita interiore, soprattutto città mediatrice di importanti suggestioni estetiche, di carattere pittorico, come dimostra il brano seguente: Ich ging unter anderm Namen nach Venedig, um dort, während ich ihn auskundschaftete, die Werke Tizians zu studieren und vom Paul Veronese und Tintorett zu lernen; und meine Tante schickte mir von meinem Mütterlichen, soviel ich brauchte. Paul gewann mich bald lieb, so wie der Greis Tizian, den ich in seinen letzten Tagen oft mit Singen und Spielen ergötzte; und sie weihten mich in verschiednen von ihren Geheimnissen ein, weil sie Auge bei mir fanden. Es war mir nun lieb, daß ich außer meinem eignen Vergnügen noch etwas gelernt hatte, womit ich mich auf allen Fall durch die Welt schlagen konnte. Ma neppure l’architettura veneziana lascia Ardinghello indifferente, data la sua venerazione per il Palladio; i palazzi veneziani, tutti belli, sono a suo dire lo specchio di una concezione politica non basata sul dispotismo e la repressione: Als wir von Vicenza weggereist waren, sprachen wir viel über die Gebäude zu Venedig und den Palladio. Ardinghello hielt Venedig für einen der merkwürdigsten Orte in der Baukunst; und sagte: hier wäre nicht nur ein Stil, sondern man sähe darin die Geschichte derselben der neuern Jahrhunderte; und erkenne immer, daß ein Senat von vielen Personen da herrsche und nicht ein einzelner oft elender Mensch ohne Talent und Geschmack, weil man nichts ganz Schlechtes unter den öffentlichen Gebäuden fände wie in andern Residenzen. Er liebte den Palladio vor allen neuern Baumeistern, nannte ihn eine heitre Seele voll des Vortrefflichsten aus dem Altertum, und daß er davon mitteile, und aus sich selbst, soviel sich für seine Zeitverwandten schicke. *** Il grande Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832), nel corso del suo viaggio in Italia del 1786 – viaggio che fu quasi una fuga dall’angustia della corte di Weimar, dove lavorava dal 1775, e che lo portò a sviluppare una poetica nuova, ispirata all’antichità classica – dedica a Venezia pagine e pagine del suo Viaggio in Italia. Qui di seguito si riporta la breve descrizione del viaggio da Padova a Venezia, fatto con il burchiello navigando sul Brenta, sulle cui sponde è tutto un succedersi di bei palazzi e splendidi giardini: 125 Venedig, den 28. September 1786. Wie es mir von Padua hierher gegangen, nur mit wenig Worten: Die Fahrt auf der Brenta, mit dem öffentlichen Schiffe in gesitteter Gesellschaft, da die Italiener sich vor einander in acht nehmen, ist anständig und angenehm. Die Ufer sind mit Gärten und Lusthäusern geschmückt, kleine Ortschaften treten bis ans Wasser, teilweise geht die belebte Landstraße daran hin. Da man schleusenweis den Fluß hinabsteigt, gibt es öfters einen kleinen Aufhalt, den man benutzen kann, sich auf dem Lande umzusehen und die reichlich angebotenen Früchte zu genießen. Nun steigt man wieder ein und bewegt sich durch eine bewegte Welt voll Fruchtbarkeit und Leben. E questa è la dichiarazione di stupore e meraviglia del poeta nel momento in cui gli è dato di mettere piede in una città che finalmente per lui non è più un miraggio, ma un luogo concreto, da ammirare a sazietà e in solitudine: […] Venedig So stand es denn im Buche des Schicksals auf meinem Blatte geschrieben, daß ich 1786 den achtundzwanzigsten September, abends, nach unserer Uhr um fünfe, Venedig zum erstenmal, aus der Brenta in die Lagunen einfahrend, erblicken und bald darauf diese wunderbare Inselstadt, diese Biberrepublik betreten und besuchen sollte. So ist denn auch, Gott sei Dank, Venedig mir kein bloßes Wort mehr, kein hohler Name, der mich so oft, mich, den Todfeind von Wortschällen, geängstiget hat. […] Ich bin gut logiert in der “Königin von England”, nicht weit vom Markusplatze, und dies ist der größte Vorzug des Quartiers; meine Fenster gehen auf einen schmalen Kanal zwischen hohen Häusern, gleich unter mir eine einbögige Brücke und gegenüber ein schmales, belebtes Gäßchen. So wohne ich, und so werde ich eine Zeitlang bleiben, bis mein Paket für Deutschland fertig ist, und bis ich mich am Bilde dieser Stadt satt gesehen habe. Die Einsamkeit, nach der ich oft so sehnsuchtsvoll geseufzt, kann ich nun recht genießen; denn nirgends fühlt man sich einsamer als im Gewimmel, wo man sich allen ganz unbekannt durchdrängt. In Venedig kennt mich vielleicht nur ein Mensch, und der wird mir nicht gleich begegnen. […] Il giornale di viaggio goetheano contiene pagine di pura descrizione in cui il paesaggio, benché egli lo veda per la prima volta, risulta al poeta già noto attraverso il filtro dell’arte, in quanto di quel panorama conosce già diverse riproduzioni mediate da incisioni su rame. Quello che è invece del tutto nuovo è l’unicità urbanistica della città, un intrico di calli e di ponti, che non si può conoscere se non attraverso l’esperienza concreta. Über der Wasserfläche sieht man links die Insel St. Giorgio Maggiore, etwas weiter rechts die Giudecca und ihren Kanal, noch weiter rechts die Dogane und die Einfahrt in den Canal Grande, wo uns gleich ein paar ungeheure Marmortempel entgegenleuchten. Dies sind mit wenigen Zügen die Hauptgegenstände, die uns in die Augen fallen, wenn wir zwischen den zwei Säulen des Markusplatzes hervortreten. Die sämtlichen Aus- und Ansichten sind so oft in Kupfer gestochen, daß die Freunde davon sich gar leicht einen anschaulichen Begriff machen können. Nach Tische eilte ich, mir erst einen Eindruck des Ganzen zu versichern, und warf mich ohne Begleiter, nur die Himmelsgegenden merkend, ins Labyrinth der Stadt, welche, obgleich durchaus von Kanälen und Kanälchen durchschnitten, durch Brücken und Brückchen wieder zusammenhängt. Die Enge und Gedrängtheit des Ganzen denkt man nicht, ohne es gesehen zu haben. Gewöhnlich kann man die Breite der Gasse mit ausgereckten Armen entweder ganz oder beinahe messen, in den engsten stößt man schon mit den Ellbogen an, wenn man die Hände in die Seite stemmt; es gibt wohl breitere, auch hie und da ein Plätzchen, verhältnismäßig aber kann alles enge genannt werden. 126 Ich fand leicht den großen Kanal und die Hauptbrücke Rialto, sie besteht aus einem einzigen Bogen von weißem Marmor. Von oben herunter ist es eine große Ansicht, der Kanal gesäet voll Schiffe, die alles Bedürfnis vom festen Lande herbeiführen und hier hauptsächlich anlegen und ausladen, dazwischen wimmelt es von Gondeln. Le pagine citabili dal giornale di viaggio di Goethe relative a Venezia sono molte e la descrizione dei monumenti può risultare molto interessante per lo storico dell’arte. Ma non c’è solo ammirazione per la stupenda perla della laguna. In quest’altro brano, Goethe, sempre attento ad allargare i suoi interessi anche agli avvenimenti naturali, dopo aver descritto il noto fenomeno dell’acqua alta, lamenta, con sensibilità ecologica, l’incuria a cui Venezia viene abbandonata, e la lamentazione è di un’attualità sconcertante: Wenn sie ihre Stadt nur reinlicher hielten, welches so notwendig als leicht ist und wirklich auf die Folge von Jahrhunderten von großer Konsequenz. Nun ist zwar bei großer Strafe verboten, nichts in die Kanäle zu schütten, noch Kehrig hineinzuwerfen; einem schnell einfallenden Regenguß aber ist’s nicht untersagt, allen den in die Ecken geschobnen Kehrig aufzurühren, in die Kanäle zu schleppen, ja, was noch schlimmer ist, in die Abzüge zu führen, die nur zum Abfluß des Wassers bestimmt sind, und sie dergestalt zu verschlemmen, daß die Hauptplätze in Gefahr sind, unter Wasser zu stehen. Selbst einige Abzüge auf dem kleinen Markusplatze, die, wie auf dem großen, gar klug angelegt sind, habe ich verstopft und voll Wasser gesehen. Wenn ein Tag Regenwetter einfällt, ist ein unleidlicher Kot, alles flucht und schimpft, man besudelt beim Auf- und Absteigen der Brücken die Mäntel, die Tabarros, womit man sich ja das ganze Jahr schleppt, und da alles in Schuh und Strümpfen läuft, bespritzt man sich und schilt, denn man hat sich nicht mit gemeinem, sondern beizendem Kot besudelt. Das Wetter wird wieder schön, und kein Mensch denkt an Reinlichkeit. Wie wahr ist es gesagt: das Publikum beklagt sich immer, daß es schlecht bedient sei, und weiß es nicht anzufangen, besser bedient zu werden. Hier, wenn der Souverän wollte, könnte alles gleich getan sein. Con un altro breve brano dal Viaggio in Italia si intende mostrare la poliedricità di uno scrittore come Goethe che non aveva alcuna pregiudiziale gnoseologica e sempre cercava di coniugare estetica e scienza, dedito ad un’interdisciplinarietà che fa belli, anche se spesso non attendibili, i suoi trattati scientifici e scientificamente competente la sua opera poetica. Qui Goethe, attento all’alternarsi di alta e bassa marea, è salito sul campanile di S. Marco per vedere che aspetto abbia la città con la laguna nel momento della bassa marea: Den 9. Oktober. Heute abend ging ich auf den Markusturm; denn da ich neulich die Lagunen in ihrer Herrlichkeit zur Zeit der Flut von oben gesehen, wollt’ ich sie auch zur Zeit der Ebbe in ihrer Demut schauen, und es ist notwendig, diese beiden Bilder zu verbinden, wenn man einen richtigen Begriff haben will. Es sieht sonderbar aus, ringsum überall Land erscheinen zu sehen, wo vorher Wasserspiegel war. Die Inseln sind nicht mehr Inseln, nur höher bebaute Flecke eines großen graugrünlichen Morastes, den schöne Kanäle durchschneiden. Der sumpfige Teil ist mit Wasserpflanzen bewachsen und muß sich auch dadurch nach und nach erheben, obgleich Ebbe und Flut beständig daran rupfen und wühlen und der Vegetation keine Ruhe lassen. […] Die dem Meere entgegengebauten Mauerwerke bestehen erst aus einigen steilen Stufen, dann kommt eine sacht ansteigende Fläche, sodann wieder eine Stufe, abermals eine sanft ansteigende Fläche, dann eine steile Mauer mit einem oben überhängenden Kopfe. Diese Stufen, diese Flächen hinan steigt nun das flutende Meer, bis es in außerordentlichen Fällen endlich oben an der Mauer und deren Vorsprung zerschellt. 127 Nel 1790, dopo un altro breve viaggio di Goethe in Italia, nacquero invece i Venezianische Epigramme (“Epigrammi veneziani”), spesso anche molto critici nei confronti del paese dell’arte, dove, come denunciano con chiarezza i versi seguenti, grevi di conseguenze per l’immagine che i Tedeschi poi ebbero a lungo del nostro paese, non solo le strade sono ancora dissestate, ma dove regnano indisciplina e disonestà: 4 Das ist Italien, das ich verließ. Noch stäuben die Wege, Noch ist der Fremde geprellt, stell er sich, wie er auch will. Deutsche Redlichkeit suchst du in allen Winkeln vergebens; Leben und Weben ist hier, aber nicht Ordnung und Zucht; Jeder sorgt nur für sich, mißtrauet dem andern, ist eitel, Und die Meister des Staats sorgen nur wieder für sich. Schön ist das Land; doch ach! Faustinen find ich nicht wieder. Das ist Italien nicht mehr, das ich mit Schmerzen verließ. Un Goethe attento ai dettagli architettonici di una città che conosce molto bene rivela il successivo epigramma: 20 Ruhig am Arsenal stehn zwei altgriechische Löwen; Klein wird neben dem Paar Pforte wie Turm und Kanal. Käme die Mutter der Götter herab, es schmiegten sich beide vor den Wagen, und sie freute sich ihres Gespanns. Aber nun ruhen sie traurig; der neue geflügelte Kater Schnurrt überall, und ihn nennet Venedig Patron. Rane disgraziate appaiono invece al poeta tedesco gli abitanti di Venezia: 25 Unglückselige Frösche, die ihr Venedig bewohnet! Springt ihr zum Wasser heraus, springt ihr auf hartes Gestein. L’aspetto invece più sensuale di una città che, costruita com’è sull’acqua, fa dell’instabilità affettiva un suo vanto, è illustrato dai due distici seguenti, dedicati alle meretrici di Venezia: 27 Alle Weiber sind Ware; mehr oder weniger kostet Sie den begierigen Mann, der sich zum Handel entschließt. Glücklich ist die Beständige, die den Beständigen findet, Einmal nur sich verkauft und auch nur einmal gekauft wird. *** 128 Personaggio dalla vita avventurosa, il sassone Johann Gottfried Seume (1763-1810), autore di numerosi resoconti di viaggio, nel suo testo autobiografico Passeggiata verso Siracusa nell’anno 1802, parla di Venezia come di una città occupata e piena di mendicanti, di cui sembrano interessargli soprattutto le numerose chiese: Den dritten Februar, wenn ich mich nicht irre, kam ich in Venedig an und lief sogleich den Morgen darauf mit einem alten, abgedankten Bootsmanne, der von Lissabon bis Konstantinopel und auf der afrikanischen Seite zurück die ganze Küste kannte und jetzt den Lohnbedienten machen mußte, in der Stadt herum; sah mehr als zwanzig Kirchen in einigen Stunden, von der Kathedrale des heiligen Markus herab bis auf das kleinste Kapellchen der ehemaligen Beherrscherin des Adria. Wenn ich Künstler oder nur Kenner wäre, könnte ich Dir viel erzählen von dem, was da ist und was da war. […]. Der Palast der Republik sieht jetzt sehr öde aus, und der Rialto ist mit Kanonen besetzt. Auch am Ende des Markusplatzes, nach dem Hafen zu, haben die Österreicher sechs Kanonen stehen, und gegenüber auf Sankt Georg hatten schon die Franzosen eine Batterie angelegt, welche die Kaiserlichen natürlich unterhalten und erweitern. Die Partie des Rialto hat meine Erwartung nicht befriedigt; aber der Markusplatz hat sie auch so, wie er noch jetzt ist, übertroffen. Es mögen jetzt ungefähr drei Regimenter hier liegen; eine sehr kleine Anzahl für ernsthafte Vorfälle! […] Das Militär und überhaupt die Bevölkerung zeigt sich meistens nur auf dem Markusplatze, am Hafen, am Rialto und am Zeughause; die übrigen Gegenden der Stadt sind ziemlich leer. Wenn man diese Partien gesehen hat und einigemal den großen Kanal auf- und abgefahren ist, hat Venedig vielleicht auch nicht viel Merkwürdiges mehr; man müßte denn gern Kirchen besuchen, die hier wirklich sehr schön sind. Das Traurigste ist in Venedig die Armut und Bettelei. Man kann nicht zehn Schritte gehen, ohne in den schneidendsten Ausdrücken um Mitleid angefleht zu werden; und der Anblick des Elends unterstützt das Notgeschrei des Jammers. Um alles in der Welt möchte ich jetzt nicht Beherrscher von Venedig sein; ich würde unter der Last meiner Gefühle erliegen. […]. Die niederschlagendste Empfindung ist mir gewesen, Frauen von guter Familie in tiefen, schwarzen, undurchdringlichen Schleiern knieend vor den Kirchtüren zu finden, wie sie, die Hände gefaltet auf die Brust gelegt, ein kleines hölzernes Gefäß vor sich stehen haben, in welches die Vorübergehenden einige Soldi werfen. Wenn ich länger in Venedig bliebe, müßte ich notwendig mit meiner Börse oder mit meiner Empfindung Bankerott machen. […] Auf der Giudecca ist es, wo möglich, noch ärmlicher als in der Stadt; aber eben deswegen sind dort nicht so viele Bettler, weil vielleicht niemand hoffen darf, dort nur eine leidliche Ernte zu halten. Die Erlöserskirche ist daselbst die beste, und ihre Kapuziner sind die einzigen, die in Venedig noch etwas schöne Natur genießen. Die Kirche ist mit Orangerie besetzt, und sie haben bei ihrem Kloster, nach der See hinaus, einen sehr schönen Weingarten. Diese, nebst einigen Oleastern in der Gegend des Zeughauses, sind die einzigen Bäume, die ich in Venedig gesehen habe. Die Insel Sankt George hält bekanntlich die Kirche und das Kapitel, wo der jetzige Papst gewählt wurde, und wo auch noch sein Bildnis ist, das bei den Venetianern von gemeinem Schlage in außerordentlicher Verehrung steht. Der Maler hat sein Mögliches getan, die Draperie recht schön zu machen. Die Kirche selbst ist ein gar stattliches Gebäude und, wie ich schon oben gesagt habe, mit Batterien umgeben. Die Venetianer sind übrigens im allgemeinen höfliche, billige, freundschaftliche Leute, und ich habe von vielen derselben Artigkeiten genossen, die ich in meinem Vaterlande nicht herzlicher hätte erwarten können. *** Città romantica per eccellenza, Venezia è naturalmente molto presente nella letteratura del periodo romantico, che pure rivolge la propria attenzione più al Medioevo germanico che al meridione. A Venezia è ambientata anche Una storia con la mandragola (1810) del barone Friedrich de la Motte Fouqué (1777-1843) che narra la vicenda di un giovane mercante tedesco, Richard, che a Venezia, appunto, dopo aver scialacquato il suo patrimonio in piacevolezze varie, incontra un capitano benestante che gli offre la possibilità di arricchirsi in maniera repentina acquistando una radice di 129 mandragola che, a suo dire, è in grado di esaudire tutti i desideri di chi la possiede; che per ottenerne i benefici si debba vendere l’anima al diavolo, sembra a tutta prima un dettaglio trascurabile. Il racconto si apre con un’immagine della città in tutto conforme alla tradizione: è un luogo dove si mangia e beve bene e si viene accolti come principi da meravigliose fanciulle, salvo poi verificare che in quella sorta di paradiso terrestre tutto va pagato profumatamente: In Venezia, die weit und breit berühmte welsche Handelsstadt, zog eines schönen Abends ein junger deutscher Kaufmann ein, Reichard geheißen, gar ein fröhlicher und kecker Gesell. Es gab eben zu der Zeit in deutschen Landen mannigfache Unruhe, um des Dreißigjährigen Krieges willen; deshalben war der junge Handelsmann, der sich gern einen lustigen Tag machte, ganz besonders damit zufrieden, daß ihn seine Geschäfte auf einige Zeit nach Welschland riefen, wo es nicht so gar kriegerisch zuging, und wo man, wie er gehört hatte, ganz köstlichen Wein und viele der besten und wohlschmeckendsten Früchte antreffen sollte, noch der vielen wunderschönen Frauen zu geschweigen, von welchen er ein absonderlicher Liebhaber war. Er fuhr, wie sie es dorten zu tun pflegen, in einem kleinen Schifflein, Gondel geheißen, auf den Kanälen umher, die es in Venezia statt der ordentlichen gepflasterten Straßen gibt, und hatte seine große Lust an den schönen Häusern und den noch viel schöneren Weibsgestalten, die er oftmals daraus hervorblicken sah. Als er endlich gegen ein höchst prächtiges Gebäude herankam, in dessen Fenstern wohl zwölf der alleranmutigsten Frauenzimmer lagen, sprach der gute junge Gesell zu einem der Gondoliere, die sein Schifflein ruderten: “Daß Gott! wenn es mir doch einmal so wohl werden sollte, daß ich nur ein Wörtlein zu einer von jenen wunderschönen Fräulein sprechen dürfe!” - “Ei”, sagte der Gondolier, “ist es weiter nichts als das, so steigt nur aus und geht kecklich hinauf. Die Zeit wird Euch droben gewißlich nicht lang werden.” [...] Das schien dem jungen Burschen des Versuchens schon wert, auch hatte der Gondolier nicht eben gelogen. Die Schar der liebreizenden Fräulein nahm den Fremden nicht allein holdselig auf, sondern es führte ihn auch die, welche er für die Schönste aus ihnen hielt, in ihr eignes Gemach, wo sie ihn mit den auserlesensten Trink- und Eßwaren bewirtete, und auch mit manchem Kuß, ja, ihm endlich ganz und gar zu Willen ward. Er mußte mehrmalen bei sich denken: “Ich bin doch fürwahr in das alleranmutigste und wunderbarste Land gekommen, so es auf dem Erdboden gibt: zugleich aber kann ich auch dem Himmel nicht genugsamlich danken für die Anmutigkeiten meiner Person und meines Geistes, vermittelst deren ich den fremden Damen so sehr gefalle.” Als er nun aber wieder von hinnen wollte, forderte ihm das Fräulein funfzig Dukaten ab, und weil er sich darüber verwunderte, sagte sie: “Ei, junger Fant, wie vermeint Ihr doch, Euch der schönsten Courtisane aus ganz Venedig so gar umsonst erfreut zu haben? […]” *** Se la Venezia di Goethe è una città vista con gli occhi di chi non ne ammira soltanto la bellezza monumentale, ma ne evidenzia anche i difetti urbanistici, ecologici e sociali, se quella di Fouqué è un covo di lestofanti e di persone di grande disinvoltura morale, una fantasmagorica città dei miracoli che si manifestano nel silenzio della sera è invece la Venezia presentata nel brano successivo, tratto dal 23° capitolo del III libro del romanzo giovanile Ahnung und Gegenwart (1815) di Joseph von Eichendorff (1788-1857), barone di origini salesiane ed esponente del romanticismo tedesco seriore: An einem schönen Sommerabende fuhr ich einmal in Venedig auf dem Golf spazieren. Der Halbkreis von Palästen mit ihren still erleuchteten Fenstern gewährte einen prächtigen Anblick. Unzählige Gondeln glitten aneinander vorüber über das ruhige Wasser, Gitarren und tausend weiche Gesänge zogen durch die laue Nacht. Ich ruderte voll Gedanken fort und immer fort, bis nach und nach die Lieder verhallten und alles um mich her still und einsam geworden war. Ich dachte an die ferne Heimat und sang ein altes, deutsches Lied, eines von denen, die ich noch als Knabe Angelina gelehrt hatte. Wie sehr erstaunte ich, als mir da auf einmal eine wunderschöne weibliche Stimme von dem Altan eines Hauses mit der nächstfolgenden Strophe desselben Liedes antwortete. Ich sprang sogleich ans Ufer und eilte auf das Haus zu, von dem der Gesang herkam. Eine weiße Mädchengestalt 130 neigte sich zwischen den Orangenbäumen und Blumen über den Balkon herab und sagte flüsternd: ›Rudolf!‹ Ich erkannte bei dem hellen Mondenscheine sogleich Angelina. Sie schien noch mehr sprechen zu wollen, aber die Tür auf dem Balkon öffnete sich von innen, und sie war verschwunden. Verwundert und entzückt in allen meinen Sinnen, setzt ich mich an einen steinernen Springbrunnen, der auf dem weiten, stillen Platze vor dem Hause stand. Ich mochte ohngefähr eine Stunde dort gesessen haben, als ich die Glastür oben leise wieder öffnen hörte. *** Di ambientazione veneziana è anche un racconto del romantico tedesco forse più poliedrico e geniale, Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776-1822). Il sondo volume della raccolta I fratelli di Serapione, pubblicata nel 1819, contiene un racconto dal titolo Doge e Dogaressa, ispirato a un quadro di C. Kolbe esposto nell’Accademia delle arti di Berlino nel 1816, come spiega l’autore stesso nell’introduzione, splendido esempio di ekphrasis, ossia di descrizione di un dipinto. I due amici che si chiedono se il quadro sia prodotto della pura fantasia o si basi su un evento storico realmente accaduto, vengono illuminati da un terzo artista sul significato storico del dipinto. L’inizio, nonché cornice del racconto presenta la Venezia trasfigurata nel quadro, ossia la città nell’interpretazione del pittore, quindi una Meta-Venezia: Ein Doge in reichen prächtigen Kleidern schreitet, die ebenso reich geschmückte Dogaresse an der Seite, auf einer Balustrade hervor, er ein Greis mit grauem Bart, sonderbar gemischte Züge, die bald auf Kraft, bald auf Schwäche, bald auf Stolz und Übermut, bald auf Gutmütigkeit deuten, im braunroten Gesicht; sie ein junges Weib, sehnsüchtige Trauer, träumerisches Verlangen im Blick, in der ganzen Haltung. Hinter ihnen eine ältliche Frau und ein Mann, der einen aufgespannten Sonnenschirm hält. Seitwärts an der Balustrade stößt ein junger Mensch in ein muschelförmig gewundenes Horn, und vor derselben im Meer liegt eine reich verzierte, mit der venetianischen Flagge geschmückte Gondel, auf der zwei Ruderer befindlich. Im Hintergrunde breitet sich das mit hundert und aber hundert Segeln bedeckte Meer aus, und man erblickt die Türme und Paläste des prächtigen Venedig, das aus den Fluten emporsteigt. Links unterscheidet man San Marco, rechts mehr im Vorgrunde San Giorgio Maggiore. In dem goldnen Rahmen des Bildes sind die Worte eingeschnitzt: “Ah senza amare Andare sul mare Col sposo del mare Non può consolare.” “Ach! gebricht der Liebe Leben, Kann auf hohem Meer zu schweben Mit dem Gatten selbst des Meeres Doch nicht Trost dem Herzen geben.” Vor diesem Bilde entstand eines Tages ein unnützer Streit darüber, ob der Künstler durch das Bild nur ein Bild, das heißt, die durch die Verse hinlänglich angedeutete augenblickliche Situation eines alten abgelebten Mannes, der mit aller Pracht und Herrlichkeit nicht die Wünsche eines sehnsuchtsvollen Herzens zu befriedigen vermag, oder eine wirkliche geschichtliche Begebenheit habe darstellen wollen. […] Von den Freunden unbemerkt, hatte sich hinter ihnen ein Mann hingestellt von hohem edlen Ansehen, den grauen Mantel malerisch über die Schulter geworfen, das Bild mit funkelnden Augen betrachtend. - Man geriet ins Gespräch und der Fremde sagte mit beinahe feierlichem Tone: “Es ist ein eignes Geheimnis, daß in dem Gemüt des Künstlers oft ein Bild aufgeht, dessen Gestalten, zuvor unkennbare körperlose, im leeren Luftraum treibende Nebel, eben in dem Gemüte des Künstlers erst sich zum Leben zu formen und ihre Heimat zu finden scheinen. Und plötzlich verknüpft sich das Bild mit der Vergangenheit oder auch wohl mit der Zukunft und stellt nur dar, was wirklich geschah oder 131 geschehen wird. Kolbe mag vielleicht selbst noch nicht wissen, daß er auf dem Bilde dort niemanden anders darstellte, als den Dogen Marino Falieri und seine Gattin Annunziata.” *** Meno carico di aspettative e meno ansioso di esotico, il meteoropatico e insicuro viennese Franz Grillparzer (1791-1872), il nome forse più significativo del teatro alto dell’ottocento asburgico, ha un approccio del tutto diverso alla città lagunare, come ci racconta nella sua autobiografia, rievocando il suo viaggio in Italia del 1819: Ich kam halb krank in Venedig an, was mich aber nicht hinderte, die wundervolle Stadt, diese versteinerte Geschichte, mit all ihrem Zauber in mich aufzunehmen. A tutta prima la città, come scrive in maniera esplicita nel suo Diario, non esercitò su Grillparzer grande attrattiva, sopraffatto dai miasmi e dalla lordura, poi però anch’egli fu costretto a riconoscere che Venezia - che da lontano gli appariva come un favo composto di mille celle, ma privo di miele -possedeva comunque un fascino assolutamente unico: Man hat oft den ersten Anblick von Venedig als so wunderbar beschrieben, ich habe es kaum so gefunden. Es hat zwar allerdings etwas Befremdendes, Häuser und Paläste gerade aus dem Meere heraufsteigen sehen, aber die Phantasie ersetzt leicht das fehlend Erdreich und man glaubt eben einen breiten Fluß mit vielen Inseln vor sich zu sehen. […] Den ersten Eindruck den Venedig auf mich machte, war befremdend, einengend, unangenehm. Diese morastische Lagunen, diese stinkenden Kanäle, der Schmutz und das Geschrei des unverschämten, betrügerischen Volkes geben einen verdrießlichn Kontrast mit dem kaum verlassenen, heitern Triest. Wenn man sich aber erst ein wenig erholt hat und den Totaleindruck dieser schwarzen Steinmassen gesondert auf sich wirken lässt, dann wird man ebenso ergriffen als man vorher verstimmt war. […] Wer nicht sein Herz stärker klopfen fühlt wenn er auf dem Makusplatz steht, der lasse sich begraben, denn er ist tot, unwiederbringlich tot. Dieses Palast des Doge[n], ein Bild der Republik und der Stadt, mit seinem unförmlichen Körper auf den Stützen wunderlicher Säulen und Bögen ruhend, vereinend die Starrheit in seinen ungefügen unbeworfenen Wänden mit aller Zierlichkeit der Kunst in seinen Arkaden und Zinnen. Ich weiß nicht warum, aber mir fiel ein Krokodil ein, als ich ihn sah, obschon seine Form nicht die geringste Ähnlichkeit mit diesem Tier hat. *** Animato da uno spirito che lo spinse lontano da una patria che sentiva come angusta, il conte bavarese Karl August von Platen (1796-1835), dopo aver partecipato alle guerre napoleoniche, a trent’anni lasciò definitivamente la Germania per condurre una vita vagabonda attraverso l’Italia, dove concluse la sua breve vita a Siracusa. Platen è certo il maggior cantore di Venezia nella poesia tedesca dell’Ottocento. Alcuni dei suoi Sonetti (1824) dedicati a questa città che amò profondamente, dimostrano come per lui Venezia fosse la terra dei sogni Il sonetto XVII descrive l’arrivo del poeta a S. Marco e la sua ammirazione per il Palazzo Ducale, tanto bello e imponente ai suoi occhi che quasi non osa pensare di poterne oltrepassare la soglia: 132 Mein Auge ließ das hohe Meer zurücke, Als aus der Flut Palladios Tempel stiegen, An deren Staffeln sich die Wellen schmiegen, Die uns getragen ohne Falsch und Tücke. Wir landen an, wir danken es dem Glücke, Und die Lagune scheint zurück zu fliegen, Der Dogen alte Säulengänge liegen Vor uns gigantisch mit der Seufzerbrücke. Venedigs Löwen, sonst Venedigs Wonne, Mit eh’rnen Flügeln sehen wir ihn ragen Auf seiner kolossalischen Kolonne. Ich steig ans Land, nicht ohne Furcht und Zagen, Da glänzt der Markusplatz im Licht der Sonne: Soll ich ihn wirklich zu betreten wagen? Nel successivo sonetto (XIX) Venezia è presentata come labirinto e come arcano che acquisisce però una sua suddivisione sistematica se osservato dall’alto del campanile di S. Marco: Dies Labyrinth von Brücken und von Gassen, Die tausendfach sich ineinanderschlingen, Wie wird hindurchzugehn mir je gelingen? Wie werd ich je dies große Rätsel fassen? Ersteigend erst des Markusturms Terrassen, Vermag ich vorwärts mit dem Blick zu dringen, Und aus den Wundern, welche mich umringen, Entsteht ein Bild, es teilen sich die Massen. Ich grüße dort den Ozean, den blauen, Und hier die Alpen, die im weiten Bogen Auf die Laguneninseln niederschauen. Und sieh! da kam ein mut’ges Volk gezogen, Paläste sich und Tempel sich zu bauen Auf Eichenpfähle mitten in die Wogen. Ma forse il più citato dei Sonetti venezani di Platen è il XXII, che lamenta in toni accorati la decadenza di Venezia, soggiogata dalla smania imperialistica di Napoleone. La città appare qui soltanto come l’ombra di se stessa, la sua fama passata è calpestata, il leone alato, suo simbolo, è stato abbattuto, le carceri sotto il Ponte dei sospiri sono vuote e i cavalli di bronzo che adornano il campanile di S. Marco portano il basto loro imposto dall’imperatore corso: Venedig liegt nur noch im Land der Träume Und wirft nur Schatten her aus alten Tagen, Es liegt der Leu der Republik erschlagen, Und öde feiern seines Kerkers Räume. Die eh’rnen Hengste, die durch salz’ge Schäume Dahergeschleppt, auf jener Kirche ragen, 133 Nicht mehr dieselben sind sie, ach! sie tragen Des korsikan’schen Überwinders Zäume. Wo ist das Volk von Königen geblieben, Das diese Marmorhäuser durfte bauen, Die nun verfallen und gemach zerstieben? Nur selten finden auf des Enkels Brauen Der Ahnen große Züge sich geschrieben, An Dogengräbern in den Stein gehauen. *** Fatale fu Venezia per l’aristocratico salesiano Moritz von Strachwitz (1822-1847) la cui breve vita, dedicata soprattutto alla letteratura, si concluse dopo un viaggio a Venezia in cui il conte contrasse una malattia mortale. In terzine – strofa non molto diffusa nella lirica tedesca – è il suo omaggio alla città nel momento del commiato in autunno; purtroppo, dice il poeta, non può abbandonarsi alla magia delle fate dei flutti, ma parte con nel cuore il desiderio di poter un giorno rivedere il suo prodigio “d’acqua e di pietra” e di farsi di nuovo avvolgere nel sonno dalla sua malinconia: Venedig Venedig schwimmt in des Meeres Düften, Schon rankt sich farbig in Gewind’ und Lauben Des Herbstes Rebe über samtnen Triften. Der erste Staub beginnt am Weg zu stauben, Und fast verwundert hör’ ich wieder Pferde Nach langer zeit im Morgenwinde schnauben. Doch fast erbittert mich die grüne Erde! Du edle Stadt aus Wasser und aus Steinen, Weiß Gott, wann ich dich wiedersehen werde. Als wie ein Traumbild willst du uns erscheinen, Und wie ein Traumbild seh’ ich dich verwehen, Und schaue nach und möcht’ am liebsten weinen! Denn wer gehört das Lied der Meerfeen, Der starrt so lang ins feuchte Aug’ der Tiefe, Bis er versinkt - und wird nicht mehr gesehen! Und wenn mich nicht ein andres Auge riefe, So scheu und tief, wie Adria’s Gewässer, Geblieben wär’ ich bis mein Herz entschliefe Und nirgend schläft ein müdes Herz besser! *** Il grande drammaturgo ottocentesco Friedrich Hebbel (1813 - 1863), arrivato al successo da origini modestissime, si concesse nel 1852 un viaggio Venezia, che per lui fu la realizzazione di un 134 sogno; nella poesia dedicata alla città lagunare (l’edizione completa delle poesie di Hebbel uscì nel 1857), tuttavia, invita tutti a vivere Venezia non come una fiaba avulsa dalla realtà, ma a guardarla anche nella sua concretezza storica: Venedig Wie ein verwirklichter Traum begrüßt dich das bunte Venedig Wenn Du es flüchtig durchschiffst: nicht die versunkene Stadt Glaubst du vor dir zu sehen, von welcher die Dichter erzählen, Diese dünkt dir im Meer gleich von Tritonen erbaut, Und du taumelst dahin, wie unter Korallen und Muscheln, Und verwunderst dich nur, daß dich die Flut nicht ereilt. Alles übrige paßt hinein in den Rahmen: der Doge, Der sich den Wellen vermählt, und das vermummte Gericht, Ja die Brücke der Seufzer, erschienen dir hier so natürlich, Wie in des Ozeans Nacht Fische mit Sägen im Haupt. Lass dir aber vom Führer berichten, wie alles entstanden, Und das phantastische Bild löst in Vernunft sich dir auf! *** Un tono assai più divertito e divertente presenta invece il sonetto che il barone anseatico Detlev von Liliencron (1844-1909) dedica a Venezia, rievocando l’anno 1819 in cui il filosofo Arthur Schopenhauer s’incontrò nella città lagunare con Lord Byron. Più che di un incontro, nei versi di Liliencron si parla di uno scontro fra due gondole sul Canal Grande; per via dell’urto i due clienti si ridestano così dalla loro estasi estetica e – benché indispettiti dall’accaduto – si presentano e fanno reciproca conoscenza: Unvermutetes Zusammentreffen Ein unerhörter Fall hat sich begeben: Zwei Gondeln stießen im Canale Grande Unsanft zusammen. Das war eine Schande, Wer glaubt je, solch Plumpstück zu erleben. Die Insassen, die just vor Wonne beben Bei ihrer Schönen, unter der Guirlande, Erwachen aus der Liebe seligem Brande, Um ihre Stirnen zornig zu erheben. Will heut das Schicksal einen Festtag feiern? Sie drohn sich an und liegen auf der Lauer: Wer wird sein Quidproquo zuerst entschleiern? Es rieselt durch die Welt ein heiliger Schauer: Cosí mi chiamo, well Milordo Byron! “Und ich, ich heiße Arthur Schopenhauer.” *** 135 Molto significativa fu l’impressione che Venezia esercitò su uno fra i poeti di lingua tedesca fra i più grandi del secondo Ottocento, lo svizzero Conrad Ferdinand Meyer (1825-1898), anima tormentata e incline alla depressione, per il quale il viaggio in Italia, intrapreso insieme alla sorella dopo il suicidio della madre – che si era tolta la vita nel 1858 – costituì un momento di autentica rigenerazione. A Venezia Meyer dedicò diverse poesie, scritte in tempi diversi, ma pubblicate soltanto nel 1882. Maestro della ballata storica, Meyer, racconta per esempio nella serie di quartine che seguono la storia della fondazione di Venezia, mettendola in bocca a Giorgine che intona questo canto su richiesta della bella Giulia Vendramin. Partendo dall’invasione degli Unni che mettono a ferro e fuoco Aquileia, costringendone gli abitanti a rifugiarsi sulle isole della laguna, viene qui illustrato l’evolversi della città a partire dai suoi albori per dimostrare che il vero motore della sua nascita è stato l’amore: Venedigs erster Tag Eine glückgefüllte Gondel gleitet auf dem Canal Grande, An Giorgione lehnt die Blonde mit dem roten Samtgewande. “Giorgio, deiner Laute Saiten hör ich leise, leise klingen -” “Julia Vendramin, Erlauchte, was befiehlst du mir zu singen?” “Nichts von schönen Augen, Giorgio! Solches Thema sollst du lassen! Singe, wie dem Meer entstiegen diese wunderbaren Gassen! Fessle kränzend keine Locken, die sich ringeln los und ledig! Giorgio, singe mir von meinem unvergleichlichen Venedig!” “Meine süsse Muse will es! Es geschieht!” Er präludierte. “Weiland, eh des heilgen Markus Flagge dieses Meer regierte, Drüben dort, wo duftverschleiert Istriens schöne Berge blauen, Sank vor ungezählten Jahren eine Dämmrung voller Grauen. Durch das Dunkel huschen Larven, angstgeschreckte Hunde winseln, Schreie gellen, Stimme warnen: ‚Löst die Böte! Nach den Inseln!’ In den Lüften haucht ein Odem, wie es in den Gräbern modert Schaurig tagen Meer und Himmel! Aquileja brennt und lodert! Von der Stätte, wo die stillen, ungezähmten Flammen wogen, Kommt ein dumpfes Menschenbrausen nach dem freien Strand gezogen: Attila, die Gottesgeissel, jagt auf blutbesprengten Pfaden Krieger mit zerbrochnen Schwertern, Fraun mit Schätzen schwer beladen. Wie zum Hades Schatten wandern, ziehn zum Meere die Gescheuchten, Das die purpurrot gefärbten Wolken weit hinaus beleuchten, Witwen, Waisen schreiten jammernd, schweigend stürzen wunde Männer, Mitten im Gewühle bäumen Wagen sich und scheue Renner. Knie wanken, Füsse gleiten, Kästchen brechen, draus die hellen Goldnen Reife rollend springen und die weißen Perlen quellen. Nackte Küstenkinder starren gierig auf das rings zerstreute Gold, und doch betastets keines - Etzels ist die ganze Beute! 136 Schiffer rüsten dunkle Nachen, drüber Wogen schäumend schlagen, Durch die weiße Brandung werden bleiche Fraun an Bord getragen Mit der Rechten an die phrygsche Mütze langt der Meerplebejer Beut zum Sprung ins Boot die Linke dem behelmten Aquilejer. Schon entflieht ein Schiff mit wehnden Segeln, flatternden Gewanden Drin sich weitgetrennte Lose sonder Wahl zusammenfanden, Unbekannte Hände drücken sich in angstbeklommenem Traume Aquilejas Überbleibsel schmiegen sich in engem Raume. Letzte Scheideblicke wendend, sehn sie noch den Himmel bluten Aber tiefer stets und ferner brennen die gesunknen Gluten. Still verglimmt der Heimat müde Todesfackel. Auf die Ruder Beugt sich Unglück neben Unglück, Bruder seufzend neben Bruder. Eine Fürstin küsst ein Knäblein, ein dem Edelblute fremdes, Eine Sklavin wärmt ein fürstlich Kind im Schoss des Wollenhemdes Unter ihnen eine Tiefe, über ihnen eine Wolke Liebe taut vom Himmel, Liebe wächst in diesem neuen Volke. Über eines Mantels Flattern, sturmverwobten greisen Haaren Will das Schweben einer Glorie einen Heilgen offenbaren, Dieses ist der heilge Markus, rüstig rudernd wie ein andrer Nach den nahenden Lagunen lenkt die Fahrt der selge Wandrer. Neben ihm der Jugendschlanke schlägt die Wellen, dass sie schallen, Wirren Locken sind die Kränze schwelgerischer Lust entfallen. Der Bacchant wird zum Äneas. Niederbrannte Trojas Feuer. Mit den rudernden Genossen sucht er edles Abenteuer. Mählich lichtet sich der Osten. In der ersten Helle schauen Kecke Männer tief ins Antlitz morgenbleicher schöner Frauen Lieblich Haupt, das blonde Flechten wie mit lichtem Ring umwinden, Bald an einem tapfern Herzen wirst du deine Heimat finden! Scharf gezeichnet neigt sich eines Helden narbge Stirne denkend In das göttliche Geheimnis ewgen Werdens sich versenkend; Rings in Stücke sprang zerschmettert Romas rostge Riesenkette, Neue Weltgeschicke gönnen junger Freiheit eine Stätte ... Wie geworfen aus dem Himmel heiter spielend von Auroren Schwimmt ein lichter Kranz von Inseln in die blaue Flut verloren, Durch die Brandung gehn die Kähne mit beseelten Ruderschlägen, Fischer stehen, schaumgebadet, und sie rufen sich entgegen: Flehnde kommen wir, Veneter! Drüben flammt ein weit Verderben! Unsre Seelen sind entronnen einem ungeheuern Sterben!’ ‘Freuet euch! Ihr lebt und atmet! Hier ist euch Asyl gegeben! Friede sei mit euren Toten! Freude denen, die da leben!’ Machtvoll, Schwert und Ruder tragend, wallen Genien vor den Böten; Auch ein Schwarm von Liebesgöttern flügelt durch die jungen Roten Über das Gestein der Insel geht ein Hauch von Lust und Wonne Ahnungsvollem Meer entsteigend, prangt Venedigs erste Sonne. Blonde Julia, deiner Heimat Ursprung hab ich dir verkündet, Liebe hat die Stadt Venedig, Liebe hat die Welt gegründet - 137 Deiner Augen strahlend blauer Himmel würde bleichen ohne Liebesfeuer und verstummen, wie die Laute des Giorgione!’ Più direttamente autobiografica è invece la poesia seguente, che rievoca un lungo soggiorno italiano di Meyer che, innamorato del sud e dalla vocalità delle lingue romanze, si tratteneva volentieri al di qua delle Alpi, ambientando anche molti dei suoi bei racconti in terra italiana. Dai versi seguenti trapela il grande amore di Meyer per l’arte italiana, qui nello specifico per Tiziano – che per altro gli ispira anche la ballata precedente –, pittore che ha evidentemente tratto la sua forza espressiva dalla sua gente e dalla realtà di Venezia. Se nel ricordo la fisicità – architettonica e olfattiva – della città s’annebbia, sempre ben vivo è un episodio vissuto dal poeta in prima persona: lo scoramento di una fanciulla che si vede tradita dal proprio innamorato e, trascolorata, viene allontanata dalla madre dal luogo che ha scatenato in lei quel dolore incoercibile: Venedig Venedig, einen Winter lebt ich dort Paläste, Brücken, der Lagune Duft! Doch hier im harten Licht der Gegenwart Verdämmet mehlig mir die Märchenwelt. Vielleicht vergaß ich einen Tizian. Ein Frevel! Jenen doch vergaß ich nicht, Wo über einem Sturm von Armen sich Die Jungfrau feurig in die Himmel hebt, So wenig als den andern Tizian Doch kein gemalter war’s - die Wirklichkeit: Am Quai, dem nächt’gen, der Slavonen war’s. Im Dunkel stand ich. Fenster schimmerten. Zwei dürft’ge Frauen kamen hergerannt. Hart an die Scheibe preßt’ das junge Weib Die bleiche Stirn. Was drinnen sie erblickt, Das sie erstarren machte, weiß ich nicht. (Vielleicht den Herzgeliebten, welcher sie An eines andern Weibes Brust verriet.) Ich aber sah den feinsten Mädchenkopf Vom Tod entfärbt! Ein Antlitz voller Tod! Die Mutter führte weg die Schwankende... Die beiden Tiziane blieben mir Stets gegenwärtig; löschen sie, so lischt Die Göttin vor dem armen Menschenkind. Ma la poesia di Meyer dedicata a Venezia che è fra le sue più famose è certamente quella dedicata al Canal Grande, colto nel momento del tramonto, in cui l’arcana fascinazione di questa arteria d’acqua raggiunge la sua massima intensità. Un raggio di sole serotino avvolge in una tarda luce purpurea risate e ammiccamenti malandrini che poi si spengono come il paesaggio che affonda nelle tenebre: 138 Auf dem Canal grande Auf dem Canal grande betten Tief sich ein die Abendschatten, Hundert dunkle Gondeln gleiten Als ein flüsterndes Geheimnis. Aber zwischen zwei Palästen Glüht herein die Abendsonne, Flammend wirft sie einen grellen Breiten Streifen auf die Gondeln. In dem purpurroten Lichte Laute Stimmen, hell Gelächter, Überredende Gebärden Und das frevle Spiel der Augen. Eine kurze, kleine Strecke Treibt das Leben leidenschaftlich Und erlischt im Schatten drüben Als ein unverständlich Murmeln. *** Venezia, che sempre godette di grande popolarità presso i tedeschi, diventò il simbolo degli ultimi splendori di ogni grande romanticismo dopo la scoperta che di questa città fece Richard Wagner. Il grande musicista giunse nella città lagunare per la prima volta nel 1858 e, come dice nei suoi diari, a lui sembrò subito di non essere approdato in uno spazio reale, ma in un mondo di favola. A Venezia, allora ancora austriaca, Wagner compose, com’è noto, il suo Tristan, e a Venezia, durante il suo sesto soggiorno morì nel 1883. Friedrich Nietzsche (1844-1900), che inizialmente era stato un grande ammiratore di Wagner e poi lo aveva attaccato per i suoi eccessi di decadenza, fu, come il compositore di cui in fondo continuò a sentirsi l’erede, soggiogato dal fascino di Venezia. Nel settimo capitoletto del suo testo autobiografico Ecce homo, scritto nel 1888, Nietzsche, dopo aver dichiarato che per lui Venezia è sinonimo di musica, dedica alla città questa poesia, dove si sottolinea soprattutto l’acustica di uno spazio crepuscolare al cui moto cullante è facile abbandonarsi: In brauner Nacht An der Brücke stand jüngst ich in brauner Nacht, Fernher kam Gesang: goldner Tropfen quoll’s über die zitternde Fläche weg. Gondeln, Lichter, Musik trunken schwamm’s in die Dämm’rung hinaus... Meine Seele, ein Saitenspiel, sang sich, unsichtbar berührt, heimlich ein Gondellied dazu, zitternd vor bunter Seligkeit. - Hörte jemand ihr zu?... 139 Nell’appendice a La gaia scienza, uscita nel 1882, Nietzsche tornò a dedicare una poesia a Venezia. Si tratta in questo caso di quattro strofe di sette versi a rima alterna che esprimono l’euforia del filosofo che rivedendo a Venezia prova per un momento una sensazione d’autentica felicità. La spontaneità di questa esplosione di entusiasmo per Venezia è sottolineata dal ripetersi a mo’ di ritornello e per due volte alla fine di ogni strofa l’esclamazione: “Mia felicità!”. Travolto da quest’ebbrezza, l’io lirico invia sul mare canti come uno storno di colombi e vorrebbe “sorbire fino in fondo” l’anima della Basilica di S. Marco che “ama, teme, invidia…” non meno dell’aguzzo e severo Campanile che adorna quella piazza di sogno, che tuttavia raggiunge l’apice della sua bellezza al crepuscolo: Mein Glück! Die Tauben von San Marco seh’ ich wieder: still ist der Platz, Vormittag ruht darauf. In sanfter Kühle schick’ich müßiger Lieder gleich Taubenschwärmen in das Blau hinauf und locke sie zurück, noch einen Reim zu hängen ins Gefieder - mein Glück! Mein Glück! Du stilles Himmels-Dach, blau-licht, von Seide, wie schwebst du schimmernd ob des bunten Bau’s den ich was sag ich? - liebe, fürchte, neide... die Seele wahrlich tränk’ ich gern ihm aus! Gäb’ ich sie je zurück? Nein still davon, du Augen-Wunderweide! - mein Glück! Mein Glück! Du strenger Turm, mit welchem Löwendrange stiegst du empor hier, siegreich, sonder Müh’! Du überklingst den Platz mit tiefem Klange -: französisch, wärst du sein aigu? Bleib’ ich gleich dir zurück, ich wüßte, aus welch seidenweichem Zwange... - mein Glück! Mein Glück! Fort, fort, Musik! Lass erst die Schatten dunkeln und wachsen bis zur braunen lauen Nacht! Zum Tone ist’s zu früh am Tag, noch funkeln die Gold-Zieraten nicht in Rosen-Pracht, noch blieb viel Tag zurück, viel Tag für Dichten, Schleichen, Einsam-Munkeln - mein Glück! Mein Glück! *** Nel tardo Ottocento, Venezia diventa meta obbligatoria per gli intellettuali tedeschi, ma anche luogo prediletto per coppie in luna di miele. Nel romanzo Effi Briest (1895) di Theodor Fontane (1819140 1898) la giovanissima protagonista, che sta per sposare per decisione dei suoi genitori un burocrate rigido e assai più anziano di lei, di cui non è affatto innamorata, esorcizza i suoi timori e le sue angosce esaltandosi all’idea di un viaggio di nozze che la porterà a Venezia, di cui racconta: Ich freue mich sehr auf Venedig. Da bleiben wir fünf Tage, ja, vielleicht eine ganze Woche. Geert hat mir schon von den Tauben auf dem Markusplatze vorgeschwärmt, und daß man sich da Tüten mit Erbsen kauft und dann die schönen Tiere damit füttert. La ragazza che paventa la pedanteria del suo futuro consorte che le vuol mostrare pinacoteche e gallerie d’arte, si rallegra all’immagine più turistica e banale di Venezia: quella di piazza S. Marco invasa dai piccioni a cui dar da mangiare piselli secchi, tolti da un cartoccio. *** Fra gli ammiratori incondizionati di Venezia, da cui rimase affascinato fin dal suo primo viaggio in Italia nel 1901, non poteva mancare Hermann Hesse (1877-1962), che così descrive il suo arrivo nella città lagunare: Ankunft in Venedig Du lautlos dunkler Kanal, Verlassenen Bucht, Uralter Häuser graue Flucht, Gotische Fenster und maurisch verziertes Portal! Von tiefem Traum besiegt, Vom Tode eingewiegt Schläft hier die Zeit Und alles Leben scheint so weit, so weit! Hier will ich ganz allein Durch alte Gassen gehn, Bei Fackelschein An Goldentreppen stehn, In blinde Fenster sehn, Bang-glücklich wie ein Kind im Dunkeln sein. La poesia, scritta da un giovane di ventiquattro anni, non eccelle certo per originalità. E’ interessante tuttavia notare che, mentre molti scrittori d’oltralpe sottolineano con irritazione il baccano di Venezia e dei Veneziani, Hesse ne coglie qui, neo-romanticamente, il prodigio nel silenzio. Hesse tornò a Venezia ancora nel 1903 e alla città dedicò un ciclo di sei Ballate, dal titolo complessivo di Colloqui fra gondole, di cui qui si riporta soltanto un esempio: II. Was ich träume, fragst du? Daß wir beide Gestern starben und im weißen Kleide, Weiße Blumen in den losen Haaren, In der schwarzen Gondel meerwärts fahren. 141 Glocken läuten fern vom Campanile, Werden leiser, werden bald vom Kiele Übergurgelt, den die Wellen schlagen. Weiter meerwärts werden wir getragen Dorthin, wo mit himmelhohen Masten Schiffe schwarz am Horizonte rasten, Wo die Fischerbarken mit den feuchten Rot und gelben Segeln tiefer leuchten, Wo die blauen großen Wogen brausen, Wo die wilden Schiffermähren hausen. Dort durch eines Wassertores blauen Rachen Segelt abwärts unser leichter Nachen In die Tiefen, deren weite Räume Fremd erfüllen die Krallenbäume, Wo die Muscheln, die verborgen glimmen, Bleiche Riesenperlen köstlich schimmern. Scheue Silberfische glänzen leise Uns vorbei und lassen Farbengleise, Deren Furche andre überglänzen Mit den goldenroten schlanken Schwänzen. Träumend dort in meilentiefer Tiefe Wird uns sein, als ob zuweilen riefe Einer Glocke Ton, ein Windeswehen, Deren fernes Lied wir nicht verstehen, Deren fernes Lied von engen Gassen Redet, die wir langeher verlassen, Und von Dingen, die wir ehemals kannten, Und von Wegen, die wir ehemals fanden. Einer Straße, eines Kircheninnern Werden wir verwundert uns erinnern, Eines Gondelrufs und vieler Namen, Die wir manches Mal Vorzeit vernahmen. Lächelnd, wie im Schlaf die Kinder pflegen, Werden wir die stummen Lippen regen Und das Wort wird, eh wir’s können lallen, In Vergessenheit und Traumtod fallen. Über uns die Schiffe gleiten, Dunkle Barken bunte Segel breiten, Weiße Vögel in der Sonne fliegen, Blanke Netze auf dem Wasser liegen, Und darüber hoch und rein gezogen Eines Sonnenhimmels blauer Bogen. *** Assai meno semplici suonano i molti versi del vastissimo poema L’aurora boreale (1910) del cosmico triestino Theodor Däubler (1876-1934) che sono dedicati a Venezia, città che ebbe una parte importante nella giovinezza dell’autore. Nei toni dell’espressionismo Däubler esprime in tono mistico e 142 patetico in questo immenso poema - 30 000 versi - la propria idea di cosmogonia. Neppure i passi dedicati a Venezia fanno eccezione; qui soltanto uno dei molti passi dedicati alla città lagunare: Oh Farbenstadt Venedig, dir zu Füßen Verstreut und legt ein grüner Strom Juwelen, Das Meer will jedes Dogenhaus begrüßen, Es dürfen nirgends Fluthgeflechte fehlen. Auf himmelblauem Dunkelgluthengrunde, Verbrähmt und strickt das Meer vor jedem Schlosse Prunkteppiche und seiner Tiefe Funde Umschwärmen leuchtend jede Seekarosse. Harmonisch sind des Meeres Sonnenstoffe. Vor Marmortreppen webt es Zängelspitzen Und droht verfinsternd steil das Gothisch Schroffe, So hilft es sich mit Silbewirbelwitzen. Die reinsten Flammen sind Türkisen, Rauten, Doch hebt das Meer oft Perlenspiegel, Narzissen schwemmt es vor die Schimmerbauten Und rothe Nelken vor Verwitterungsziegel. Ein wahrer Prachtdamast ruht vor den Stufen Der Muttergotteskirche “la Salute” Das Meer hat allen Prunk emporgerufen, In diesem Teppich wirkt es Grundtribute. Die Kirchenkuppel blickt mit mildem Auge Zur Spenderin der Reinheit auf, zur Sonne, Da scheint es fast, als labe sich und sauge Ein Tempelwunsch am stillen Milchtagsbronne. Venedig, die Empfindungsinseln stiller Stunden In deinen Fluthen, geb ich dir in Liedern wieder, Venedig, bunte Fernen sind in dir verbunden, Verschwundene Namen öffnen hier die Schlummerlieder. *** Avvolta in un’altra atmosfera e simbolo di un mito diverso è invece la città nella famosa novella Morte a Venezia (1912), scritta da Thomas Mann (1875-1955) fra il luglio del 1911 e il luglio successivo e destinata ad avere grande popolarità anche nel nostro paese, soprattutto grazie alla versione cinematografica che di questo testo propose Luchino Visconti nel 1970. Nel racconto manniano la città appare come lo spazio in cui Dioniso gioca in maniera sfrenata con Eros e Thanatos, coniugandoli in un connubio di voluttà e lesionismo che trionfa nella morte del protagonista guidato nell’aldilà da Tadzio, il ragazzo di cui si è invaghito, che si trasforma in un lagunare Ermes psicopompo. Venezia è qui città della malattia e della marcescenza esteriore ed interiore, luogo della seduzione e della disponibilità a farsi sedurre, dove l’ansia di recupero della giovinezza perduta diventa ridicolaggine e la gondola somiglia alla bara. Ogni pagina di questa stupenda novella potrebbe essere qui citata per illustrare il tratto malato e decadente di una città che è simbolo di una bellezza il cui sfacelo diventa sempre più corrosivo più rapido si fa il cammino del protagonista verso la morte. Prendiamo solo un 143 esempio dal terzo dei cinque capitoli in cui è suddivisa la novella, scegliendo il momento in cui lo scrittore Aschenbach arriva a Venezia: Der Himmel war grau, der Wind feucht; Hafen und Inseln waren zurückgeblieben, und rasch verlor sich aus dem dunstigen Gesichtskreise alles Land. Flocken von Kohlenstaub gingen, gedunsen von Nässe, auf das gewaschene Deck nieder, das nicht trocknen wollte. Schon nach einer Stunde spannte man ein Segeldach aus, da es zu regnen begann. In seinen Mantel geschlossen, ein Buch im Schoße, ruhte der Reisende, und die Stunden verrannen ihm unversehens. Es hatte zu regnen aufgehört; man entfernte das leinene Dach. Der Horizont war vollkommen. Unter der breiten Kuppel des Himmels dehnte sich rings die ungeheure Scheibe des öden Meeres; aber im leeren, ungegliederten Raume fehlt unserem Sinn auch das Maß der Zeit, und wir dämmern im Ungemessenen. Schattenhaft sonderbare Gestalten, der greise Geck, der Ziegenbart aus dem Schiffsinnern, gingen mit unbestimmten Gebärden, mit verwirrten Traumworten durch den Geist des Ruhenden, und er schlief ein. Um Mittag nötigte man ihn hinab, damit er in dem korridorartigen Speisesaal, auf den die Türen der Schlafkojen mündeten, zu Häupten eines langen Tisches, an dessen unterem Ende die Handelsgehülfen, einschließlich des Alten, seit zehn Uhr mit dem munteren Kapitän pokulierten, die bestellte Mahlzeit nähme. Sie war armselig, und er beendete sie rasch. Es trieb ihn ins Freie, nach dem Himmel zu sehen: ob er denn nicht über Venedig sich erhellen wollte. Er hatte nicht anders gedacht, als daß dies geschehen müsse, denn stets hatte die Stadt ihn im Glanze empfangen. Aber Himmel und Meer blieben trüb und bleiern, zeitweilig ging neblichter Regen nieder, und er fand sich darein, auf dem Wasserwege ein anderes Venedig zu erreichen, als er, zu Lande sich nähernd, je angetroffen hatte. Er stand am Fockmast, den Blick im Weiten, das Land erwartend. Er gedachte des schwermütigenthusiastischen Dichters, dem vormals die Kuppeln und Glockentürme seines Traumes aus diesen Fluten gestiegen waren, er wiederholte im Stillen einiges von dem, was damals an Ehrfurcht, Glück und Trauer zu maßvollem Gesange geworden, und von schon gestalteter Empfindung mühelos bewegt, prüfte er sein ernstes und müdes Herz, ob eine erneuernde Begeisterung und Verwirrung, ein spätes Abenteuer des Gefühles dem fahrenden Müßiggänger vielleicht noch vorbehalten sein könne. Da tauchte zur Rechten die flache Küste auf, Fischerboote belebten das Meer, die Bäderinsel erschien, der Dampfer ließ sie zur Linken, glitt verlangsamten Ganges durch den schmalen Port, der nach ihr benannt ist, und auf der Lagune, angesichts bunt armseliger Behausungen hielt er ganz, da die Barke des Sanitätsdienstes erwartet werden mußte. Eine Stunde verging, bis sie erschien. Man war angekommen und war es nicht; man hatte keine Eile und fühlte sich doch von Ungeduld getrieben. Die jungen Polenser, patriotisch angezogen auch wohl von den militärischen Hornsignalen, die aus der Gegend der öffentlichen Gärten her über das Wasser klangen, waren auf Deck gekommen, und, vom Asti begeistert, brachten sie Lebehochs auf die drüben exerzierenden Bersaglieri aus. Aber widerlich war es zu sehen, in welchen Zustand den aufgestutzten Greisen seine falsche Gemeinschaft mit der Jugend gebracht hatte. Sein altes Hirn hatte dem Weine nicht wie die jugendlich rüstigen Stand zu halten vermocht, er war kläglich betrunken. Verblödeten Blicks, eine Zigarette zwischen den zitternden Fingern, schwankte er, mühsam das Gleichgewicht haltend, auf der Stelle, vom Rausche vorwärts und rückwärts gezogen. Da er beim ersten Schritte gefallen wäre, getraute er sich nicht vom Fleck, doch zeigte er einen jammervollen Übermut, hielt jeden, der sich ihm näherte, am Knopfe fest, lallte, zwinkerte, kicherte, hob seinen beringten, runzeligen Zeigefinger zu alberner Neckerei und leckte auf abscheulich zweideutige Art mit der Zungenspitze die Mundwinkel. Aschenbach sah ihm mit finsteren Brauen zu, und wiederum kam ein Gefühl von Benommenheit ihn an, so, als zeige die Welt eine leichte, doch nicht zu hemmende Neigung, sich ins Sonderbare und Fratzenhafte zu entstellen; ein Gefühl, dem nachzuhängen freilich die Umstände ihn abhielten, da eben die stampfende Tätigkeit der Maschine aufs neue begann und das Schiff seine so nah dem Ziel unterbrochene Fahrt durch den Kanal von San Marco wieder aufnahm. So sah er ihn denn wieder, den erstaunlichsten Landungsplatz, jene blendende Komposition phantastischen Bauwerks, welche die Republik den ehrfürchtigen Blicken nahender Seefahrer entgegenstellte: die leichte Herrlichkeit des Palastes und die Seufzerbrücke, die Säulen mit Löw’ und Heiligem am Ufer, die prunkend vortretende Flanke des Märchentempels, den Durchblick auf Torweg und Riesenuhr, und anschauend bedachte er, daß zu Lande, auf dem Bahnhof in Venedig anlangen, einen Palast durch eine Hintertür betreten heiße, und daß man nicht anders als wie nun er, als zu Schiffe, als über das hohe Meer die unwahrscheinlichste der Städte erreichen sollte. Die Maschine stoppte, Gondeln drängten herzu, die Fallreepstreppe ward herabgelassen, Zollbeamte stiegen an Bord und walteten obenhin ihres Amtes; die Ausschiffung konnte beginnen. Aschenbach gab zu verstehen, daß er eine Gondel wünsche, die ihn und sein Gepäck zur Station jener kleinen Dampfer bringen solle, welche zwischen der Stadt und dem Lido verkehren; denn er gedachte am Meere Wohnung zu nehmen. Man billigt sein Vorhaben, man 144 schreit seinen Wunsch zur Wasserfläche hinab, wo die Gondelführer im Dialekt mit einander zanken. Er ist noch gehindert, hinabzusteigen, sein Koffer hindert ihn, der eben mit Mühsal die leiterartige Treppe hinunter gezerrt und geschleppt wird. So sieht er sich minutenlang außerstande, den Zudringlichkeiten des schauderhaften Alten zu entkommen, den die Trunkenheit dunkel antreibt, dem Fremden Abschiedshonneurs zu machen. “Wir wünschen den glücklichsten Aufenthalt”, meckert er unter Kratzfüßen. “Man empfiehlt sich geneigter Erinnerung! Au revoir, excusez und bon jour, Euer Exzellenz!” Sein Mund wässert, er drückt die Augen ein, er leckt die Mundwinkel, und die gefärbte Bartfliege an seiner Greisenlippe sträubt sich empor. “Unsere Komplimente”, lallt er, zwei Fingerspitzen am Munde, “unsere Komplimente dem Liebchen, dem allerliebsten, dem schönsten Liebchen...” Und plötzlich fällt ihm das falsche Obergebiß vom Kiefer auf die Unterlippe. Aschenbach konnte entweichen. “Dem Liebchen, dem feinen Liebchen”, hörte er in girrenden, hohlen und behinderten Lauten in seinem Rücken, während er, am Strickgeländer sich haltend, die Fallreepstreppe hinabklomm. Wer hätte nicht einen flüchtigen Schauder, eine geheime Scheu und Beklommenheit zu bekämpfen gehabt, wenn es zum ersten Male oder nach langer Entwöhnung galt, eine venezianische Gondel zu besteigen? Das seltsame Fahrzeug, aus balladesken Zeiten ganz unverändert überkommen und so eigentümlich schwarz, wie sonst unter allen Dingen nur Särge sind, es erinnert an lautlose und verbrecherische Abenteuer in plätschernder Nacht, es erinnert noch mehr an den Tod selbst, an Bahre und düsteres Begängnis und letzte, schweigsame Fahrt. Und hat man bemerkt, daß der Sitz einer solchen Barke, dieser sargschwarz lackierte, mattschwarz gepolsterte Armstuhl, der weichste, üppigste, der erschlaffendste Sitz von der Welt ist? Aschenbach ward es gewahr, als er zu Füßen des Gondoliers, seinem Gepäck gegenüber, das am Schnabel reinlich beisammen lag, sich niedergelassen hatte. Die Ruderer zankten immer noch, rauh, unverständlich, mit drohenden Gebärden. Aber die besondere Stille der Wasserstadt schien ihre Stimmen sanft aufzunehmen, zu entkörpern, über der Flut zu zerstreuen. Es war warm hier im Hafen. Lau angerührt vom Hauch des Scirocco, auf dem nachgiebigen Element in Kissen gelehnt, schloß der Reisende die Augen im Genuß einer so ungewohnten als süßen Lässigkeit. Die Fahrt wird kurz sein, dachte er; möchte sie immer währen! In leisem Schwanken fühlte er sich dem Gedränge, dem Stimmengewirr entgleiten. Wie still und stiller es um ihn wurde! Nichts war zu vernehmen als das Plätschern des Ruders, das hohle Aufschlagen der Wellen gegen den Schnabel der Barke, der steil, schwarz und an der Spitze hellebardenartig bewehrt über dem Wasser stand und noch ein Drittes, ein Reden, ein Raunen,-das Flüstern des Gondoliers, der zwischen den Zähnen, stoßweise, in Lauten, die von der Arbeit seiner Arme gepreßt waren, zu sich selber sprach. Aschenbach blickte auf, und mit leichter Befremdung gewahrte er, daß um ihn her die Lagune sich weitete und seine Fahrt dem offenen Meere zugekehrt war. Es schien folglich, daß er nicht allzu sehr ruhen dürfe, sondern auf den Vollzug seines Willens ein wenig bedacht sein müsse. -Zur Dampferstation also! sagte er mit einer halben Wendung rückwärts. Das Raunen verstummte. Er erhielt keine Antwort. -Zur Dampferstation also! wiederholte er, indem er sich vollends umwandte und in das Gesicht des Gondoliers emporblickte, der hinter ihm, auf erhöhtem Borde stehend, vor dem fahlen Himmel aufragte. Es war ein Mann von ungefälliger, ja brutaler Physiognomie, seemännisch blau gekleidet, mit einer gelben Schärpe gegürtet und einen formlosen Strohhut, dessen Geflecht sich aufzulösen begann, verwegen schief auf dem Kopfe. Seine Gesichtsbildung, sein blonder, lockiger Schnurrbart unter der kurz aufgeworfenen Nase ließen ihn durchaus nicht italienischen Schlages erscheinen. Obgleich eher schmächtig von Leibesbeschaffenheit, so daß man ihn für seinen Beruf nicht sonderlich geschickt geglaubt hätte, führte er das Ruder, bei jedem Schlage den ganzen Körper einsetzend, mit großer Energie. *** La prima lirica dalla sezione Canto dei trapassati della raccolta Sebastian in sogno (pubblicata solo postuma nel 1915) del salisburghese Georg Trakl (1887-1914) è composta di tre cinquine e intitolata A Venezia. Si tratta di versi che esprimono una profonda solitudine esistenziale, dove Venezia è solo un pretesto, vissuto fra le pareti di una stanza arredata con gusto tipicamente “veneziano”, per quanto si può arguire dallo scintillio argenteo del lampadario e dalla nuvolaglia rosea, probabilmente dipinta sul soffitto. Persino il mare non dà segni di movimento in una città che sembra paralizzata, come lo è l’io lirico, irrigidito nel proprio tormento che della vita esterna conserva solo il ricordo del sorriso di un bimbo malato. 145 In Venedig Stille in nächtigem Zimmer Silbern flackert der Leuchter Vor dem singenden Odem Des Einsamen; Zaubrisches Rosengewölk. Schwärzlicher Fliegenschwarm Verdunkelt den steinernen Raum Und es starrt von der Qual Des goldenen Tags das Haupt Des Heimatlosen. Reglos nachtet das Meer. Stern und schwärzliche Fahrt Entschwand am Kanal. Kind, dein kränkliches Lächeln Folgte mir leise im Schlaf. *** Al 1918 risale la pubblicazione della novella di Arthur Schnitzler (1862-1931) Il ritorno di Casanova, che presenta il libertino, già ultracinquantenne e orma privo delle sue doti deduttive, che rientra nella città natale per diventare spia; al suo crollo fisico si appaia qui il suo progressivo cedimento spirituale che lo induce ad accettare un servizio di delatore davvero poco dignitoso. Ecco perché, a conclusione del racconto, il riavvicinamento ai luoghi della sua giovinezza dopo un quarto di secolo d’assenza, è un tuffo progressivo nei ricordi e insieme la verifica dell’impossibilità di recuperare emozioni per sempre perdute: Es war am dritten Morgen seiner Reise, daß er, von Mestre aus, den Glockenturm nach mehr als zwanzig Jahren der Sehnsucht zum erstenmal wieder erschaute, - ein graues Steingebilde, das einsam ragend aus der Dämmerung wie aus weiter Ferne vor ihm auftauchte. Aber er wußte, daß ihn jetzt nur mehr eine Fahrt von zwei Stunden von der geliebten Stadt trennte, in der er jung gewesen war. Er entlohnte den Kutscher, ohne zu wissen, ob es der vierte, fünfte oder sechste war, mit dem er seit Manta abzurechnen hatte, und eilte, von einem Jungen gefolgt, der ihm das Gepäck nachtrug, durch die armseligen Straßen zum Hafen, um das Marktschiff zu erreichen, das heute noch, wie vor fünfundzwanzig Jahren, um sechs Uhr nach Venedig abging. Es schien nur noch auf ihn gewartet zu haben; kaum hatte er unter Weibern, die ihre Ware zur Stadt brachten, kleinen Geschäftsleuten, Handwerkern auf einer schmalen Bank seinen Platz eingenommen, als sich das Schiff in Bewegung setzte. Der Rimmel war trüb; Dunst lag auf den Lagunen; es roch nach faulem Wasser, nach feuchtem Holz, nach Fischen und nach frischem Obst. Immer höher ragte der Campanile, andre Türme zeichneten sich in der Luft ab, Kirchenkuppeln wurden sichtbar; von irgendeinem Dach, von zweien, von vielen glänzte der Strahl der Morgensonne ihm entgegen; - Häuser rückten auseinander, wuchsen in die Höhe; Schiffe, größere und kleinere, tauchten aus dem Nebel; Grüße von einem zum andern wurden getauscht. Das Geschwätz rings um ihn wurde lauter; ein kleines Mädchen bot ihm Trauben zum Kauf; er verzehrte die blauen Beeren, spuckte die Schalen nach der Art seiner Landsleute hinter sich über Bord und ließ sich in ein Gespräch mit irgendeinem Menschen ein, der seine Befriedigung darüber äußerte, daß nun endlich schönes Wetter anzubrechen scheine. Wie, es hatte hier drei Tage lang geregnet? Er wußte nichts davon; er kam aus dem Süden, aus Neapel, aus Rom … Schon fuhr das Schiff durch die Kanäle der Vorstadt; schmutzige Häuser starrten ihn aus trüben Fenstern wie mit blöden, fremden Augen an, zwei-, dreimal hielt das Schiff an, ein paar junge Leute, einer mit einer großen Mappe unterm Arm, Weiber mit Körben stiegen aus; - nun kam man in 146 freundlichere Bezirke. War dies nicht die Kirche, in der Martina zur Beichte gegangen war? - Und dies nicht das Haus, in dem er die blasse, todkranke Agathe auf seine Weise wieder rot und gesund gemacht hatte? - Und hatte er in jenem nicht den schuftigen Bruder der reizenden Silvia braun und blau geprügelt? Und in jenem Seitenkanal das kleine gelbliche Haus, auf dessen wasserbespülten Stufen ein dickes Frauenzimmer mit nackten Füßen stand … Ehe er sich noch zu besinnen vermochte, welche Erscheinung aus fernen Jugendtagen er dahin zu versetzen hatte, war das Schiff in den großen Kanal eingelenkt und fuhr nun auf der breiten Wasserstraße langsam zwischen Palästen weiter. Es war Casanova, von seinem Traume her, als war er erst tags vorher denselben Weg gefahren. An der Rialtobrücke stieg er aus; denn eh’ er sich zu Herrn Bragadino begab, wollte er in einem nahen kleinen, wohlfeilen Gasthof, dessen er sich der Lage, aber nicht dem Namen nach erinnerte, sein Gepäck unterbringen und sich eines Zimmers versichern. Er fand das Haus verfallener, oder mindestens vernachlässigter, als er es im Gedächtnis bewahrt hatte; ein verdrossener, unrasierter Kellner wies ihm einen wenig freundlichen Raum mit der Aussicht auf die fensterlose Mauer eines gegenüberliegenden Hauses an. Doch Casanova wollte keine Zeit verlieren; auch war ihm, da sich seine Barschaft auf der Reise beinahe gänzlich erschöpft hatte, der niedrige Preis des Zimmers sehr erwünscht; so beschloß er, vorläufig hier zu bleiben, befreite sich vom Staub und Schmutz der langen Reise, überlegte eine Weile, ob er sich in sein Prachtgewand werfen sollte, fand es dann doch angemessen, wieder das bescheidenere anzulegen, und verließ endlich den Gasthof. *** La Venezia di Casanova – che era anche quella del Tintoretto e del Canaletto – affascinò moltissimo anche un altro poeta del cosiddetto gruppo della “Giovane Vienna” come Schnitzler: Hugo von Hofmannsthal (1874-1929), che ambientò in quell’atmosfera storica il suo dramma L’avventuriero e la cantante (1897), la sua prima commedia, Il ritorno di Cristina (1910) e parte del suo unico romanzo, rimasto frammentario, Andrea ovvero i ricongiunti, al quale il poeta lavorò dal 1913 al 1924. Così descrive Hofmannsthal l’arrivo del protagonista nella città lagunare, un luogo estraneo e strano, che tuttavia gli ispira fiducia: “Das geht gut”, dachte der junge Herr Andreas von Ferschengelder, als der Barkenführer ihm am 12. September 1778 seinen Koffer auf die Steintreppe gestellt hatte und wieder abstieß, “das wird gut, läßt mich da stehen, mir nichts dir nichts, einen Wagen gibts nicht in Venedig, das weiß ich, ein Träger, wie käme da einer her, es ist ein öder Winkel, wo sich die Füchse gute Nacht sagen. Als ließe man einen um sechs Uhr früh auf der Rossauerlände oder unter den Weißgärbern aus der Fahrpost aussteigen, der sich in Wien nicht auskennt. Ich kann die Sprache, was ist das weiter, deswegen machen sie doch aus mir was sie wollen! Wie redt man denn wildfremde Leute an, die in ihren Häusern schlafen - klopf ich an, und sag: Herr Nachbar?” Er wußte, er würde es nicht tun, - indem waren Schritte hörbar, scharf und deutlich in der Morgenstille auf dem steinernen Erdboden; es dauerte lange, bis sie näher kamen, da trat aus einem Gäßchen ein Maskierter hervor, wickelte sich fester in seinen Mantel, nahm mit beiden Händen ihn zusammen und wollte quer über den Platz gehen. Andreas tat einen Schritt vor und grüßte, die Maske lüftete den Hut und zugleich die Halblarve, die innen am Hut befestigt war. Es war ein Mann, der vertrauenswürdig aussah, und nach seinen Bewegungen und Manieren gehörte er zu den besten Ständen. Andreas wollte sich beeilen, es dünkte ihn unartig, einen Herrn, der nach Hause ging, zu dieser Stunde lang aufzuhalten, er sagte schnell, daß er ein Fremder sei, eben angekommen aus Wien von Villach in Kärnten und über Görz. Sogleich erschien ihm weitschweifig und ungeschickt, daß er die Stationen genannt hatte, er wurde verlegen und verwirrte sich im Italienischreden. Der Fremde trat mit einer sehr verbindlichen Bewegung näher und sagte, daß er ganz zu seinen Diensten sei. Von dieser Gebärde war vorne der Mantel aufgegangen, und Andreas sah, daß der höfliche Herr unter dem Mantel im bloßen Hemde war, darunter nur Schuhe ohne Schnallen und herabhängende Kniestrümpfe, die die halbe Wade bloß ließen. Schnell bat er den Herrn, doch ja bei der kalten Morgenluft sich nicht aufzuhalten und seinen Weg nach Hause fortzusetzen, er werde schon jemanden finden, der ihn nach einem Logierhaus weise oder zu einem Wohnungsvermieter. Der Maskierte schlug den Mantel fester um die Hüften und versicherte, er habe durchaus keine Eile. Andreas war tödlich verlegen im Gedanken, daß der andere nun wisse, er habe sein sonderbares Negligé gesehen; durch die alberne Bemerkung von der kalten Morgenluft und vor Verlegenheit wurde ihm ganz heiß, so daß er unwillkürlich auch seinerseits den Reisemantel vorne auseinanderschlug, indessen der 147 Venezianer aufs höflichste vorbrachte, daß es ihn besonders freue, einem Untertan der Kaiserin und Königin Maria Theresia einen Dienst zu erweisen, um so mehr, als er schon mit mehreren Österreichern in Freundschaft gestanden habe, so mit dem Pandurenobersten Baron Reischach und mit dem Grafen Esterhazy. Diese wohlbekannten Namen, von dem Fremden hier so vertraulich ausgesprochen, flößten Andreas großes Zutrauen ein. A Venezia, bella in apparenza e corrotta nel profondo, Hofmannsthal (1874-1929) dedica anche un brano del suo dramma lirico La morte di Tiziano (1892), ambientato nel 1576, anno della morte del grande pittore. Uno degli allievi del maestro morente, Desiderio, esteta raffinato come gli altri del gruppo, dalla villa del Maestro - locus amoenus per eccellenza - guarda da lontano alla città di Venezia, vista come il luogo della vita attiva e quindi come covo di volgarità con cui non mescolarsi: Siehst du die Stadt, wie sie jetzt drunten ruht? Gehüllt in Duft und goldne Abendglut Und rosig helles Gelb und helles Grau, Zu ihren Füßen schwarzer Schatten Blau, In Schönheit lockend, feuchtverklärter Reinheit? Allein in diesem Duft, dem ahnungsvollen, Da wohnt die Häßlichkeit und die Gemeinheit, Und bei den Tieren wohnen dort die tollen; Und was die Ferne weise dir verhüllt, Ist ekelhaft und trüb und schal erfüllt Von Wesen, die die Schönheit nicht erkennen Und ihre Welt mit unsern Worten nennen... Denn unsre Wonnen oder unsre Pein Hat mit derihren nur das Wort gemein... Und liegen wir in tiefem Schlafe befangen, So gleicht der unsre ihrem Schlafe nicht: Da schlafen Purpurblüten, goldne Schlangen, Da schläft ein Berg ein Berg, in dem Titanen hämmern Sie aber schlafen, wie die Austern dämmern. *** In più di un’occasione ha dedicato versi a Venezia anche il malinconico e schivo Rainer Maria Rilke (1875-1926), legato alla città da amicizie e affetti. Il primo componimento lirico qui presentato è tratto dalla raccolta giovanile Le undici visioni di Cristo, risalente probabilmente al 1897, ossia alla prima visita del poeta alla città lagunare, avvenuta poco prima del suo incontro con Lou Andreas Salomé, che avrebbe dato una svolta al suo destino. Rilke allora si spinge a Venezia da Arco, usando come guida Il viaggio in Italia di Goethe, che tuttavia ben presto gli appare troppo lucido, privo di “atmosfera”. Nella lunga poesia Rilke descrive la città lagunare in maniera tradizionale, salvo farvi comparire un Cristo che lega il proprio destino a quello del martire risorgimentale Silvio Pellico, che, prigioniero degli austriaci, si converte: 148 Venedig Die junge Nacht liegt wie ein kühler Duft auf dem Canal , und grauer nun und greiser sind die Paläste und die Gondeln leiser, als führte jede einen toten Kaiser in seine Gruft. Und viele fahren, aber eine schwenkt jetzt scheu und ängstlich in die tiefsten Gassen, weil tiefste Liebe oder tiefstes Hassen ihr Steuer lenkt. Vor einem Marmorhaus mit staubger Zier drängt sie sich horchend an die Wappenpfähle. Und lange ruhte keine Gondel hier. Die Stufen warten. - Fern aus heller Kehle am Canal grande singt ein Gondolier, und suchend irrt sein Lied durch die Kanäle. Der Fremde steht und trinkt den Klang voll Gier, in lauter Lauschen löst sich seine Seele: Vorrei morir... Der Abend zog vorbei am Erdgeschoß des Dogenhofs, und die Reflexe rannten hin wie ein Schwarm von wunden Flagellanten. Er aber stand so einsam ernst und groß am Fuß der stolzen Treppe der Giganten, und seiner Blicke dunkle Bogen spannten sich nach dem Fenster, dessen Flächen brannten: sie heißen es das Fenster Pellico’s. Er nickte leise, so als stände jener noch dort, der einst in ewig öder Haft ergeben wie ein echter Nazarener verzichtete auf Zorn und Kampf und Kraft. Vielleicht giebt er den Gruß zurück und rafft des Vorhangs Falten. Wenn noch seinen Namen Verliebte, (die) des Wegs vorüberkamen, zusammenträumen mit den Sündendramen, erschien er hoch im heißen Fensterrahmen, er lächelte das Lächeln einer zahmen in Fesseln müd gewordnen Leidenschaft. Und jener unten lächelte es mit. Dann stieg er stufenan mit scheuem Schritt und stand oft still, im vollen Abendscheine, drin die Arkaden, wie versteinte Haine, zu harren schienen, daß er sie durchweine, so traurig war er; denn es war der Eine, der immer dankte, wenn er sprach: ich litt. Sein Haupt war schwer, und schweren Fußes ging er in die leeren Marmorbogengänge, an denen wie vergessenes Gepränge der rote, raschverwelkte Abend hing. Ihn fröstelte, und hastig ward sein Schreiten, das bang erklang im hallend langen Gang. Vor seiner eignen Lehre war ihm bang: vor jener Lehre der Vergänglichkeiten. Sie wuchs um ihn in säulenstarrem Hohne: so wächst der Zorn dem rachgieren Sohne, 149 der aus des greisen Vaters feiger Frohne zu eignem Wort und eignem Weh sich wand. Er lief zuletzt. Und wie gerettet stand er endlich still auf einsamem Balkone und lauschte, was in langem, leisem Tone die matte Woge sang dem Abendland. Da knistert neben ihm ein Schleppgewand: und bei ihm kniet in hoher Mützenkrone mit weißem Bart ein purpurner Patrone, und leise faltet sich die Hand zur Hand. Und Jesus nickt und fragt den alten Mann: “Schwarz ist der Hafen. Wo sind eure Feste? Giebts keine Gäste mehr? An die Paläste legt niemals mehr der bunte Jubel an? Ich warte schon so lange, wo sind sie die mich verehrt, die wundersamen Alten mit Silberbärten, lang und tiefgespalten die Vendramin und Papadopoli. Ich weiß: die Nacht bewohnt in euren kalten Palästen jetzt das beste Prunkgemach. Denn ihr seid lang gestorben, und den Jungen ist Lied und Lachen gar so bald verklungen in einer Zeit, die nur mit Eisen sprach. Jetzt sind die Gassen alle kalt und und brach, und Trauer nur, in halbem Traum gesungen, langt oft den flüchtenden Erinnerungen aus einem engen grauen Hause nach. Von keinem Lande wissen eure Stufen, und alles kam, wie es die Vorsicht will. Der Hochmut hohe Häuser starben still, und nur die Kirchen dauern noch und rufen.” “Ja, Herr”, spricht jetzt der Doge und entfaltet die Hände nicht. “Der Todes Ohnmacht waltet mit tausend tiefen Schauern über uns. Und deine Glocken locken lauten Munds. Du giebst noch immer große, reiche Feste und machst, daß deine gernbereiten Gäste in deinen Hallen Elend und Gebreste vergessen und wie Kinder selig sind. Und jedes Volk, das gerne noch als Kind sich fühlen mag, folgt in die Prachtpaläste die du ihm aufgetan und betet blind. Doch ich bin alt. Ich seh die Zeiten rollen bis in den Tag, da keine Völker mehr wie Kinder sein und Kinder spielen wollen; denn mögen alle deine Glocken grollen, dann bleibt auch dein Palast für ewig leer.” Der Alte schwieg. Wie betend blieb er knien. Sternknospen sprangen an den Himmelsachsen. Und dieses Knien schien weit hinauszuwachsen vorbei an Christo und weit über ihn... A Venezia Rilke, che alla città dedica anche qualche breve prosa, tornò più volte; inizialmente, la città gli era apparsa triste e sconsolata come una stanza non riscaldata, ma durante il soggiorno del 1907 essa conquistò pian piano Rilke, che ne divenne un suo ammiratore incondizionato. Qui il poeta ebbe a 150 fortuna di abitare nell’appartamento della principessa Marie von Thurn und Taxis, che dava direttamente sul Canal Grande, frequentò archivi e biblioteche, salotti e pinacoteche, ebbe una tenera relazione e si godette i bagni al Lido, cercando sempre di tenersi lontano da un turismo chiassoso, che invece lo irritava. Fra le Poesie nuove, c’è anche un bel sonetto, dedicato al tardo autunno veneziano, dove il poeta si stacca dalla banalità di gondole e colombi che appartengono ai clichè turistici più triti: Spätherbst in Venedig Nun treibt die Stadt schon nicht mehr wie ein Köder, der alle aufgetauchten Tage fängt. Die gläsernen Paläste klingen spröder an deinen Blick. Und aus den Gärten hängt der Sommer wie ein Haufen Marionetten kopfüber, müde, umgebracht. Aber vom Grund aus alten Waldskeletten steigt Willen auf: als sollte über Nacht der General des Meeres die Galeeren verdoppeln in dem wachen Arsenal, um schon die nächste Morgenluft zu teeren mit einer Flotte, welche ruderschlagend sich drängt und jäh, mit allen Flaggen tagend, den großen Wind hat, strahlend und fatal. Questo sonetto fa parte di un gruppo di liriche veneziane, contenute nella seconda sezione delle Poesie nuove; fra queste si trova anche la lirica sulla basilica di S. Marco, dove l’aspetto descrittivo concreto è ridotto al minimo: San Marco Venedig In diesem Innern, das wie ausgehöhlt sich wölbt und wendet in den goldnen Smalten, rundkantig, glatt, mit Köstlichkeit geölt, ward dieses Staates Dunkelheit gehalten und heimlich aufgehäuft, als Gleichgewicht des Lichtes, das in allen seinen Dingen sich so vermehrt, daß sie fast vergingen -, Und plötzlich zweifelst du: vergehn sie nicht? und drängst zurück die harte Galerie, die, wie ein Gang im Bergwerk, nah am Glanz der Wölbung hängt; und du erkennst die heile Helle des Ausblicks: aber irgendwie wehmütig messend ihre müde Weile am nahen Überstehn des Viergespanns. 151 *** Due sonetti su Venezia si trovano anche nell’antologia lirica L’acqua s’arrotonderà, pubblicata nel 1963, del filosofo e poeta Rudolf Pannwitz (1881-1969), la cui opera, influenzata da Stefan George, si caratterizza per la grafia rigorosamente minuscola. La scelta di una griglia formale rigida come quella del sonetto rispecchia al meglio il carattere rigoroso e il piglio apodittico di questa personalità sconcertante, che tanta ascendenza ebbe su Hofmannsthal maturo. Il primo dei sonetti di Pannwitz sembra in effetti scolpire nelle parole uno spazio architettonico dalle linee precise e disposte secondo una stratificazione ben calcolata (cinque cupole, tre portali, archi a tutto tondo e torrette), capace di assorbire e riflettere la luce in un sorprendente gioco cromatico che rende ebbri perché è altrettanto splendente al tramonto quanto nell’ora del meriggio. Venedig /San Marco 1 San Marco, seitlich edelste paläste In langen fronten auf dem platz gerichtet. Der dom ein farbenrausch ist hingedichtet. Dich fünffach überwölbt der kuppeln veste. Portale drei. daroben - edle reste Hellenisches viergespann. Der raum durchlichtet / Rundbögen säulen türmchen hoch geschichtet. Das überprächtige ganze lädt zum feste. Von mosaik erstrahlende fassade Und irr gezuck von schwingen muntrer tauben: Bis des gestirnten himmels goldne pfade Die diamantne linie der lauben Vedunkelt mit juwelen - ohne schade Dem don: er glänzt wie mittags / schwer zu glauben. Mentre il primo sonetto descrive la basilica nel suo splendore esterno e la vede inserita nel contesto della piazza, il secondo prende invece in esame l’interno della chiesa e di nuovo ne passa in rassegna nicchie e cappelle ed archi che s’intrecciato e s’uniscono fino a chiudersi in un’unità armonica; dopo le linee, si passa anche qui ai colori particolari che irradiano dai mosaici e illuminano le figure umane e le varie creature, nonché i vari ornamenti e arzigogoli alle pareti che insieme formano un unico tripudio a Dio dinanzi al quale i fedeli s’inginocchiano a pregare: 152 2 O eine welt aus gold! in fächern gießen Die kuppeln weitum sonne, farben fangend Ist jede nische. bögen raumschön hangend In langer flucht sich an einander schließen. Von ihnen lichte pfeiler niederfließen. Und mosaikisch alle flächen prangend: Figuren heilig die und die verlangend Nach paradiesisch zartrstem genießen. Die seelenwonne starr und überschwänglich Blickt hier aus meinen pflanzenhaft gebannten Und körpern fleisch- und knochenfrei und länglich Und stern und blume zieren harte kanten An den gewanden: ob ihr stil vergänglich Der beter kniet vor diesen Gott-entbrannten. *** Il drammaturgo, critico teatrale e poeta Georg Britting (1891-1964), intitola a Venezia una poesia della raccolta Il calendario indisturbato, pubblicata per la prima volta nel 1956, quando l’autore conosceva l’Italia da ormai trent’anni. Negli otto versi non rimati predomina un senso di putrescenza e di morte: Venedig Wie schwarze Schwäne gleiten die Kähne hin. Rauh tönt der Ruf der Gondoliere. Stumm, In Öl gesotten, glänzt das Kleinzeug Starriger Fische im Kupferkessel. Venedig glüht im sterbenden Gold. Sein Blut Verströmt ein altes Wappen im Abendrot. Die Taschenkrebse der Kanäle Klettern behende am faulen Holze. *** Il germanista, scrittore e poeta zurighese Robert Faesi (1883-1972) in una poesia composta di due quartine a rima alterna, sottolinea la fragilità di Venezia, chiamando in causa l’arte dei vetrai di Murano, che dalle loro cannule gonfiano il materiale incandescente trasformandolo in preziosi oggetti di estrema delicatezza che diventano quasi il simbolo della città stessa, che vive sotto la minaccia di un possibile sprofondamento: 153 Venedig Die Stadt aus Glas - mit sachter Kunst geblasen; Nur daß der Kelche keiner mehr enthält Als Licht. Lächelnd ist alles umgestellt: Das Wasser füllen ungefüllte Vasen. Verletzlich zart ist Anmut. Immer bricht Vom Rand ein unersetzlich feiner Splitter. Dann geistert regenbogenfarb Gezitter Wehmütig und das Kleinod. Weint das Licht? *** Molto meno tenera è l’immagine che di Venezia delinea Rolf Hochhuth (nato nel 1931). Divenuto famoso per il suo dramma Il Vicario, in cui attacca il Vaticano per la sua connivenza con il regime fascista, il drammaturgo Hochhuth, sempre polemico nei confronti delle istituzioni clericali, attacca la chiesa anche nella seguente poesia. La sua è una Venezia, colta nel momento dell’invasione turistica di Pasqua. Hochhuth rievoca qui tutti gli stereotipi che si connettono a Venezia, dalla sdolcinatezza dei walzer di Johann Strauß (dall’operetta di Una notte a Venezia ) al variopinto popolo dei visitatori, dove non mancano maestrine, gay inglesi e monache che si fingono innocenti. Il patriarca di Venezia, ora che finalmente è finita la Quaresima, si getta famelico sulle vivande di una tavola imbandita subito dopo aver celebrato la messa solenne per la resurrezione di Cristo in una basilica, in cui ogni oggetto d’arte è frutto di un latrocinio. E’ una Venezia ridotta a merce, quella di Hochhuth, dove a trionfare sono gli oggetti kitsch dei vetro di Murano: Ostern Straußens Walzer auf San Marco, komponiert in jenen Jahren, da Venetien Wien gehörte. Fiatflitzer, Pizzaesser hagre Katzen, Filmkritiker Lehrerinnen, schwule Briten Inder, Sari, roter Turban Nonnen, wegsehend, weil ein Terrier stämmig einen Pudel stößt. Dort Höchstselbst der Patriarch, der bis eben fasten mußte, stürmt vom Hochamt an die Tafel. Früh im Dom, der Räuberhöhle - was dort Kunst ist, ist gestohlen -, glaubt man an die Auferstehung. Die Piazza glaubt dem Umsatz, den Muranos greller Glaskitsch zweimal wöchentlich erzielt. 154 *** Una sorta d’immedesimazione con la città prova invece l’ebra ucraina Rose Ausländer (19071988) di fronte a Venezia, una città che in questa sua poesia del 1986, dice di sentire come sua, anche perché nonostante la sua apparente fragilità, resiste e non affonda mai: Mein Venedig Venedig meine Stadt Ich fühle sie von Welle zu Welle von Brücke zu Brücke Ich wohne in jedem Palast am großen Kanal Meine Glocken läuten Gedichte mein Venedig versinkt nicht *** E dopo questa serie di poesie, torniamo alla prosa, con un autore contemporaneo. Venezia, nella sua labirintica complessità, appare a W. G. Sebald (1944-2001) quasi oscena, come egli scrive esplicitamente nel suo racconto dal titolo italiano, All’estero, della raccolta Vertigini; Venezia è per lui un luogo di turbamento continuo, anche perché la vive nella consapevolezza che le sue percezioni sono fortemente influenzate dalle immagini che di questa città gli hanno fornito le letture di Casanova, Grillparzer, Hofmannsthal, Schnitzler, Kafka. Sebald sa che la sua è una MetaVenezia, che lo angoscia e lo getta in uno stato di apatia simile al rigor mortis. Per questo decide di abbandonare in fretta e furia la città, che scatena in lui senso di vertigine, mania di persecuzione, orrore. La sua Venezia non ha nulla in comune con la tradizionale città da sogno proposta dalle guide turistiche, ma somiglia piuttosto a una trappola mortale: Wer hineingeht in das Innere dieser Stadt, weiß nie, was er als nächstes sieht oder von wem er im nächsten Augenblick gesehen wird. Kaum tritt einer auf, hat er die Bühne durch einen anderen Ausgang wieder verlassen. Diese kurzen Expositionen sind von einer geradezu theatralischen Obszönität und haben zugleich etwas von einer Verschwörung an sich, in die man ungefragt und unwillentlich einbezogen wird. Geht man in einer sonst leeren Gasse hinter jemandem her, so bedarf es nur einer geringfügigen Beschleunigung der Schritte, um diejenigen, den man verfolgt, die Angst in den Nacken zu setzen. Umgekehrt wird man leicht selbst zum Verfolgten. Verwirrung und eisiger Schrecken wechseln einander ab. Verwirrung und eisiger Schrecken wechseln einander ab. Es war darum mit einem gewissen Gefühl der Befreiung, daß ich, nachdem ich eine Stunde lang fast unter den hohen Häusern des Ghettos herumgegangen war, bei San Marcuola wieder den Grossen Kanal erblickte. Eilig wie ein Einheimischer auf dem Weg ins Geschäft bestieg ich ein Vaporetto. […] 155 Es ist in dieser Stadt ein anderes Aufwachen, als man es sonst gewöhnt ist. Still bricht nämlich der Tag an, durchdrungen nur von einzelnen Rufen, vom Hinauflassen eines blechernen Rolladens, vom Flügelklatschen der Tauben. […] Ganz und gar unwirklich, als müsste sie gleich zerrissen werden, dünkte mich darum die Stille über der Stadt Venedig an diesem frühen Morgen der Allerheiligentags, an dem die weiße Luft durch die halboffenen Fenstern meines Zimmers hereindrang und alles verhängte, so daß ich wie mitten in einem Nebelmeer lag. […] Die zweite Nacht in Venedig verging, und es vergingen der Allerseelentag und eine dritte Nacht, aus der ich am Montagmorgen erst in einem eigenartigen Zustand der Gewichtslosigkeit wieder zu mir kam. Ein heißes Bad, die Butterbrote und der Rotwein von gestern und die Zeitung, die ich mir heraufbringließ, setzten mich so weit wieder instand, daß ich meine Tasche packen und ich wieder auf den Weg machen konnte. *** Il lavoro di ricerca di testi letterari in lingua tedesca su Venezia, come si deduce facilmente da questo breve exursus, non può che configurarsi come un torso, come qualcosa di non finito, che necessita di continuo aggiornamento. Pur nella sua consapevole limitatezza, questa passerella risulta tuttavia come un caleidoscopio dalle formazioni variopinte e multiformi che dimostra come le parole non hanno ancora cessato di fotografare, nelle loro mille diverse combinazioni, un paesaggio che non smette di essere fonte d’ispirazione per chi ha fatto della penna il proprio strumento di lavoro. Piuttosto evidente è che Venezia, più ci si avvicina alla modernità, dove la disponibilità alla trasfigurazione sembra venir progressivamente meno, sembra cessare di essere spazio della fiaba e del mito, e all’apoteosi si sostituisce spesso la critica e, se mai, una fantasmagoria di segno negativo. 156 MICHEL COLLOT LE VISIBLE ET L’INVISIBLE: LES PAYSAGES AVEC FIGURES ABSENTES DE PHILIPPE JACCOTTET Si j’ai choisi d’évoquer le cas de Philippe Jaccottet, c’est qu’il est un des poètes contemporains qui a interrogé avec le plus de constance les rapports entre paysage et poésie, qui sont au cœur de son œuvre depuis plus de cinquante ans. Sa démarche me paraît donc exemplaire ; mais avant d’en dégager quelques-uns des principaux enjeux, il me faut rapidement la situer dans son contexte géographique, historique, et littéraire. Contexte géographique Jaccottet est né en Suisse romande, en 1925 ; il a fait ses études à Lausanne. On peut penser que son intérêt pour le paysage s’ancre dans une tradition culturelle et littéraire helvétique. Et de fait, il a reconnu sa dette envers son aîné Gustave Roud, qu’il a rencontré adolescent et qui a consacré une part importante de son œuvre à l’évocation poétique du paysage. Mais Roud était aussi le traducteur de Hölderlin et de Novalis, et par son intermédiaire, c’est peut-être surtout au romantisme allemand que Jaccottet s’est initié. À la différence de Roud, pourtant, Jaccottet n’a guère célébré son pays natal ni ses paysages. Il a éprouvé très tôt le désir de sortir des « jardins clos de la Suisse ». Après-guerre, il accepte d’aller travailler à Paris pour le compte d’un éditeur suisse ; et après sept hivers passés dans la capitale, il décide de s’installer à Grignan, où il vit toujours. Et c’est là qu’il dit avoir ressenti pour la première fois l’appel du paysage, et qu’il a commencé à écrire sur ce thème. Les paysages de la Drôme provençale sont pourtant moins spectaculaires et moins chargés de souvenirs littéraires que ceux de la Suisse. Et Jaccottet insiste volontiers sur leur caractère somme toute banal, qui ne les empêche pas d’exercer sur lui un pouvoir d’attraction qui ne s’est jamais démenti. Si j’ai rappelé brièvement cet itinéraire qui a conduit Jaccottet à la rencontre du paysage, c’est parce qu’il illustre une distinction utile pour notre réflexion : le paysage n’est pas le pays, et il faut parfois prendre ses distances vis-à-vis du pays pour découvrir le paysage. Celui-ci n’est donc pas nécessairement lié à une problématique de l’enracinement ; il est souvent découvert à la faveur du voyage ou de l’exil. À la différence du pays, le paysage n’a pas de frontière, si ce n’est celle que trace l’horizon, mais elle est ouverte et perméable. L’installation de Jaccottet à Grignan ne correspond pas 157 non plus à un parti pris régionaliste : il y reste en contact avec les milieux littéraires suisses et parisiens, et il traduit des textes de plusieurs pays et langues d’Europe. C’est l’occasion de souligner que l’évolution de la notion et de l’art du paysage occidental a été marqué, en de nombreux moments de son histoire, par une incessante circulation des idées et des hommes d’un pays à l’autre de l’Europe. C’est l’un des intérêts de cette notion aujourd’hui que de pouvoir traverser les frontières, comme en témoigne notre réunion. Le paysage bien sûr peut être lié à l’affirmation d’une identité locale, régionale ou nationale, mais il peut aussi contribuer à l’élaboration d’une identité européenne, qui se cherche. Contexte historique On peut être étonné de voir un jeune poète, au sortir de la seconde guerre mondiale, en pleine guerre froide, choisir un thème apparemment bien éloigné des préoccupations de ses contemporains. Indifférence à l’histoire ? Non : bien que protégé par la neutralité suisse, Jaccottet a été marqué par les horreurs de la guerre ; son premier recueil, Requiem, réunit des poèmes inspirés par des photos de maquisards français exécutés par les allemands 97 . Le cas de Jaccottet n’est pas isolé : il rejoint par exemple l’attitude d’un poète pourtant très engagé, Francis Ponge, qui a vécu la déroute de l’armée française en 1940, et qui, à peine démobilisé, s’est mis à écrire non pas sur la situation historique, mais sur un petit bois de pins 98. Le paysage serait-il un refuge contre les tragédies de l’histoire ? Pas seulement. La guerre, la shoah, la menace atomique ont été vécus comme une véritable « perte du monde », pour reprendre l’expression d’Hanna Arendt ; elles ont ouvert à Jaccottet « les abîmes du réel » 99 . Dès lors pour beaucoup d’artistes et d’écrivains, la création est apparue comme une tentative pour retrouver une relation perdue avec le monde ou pour le « prendre en réparation » 100. Et face à la faillite des idéologies, au danger de l’abstraction, ils ont eu recours à l’expérience sensible, concrète, pour retrouver un sens, à ras de terre : Pour nous qui vivons de plus en plus entourés de masques et de schémas intellectuels, et qui étouffons dans la prison qu’ils élèvent autour de nous, le regard du poète est le bélier qui renverse ces murs et nous rend, ne serait-ce qu’un instant, le réel ; et, avec le réel, une chance de vie 101. P. JACCOTTET, Requiem, Lausanne, Mermod, 1947. Voir F. PONGE, « Le carnet du bois de pins », dans La Rage de l’expression, Paris, Gallimard, collection Poésie, 1976. 99 P. JACCOTTET, Une transaction secrète, Paris, Gallimard, 1987. 100 Voir F. PONGE, « Le Murmure », dans Méthodes, Paris, Gallimard, 1961, p. 193. 101 P. JACCOTTET, L’Entretien des Muses, Gallimard, 1968. p. 301. 97 98 158 Contexte littéraire Au sortir de la seconde guerre mondiale, le Surréalisme s’essouffle, et un retour au réel se dessine très nettement dans la génération de poètes qui commencent alors à écrire. Gaétan Picon parlait à ce propos d'un « nouveau réalisme », expression qui prête à confusion, mais désigne bien une tendance, à laquelle Jaccottet peut être rattaché, à condition de bien comprendre de quel type de « réalisme » il s’agit. Faisant lui-même le bilan d’un siècle de poésie française, à la fin de l'Entretien des Muses, il met l’accent sur le rapport qu’elle entretient avec le réel et avec l’expérience concrète : « Jamais la poésie n’avait accueilli dans la parole une ampleur, une diversité, une intensité, une profondeur pareille de réalité [...] » 102 . Il insiste sur « la passion des choses, des choses simples, solides (telles celles dont est bâti le monde paysan », des « réalités » « élémentaires » 103. Mais si cette réalité élémentaire peut être source de poésie, c’est précisément qu’elle échappe aux « schémas intellectuels », au langage conceptuel, et défie la logique ; si bien que, dans le même texte, ces choses simples et solides apparaissent infiniment complexes, paradoxales, et elles laissent place à un mystère insaisissable, qui appelle non la mimésis mais la poiesis : La poésie est au plus près d’elle-même dans la mise en rapport des contraires fondamentaux : dehors et dedans, haut et bas, lumière et obscurité, illimité et limité. […] On comprend mieux de quelle sorte de réalisme il s’agit dans la poésie moderne : non pas simplement d’un minutieux inventaire du visible, mais d’une attention si profonde au visible qu’elle finit nécessairement par se heurter à ses limites; à l’illimité que le visible semble tantôt contenir, tantôt cacher, refuser ou révéler 104. Or ces paradoxes, qui sous-tendent l’expérience poétique, structurent aussi l’expérience du paysage : apparemment évidente et immédiate, celle-ci comporte pourtant une part invisible, qui donc saurait faire l’objet d’une approche « réaliste » au sens habituel du terme. Elle transgresse les clivages habituels entre sujet et objet, intérieur et extérieur, imaginaire et réel. On peut le comprendre en se référant à l’horizon qui est constitutif de tout paysage : le tracé de la ligne d'horizon dépend à la fois de la topographie, du relief, et du point de vue de l’observateur : c’est un phénomène à la fois objectif et subjectif, c’est une ligne imaginaire, qui n’appartient pas à la réalité objective, mais qui est pourtant constitutive de notre rapport au réel. Elle marque l’appropriation de l’espace par le regard, mais en même temps ce qui lui échappe : elle se situe à la limite du visible et de l’invisible. Ibidem, p. 300. Ibidem, p. 302. 104 Ibidem, p. 304. 102 103 159 C’est sur cette union paradoxale du visible et de l’invisible que je voudrais insister en parcourant avec vous quelques textes de Jaccottet, pour en dégager une phénoménologie, une métaphysique, et une poétique du paysage. Phénoménologie J’évoquerai plus spécialement La Promenade sous les arbres, parue d’abord en 1957 105, et les Paysages avec figures absentes de 1970 106, deux livres qui tentent d’expliciter la relation entre poésie et paysage. Le premier coïncide avec la découverte des paysages de Grignan, qui apparaît d’emblée comme un modèle de l’expérience poétique : Je fus saisi, plus violemment et plus continûment surtout qu’autrefois, par le monde extérieur. Je ne pouvais plus détacher mes yeux de cette demeure mouvante, changeante, et je trouvais dans sa considération une joie et une stupeur croissantes; je puis vraiment parler de splendeur, bien qu’il se soit toujours agi de paysages très simples, dépourvus de pittoresque, de lieux plutôt pauvres et d’espaces mesurés. Or, cette splendeur m’apparaissait de plus en plus lumineuse, aérée, et en même temps de moins en moins compréhensible. De nouveau, ce mystère nourricier, ce mystère réjouissant me poussait comme d'une poigne très vigoureuse vers la poésie (PA 19). Cette expérience apparaît d’emblée paradoxale : elle associe le sentiment d’une évidence éclatante (le poète « ne peut détacher ses yeux » du spectacle qui s’offre à lui dans une « splendeur » « lumineuse »), et celui d’un « mystère » « de moins en moins compréhensible », qui le frappe de stupeur. Or c’est précisément ce mystère logé au cœur même de l’évidence qui fait de cette expérience une expérience poétique. Si le paysage s’offrait tout entier au regard des yeux ou de l’esprit, il donnerait lieu à une nomenclature minutieuse, ou à une contemplation muette. Parce qu’il reste un « mystère », le paysage exige ce travail sur la langue, et sur la réalité qu’est la poésie : Plus il semblait se dérober à l’expression, plus je ressentais le besoin de l’exprimer quand même, comme si le travail que j’aurais à faire sur les mots pour y parvenir allait m’aider à l’approcher, c’est-à-dire, aussi bien, à être de plus en plus réel (PA 19). On retrouve, dans Paysages avec figures absentes, et dans le titre même du livre, cette alliance paradoxale du visible et de l’invisible : Dès que j’ai regardé, avant même – à peine avais-je vu ces paysages, je les ai sentis m’attirer comme ce qui se dérobe [...] ma pensée, ma vue, ma rêverie, plus que mes pas, furent entraînées sans cesse vers quelque chose d’évasif, plutôt parole que lueur, et qui m’est apparu quelquefois analogue à la poésie même. (PFA 21-22). 105 106 Cité dans l’édition de 1980 (La Bibliothèque des arts, Lausanne), abrégée en PA. Citée dans l’édition originale (Gallimard, Paris, 1970), abrégée en PFA. 160 Le paysage ne se révèle qu’au prix d’un voilement simultané : « Miroir au cadre de sable, où la terre (car c'est toujours la terre) se fait incertaine, où elle s’ouvre et se voile » (PFA 85). Ce dévoilementvoilé est inscrit dans la structure même du visible, qui ne va pas sans une part d’invisible. La lumière elle-même, à force d’intensité, peut devenir aveuglante : « C’est une chose invisible (en pleine lumière, alors qu’il ne semble pas que rien puisse la cacher, sinon justement la lumière) » (PFA 67). La clarté est obscure aux yeux de Jaccottet, car si elle rend toutes choses visibles, sa source demeure invisible : Oui, la lumière même, si belle, si changeante, que je vois en ce moment éclairer toutes ces feuilles du mois de mai et ces grands espaces jusqu’aux montagnes allongées à l’horizon, la lumière même est obscure, difficile à comprendre, attirante à jamais comme tous les secrets indéchiffrables 107. Le crépuscule, en particulier, associe les éclairages les plus riches et les ombres les plus longues, opacité et transparence : Ce soir-là, une vue plus déchirante et plus secrète encore m’attendait quand, la rue ayant tourné vers l’horizon opposé, le levant, j’aperçus au-dessus des murs et des toits, entre les rares arbres, la montagne basse éclairée par le soir, juste veinée de très peu de neige à la cime. Je sais encore moins comment elle me parla, ce qu’elle me dit. C’était une fois de plus l’énigmatique luminosité du crépuscule » (PFA 19). L’horizon illustre exemplairement cette coïncidence de la merveille et de l’énigme. Dans le paysage le plus familier, il introduit une part irréductible d’étrangeté : « C’est encore une énigme à l’horizon paisiblement campée, une merveille qui nous accompagne tous les jours et semble souhaiter d’être comprise » (PA 57). L’horizon inscrit aux limites du visible le mystère d’un monde invisible et lointain : J’aime cet espace que les montagnes définissent mais n’emprisonnent pas, comme quelqu’un peut aimer le mur de son jardin, autant parce qu’il suscite l’étrangeté d’un ailleurs que parce qu’il arrête son regard; quand nous considérons les montagnes, il y a toujours en nous, plus ou moins forte, plus ou moins consciente aussi, l’idée du col, du passage, l’attrait de ce qu’on n’a pas vu (PA 63). La question se pose dès lors de savoir si cet inconnu qui se laisse entrevoir à l’horizon du paysage est un autre monde, si cet invisible est d’une autre nature que le visible. Métaphysique Le secret que recèle le paysage n’est-il pas d’ordre sacré ? Il inspire constamment à Jaccottet des images et des idées religieuses, comme celle de « paradis » par exemple, venues tout droit de son éducation protestante, fortement nourrie de la lecture de la Bible. Mais Jaccottet les récuse, leur en 107 P. JACCOTTET, Tout n’est pas dit, Cognac, Le Temps qu’il fait, 1994, p. 25. 161 préférant d’autres, issues de sa culture classique, et encouragée par la nature méditerranéenne et par la présence, aux environs de Grignan, de quelques vestiges d’un sanctuaire des Nymphes : là « s’élève une chapelle, qui fut un petit temple ; et l’on peut voir encore, dans l’église du village voisin, un autel dédié aux nymphes que ce temple honorait » (PFA 25). Cette préférence pour la mythologie grecque tient à ce qu’elle exprime un sacré païen, indissociable d’une civilisation paysanne et d’un sentiment de la nature qui inscrit la transcendance, non dans un autre monde, mais dans l’immanence de notre monde : « Évoquer cette inscription d’ailleurs plus qu’à demi effacée semblerait suffire à faire comprendre que cet appel venait de très loin, du temps presque impossible à imaginer où l’on croyait que les dieux habitaient les sources, les arbres, les montagnes » (PFA 25). Mais Jaccottet souligne qu’il s’agit là d’une croyance lointaine, et il insiste sur l’ « effacement » du nom des dieux. Les figures de la mythologie grecque ne sauraient livrer la clé du mystère des paysages de Grignan, qui vient à la fois de plus loin et de plus près. Ce ne sont là que des images, qu’il faut écarter, car elles risquent de masquer une vérité plus obscure et plus évidente, remontant d’un passé immémorial et pourtant toujours présente dans les phénomènes les plus éphémères : Je ne croyais pas, est-il besoin de le dire ? que les nymphes fussent revenues, ni même qu’elles eussent jamais été visibles. Simplement, c’était comme si une vérité qui avait parlé plus de deux mille ans avant dans des lieux semblables, sous un ciel assez proche, qui s’était exprimée dans des œuvres que j’avais pu voir ou lire [...] continuait à parler non plus dans des œuvres, mais dans des sites. [...] Encore était-ce trop préciser; pour être tout à fait exact, je devrais, après avoir évoqué l’image de la Grèce, l’effacer, et ne plus laisser présents que l’Origine, le Fond : puis écarter aussi ces mots; et enfin, revenir à l’herbe, aux pierres, à une fumée qui tourne aujourd’hui dans l’air, et demain aura disparu (PFA 30). Le poète doit effacer toutes ces traces de cultes et de cultures, récuser la séduction des images pour accéder au fond où toute figure s’abîme et prend sa source, — à une origine qui n’est située dans aucun passé historique ni même préhistorique mais qui est toujours-déjà présente et inaccessible, et chaque jour recommencée : Ces paysages [...] n’étaient donc ni des musées proposés à la curiosité de l’archéologue, ni des temples ouverts à quelque culte panthéiste [...] Ils m’avaient paru simplement cacher encore [...] la force qui s’était traduite autrefois dans ces monuments, et que je pouvais à mon tour espérer recueillir, essayer de rendre à nouveau plus visible. Peut-être était-ce parce qu’il n’y avait plus en eux de marques évidentes du Divin que celui-ci y parlait encore avec tant de persévérance et de pureté (PFA 31-32). Le paysage revêt bien aux yeux de Jaccottet une dimension sacrée, mais c’est un sacré sans dieu et sans figure. Pour une conscience moderne, le sacré ne saurait revêtir d'autres figures que celles des apparences sensibles; c’est ainsi par exemple qu’ « il est apparu » à Hölderlin « alors qu’il ne s’y 162 attendait nullement, dans le monde ou à travers le monde [...] Dans certaines figures du monde visible, c’était l’Inconnu, l’Invisible, l’Infini qui venait à sa rencontre » (PFA 141). Il y a là aussi pour Jaccottet le principe d’« une nouvelle ère du regard », qu’illustre la peinture moderne lorsqu’elle dépouille le paysage de toutes les figures dont l’avait encombré l’art de la Renaissance, pour le restituer à sa nudité et à sa vérité originelles : Quand je regardais les paysages de Cézanne, où je pouvais retrouver ceux qui m’entouraient, je me disais [...] qu’en eux, où il n’y avait que montagnes, maisons, arbres et rochers, d’où les figures s’étaient enfuies, la grâce de l’origine était encore plus présente [...] Plus de scènes aujourd’hui, plus de figures, et ce n’est pourtant pas le désert (PFA 33-34). Cette dé-figuration du paysage dans la peinture moderne est l’aboutissement d’un processus de laïcisation entamé, selon les historiens de l’art, dès la renaissance, à partir du moment où le fond paysager a progressivement pris le pas sur les scènes et figures religieuses auxquelles il servait de décor. Elle n’exclut pas pour autant chez Jaccottet la persistance du sentiment du sacré, fût-ce sur le mode de la nostalgie : « ces bosquets ns sembleront toujours habités, serait-ce par une absence » (PFA 43), et cela explique l’ambiguïté du titre qu’il donne à ses textes, qui maintient une relation paradoxale « avec » les « figures absentes ». Jaccottet prend acte de la faillite des religions, de l’éloignement des dieux ; mais il reste sensible à l’irruption d’une transcendance au sein même de l’immanence. L’expérience du paysage met en relation l’homme avec ce qui le déborde dans le cosmos, elle inscrit l’invisible dans le visible. C’est une modalité privilégiée de cette « relation d'inconnu » qui est pour Jaccottet au cœur de l’expérience humaine et de la poésie : De toutes mes incertitudes, la moindre (la moins éloignée d’un commencement de foi) est celle que m’a donnée l’expérience poétique; c’est la pensée qu’il y a de l’inconnu, de l’insaisissable, à la source, au foyer même de notre être. Mais je ne puis attribuer à cet inconnu, à cela, aucun des noms dont l’histoire l’a nommé tour à tour (PFA 179). Cette transcendance inscrite dans l’immanence du monde sensible appelle non le discours de la révélation, mais celui de la poésie qui se rapporte à l’inconnu en tant que tel. Poétique Le paysage littéraire est trop souvent envisagé à partir du modèle pictural selon le vieil adage ut pictura poiesis. Or le propre de l’écriture est de prendre aussi en charge les aspects invisibles du paysage. Philippe Jaccottet congédie non seulement les figures qui faisaient du paysage classique le simple décor 163 d’une scène historique, religieuse ou mythologique, mais se détourne de toute figuration, qui laisserait échapper la part infigurable du paysage. Il commence par éviter toute référence à une localisation précise : la première version du texte liminaire de Paysages avec figures absentes, publiée d’abord séparément, s’intitulait « Paysages de Grignan » ; Jaccottet a supprimé le nom de lieu et donné à ce texte le titre même du recueil. Et il ne cesse d’insister sur l’absence de « pittoresque » de ces paysages, qu’il préfère en hiver, lorsqu’ils sont « dépouillés ». D’emblée, il rejette le modèle de la description, qui réduit l’inconnu au connu : Je ne veux pas dresser le cadastre de ces contrées [....] Le plus souvent ces entreprises les dénaturent, nous les rendent étrangères; sous prétexte d’en fixer les contours, d’en embrasser la totalité, d’en saisir l’essence, on les prive du mouvement et de la vie; oubliant de faire une place à ce qui, en elles se dérobe, nous les laissons tout entières échapper (PFA 10). Du paysage, la description se voulant objective, sacrifie la vérité intérieure, au profit d’une réalité tout extérieure, qui devient « étrangère ». Se voulant exhaustive, elle en fige les altérations, et méconnaît la part de mystère qui est à la source de l’émotion poétique : « on peut décrire, décrire encore », « la surprise, l'émotion venait d'un foyer plus secret, antérieur à la description » 108 . À la description, Jaccottet préfère l’évocation, qui ne recherche pas l’exhaustivité, fait la place à la subjectivité, et laisse autant à deviner qu’à voir, car l’essentiel du paysage est invisible. Cet art de l’évocation s’exprime pleinement dans les poèmes en vers de Jaccottet, et notamment dans ceux du recueil intitulé Airs, où il s’inspire du modèle du haï-ku et où le paysage est réduit à quelques détails, qui suffisent à en suggérer l’atmosphère et la tonalité affective : Sérénité L’ombre qui est dans la lumière Pareille à une fumée bleue 109 Mais il est présent aussi dans ses textes en prose, qui affichent leur caractère fragmentaire, que souligne par exemple l’abondance des points de suspension. Jaccottet y adopte volontiers le modèle de la promenade, qui lui permet de « dire les choses en passant », allant d’un aspect à l’autre du paysage de façon apparemment aléatoire : « J’ai pu seulement marcher et marcher encore, me souvenir, entrevoir, oublier, insister, redécouvrir, me perdre. Je ne me suis pas penché sur le sol comme l’entomologiste ou le géologue : je n’ai fait que passer, accueillir » (PFA 10-11). L’évocation est aussi un mode d’expression indirecte, qui respecte le mystère du paysage : « L’on finit par penser que toutes les choses essentielles ne peuvent être abordées qu’avec des détours, ou obliquement, presque à la dérobée. Elles-mêmes, d’une certaine façon, se dérobent toujours » (PFA 22). 108 109 P. JACCOTTET, La Semaison, Paris, Gallimard, 1984, p. 81. P. JACCOTTET, Poésie (1946-1967), Paris, Gallimard, collection Poésie, 1971, p. 147. 164 Parmi les détours qui s’offrent pour exprimer la dimension cachée du paysage, ceux de l’image semblent s’imposer au poète. Mais le surréalisme a appris à Jaccottet « le danger de l’image qui dérive » (PFA 60) ; elle tend à substituer à la réalité un monde imaginaire, trahissant ainsi la vérité du paysage : Ces images en disent toujours un peu trop, sont à peine vraies ; il faudrait voir en elles plutôt des directions. Car les choses, le paysage, ne se costument jamais ; les images ne doivent pas se substituer aux choses, mais montrer comment elles s’ouvrent, et comment nous entrons dedans (PFA 16-17). L’invisible ne saurait se figer dans une image fixe ; il ne peut être que suggéré par une succession d’images approximatives, qui se complètent et se critiquent mutuellement : Et là au-dessus, encore une fois, comment dire, comment ne pas trahir ce qu’on a vu, au bas du ciel, cette lumière rose et or ? On pense rapidement, tour à tour : ostensoir, joaillerie, Byzance, auréole, nimbe … Encensoir aussi, fumée, et dans la fumée, là où elle se défait, une seule étoile, cristalline. Pourtant, c’est encore autre chose, de plus surprenant, de plus simple. Prononcer des mots comme ostensoir, encensoir, c’est encore égarer l’esprit. On sent qu’il faut chercher plus profondément en soi ce qui est atteint, et surtout l’exprimer plus immédiatement (PFA 17-18). L’invisible du paysage ne peut se donner à lire qu’en creux, en négatif, et l’écriture n’en est qu’une tentative d’approche perpétuellement différée : « ainsi, par une suite de négations », le poète « approch[e-t-il] quand même d’une découverte quant à ces paysages » (PFA 29). Aussi bien la vérité poétique ne réside-t-elle pas dans une impossible adéquation à un objet essentiellement fuyant, mais dans une approximation dont l’imperfection même relance constamment le désir d’écrire, et de voir. Le paysage pose au poète « une question sans réponse » 110. Mais la fonction de la poésie est peut-être moins d'apporter une réponse que de laisser ouverte la question ; moins de déchiffrer l’énigme du paysage que d’en faire partager le mystère : La vérité sur les énigmes que nous propose le monde extérieur est peut-être que celles qu'on déchiffre s'annihilent, que les indéchiffrables seules peuvent nous nourrir et nous guider. Poésie nourrissonne et servante des énigmes (PA 93). 110 P. JACCOTTET, La Semaison, op. cit., p. 167. 165 RAFFAELE MILANI IL PAESAGGIO LETTERARIO COME PAESAGGIO REALE. SPUNTI DA GABRIELE D’ANNUNZIO La ricerca estetica mira a capire il significato e il valore del paesaggio dal punto di vista di un’analisi delle forme. Si può considerare l’esperienza percettiva e l’attività umana, l’illusione della lettura sentimentale e la smaterializzazione del nostro oggetto dal punto di vista della storia e della cultura, come dell’immagine letteraria. In quest’ultimo caso il paesaggio diventa un’arte diffusa, una poiesis e una poesia ovunque disseminate, e notiamo un campo di interazioni simboliche tra l’uomo e quest’immensa scultura vivente che è la natura modificata dall’uomo. L’approccio è inizialmente interdisciplinare, ma aperto alla metafora. Osserviamo uno scambio di posizioni tra soggetto e oggetto, nel disegno complessivo del reale che ci attornia, rappresentato, immaginato, enunciando i problemi della memoria, dell’identità, della composizione secondo un indice di caratteri e presentando una categoria questa volta poetica, non più sociologica o antropologica, nell’ermeneutica del paesaggio. Procediamo dunque sviluppando il cosiddetto genio creativo o immaginativo che ha tante concordanze con le idee dell’ enigma e dello sdoppiamento. L’ambito estetico si occupa del rapporto tra ciò che la letteratura immagina, descrivendolo, e ciò che è direttamente visibile all’osservatore: situazioni e caratteri possono riunirsi in un caso da analizzare, o in una serie di casi capaci di fornire un quadro di tipologie della visione in rapporto eventualmente a un discorso retorico che sarà riferito, in particolare, almeno nella mia ricerca, alla metafora. Nel caso da me esaminato, la stratificazione culturale rende spontaneo, possiamo dire naturale, un atteggiamento mentale e inventivo che chiamiamo di meraviglia, atteggiamento basato su una strategia dell’artificio per guardare i paesaggi non come sono, ma come si vorrebbe che fossero. Tutto è naturale perché tutto è profondamente culturale. Questo fatto investe anche la psicologia nelle modalità del comportamento della nostra mente. A certe condizioni, l’osservazione e la contemplazione ripristina uno stato di meraviglia nei confronti della natura capace di sostituire i caratteri e le proprietà di un paesaggio con altri appartenenti alla nostra immaginazione e nostra condizione affettiva. Ci capita di sostituire un paesaggio d’acqua a un altro paesaggio d’acqua, di sostituire un paesaggio di montagna a un altro paesaggio di montagna, di voler vedere un paesaggio greco in un paesaggio pugliese, o di sentirci in Mongolia quando invece ci troviamo nella valle di Castelluccio: trasformiamo i colori e le forme di un castello del Tirolo in un villaggio tibetano e così via. La cosa non è così recente, ma appartiene alla natura del nostro guardare e contemplare da molti secoli. Basti pensare a Villa Adriana e al culto delle memorie mitologiche che l’imperatore voleva 166 “concretamente” attorno a sé per il piacere di un’ immedesimazione in un luogo eccezionale. Nelle descrizioni, la letteratura non fa che promuovere il suo paesaggio come fosse obiettivo e reale. Assistiamo a uno scambio, il paesaggio reale si fa paesaggio letterario, il paesaggio letterario si fa paesaggio reale. perché sia l’uno che l’altro sono calati nel mito, in un principio di narrazione il cui enigma torna sempre. Il veicolo è la metafora, cioè una figura retorica che appartiene alla rappresentazione mentale e alla lingua del mondo, delle cose del mondo organizzate dallo sguardo umano. Siamo, nonostante tutto, come perseguitati dall’idea di una lingua universale portata dalla metafora; portati a credere che esista un’eloquenza della natura, come suggerisce T.W. Adorno 111. Potremmo caratterizzare e definire una visita o una passeggiata attraverso punti panoramici e movimenti, in modo da interpretare le cose intorno a noi come un’articolazione di immagini che ci accompagnano e ci corrispondono, un insieme di segni che ricordano una lingua. Quest’esperienza ricca d’immagini, figure, pensieri è una fluttuazione simile alla musica ed è in sostanza irriproducibile. Una natura mediata dalle tecniche di riproduzione meccanica e virtuale rischia l’annientamento del suo senso e valore. Turner e gli impressionisti, per esempio, hanno tradotto lo spirito del paesaggio, non lo hanno semplicemente riprodotto. La mera soggettività non riuscirebbe a definire, in una passiva registrazione sensibile del mondo, quel piacere che ci assale come per incantamento e che possiamo chiamare enigma. E’ la dissoluzione dell’io nell’immaginazione a fornire tale piacere. La natura appare, ai nostri occhi, come un vero e proprio spettacolo che richiede viva o assorta partecipazione: le nuvole, i lampi, gli squarci di cielo, le tempeste sul mare, i deserti, ecc., sono scene degne di uno Shakespeare che pure in parte le ha rappresentate. Traspare dalle sue manifestazioni un linguaggio inafferrabile, sospeso, fatto di tracce, di cenni che ci rimanda a sintonie segrete. E vi sono modi assolutamente diversi per trattarne. Lo sappiamo dagli innumerevoli esempi letterari e pittorici, da Friedrich a Corot da Leopardi a Proust. Lo sguardo estatico ha, nella letteratura contemporanea, infiniti risvolti evocativi che forniscono altri paesaggi. Scegliamo un passo, tra i più belli, dalla Recherche di Marcel Proust: La siepe formava come una fila di cappelle che scomparivano sotto la distesa dei loro fiori affastellati ad altare; sotto di esse, il sole posava in terra una sua scacchiera di luce, come se avesse traversato una vetrata; il loro profumo si diffondeva altrettanto untuoso, altrettanto circoscritto nella sua forma come se mi fossi trovato dinanzi all’altare della Vergine; e i fiori, egualmente adorni, reggevano, con aria distratta, ciascuno il proprio sfavillante mazzolino di stami; tenui e radianti nervature di stile “fiammeggiante”, come quelle che in chiesa traforavano la balaustra della tribuna o le traverse delle vetrate, e sbocciavano in un candido incarnato di fior di fragola 112. Quante cose, dall’una all’altra e da quest’ultima a un’altra ancora richiamate, in un principio d’incessanti analogie, in un fluire senza posa, nel tempo dello spirito, nella semplice sacralità che 111 112 Estetica, 1970, ed. it. 1975, pp. 89-112. M. PROUST, Alla ricerca del tempo perduto, La strada di Swan, trad. di Natalia Ginzburg, Einaudi, Torino, 1963, I vol., p. 148. 167 afferma il saper vedere della mente. E noi siamo là, già prima dell’opera dell’arte, in un delirio del “come se”. Noi contemplatori viviamo, protagonisti sconosciuti, quelle immagini prima della loro elaborazione inventiva. Come ha precisato Ernst Cassirer nel Saggio sull’uomo: Io posso passeggiare e sentire il fascino del paesaggio. Mi posso rallegrare della mitezza dell’aria, della freschezza dei prati, della varietà e dell’allegria dei colori, del fragrante profumo dei fiori. Ma poi sento che avviene un improvviso mutamento nel mio spirito. Da questo momento vedo il paesaggio con occhio d’artista, comincio a farne un quadro. Sono entrato in un nuovo regno, non più quello delle cose esistenti, ma quello delle “forme viventi”. Abbandonata l’immediata realtà delle cose, vivo ora nel ritmo delle forme spaziali, dell’armonia e del contrasto dei colori, dell’equilibrio tra luce e ombra. L’esperienza estetica consiste in questo assorbirsi nell’aspetto dinamico della forma 113. Il discorso metaforico ci appartiene mentalmente ancora prima dell’elaborazione tecnica della letteratura e della pittura. C’è qualcosa di antico in questa dimensione. Abbiamo ricordato Villa Adriana. Ma negli ultimi tre secoli il nostro sguardo si volge indietro nel tempo come per riappropriarsi del vuoto lasciato dalla separazione tra uomo e natura avvenuta ancora prima, fornendo, esso stesso, una meditazione sul tempo. Traspare una “riflessione” nostalgica sulla fine dell’incanto originario quando, per usare le parole di Klages, terra, cielo, nubi, acque, flora e fauna “avvolgevano la nostra vita individuale come in un’arca, intessendola nel grandioso accadere universale” 114. Incanto che ci fa anche ricordare, sul piano più esteso di un interesse per il sapere antico, come alcune pratiche terapeutiche fossero connesse al senso d’unità della natura; lo dimostra la fama di Arie, acque e luoghi, un libro attribuito a Ippocrate o di sua proprietà. Un intero mondo, sollecitato in parte da curiosità scientifiche, si dischiude ai nostri occhi, superando la soglia dell’immediata realtà e facendoci intravedere il fondo degli elementi che sono alla base di ogni scoperta estetica. Ma infinito è il catalogo dei luoghi e dei paesaggi in questo discorso metaforico della lingua della natura. Anche la città è paesaggio. Da essa possiamo uscire nella natura (lo hanno fatto Socrate e Fedro), in uno scambio tra la città e la campagna, ma possiamo anche entrare nella città, per vivere dentro la contemplazione delle strutture architettoniche. Ogni architettura è paesaggistica e favorisce un rapporto educativo, tra ambiente e spirito. Essa si modifica al nostro passaggio, alla mobilità del nostro sguardo, come alla luce e alle stagioni. La vista e il nostro corpo praticano una contemplazione tra l’interno e l’esterno, tra ciò che è al di fuori e lontano e ciò che è al di dentro e più piccolo e che si snoda davanti ai nostri occhi. C’è una correlazione strettissima tra l’esperienza estetica del paesaggio naturale e del paesaggio urbano. Come l’uomo abita la terra, così abita la città. Aggregati urbani piccoli o grandi possono essere la realizzazione di utopie rinascimentali o moderne, ma la città o la metropoli, con le sue piazze, i quartieri, gli edifici, i monumenti, può essere disorientante e creare un fenomeno di 113 114 E. CASSIRER, Saggio sull’uomo, Roma, Armando, 1968, p. 216. L. KLAGES, L’uomo e la terra, a cura di L. Bonesio, Milano, Mimesis, 1999, p. 38. 168 impressioni molto diverse. Honoré de Balzac (Ferragus), per esempio, descrive Parigi come il più delizioso dei mostri. Tuttavia, che sia la Londra di Henry Fielding, la Roma di Gabriele D’Annunzio, la Parigi di Charles Baudelaire, la Torino di Friedrich Nietzsche, la Praga di Franz Kafka, la Venezia di John Ruskin: ciò che importa è l’incontro con il luogo sognato, immaginato e che viene sostituito a quello reale. A due diverse descrizioni letterarie dello stesso luogo corrispondono due luoghi evocativamente diversi nella rappresentazione che viene offerta. In questi panorami di elaborazioni mentali, non possiamo non pensare a Gabriele D’Annunzio, così sensibile all’antico come al moderno (“custode della tradizione, promotore della modernità”), se vogliamo trovare un caso di paesaggio letterario realizzato. Potremmo anche ricordare il look outche Victor Hugo fece costruire in cima alla Hauteville House, a Guernesey, una specie di gabbia di vetro per contemplare il mare. Ma D’Annunzio si presta come esempio eclatante e totale. Basta leggere Le Laudi del cielo, del mare, della terra, degli eroi, i vari taccuini, gli scritti giornalistici, e tanti spunti dalle sue opere per rendersi conto della sua venerazione per la natura e il paesaggio. Fino ad arrivare a una vera e propria composizione del paesaggio sotto la guida del sapere poetico. Ciò accade al Vittoriale. Avremmo potuto prendere dei paesaggi a confronto, nella rappresentazione che ne avevano data Petrarca o Manzoni, Dante o Pirandello e nella loro attuale realtà. Tuttavia, la scelta di D’Annunzio nasce dal fatto che, nel luogo ricreato a Gardone, il Poeta inventa un’architettura della visione che sposa realtà e artificio, memoria e illusione. Giardino e paesaggio s’incontrano in un’avventura dello sguardo. Normalmente il senso dell’avventura non dipende in generale da un prima e da un dopo, è incoerente, irregolare, non privilegia un sistema di osservazione. Ma qui, al Vittoriale, esiste invece un fatto curioso e nuovissimo: un’avventura meditata, ordinata come in un testo letterario, secondo un processo di similitudini, promosso da culti simbolisti e futuristi. Ha una componente che possiamo considerare onirica, perché legata alla fantasia. Eppure è anche documento della storia in una specie di follia spaziale. Basta farsi prendere dallo scorrere del tempo della visione, in una posizione fissa, quasi da un qualunque punto di vista, nel giardino e nel parco, per rendersi conto che si entra in una fase diversa del vedere, si entra nel principio della contemplazione. Ma come l’ha voluta e studiata il Poeta, non come potremmo noi decidere che sia. Ogni cosa sta al posto di un’altra. Siamo condotti in un giardinopaesaggio letterario dove appunto è la metafora a governare. In generale, vediamo sempre frammenti, reliquie di realtà, di esperienze, segni e memorie che ci vengono ricomposte in un tutto apparentemente vacillante. Vince il nostro sguardo errabondo. Pezzi sparsi di storia e di gesta, come rovine di un’anima invasata. Notiamo una sequenza di similitudini. Muoviamo dal fatto che, in questo luogo, la metafora è il genio dell’Imaginifico. Essa (metafora) è generalmente intesa come una parola usata al posto di un’altra per rendere un referente con un significato diverso. Si tratta di un trasferimento semantico che si basa su una parentela di somiglianza. In sostanza qui si sostituisce a un’immagine un’altra immagine, a un 169 paesaggio un altro paesaggio. Così come immaginava architetture 115 immaginava i luoghi sull’architettura: Sguardi dal Vittoriale: 1) La nave Puglia, geniale allestimento dentro il parco, degno di un grande regista, invita a vedere non un lago davanti a sé, ma il mare Adriatico; anzi guida questo genere di visione. 2) In un punto del parco, sembra di essere a San Giusto, a Trieste, guardando verso il grande golfo. Quel particolare punto favorisce il ricordo e fa nascere alla vista il luogo lontano. 3) Nei giardini privati, per la loro struttura compositiva a terrazze, sembra di essere a Ravello che conserva una delle più belle viste del Mediterraneo: un belvedere d’eccezione. 4) I sassi del carso, segni disseminati in un limitato spazio verde, gli permettevano di passare tra quei ricordi come un gigante in una geografia miniaturizzata. Teatro della distanza e della prossimità che esalta il protagonista. 5) La cascata, con la divisione dei due rivi, potrebbe essere stata pensata secondo modelli giapponesi, shintoisti e buddisti (forse influenzata da rappresentazioni giapponesi nella Prioria). Importanti appaiono i percorsi d’avvicinamento per vedere la cascata come in un’inquadratura che diventa sempre più esplicita. 6) Il teatro evoca l’atmosfera della Magna Grecia o della Grecia antica e dei suoi teatri, fuoco di sguardi sul panorama circostante; forse cita quello di Taormina in particolare. Tutto ciò rientra nel disegno di un citazionismo e di una frenesia antiquaria ovunque profusi, intriso di memorie guerresche come d’aure mitiche. In questo regno della metafora, il paesaggio reale, ciò che sta davanti a noi, si fa da parte, cede il posto a un altro paesaggio, il paesaggio evocato, immaginato. Le forme del paesaggio reale diventano attori di uno spettacolo diverso, secondo un apparato di similitudini. Il paesaggio letterario, immaginato dal Poeta, diventa un paesaggio assolutamente reale. Il paesaggio reale si trasforma in un paesaggio immaginario. Il Vittoriale muta l’aspetto, cambia: da “ascetario” si fa isola silenziosa e profumata, abitata dai fantasmi del mito; un’isola del Mediterraneo, un’Itaca ideale e misteriosa, ma viva, ammantata dallo spirito greco, da quello spirito che è comunque risultato comunque di un principio di contrasto, come precisa il Poeta nei suoi viaggi. In una crociera del 1985 annota: Lo spirito greco è fatto della reazione continua dell’uomo contro la personalità delle cose. Le cose, avendo una personalità così precisa e così forte, s’imponevano all’uomo come un sopruso. L’uomo reagiva. Di qui le magnifiche personalità dei Greci – reazione contro le cose, per l’istinto di predominio. Eccitante il paesaggio. Gli alberi stessi della pianura, tra Patros e Pirgo, così distanti gli uni dagli altri, non sono personae? V’è un gran pino davanti al Museo (di Corinto). Ha una forma e una voce proprie. 116 115 116 Si veda il bel libro di C. CRESTI, Gabriele D’Annunzio, “architetto imaginifico”, Angelo Pontecorboli, Firenze, 2005. G. D’ANNUNZIO, Altri taccuini, a cura di Enrica Bianchetti, Mondadori, Milano I ed., 1976, p. 6. 170 Anche nel Vittoriale contempliamo uno scontro di personalità: l’uomo, il Poeta, le cose e vi sentiamo aleggiare lo “spirito greco”. Siamo anzi permeati dallo spirito greco. In un diverso passo dei Taccuini, ebbe a dichiarare D’Annunzio: “Tutto qui è dunque una forma della mia mente, un aspetto della mia anima, una prova del mio fervore…”. Una consonanza di temi che ritornano sul paesaggio come categoria mentale che offre spazio all’immaginazione. Come visitatori, ci si sente spinti a veleggiare nel Mediterraneo per via di uno strano “trasognamento” 117 con un desiderio di mare, di selva, di pietra, e di giacere, come lui, nella voluttà d’essere “diversi e inconoscibili, persi in una solitudine piena di apparizioni e di prodigi”. Lo spirito greco, tensione armonica, ritorna in uno stato di misurata ebbrezza. Il Vittoriale è l’armatura di trasognate essenze. Guardando verso il lago come fosse un angolo di Grecia, sembra di vedere quello spazio di mare che divide Itaca da Cefalonia. Entriamo in un luogo mitico che si sovrappone a quello oggettivo del lago. D’Annunzio lo descrive così, nel passo dei Taccuini sopra ricordato: … Siamo nel mare classico. Grandi fantasmi omerici si levano da ogni parte. Entriamo nel canale. Itaca è petrosa, ma Cefalonia è ricca di vigneti, di uliveti e di cipressi. Una moltitudine innumerevole di cipressi alti e svelti è sparsa per il pendio, e dà a tutta l’isola un aspetto pensoso… Io vorrei esplorare l’isola silenziosa su cui i cipressi sembrano ombre lunghe ed esigue come un cimitero 118. Trasognamento. Quante volte, afferma il Poeta, “la mia vita non è se non trasognamento! Sognare è una cosa, trasognare è un’altra. La realtà mi si scopre a un tratto e mi si approssima con una sorta di violenza imperiosa… A un tratto ella (la realtà) si dissolve, si difforma, si trasforma, assume l’aspetto del mio più segreto fantasma…” 119. Il Vittoriale, in un teorico abbraccio tra visione d’interni e visioni d’esterni, è il risultato di questo delirio ineffabile che ricrea i paesaggi. D’Annunzio si pone oltre una linea, oltre un confine tra due mondi: “Ne sorge un sentimento di lontananza e solitudine che mi circonda e mi fa simile a un’isola senza radice” 120. G. D’ANNUNZIO, Dell’attenzione, Zurigo, 5 settembre 1899, in Il venturiero senza ventura, 1924, p. 1107. G. D’ANNUNZIO, Taccuini, a cura di E. Bianchetti, Mondatori, Milano, 1976, II ed., pp. 39-40. 119 G. D’ANNUNZIO, Dell’attenzione, cit. p. 1104. 120 Ibid., p. 1105. 117 118 171 Terza parte – troisième partie – dritter Teil I paesaggi d’Europa come progetti di paesaggio e di ‘governance’ Les paysages d’Europe comme projets de paysage et gouvernances de projets de paysage Die Landschaften Europas – Landschaftsplanung und ‚Governance’ 172 RITA COLANTONIO VENTURELLI RIFLESSIONI METODOLOGICHE E APPLICATIVE SULLA GESTIONE INTEGRATA DEL PAESAGGIO I – Principi metodologici 1) Definizione di paesaggio come sistema complessivo Il modello produttivo regionale, inteso come quel modello insediativo in cui la concezione di città si amplia, cominciando a interessare anche la scala territoriale, è nato nel momento in cui la produzione manifatturiera è stata trasferita al di fuori dell’ambito urbano, seguendo la logica duplice sia di utilizzare le materie prime in un luogo che fosse più vicino possibile alla loro estrazione, sia di raccogliere la manodopera e di impiegarla negli ampi spazi rurali, più favorevoli ai nuovi principi dell’economia di scala 121. E’ il periodo successivo alla prima grande affermazione della meccanizzazione della produzione, quella che Leonardo Benevolo chiama l’epoca della “città post-liberale”, che si può collocare negli ultimi decenni del XIX secolo e che imprime al territorio quell’assetto che si consoliderà in seguito, sostenuto anche dagli accordi tra istituzioni pubbliche e proprietà privata 122. In questo modello insediativo, che ispirerà tutti i piani regolatori per un lungo periodo successivo, la destinazione d’uso degli spazi è rigorosamente suddivisa in zone fortemente specializzate, distinguendo tra quelle residenziali e quelle industriali, tralasciando qualunque indicazione per quelle agricole. Gran parte dell’assetto territoriale attuale è ancora nettamente influenzato da questo modello concettuale che denota l’impronta di un modello culturale in cui le discipline che presiedono alla gestione del territorio sono scisse tra loro e, quando riescono a collaborare, lo fanno in modo interdisciplinare, e cioè accostando una visione scientifica all’altra, senza riuscire ad integrarsi in una visione olistica di fondo, come è espresso nella fig. 1 123. L. MUMFORD, La cultura delle città, Edizioni di Comunità, Torino, 1999, cap. V, “La struttura regionale della civiltà”. L. BENEVOLO, Storia della città, Laterza, Bari, 1993, vol. IV, “La città contemporanea”. 123 Lo schema è tratto da: R. COLANTONIO VENTURELLI – G. GIBELLI, Ecologie, in: A. CLEMENTI (a cura di), “Interpretazioni di paesaggio”, Meltemi, Roma, 2002. 121 122 173 Fig. 1 – Schema del processo della pianificazione tradizionale (metodo interdisciplinare) Ma il territorio è il risultato di una serie di processi naturali e antropici che può essere studiato e gestito soltanto in termini transdisciplinari, orientati da una visione sistemica e olistica, quale è quella che è alla base del concetto di paesaggio nell’accezione anglosassone. In questo senso, nell’ambito scientifico transdisciplinare, sembra fornire alcuni principi utili l’ecologia nel suo campo di lavoro specifico dell’ecologia del paesaggio, secondo la quale il paesaggio si differenzia essenzialmente dal concetto di ambiente, definito sempre in senso soggettivo, e cioè riferito a un soggetto. Infatti esso è l’insieme eterogeneo degli elementi, dei processi e delle relazioni che costituiscono l’ecosfera, considerato nella sua natura di entità: - unitaria e differenziata, che ne fa un complesso unico, compiuto e articolato; - ecologico-sistemica, che lo definisce come un aggregato superiore di ecosistemi, o sistema di ecosistemi, naturali e antropici; - dinamica, che lo identifica con un processo evolutivo, nel quale si integrano le attività spontanee e quelle derivanti dall’azione della collettività umana, nella loro dimensione storica, materiale e culturale. Dunque, posto un paesaggio P e un soggetto S (vegetale, animale, umano, singolo o collettivo) in esso contenuto, si definisce ambiente relativo a S l’insieme degli elementi di P con i quali S intrattiene una qualsiasi relazione (le relazioni possono essere fisiche, chimiche, biologiche, psicologiche, sociali, percettive, culturali, ecc.). Ne deriva che la scienza ambientale studia le relazioni intercorrenti fra un soggetto prefissato e gli elementi del paesaggio che, nel loro complesso, ne definiscono l’ambiente stesso, in quanto legati al soggetto da determinate relazioni” 124. Allora è possibile sintetizzare questa visione olistica del paesaggio secondo lo schema espresso in fig. 2. 124 L’intero brano è di Valerio Romani, il quale, nel primo capitolo del suo libro intitolato Il paesaggio. Teoria e pianificazione (Franco Angeli, Milano, 1994) parla ancora più diffusamente delle differenze tra il concetto di ambiente e quello di paesaggio. 174 Fig. 2 – Rappresentazione schematica del paesaggio complessivo come risultato dell’azione dei numerosi processi che contribuiscono a determinarne l’assetto. Riepilogo • • • Nascita del modello produttivo regionale Inadeguatezza del metodo interdisciplinare La concezione olistica come la più adatta allo studio del paesaggio inteso come il risultato dell’azione dei numerosi processi che contribuiscono a determinarne l’assetto 2) Il rapporto tra il modello culturale e il modello di paesaggio La concezione olistica del paesaggio conduce direttamente alla costruzione del modello culturale che si intende proporre come il riferimento fondamentale per il paesaggio futuro. Dunque, il modello del paesaggio culturale che ne deriva, basato sulla complessità del sistema delle componenti del paesaggio e delle loro interrelazioni, deve ispirarsi necessariamente a questa visione. Anche il “nuovo paesaggio della produzione”, che sia agricola e/o industriale, farà parte del paesaggio complessivo, e quindi dovrà essere costruito e gestito secondo quei principi della pianificazione integrata che si possono tradurre nei criteri più operativi solo se si riesce ad attuare un metodo realmente multidisciplinare per avviare, attuare e controllare l’intero processo di piano alle diverse scale spaziali e temporali. 175 Riepilogo • • • Rapporto diretto tra concezione olistica del paesaggio e modello del paesaggio futuro Il “nuovo paesaggio della produzione” Multidisciplinarietà e pianificazione integrata 3) Il metodo utilizzato Esistono due paradigmi che si possono assumere rispetto allo studio, alla pianificazione e alla gestione del paesaggio 125. Da una parte, il paradigma dell’ecologia, in particolare quello dell’ecologia urbana e dell’ecologia del paesaggio, il quale si fonda su una visione ad ampio spettro delle problematiche territoriali e considera tutti gli aspetti ambientali contemporaneamente; dunque, quest’ottica produce una molteplicità di progetti di elevata qualità che durano nel tempo, nessuno dei quali approfondisce gli aspetti tecnici del controllo ambientale. Al contrario, dall’altra parte, il paradigma della gestione ambientale affronta i problemi immediati, i casi di emergenza, e quindi cerca la soluzione di un problema alla volta, separandolo dal contesto, e ponendosi l’obbiettivo di approfondirlo per eliminarlo con tutte le tecnologie disponibili. Tenendo conto dei presupposti scientifici e culturali esposti come la sua ispirazione fondamentale, la scelta metodologica del gruppo di lavoro “Osservatorio sul paesaggio culturale” non può che essere quella che si basa sui principi dell’ecologia del paesaggio, che conduce alla pratica del processo di pianificazione integrata, ben diversa dall’impostazione pianificativa tradizionale illustrata nella fig. 1. Confrontandola con la fig. 3, si può notare chiaramente come il metodo scelto sia l’unico che possa condurre agevolmente a superare le difficoltà imposte dalla consuetudine al lavoro giustapposto e non integrato, dei gruppi di esperti provenienti dalle diverse matrici disciplinari 126. Ma proprio è per questa scelta ispirata all’integrazione delle competenze che il gruppo riconosce anche molta importanza alle competenze tecniche relative alle singole problematiche specifiche, le quali pertanto vengono affrontate al pari delle altre nel momento in cui venga richiesta la loro soluzione particolare, tentando in questo modo di assumere una posizione culturale e scientifica dallo spettro più ampio possibile, è cioè seguendo quei principi scientifici transdisciplinari che conducono alla sintesi delle conoscenze e, quindi alle decisioni gestionali realmente integrate (fig. 3). Per una riflessione molto ampia circostanziata sulle scelte derivanti da questi due diversi paradigmi nella gestione urbana in Scandinavia, v. Urbanistica n. 124. 126 Entrambi gli schemi sono tratti da: R. COLANTONIO VENTURELLI – G. GIBELLI, op. cit. 125 176 Fig. 3 – Schema del processo della pianificazione integrata Riepilogo • • • Confronto tra il paradigma ecologico e quello della gestione ambientale La posizione assunta dal gruppo “Osservatorio sul paesaggio culturale” Metodo transdisciplinare e pianificazione integrata 4) L’obiettivo dello studio Lo scopo principale dello studio che si sta sviluppando è quello di costruire una metodologia che risponda a quelle esigenze che sono state esposte, e cioè di organizzare una sintesi delle conoscenze, tradizionalmente separate, al fine di promuovere un modello culturale, e quindi un processo di piano, realmente integrato. In questo senso, è indispensabile stabilire che tale processo sia composto da diverse fasi, basate essenzialmente sulle analisi orientate secondo i principi illustrati, e che riguardino il paesaggio nella sua interezza, ma scomposto nelle due grandi categorie illustrate nella fig. 1, e cioè in quella del paesaggio semi-naturale e in quella del paesaggio culturale. La seconda fase, quella della diagnosi, valuterà lo stato del paesaggio così scomposto, mentre quella successiva, quella della prognosi, ricomporrà tutte le valutazioni effettuate in un giudizio sulle sue potenzialità, preparando la fase delle scelte pianificative e normative, in cui si esclude la collocazione di quelle strutture che accoglierebbero delle funzioni non compatibili con lo stato del paesaggio e con le potenzialità determinate dai processi che vi si svolgono. Il controllo continuo, la gestione costante dello stato, il sostegno dei processi compatibili avviati e in atto assicurano che il processo si svolga secondo 177 un andamento ciclico che, partendo dal paesaggio considerato nel suo carattere complesso e sistemico, ritorni al paesaggio stesso (v. fig. 4) 127. Fig. 4 – Schema metodologico dell’analisi e della gestione del paesaggio inteso in senso sistemico Oltre a quello rigorosamente metodologico, l’avvio di un simile processo ciclico avrebbe anche il significato di tentare di rispondere alle esigenze sempre crescenti della società contemporanea di raggiungere un livello accettabile di organizzazione sostenibile complessiva dell’assetto sociale, ma anche dell’equilibrio ecologico e di quello economico. In questo senso, la responsabilità più determinante è quella che appartiene alla cosiddetta governance, e cioè non ad un solo decisore pubblico, ma a tutto quel complesso intreccio che si è formato tra gli alti livelli decisionali dell’economia, della finanza, della politica e dell’amministrazione pubblica, spesso troppo connessi tra loro, ma purtroppo spesso anche distanti dagli operatori di livello meno elevato e, soprattutto, dalle espressioni più efficaci della cultura. La fig. 5 mostra un modello di equilibrio raggiungibile da una governance illuminata, assolutamente improponibile nella sua versione ideale, ma sicuramente proponibile come schema di 127 Tratto da: R. COLANTONIO VENTURELLI, Il concetto di sostenibilità e quello di compatibilità nella pianificazione ambientale / Der Begriff von Nachhaltigkeit und Vereinbarkeit in der Umweltplanung, in “ATLAS”, n. 19, luglio 2000. 178 riferimento da adattare di volta in volta alle singole realtà che le conoscenze multidisciplinari sono chiamate a studiare per avviare il processo pianificativo integrato (fig. 5)128. Fig. 5 – Good Governance: una concezione complessiva che vede lo sviluppo sostenibile come obiettivo centrale I casi di studio che si presenteranno sono stati scelti proprio in funzione di questo obbiettivo; inoltre, si tenterà di confrontare i risultati dello studio con quelli che si sarebbero potuti ottenere utilizzando un metodo di lavoro tradizionale. Riepilogo • • • Processo ciclico per fasi della pianificazione integrata Concetto di sostenibilità multidimensionale Rapporto tra sostenibilità multidimensionale e governance 5) Gli strumenti utilizzati La descrizione dello stato del paesaggio nella fase dell’analisi e la sua valutazione in quella della diagnosi, è indispensabile per determinare il grado di sostenibilità multidimensionale che il paesaggio presenta e/o potrà raggiungere rispetto al suo stato attuale. La multidimensionalità a cui ci si riferisce non potrà mai essere realmente equilibrata in ogni sua componente, come propone lo schema ideale 128 Nostra elaborazione da: P. HALL – U. PFEIFFER, Urban 21, DVA, Stoccarda Monaco, 2000. 179 della fig. 5, ma sicuramente potrà avvicinarsi alla condizione migliore misurata rispetto allo stato attuale e a quello potenziale pronosticato. Essenzialmente, i grandi gruppi in cui si possono far rientrare le componenti della sostenibilità multidimensionale sono tre: quello della sostenibilità sociale, quello della sostenibilità economica e quello della sostenibilità ecologica. Pertanto, la metodologia di lavoro del gruppo si avvale degli strumenti che sembrano i più adatti allo scopo, e cioè quello di alcune entità che siano in grado di descrivere e di misurare le componenti del paesaggio ed i processi economici, sociali ed ecologici che vi si svolgono. Questi “descrittori” e questi “misuratori” aiutano a sviluppare sia le prime due fasi, quella dell’analisi e quella della diagnosi, sia il ritorno costante al controllo gestionale del paesaggio, come mostra la fig. 6 129. Phases directly involved in the application of the principles and methods of landscape ecology Phases controlled by landscape and urban ecology Fig. 6 – Methodological approach to the analysis and management of the landscape as a whole with indicators In realtà, queste entità misuratrici e descrittrici non si differenziano molto da quegli indicatori che vengono utilizzati sempre più spesso negli studi analoghi degli ultimi anni. Ma in questo caso è bene precisare che tali indicatori devono essere scelti in modo appropriato per ciascuna situazione, e dunque non una volta per tutte in precedenza ma commisurati alle caratteristiche di quella specifica R. COLANTONIO VENTURELLI – A. GALLI, Integrated indicators in environmental planning: methodological considerations and applications, in un numero di prossima pubblicazione della rivista “Elzevire”. 129 180 situazione territoriale su cui si opera. Inoltre, essi dovranno misurare e descrivere tutte le componenti dello stato ecologico che possono essere rintracciate, della pressione economica che le attività produttive esercitano sull’ambiente e delle risposte che la società tenta di dare alla situazione specifica attraverso le regole che si è imposta. Il quadro sinottico seguente fornisce un riferimento generale da cui partire per definire gli indicatori utili per i diversi casi applicativi (fig. 7). on a time scale (*) on a spatial scale (**) Semi –natural landscape Global landscape Natural and semi– natural systems past present (which have ceased to exert a direct action) (now exerting their action) Spontaneous Biological, biological, soilrelated, geomorphological, soil-related, and climatic geoprocesses in scarce relation to anthropic morphologica activities Indicators: detectable evidence and scientific reconstructions (relict flora, paleosoil, paleobotanics) future (which will presumably arise) Spontaneous biological and soil-related processes l, and climatic requiring processes strong human influenced by management the close and support relationship with anthropic activities which often affects their reactions Indicators: of landscape ecology and normative 181 Indicators: of trends (e.g. heterogeneity of landscape evolution, ecological networks, reduction of soil erosion) Production processes as a function of man’s action and of economic requirements Agricultural and forest systems Production processes (^) of different but interrelated sectors (e.g. agriculture + parks + tourism), which Indicators: determine flows historical of the of energy, agricultural people, landscape and of animals, landscape materials and ecology information Cultural landscape Indicators: normative, socio-economic (e.g. equitability), statistical, of landscape ecology (gradients according to Müller and his model), agroecological Urbanindustrial systems Productive, historical, social, economic, warrelated, landrelated, and urban processes Indicators: historical of the urban landscape, of urban ecology (structural and functional, according to Müller) Productive, social, economic, landrelated, and urban processes related to the flows of individuals, information and energy Indicators: normative, statistical, of urban ecology, of landscape ecology (structural and functional: gradients) Production processes (^) requiring balancing among the different sectors involved Indicators: of trends (e.g. agro-ecological, ecological networks, transformations of the agricultural landscape) social, economic, landrelated, and urban processes related to the flows of individuals, information and energy increasingly interrelated to the other types of systems and bound to them with a mutual dependence Indicators: of trends (*) years, decades, centuries (hundreds, thousands) (**) macro-regional, regional, local, sub-local (^) in a broad sense; they include the production of both material (farm produce) and immaterial (services) goods Fig. 7 – Internal processes of the landscape as a whole and types of the respective indicators In definitiva, non si tratta di stilare un elenco di indicatori e poi applicarli ai vari casi, come è avvenuto ad esempio da parte dell’Unione Europea a proposito dell’indagine sulla sostenibilità locale, in 182 cui la scelta era obbligata dalla necessità di confrontare molte situazioni differenti 130, ma di definire gli indicatori specifici secondo un preciso modello che possa descrivere la multidimensionalità nel modo più corretto possibile. In questo senso, il modello Pressione – Stato – Risposta (PSR) sembra essere il più adatto 131. Riepilogo • • • 6) Gli indicatori come misuratori e descrittori di ciascuna situazione specifica Indicazioni generali per l’applicazione degli indicatori Il modello Pressione – Stato – Risposta (PSR) L’applicazione L’applicazione del modello PSR non garantisce di per sé alcun risultato, ma tenta di stabilire un equilibrio tra i vari gruppi di indicatori, confrontandoli e specificandoli. Lo schema seguente illustra la possibilità di misurare e descrivere una determinata unità territoriale, scegliendo la scala di indagine più opportuna e secondo tutti gli indicatori più adatti, il suo stato ecologico, il peso ambientale esercitato dalle sue attività economiche e la risposta che la società ha dato, e cioè la posizione che la popolazione, direttamente o attraverso i suoi rappresentanti, ha assunto rispetto alla situazione attuale. Ecologia (stato) unità territoriale (alla scala più opportuna) Società (risposta) Economia (pressione) Fig. 8 – rappresentazione grafica del modello PSR Ma questa risposta è data sotto molte forme, non tutte facilmente misurabili in termini numerici, e dunque è particolarmente interessante riuscire a confrontarle tra loro. Infatti, essa è molto articolata: si esprime sotto la forma della normativa in tutti i suoi aspetti, sotto la forma della partecipazione della popolazione, sotto la forma delle tradizioni sociali ancora attive, ecc. In sintesi, essa si esprime in un modello culturale, generato sicuramente dal rapporto biunivoco degli abitanti con quel UNIONE EUROPEA, Verso un profilo di sostenibilità locale – Indicatori comuni europei, Schede metodologiche, novembre 2002. Per una trattazione molto completa al riguardo, si rimanda a: H. WIGGERING – F. MÜLLER, Umweltziele und Indikatoren, Sprinter, Berlino Heidelberg, 2004. 130 131 183 determinato luogo; ecco quindi che si ritorna al punto fondamentale di tutto lo studio, e cioè al condizionamento reciproco esistente tra il modello culturale e il modello di assetto del paesaggio. Riuscire ad esprimere in una forma sintetica tutte le indicazioni derivate dallo studio condotto secondo questi principi metodologici, ed orientarli verso le scelte decisionali più appropriate, è lo scopo dell’esperienza scientifica che il gruppo di lavoro si è prefissato, operando su due casi concreti che sono stati proposti rispettivamente da due istituzioni, e sono apparsi particolarmente significativi per l’applicazione metodologica stessa 132. Fig. 9 – Definizione di compatibilità (fonte: V. GIACOMINI – V. ROMANI, Uomini e parchi, Franco Angeli, Milano, 2002.) 132 Lo schema è tratto da: V. GIACOMINI – V. ROMANI, Uomini e parchi, Franco Angeli, Milano, 2002. 184 Riepilogo • • • 7) Applicazione del modello PSR a un’unità territoriale Le caratteristiche della Risposta da inserire nel modello PSR Espressione in forma sintetica delle indicazioni ottenute dal modello e loro traduzione in termini pianificativi e gestionali I casi di studio I casi di studio scelti dal gruppo di lavoro per l’applicazione del metodo “Osservatorio sul paesaggio culturale” sono due: uno legato al mondo della produzione industriale e artigianale e l’altro a quello rurale. Il primo si occupa di alcune aree produttive e artigianali del comprensorio territoriale situato nella provincia di Ancona, il secondo della valle del torrente Sanagra, in Lombardia. I referenti sono rispettivamente la Comunità montana delle Alpi Lepontine e la CNA – Confederazione nazionale della piccola e media impresa e dell’artigianato. Entrambi sono particolarmente rappresentativi per il differente modello culturale di base, attuale e futuro, per le risorse disponibili e per l’assetto fisico del territorio. Essi vengono studiati e presentati separatamente, ma se ne possono confrontare le peculiarità e i rispettivi sviluppi nello schema riepilogativo della fig. 10. 185 Articolazione del lavoro del gruppo Istituzioni referenti Spunti per la ricerca Descrizione con apparati Quesiti fondamentali CNA - Confederazione nazionale della piccola e media impresa e dell’artigianato (Sede provinciale di Ancona) Comunità montana delle Alpi Lepontine- Val Sanagra Convenzione di ricerca scaturita Convenzione di ricerca stipulata con dall’iniziativa di un convegno la Comunità montana sulla base di organizzato dalla CNA nel 2004 esperienze precedenti e/o contemporanee, quali: • Prodotto multimediale del 2002 • ricerca MIUR del 2003 • AIP (edizioni 2003 e 2004) • coordinamento scientifico del progetto “Per un’area di riequilibrio” del 2005 Schemi ridotti di apparati Schemi ridotti di apparati 1. E’ corretto continuare a operare in modo che la produttività e la produzione si contrappongano in maniera squilibrata nei sistemi industriali e in quelli agricoli? 2. Quale modello di sviluppo complessivo può scaturire dal mutamento di questo rapporto tra produttività e produzione? 3. Quale modello insediativo ne può conseguire da proporre alle amministrazioni locali, e quindi da inserire negli strumenti di piano? 186 1. E’ proprio il disordine che deve guidare lo sviluppo di queste zone “interurbane”? 2. Come si può giungere ad un modello insediativo “infraurbano” che si opponga a quello “interurbano”? 3. Quale ruolo possono svolgere i diversi gruppi sociali nella ricomposizione di questo paesaggio? Particolarità emerse dallo sviluppo integrato della ricerca Risposte ai quesiti specifici dei casi di studio individuate attraverso la metodologia elaborata Risposte ai quesiti generali posti nell’edizione precedente della Conferenza di ricerca 1. Indispensabilità dell’integrazione specialmente con le competenze umanistiche e con quelle economiche, oltre a quelle competenze già presenti nel gruppo, che hanno ormai un rapporto consolidato in quanto tradizionalmente più affini tra loro 2. Indispensabilità della partecipazione del pubblico 1. Differenziare le attività produttive 1. Stratificazione e coesistenza di diversi modelli insediativi e di diversi interessi sociali 2. Necessità di ricomporre questi modelli per giungere ad un nuovo modello di paesaggio “ricomposto” 1. Attivare, attraverso tutte le azioni della costa da quelle dell’entroterra, concertate per le tre fasce, un flusso di secondo un criterio di idoneità dei informazioni, di collaborazioni e di luoghi, delle strutture disponibili e del intenti unitari modello sociale e culturale 2. Imprimere a ciascuna area produttiva 2. Promuovere la ricomposizione delle un carattere specifico e riconoscibile varie parti frammentate del paesaggio in un’unica realtà territoriale multifunzionale 3. Identificare e fissare alcune invarianti: a) di tipo ambientale, ad esempio 3. Avviare un processo di nel rapporto con il paesaggio organizzazione spaziale che rifletta coerentemente un modello culturale circostante; b) di tipo economico, ad esempio sicuramente nuovo, ma che richiama nella tipicità della lavorazione, e molto da vicino quello, robusto, quindi del marchio, dei prodotti che longevo e basato sulla cooperazione vengono confezionati in quel tra le varie componenti sociali- anche determinato luogo e non in altri (in se più flessibile nella definizione degli funzionali -per il modo simile alla valorizzazione dei spazi raggiungimento degli obbiettivi terroir rurali); comuniil quale ha generato a suo c) di tipo sociale: ad esempio nel rapporto con il contesto sociale tempo il “paesaggio delle ville circostante e nel raccordo con i storiche” (questionari ai cittadini). principi di tutela e di sviluppo del paesaggio in tutte le sue dimensioni culturali e produttive (questionari alle imprese e ai cittadini). 1- Scala spaziale: inversione della tendenza all’appiattimento disaggregato della “nuova urbanità” verso l’integrazione e la caratterizzazione dell’identità fisica e sociale dei luoghi 2- Scala temporale: determinazioni delle fasi temporali delle trasformazioni qualitative da contrapporre ai mutamenti trascinati dalla velocità che ha generato soltanto la crescita quantitativa 187 Modello insediativo possibile Apparati Apparati Le arre produttive differenziate per le loro caratteristiche d’identità sono accomunate dall’idea di rispecchiare il nuovo modello culturale, appunto: • “Il nuovo paesaggio della produzione” Le componenti dei tre paesaggi si collegano e si interagiscono grazie all’apporto di conoscenze umanistiche: • “Il paesaggio della nuova ruralità” • “Il paesaggio degli eventi culturali” • “Il paesaggio delle strutture temporanee” Conclusioni, risultati Si è tentato di esprimere in modo più appropriato le risposte integrate, ma raggiunti, quesiti aperti soprattutto di tradurle in alcuni strumenti analitici e propositivi sia con degli indicatori sintetici appropriati, sia con dei suggerimenti gestionali specifici per ogni caso di studio, adattando ai singoli contesti le risposte date in via generale. Rimangono aperti numerosi possibili sviluppi futuri, legati soprattutto alla traduzione dei principi suggeriti in termini di pianificazione attuativa. Fig. 10 – Riepilogo e confronto dei casi di studio presentati Riepilogo • • Le ragioni della scelta dei due casi di studio I referenti dei due casi di studio 188 RITA COLANTONIO VENTURELLI – ANDREA GALLI (IN COLLABORAZIONE CON ERNESTO MARCHEGGIANI E GIOVANNA PACI) IL TEMPO LIBERO SULL’ACQUA: IL “PAESAGGIO DELLE VILLE STORICHE” DEL LAGO DI COMO La strategia è l’arte di utilizzare le informazioni che si producono nell’azione, di integrarle, di formularle in maniera subitanea determinati schemi di azione, e di porsi in grado di raccogliere il massimo di certezze per affrontare ciò che è incerto. Edgard Morin, 1985 1) Introduzione L’occasione immediata per l’approfondimento di questo caso di studio è nata dal rapporto che si è instaurato tra la Comunità montana delle Alpi Lepontine e il DISASC – Dipartimento di Scienze applicate ai sistemi complessi dell’Università politecnica delle Marche, e in particolare con l’AGRUR – Area gestione delle risorse urbane e rurali. Infatti, una porzione del territorio della Comunità comprende il bacino del fiume Sanagra, la cui denominazione romana indica le qualità delle sue acque, che erano ritenute terapeutiche. Dal 2005 questo territorio è soggetto alla normativa vigente per i Parchi locali di interesse sovracomunale (PLIS), e quindi regolato da un piano, ancora in fase di ideazione, del parco stesso. Esso rappresenta uno strumento del governo del territorio specifico della Regione Lombardia, la quale lo ha istituito nella propria legge urbanistica; di qui l’interesse dell’AGRUR a partecipare agli studi preparatori del piano mediante un apposito incarico di ricerca. D’altronde, l’AGRUR, sotto la responsabilità scientifica dei docenti Rita Colantonio Venturelli e Andrea Galli, aveva già sviluppato le conoscenze scientifiche necessarie per affrontare quest’impegno in altre occasioni passate, quali ad esempio lo svolgimento di una ricerca sull’area vasta del “paesaggio delle ville storiche”, intitolata Villa Mylius Vigoni: un microcosmo tra passato e futuro, di cui si parlerà più avanti e i cui risultati sono stati raccolti in un prodotto multimediale su CD. A questa prima ricerca ne è seguita una seconda, intitolata: Analisi, valutazione e gestione integrata delle risorse in territori rurali soggetti a moderata ed elevata pressione antropica: alta valle del fiume Esino (Ancona) e valle del torrente Sanagra (Como). Casi di studio dell’Italia centrale e dell’Italia settentrionale, e quindi il coordinamento scientifico di un progetto articolato in tre parti specifiche intitolato Per un’area di riequilibrio, svolto su incarico del Centro ItaloTedesco Villa Vigoni. Il gruppo di ricerca che ha studiato questi temi fa parte di quello più vasto, denominato Osservatorio sul paesaggio culturale, che si è formato nell’ambito della Conferenza di ricerca Il paesaggio culturale tra storia, arte e natura. 189 Infine, vale la pena di ricordare anche il contributo derivato dall’esperienza di didattica avanzata che si è svolta nell’ambito del workshop annuale denominato Accademia internazionale di progettazione, e che ha sviluppato in due diverse edizioni due temi molto vicini a quelli relativi all’incarico di ricerca. Tutti questi presupposti saranno richiamati nei punti opportuni. Riepilogo • • • 2) Lo spunto per lo sviluppo di questo caso di studio Le ricerche preliminari I presupposti scientifici della ricerca Il “paesaggio delle ville storiche” della fascia lacustre occidentale del Lago di Como Il territorio relativo al caso di studio appartiene a quella vasta regione geografica che praticamente coincide con l’Italia settentrionale, che alcuni geografi negli anni settanta del secolo scorso hanno denominato come la possibile “Megalopoli mediterranea”, indicando la presenza di alcuni fattori complessi che potevano far pensare a una conurbazione simile a quelle che si erano sviluppate nella costa occidentale degli Stati uniti d’America e nell’Europa centrale 133. Sono molti i caratteri peculiari di questa realtà territoriale, e tra questi risulta particolarmente evidente quello, peraltro intrinseco al concetto stesso di megalopoli, dello squilibrio esistente tra le diverse zone che la compongono (fig. 1). E’ uno squilibrio tra i diversi gradi di concentrazione delle strutture urbane presenti al suo interno, ma anche culturale tra le componenti della popolazione che vi abita, gestionale tra le differenti impostazioni del governo del territorio, ecologico tra lo stato delle diverse zone. Fig. 1 – La pressione esercitata dalla conurbazione milanese sull’area di riequilibrio della regione insubrica In quest’ambito, la regione dell’Insubria, a cavallo tra il Cantone del Ticino e la provincia di Como, rappresenta un’unità geografica, culturale e territoriale di particolare rilievo per la sua storia e per le testimonianze della civiltà che l’ha forgiata in modo omogeneo, anche se le diverse impostazioni Si confronti, a questo proposito, C. MUSCARÀ (a cura di), Megalopoli mediterranea, Francoangeli, Milano, 1978 e E. TURRI, La megalopoli padana, Marsilio, Venezia, 2000. 133 190 gestionali del territorio, quella italiana e quella svizzera, rendono evidente per molti aspetti la diversa appartenenza delle singole zone ad un’amministrazione politica piuttosto che all’altra. In particolare, nella zona cosiddetta “dei tre laghi” – quello di Lugano, quello di Piano e quello di Como – nel versante del lago di Como, che oggi è caratterizzato da un assetto urbanistico di tipo decisamente periferico metropolitano lungo la strada che collega Lugano a Porlezza, dalla seconda metà dell’ottocento in poi, invece, si era insediato un modello molto particolare che si può ancora rintracciare. Si tratta di quel “paesaggio delle ville storiche”, che occupa la fascia lacustre degradante verso la linea costiera e che rappresenta uno dei paesaggi riconosciuti come i più entusiasmanti dal punto di vista percettivo; infatti, si è pensato da più parti di proporlo come una parte possibile di quel patrimonio culturale che l’UNESCO considera di pertinenza dell’intera umanità (fig. 2). Fig. 2 – Il “paesaggio delle ville storiche” del lago di Como Al centro del lago, si è configurato il cosiddetto “triangolo lariano” (fig. 3), formato dalle ville storiche conservate quasi interamente nella loro integrità originale, che era impiantata secondo il modello insediativo tipico di quelle proprietà: l’edificio storico, il parco progettato secondo i diversi canoni proposti dai principi dell’epoca, ma sempre proposto come il prolungamento all’esterno dell’edificio, e il suolo agricolo, destinato alla produzione dei beni necessari alla sopravvivenza delle famiglie degli agricoltori e ad una parte delle esigenze di consumo dei proprietari. Queste ville sono tre, e cioè Villa Carlotta e Villa Mylius Vigoni, sulla sponda occidentale, e, di fronte alla prima, in linea d’aria diretta ma sul punto della biforcazione dei due rami del lago, villa Melzi. Non è un caso che proprio in una di queste ville, la Villa Mylius Vigoni, che ospita il Centro Italo-Tedesco, si sia formato quel gruppo di lavoro denominato Osservatorio sul paesaggio culturale, di cui si accennava in precedenza 134. 134 Qui si fa riferimento alla Conferenza trilaterale franco-italo-tedesca che ha generato la presente pubblicazione. 191 Fig. 3 – Il “triangolo lariano” e le ville storiche del lago di Como Quest’ampia fascia territoriale del versante che degrada verso il lago può essere distinta a sua volta in tre fasce parallele: la prima, quasi coincidente con la parte alta del bacino del torrente Sanagra, è montana o alto-collinare, e i suoi ecosistemi hanno un carattere di tipo rurale, con alpeggi e attività produttive che contribuiscono alla persistenza di quei caratteri tipici del paesaggio produttivo agrosilvo-pastorale che conserva una sua validità ecologica (fig. 4). Fig. 4 – Le tre fasce che compongono il territorio del bacino del torrente Sanagra La seconda fascia è la più particolare e insieme più delicata dal punto di vista del rapporto tra le condizioni ecologiche, quelle economiche e quelle insediative prodotte dall’antico modello culturale che ha generato il paesaggio attuale, e l’uomo che oggi vi riconosce le sue radici storiche, se ne sente parte, ma a volte è anche attratto inevitabilmente da quelle nuove forme culturali non certo esaltanti che trovano la loro massima espressione in alcuni tratti della stretta fascia costiera sottostante. E’ questo il vero “paesaggio delle ville storiche”, che si è formato con i ritmi e le leggi della storia del tempo libero, il quale ha trasformato, da vero protagonista, il paesaggio dai tempi della prima industrializzazione lombarda in poi. Infatti, la borghesia, soprattutto quella milanese, comincia a investire i propri capitali acquistando delle proprietà agricole con i proventi derivati per lo più dalle attività collegate con la prima 192 fase dell’industrializzazione, determinando così dei rapporti indissolubili di reciproca dipendenza e collaborazione con la vita rurale locale 135, e instaurando definitivamente la presenza della tipologia insediativa della villa in questi luoghi. Le testimonianze delle diverse forme della vita rurale, allora estremamente povera e legata, seguendo l’alternanza delle stagioni, alla lavorazione delle materie minerarie, soprattutto del ferro, sono oggi ancora molto efficaci, e costituiscono uno degli elementi più profondamente radicati nella popolazione locale attuale 136. Ma è quello del tempo libero il vero paradigma di riferimento delle trasformazioni dell’assetto fisico del paesaggio; infatti, accanto alle residenze, sono sorte le prime attrezzature per lo sport, quali ad esempio i campi da golf, progettati soprattutto per il numeroso pubblico inglese, ma sono nate anche quelle per il divertimento all’aperto, come dimostra la presenza dei parchi storici attrezzati per i giochi 137. Esiste anche una seconda tipologia insediativa molto diffusa nella prima e nella seconda fascia, e cioè quella del borgo. Essa presenta dei caratteri specifici differenti da quelli tipici, ad esempio medievali, di altre parti d’Italia, ma costituisce pur sempre un modello relativamente antico che presenta delle caratteristiche ricorrenti in tutta la regione transfrontaliera dell’Insubria. Uno di questi caratteri si ricollega direttamente all’antica attività economica prevalente degli abitanti, quella silvo-pastorale, che creava uno stretto rapporto tra l’abitato e il territorio circostante, i quali risultavano così fortemente integrati. Attualmente, quest’integrazione non esiste più: il borgo è sede di altre attività, legate a un’economia spesso turistica, a volte esclusivamente residenziale, che si sono insediate gradualmente al posto di quelle precedenti, trasformandone l’identità originaria, e scindendone completamente i legami con il territorio rurale, anche in quei casi in cui esso vive ancora secondo le leggi dell’economia agricola. Tra le cause di questa frattura, c’è la trasformazione del ruolo sociale ed economico degli addetti all’agricoltura, che oggi abitano in luoghi molto più distanti. Gli esempi in questo senso sono numerosi nella regione, e alcuni di essi sono stati oggetto di un’edizione del workshop annuale denominato “Accademia internazionale di progettazione”, di cui si accennava in precedenza 138. Qui lo stato dell’edilizia è accettabile, sostanzialmente non ci sono edifici fortemente degradati, anche se la qualità degli interventi operati a volte non è all’altezza né del passato né di un possibile buon livello attuale; le funzioni sono essenzialmente residenziali, spesso legate al turismo “di ritorno”, e cioè alla presenza degli antichi residenti che vi tornano soltanto nel periodo delle vacanze, ma anche a quello dei nuovi Per una trattazione più specifica sull’argomento, si rimanda a: R. COLANTONIO VENTURELLI (a cura di), Per un osservatorio sul paesaggio culturale, prodotto multimediale su CD, 2002. 136 I. VIGONI, Menaggio e dintorni, Noseda, Como, 1961. 137 Per una trattazione più specifica sull’argomento, si rimanda a: R. COLANTONIO VENTURELLI – A. GALLI – C. LEPRATTI – V. MARTINEZ. – H. PESSOA, Il tempo libero e la formazione del “paesaggio delle ville storiche” del lago di Como in: S. BERTOLUCCI – G. MEDA RIQUIER (a cura di), “Ville storiche del lago di Como: verso innovativi modelli di gestione”, Comunicazioni/Mitteilungen, Villa Vigoni, IX, 3, 2005 – numero speciale. 138 Cfr. R. COLANTONIO – F. VENTURELLI, Il paesaggio del tempo libero, in: “Metamorfosi”, n°63, novembre 2006; C. LEPRATTI – V. MARTINEZ, AA03, TU Darmstadt, Fachbereich Architektur – Entwerfen und Raumplanung, Darmstadt, 2003. 135 193 proprietari, e in parte sono anche di uso del tempo libero: ad esempio, vi si organizzano cicli di concerti o rappresentazioni teatrali, e non soltanto nel periodo centrale dell’estate, sicuramente più frequentato. Le trasformazioni più recenti, che si sono sovrapposte in modo disordinato, soprattutto nella terza fascia, quella stretta e costiera, sono dovute essenzialmente alla massificazione del turismo più recente che, appoggiandosi alla strada Regina, ha creato la frammentazione delle funzioni delle ville e ha determinato la perdita di una parte dell’identità del loro rapporto significativo con il lago (fig. 5). Fig. 5 – Gli apparati paesistici del territorio a cui appartiene il bacino del torrente Sanagra A questa separazione delle strutture e delle funzioni legate alle due accezioni antitetiche del tempo libero che attualmente si riscontrano – quella delle ville storiche, spesso appartenenti ancora alle famiglie dei primi proprietari, oppure sofferenti a causa di difficoltà gestionali, a volte chiuse del tutto, e quella del turismo di passaggio che “usa e getta” il paesaggio e ne consuma le sue strutture – corrisponde una trasformazione ecologica profonda, che vi è direttamente collegata e che è ha avuto un ritmo molto rapido negli ultimi sette – otto decenni (fig. 6a/6b) 139. Fig. 6a – Ricostruzione del mosaico ambientale al 1936, scala 1:25.000 con indicazione della proprietà Vigoni (rosso) e Bagatti Valsecchi (blu). 139 Le immagini citate sono tratte dal contributo di Gioia Gibelli all’interno del prodotto multimediale citato. 194 Si nota la concentrazione del bosco di conifere in corrispondenza delle proprietà delle ville (piccoli sistemi autosostenibili con importante funzione di capisaldi del governo del territorio), l’alto grado di eterogeneità paesistica, la presenza diffusa di elementi antropici plurifunzionali a bassa intensità d’uso (prati e seminativi, vigneti, ecc.), considerabili come elementi di transizione tra le aree antropiche ad alta intensità d’uso (insediamenti) e le aree seminaturali (boschi). Il governo è diffuso su tutto il territorio. Fig. 6b – Ricostruzione del mosaico ambientale allo stato attuale, scala 1:25.000 Si nota l’aumento delle superfici boscate, l’aumento dei boschi con conifere, l’aumento degli insediamenti che si configurano in modo tale da costituire “barriere” nel sistema territoriale. Sono scomparsi i frutteti e sensibilmente diminuiti i prati e seminativi ed è aumentata l’intensità d’uso di quelli rimasti nei fondo valle. In sintesi è diminuita l’eterogeneità paesistica e in generale è aumentata l’intensità d’uso degli elementi del paesaggio: il risultato è un aumento del “contrasto” del mosaico ambientale che generalmente si accompagna ad una diminuzione dell’equilibrio del sistema territoriale. In un mutato contesto territoriale, si modifica anche il ruolo del sistema delle ville che hanno perso la connotazione di autosostenibilità in seguito alle trasformazioni globali del mondo agricolo (es. diminuzione del tradizionale valore economico del bosco). Esse necessitano quindi di nuove metodiche di conduzione per trovare funzioni sostenibili sia da un punto di vista ambientale che economico acquisendo così una rinnovata importanza negli equilibri del territorio. Così, la fascia delle ville ha perso il rapporto significativo e determinante che aveva con il lago, con le tradizionali vie di comunicazione sull’acqua e con la fascia montana retrostante, un tempo strettamente collegate tra loro, facendo precipitare tutte le forme d’interesse – economico, sociale, culturale – verso la parte più bassa del versante, fino ad appiattirsi e accumularsi sulla linea costiera. Ciò ha provocato a sua volta un forte decremento della capacità di autosostentamento della prima fascia, addossando alla terza il compito di provvedere a tutto il territorio. Poiché quest’azione di schiacciamento non può continuare, dal momento che ha costi economici ed ecologici troppo alti per la terza fascia, è necessario che ci si impegni a fare in modo che la prima torni ad essere significativamente produttiva e sufficiente per il riequilibrio dell’intera zona. Dunque, è indispensabile che i numerosi aspetti di questo paesaggio – scientifici, storicoartistici, economici – siano investiti dalle diverse matrici disciplinari che possono, integrandosi, 195 restituirne un’immagine scientifica complessa per suggerire delle azioni d’intervento integrate ed efficaci. Riepilogo • • • Le caratteristiche fisiografiche e quelle antropiche Il modello culturale originario e la formazione delle tre fasce del paesaggio attuale secondo il paradigma del tempo libero La necessità delle competenze scientifiche multidisciplinari che studiano il rapporto tra la molteplice identità della popolazione e l’identità ecologica del paesaggio 3) I principi ispiratori della ricerca Il paradigma del tempo libero come fattore di trasformazione del paesaggio culturale, declinato nei suoi aspetti principali, quello della residenza, quello dello sport e quello del tempo libero, ha contribuito notevolmente all’insediamento di quella tipologia territoriale, che ormai è piuttosto diffusa, ma con connotazioni diverse specifiche da luogo a luogo, e che è stata definita recentemente come la “nuova urbanità” 140. La dinamica generatrice di questa tipologia consiste nel dissolvimento del paesaggio urbano in quello rurale, nel disciogliersi vicendevole dell’uno nell’altro, generando un assetto territoriale privo di caratteri distintivi. Un certo tipo di presenza urbana è dappertutto, un certo tipo di ruralità emerge accanto a queste presenze, senza un concetto ordinatore conduttore. La scelta di questo caso di studio, in cui le concentrazioni urbane sono scarse e non ben definite, mentre i caratteri rurali stanno perdendo la loro incisività, è legata sia alla presenza di alcuni aspetti già evidenti del fenomeno a cui si accennava, sia ad alcuni potenziali rischi che si potrebbero verificare, e che si possono intravedere fin d’ora attraverso un disordine insediativo a tratti piuttosto pronunciato. Ma è proprio il disordine che deve guidare lo sviluppo di queste zone “interurbane”? La risposta è senz’altro negativa, tuttavia non è facile tradurla in azioni progettuali se non si passa prima attraverso una riflessione sullo stato reale del paesaggio complessivo e sulla sua scomposizione per unità territoriali significative dal punto di vista del rapporto che i diversi elementi assumono al loro interno. Infatti, a ben vedere, l’attuale frammentazione del paesaggio non è che lo specchio fedele di un altro tipo di frammentazione: di quella sociale. All’organizzazione spaziale del modello generatore del “paesaggio delle ville storiche”, basato sull’impiego fortemente interdipendente dei capitali borghesi e delle risorse rurali, comprese quelle umane, è seguito l’assetto territoriale attuale, Per una riflessione molto attenta sul tema, si rimanda a: F. OSWALD – N. SCHÜLLER (a cura di), Neue Urbanität, gta Verlag, ETH Zürich, 2003. 140 196 generato dalla profonda scissione tra gli interessi delle diverse componenti sociali che oggi vi operano, e cioè in sintesi da tre grandi gruppi. A quello dei proprietari attuali delle ville, in parte discendenti dalle famiglie originarie, ma spesso anche ad esse assolutamente estranei, come ad esempio i grandi operatori nel campo della moda o dello spettacolo, si sono affiancati gli operatori turistici su vasta e piccola scala – dai gestori delle strutture ricettive agli agenti immobiliari ai commercianti; agli interessi di questi due gruppi si aggiungono, spesso contrapponendosi, quelli della popolazione residente. Infine, bisogna menzionare come anche la popolazione fluttuante, rappresentata dalle presenze turistiche, giornaliere ma anche settimanali o quindicinali, può avere un suo peso nell’espressione delle esigenze d’uso delle risorse locali, anche se, per sua natura, non può esprimere un’opinione confrontabile con quella di un gruppo omogeneo, stabile e significativo 141. Il tentativo che si vuole sviluppare è proprio quello di proporre un modello di riorganizzazione spaziale che tenda a superare l’attuale risultato di quel processo di confusione culturale che lo ha generato a favore dell’espressione di un altro modello, e cioè di quello di una nuova riconnessione tra tutte le potenzialità sociali e culturali, tra tutte le azioni locali già avviate e quelle future dirette allo sviluppo integrato del territorio e dell’ambiente, tra tutte le componenti sociali rivolte all’interazione e alla cooperazione più stretta. E’ solo quest’idea di riorganizzazione e di sostegno all’integrazione che può generare anche un riflesso coerente e concreto sull’assetto territoriale ed ambientale, trasformando la frammentazione “interurbana” nella logica della compattezza “infraurbana”. Così, si tratta di passare dalla dispersione senza senso alla ricomposizione organizzata, dal modello della speculazione finanziaria a quello della ricchezza del corretto sostegno dei processi ecologici e tecnologici rivolti al potenziamento di tutte le risorse, dall’allontanamento reciproco delle componenti sociali alla loro cooperazione, da un paesaggio splendido ma poco coerente a un paesaggio di grande qualità culturale, ecologica e percettiva. Traducendo queste indicazioni in termini spaziali, il concetto della continuità non si esprime soltanto in uno schema bidimensionale organizzato per livelli orizzontali successivi, come è raffigurato nella fig. 5, ma si identifica da una parte con il nuovo modello culturale che il gruppo di lavoro multidisciplinare si è sforzato di elaborare, e dall’altra con l’assetto del paesaggio considerato nella sua tridimensionalità, che si può esprimere graficamente attraverso quelle connessioni verticali che ricollegano tra loro le interfacce dei diversi elementi appartenenti alle diverse componenti del paesaggio stesso (fig. 7). Si noti come, da un questionario diffuso recentemente dalla Comunità montana delle Alpi Lepontine, è emerso che una parte della popolazione fluttuante è rappresentata da un gruppo piuttosto numeroso di turisti, per lo più tedeschi ed inglesi, che per consuetudine trascorrono le vacanze tutti gli anni in questi luoghi e che hanno una loro precisa opinione sulla loro integrità, peraltro rivolta essenzialmente alla salvaguardia più rigorosa. Tale opinione è sicuramente da considerare. 141 197 Fig. 7 – Le interfacce tra gli apparati paesistici e l’azione culturale dell’uomo Dunque, tornando alla scomposizione per fasce del paesaggio a cui si accennava, che non risponde esclusivamente a un criterio fisiografico, ma soprattutto al rapporto reciproco che tali risorse fisiografiche hanno con le consuetudini abitative della variegata popolazione attuale, si può dire che in ciascuna di queste tre fasce bisogna approfondire le dinamiche dei fenomeni che vi hanno sede, e tenerle sotto controllo, stabilendo degli indicatori significativi della pressione, dello stato e della risposta di tali fenomeni, per poi utilizzarli come la base delle azioni progettuali integrate da suggerire 142. Pertanto, gli indicatori devono essere scelti opportunamente perché siano realmente rispondenti a queste esigenze, e non una volta per tutte, in precedenza, secondo dei criteri precostituiti 143. In questo senso, bisogna segnalare che esistono già tre strumenti di governo del territorio, ciascuno relativo a una fascia territoriale, i quali, oltre a rappresentare delle forme gestionali interessanti e in parte originali, possono fornire anche una traccia importante per la definizione degli indicatori da utilizzare, soprattutto per quanto riguarda quelli di risposta del modello PSR (v. “Metodologia generale”). Infatti, la prima fascia comprende al suo interno il parco della Val Sanagra, uno di quei parchi locali di interesse sovracomunale (PLIS) che la Regione Lombardia, unica in Italia, ha istituito nella propria legge urbanistica. L’interesse disciplinare specifico per questa tipologia risiede nel fatto che essa, oltre alla sua originalità, prevede la stesura di un piano apposito di gestione territoriale di ordine superiore a quello comunale, a cui quest’ultimo deve quindi adeguarsi. Ciò significa che questo piano non può che integrare le direttive urbanistiche comunali con quelle rivolte alla gestione degli ecosistemi agro-silvopastorali e di quelli boschivi. In questo senso, il PLIS può rappresentare un ottimo mezzo per Per un testo molto approfondito sul tema, si rimanda: H. WEGGERING – F. MÜLLER (a cura di), Umweltziele und Indikatoren, Springer, Berlino, 2004. 143 Le caratteristiche principali degli indicatori da stabilire sono in: F. MÜLLER, Ecosystem Indicators for Integrated Management of Landscape Heatht and Integrity, in: S. E. JØRGENSEN – R. COSTANZA – FU-LIU XU (a cura di), Handbook for Ecological Indicators for Assessment of Ecosystem Healt, CRC Press (Taylor & Francis Group), Boca Raton – Londra – New York – Singapore, 2005, pp. 277 –303. 142 198 consentire l’avvio di quel processo di rafforzamento ecologico, e quindi del suo autosostentamento economico, che potrebbe contrastare la tendenza di questa fascia territoriale a “gravare”, come si diceva in precedenza, sulle altre due, e soprattutto su quella costiera che non può più permettersi di sopportare questo peso. La seconda fascia, quella “dei borghi e delle ville”, per così dire, appartiene in parte al territorio investito da un’importante iniziativa, anch’essa unica, che la Regione Lombardia ha avviato recentemente e che riguarda un progetto molto ampio di recupero programmato di alcuni monumenti. Infatti, a differenza di quanto è avvenuto finora per i singoli monumenti restaurati e poi abbandonati a una successiva gestione dotata di risorse incerte da dedicare alla sua manutenzione futura, e spesso priva di risorse, questo nuovo indirizzo regionale contenuto nell’ “Accordo quadro di sviluppo territoriale” (AQUST) prevede che essi, una volta ritornati allo stato di agibilità, vengano poi seguiti nella loro “vita” successiva, attraverso successivi controlli ed azioni di continuo monitoraggio ed intervento. E’ evidente come quest’ottica possa avvantaggiare non soltanto i singoli monumenti, ma tutto il territorio investito da questo progetto 144. Per quanto riguarda la fascia costiera, è importante segnalare l’iniziativa presa dal Comune di Menaggio nell’ambito di Agenda 21. Questo strumento non è certamente originale né specifico ma, per la sua stessa natura, può fornire un contributo notevole al coinvolgimento della popolazione nello sviluppo di quel nuovo modello culturale che si intende proporre. Infatti, interessando tutte le componenti sociali – dai proprietari delle ville storiche agli imprenditori turistici alla popolazione residente – questo strumento può svolgere un ruolo doppiamente importante: da un lato, esso organizza una risposta alle esigenze locali di avviare un processo di sviluppo sostenibile secondo i principi della Carta di Aalborg, che non vengono discussi in questa sede sotto il profilo scientifico, dall’altro può rappresentare un’occasione preziosa per invitare tutte queste componenti sociali a dibattere insieme le aspettative e le potenzialità concrete di un nuovo modello insediativo. Allora, utilizzando tutti gli strumenti scientifici e quelli gestionali a disposizione, l’idea che scaturisce quasi spontaneamente è quella di attivare, attraverso tutte le azioni concertate per le tre fasce, un flusso di informazioni, di collaborazioni e di intenti unitari che faccia sorgere la possibilità di ricomporre in un’unica realtà territoriale le varie parti frammentate del paesaggio, avviando così un processo di organizzazione spaziale che rifletta coerentemente un modello culturale sicuramente nuovo, ma che richiama molto da vicino quello, robusto, longevo e basato sulla cooperazione tra le varie componenti sociali per il raggiungimento degli obbiettivi comuni, che ha generato a suo tempo il “paesaggio delle ville storiche”. 144 REGIONE LOMBARDIA, La conservazione programmata del patrimonio storico architettonico, Guerini e associati, Milano, 2003. 199 Riepilogo • • • La “nuova urbanità” come generatrice dell’assetto attuale del paesaggio “Infraurbano” vs. “interurbano” Alcuni criteri per l’uso degli indicatori nell’elaborazione delle linee di azione progettuale 4) Per la ricomposizione e il riequilibrio del “paesaggio delle ville storiche” del Lago di Como Nell’assetto attuale delle tre fasce individuate nel “paesaggio delle ville storiche”, che la “nuova urbanità” ha determinato secondo i suoi principi di dissolvenza e di mescolanza, risulta chiaro come le strutture tecno-ecosistemiche, e cioè quelle forgiate dall’azione antropica, abbiano raggiunto il punto massimo della loro maturità. Ciò significa che non è necessario, anzi può risultare dannoso, favorire delle azioni per accrescerne la quantità, mentre può risultare particolarmente vantaggioso creare delle occasioni per lo sviluppo non soltanto della loro qualità fisica, ma soprattutto delle nuove funzioni che esse potrebbero accogliere, rinnovandone in parte anche gli usi. Per quanto riguarda le strutture semi-naturali boschive e quelle agro-ecosistemiche produttive, strettamente interrelate tra loro in questo tipo di paesaggio, esse devono essere sostenute con alcuni accorgimenti che permettano loro di rafforzarsi e assumere quel valore ecologico che le metta in grado di svolgere un ruolo di riequilibrio anche economico, e quindi di sostenersi in modo autonomo rispetto alle altre strutture tecno-ecosistemiche. Pertanto, è necessario che gli interventi sugli agroecosistemi siano di tipo definitivo e più incisivo sia dal punto di vista strutturale, sia dal punto di vista funzionale. Dunque, è chiaro che le tre fasce in cui è stato scomposto il paesaggio siano organizzate secondo dei principi diversi, come peraltro si accennava anche nel paragrafo precedente. Allora la “nuova urbanità” presente potrà tradursi in un “paesaggio ricomposto”, secondo quel modello, a cui si accennava, che risulta differenziato per criteri d’intervento, ma unitario sia per la sua organizzazione spaziale, sia per la ricomposizione sociale. Così, al suo interno, si potranno organizzare autonomamente, e poi ricollegare funzionalmente, tre tipologie di paesaggio, che si potranno indicare sinteticamente come: “il paesaggio della nuova ruralità”, relativo alla prima fascia, “il paesaggio degli eventi culturali”, nella seconda fascia, e “il paesaggio delle strutture temporanee” nella terza. Per ognuna di queste tipologie verranno proposti di seguito i criteri organizzativi specifici. 200 a) – “Il paesaggio della nuova ruralità” Il sostegno agli ecosistemi agrari e forestali consente, come si diceva in precedenza, di fare del parco della Val Sanagra il motore dello sviluppo di una molteplicità di attività che non devono appartenere a un unico settore, ma differenziarsi profondamente tra di loro, proprio per evitare che l’omogeneità provochi una specializzazione eccessiva degli ecosistemi stessi, e quindi ne rinnovi la debolezza. Pertanto, le azioni d’intervento riguarderanno essenzialmente tre settori di attività: la produzione agro-silvo-pastorale, la formazione professionale e il tempo libero nei suoi molti aspetti. In particolare, le attività produttive sono rivolte allo sviluppo e alla riqualificazione degli alpeggi; al ripristino di colture tradizionali scomparse o molto ridotte, quali il gelso, il castagno, l’olivo, la vite a scopi produttivi, ma solo nel caso in cui le indagini economiche lo riterranno conveniente, e dimostrativi; al recupero e al restauro di alcuni edifici rurali; allo sviluppo dell’attività dei “crotti” esistenti per l’attività agrituristica e alla riqualificazione di alloggi già esistenti per il turismo e l’agriturismo. L’idea di introdurre delle attività rivolte alla formazione scaturisce dall’intento di ricavare dei suggerimenti gestionali derivati dalla conoscenza integrata tra le varie analisi e interpretazioni disciplinari del gruppo di ricerca, a loro volta dettate dalle potenzialità che il modello culturale locale offre ai fini dello sviluppo di quel modello del “paesaggio ricomposto” che si intende proporre. La loro discussione ha condotto a due considerazioni: da una parte ha recepito l’esigenza rilevata nella popolazione residente di avviare allo studio degli ecosistemi forestali le generazioni che si occuperanno in futuro di questo territorio, in cui essa si identifica culturalmente in modo molto stretto; dall’altra, essa si è basata sull’osservazione e sulla riflessione in merito agli interventi, di livello a volte molto poco soddisfacenti, sul patrimonio edilizio locale. Dunque, le iniziative rivolte alla formazione riguardano l’istituzione di una scuola secondaria forestale, con possibilità di ospitare stage e incontri con altre scuole in rete; l’istituzione di un centro multilivello, dalle elementari all’università, per la documentazione e per l’aggiornamento continuo sui materiali e sulle tecniche edilizie tipiche dell’Insubria, che raccolga il materiale utile per conoscerne la storia, le applicazioni attuali e le informazioni essenziali, con l’obbiettivo di formare una “scuola locale” di maestranze, di allievi e di tecnici qualificati per l’uso di materiali e di tecniche di elevata qualità per il restauro e la manutenzione dell’edilizia locale, in stretto contatto con le scuole del Cantone del Ticino, con scambi continui di docenti e di studenti. In questo senso, anche l’architettura “vernacolare” può ricavarne un ottimo ausilio. Infine, le linee propositive gestionali per la riorganizzazione tematica dei percorsi di visita didattici e culturali del parco della Val Sanagra riguardano: l’attività agricola nelle zone collinari e montane, la valorizzazione dei suoi caratteri attuali e delle sue potenzialità; le testimonianze del 201 rapporto tra l’uomo e il suo ambiente di vita attraverso l’impiego delle risorse produttive prima e dopo la “rivoluzione industriale”, quali l’estrazione del ferro e la lavorazione del legno, l’impiego dell’acqua e le sue conseguenze sull’attività agricola e sulla società; le testimonianze della vita rurale dalla fine del XVIII secolo agli inizi del XX, e il collegamento dei percorsi del parco con quelli interni a Villa Mylius Vigoni per la visita dei rustici che, nel loro stato di conservazione, ne rappresentano un segno evidente; le testimonianze della vita borghese dalla fine del XVIII secolo agli inizi del XX, con visite alla proprietà Bagatti Valsecchi e alla proprietà Mylius Vigoni; il turismo stanziale a scopo di studio e di ricerca. Quest’ultimo punto richiama immediatamente la tematica della tipologia insediativa, tipica di questa prima fascia territoriale e della seconda, di cui si accennava al punto 2), e cioè quella del borgo, strettamente legata al modello culturale che le ha generate. Infatti, sono ancora molto ben individuabili i numerosi segni lasciati dalla presenza delle cultura materiale legata alla vita rurale e all’attività produttiva agro-silvo-pastorale entrata in rapido declino pochi decenni fa, per lasciare il posto non all’abbandono, ma a una nuova interpretazione del rapporto tra l’uomo e il suo ambiente. Oggi, tale rapporto passa attraverso l’introduzione di alcune funzioni, in parte legate ancora all’attività agricola e in parte di origine più recente, derivanti dal turismo di breve e/o di lungo periodo. Così, accanto agli antichi mulini, ai ponti di pietra e all’antica chioderia, oggi trasformata in un ristorante in cui consumare le trote allevate nelle acque del fiume Sanagra, si svolge un’attività di recupero edilizio piuttosto intensa, non sempre di livello elevato, che potrebbe avere delle conseguenze non del tutto positive, soprattutto se sommate ad altre iniziative prive di un coordinamento generale. Dunque, si propongono spontaneamente alcune possibilità di recupero della logica del borgo da opporre alla tendenza alla diffusione di una specie di periferia urbana generalizzata, intervenendo in un’ottica complessiva che colleghi le linee progettuali di più ampia scala con quelle di scala più dettagliata, fino ad arrivare alla riprogettazione dei giardini e dei piccoli orti murati ancora presenti nei borghi. Accanto a questi spunti più immediati, per così dire, lo sviluppo delle tecnologie informatiche forniscono una linea d’intervento più articolata, che darebbe la possibilità a ciascun borgo di entrare a far parte di una rete immateriale che offrirebbe degli ottimi spunti sia per il rinnovo delle funzioni legate al tempo libero della popolazione fluttuante, sia per il suo uso da parte della popolazione residente. La proposta, che consiste nel trasformare il borgo tradizionale in un “borgo cablato”, si rivolge a due diversi profili di utente del tempo libero: da una parte è rivolta a quel tipo di turista che si reca in uno dei borghi della Val Sanagra per spegnere il computer e uscire a incontrare persone e luoghi collettivi; dall’altra, a quel turista che si reca in uno dei borghi per accendere il computer e concentrarsi sul suo lavoro intellettuale in un ambiente particolarmente adatto dal punto di vista sia delle strutture informatiche disponibili, sia della cornice dei sistemi naturali, semi-naturali e rurali che lo circondano. In questo senso, anche la popolazione locale, e in modo particolare gli addetti alle attività agricole e a 202 quelle da essa indotte, può usufruire della rete cibernetica messa a disposizione da questo intervento per migliorare la gestione delle proprie attività, e insieme per riqualificare il rapporto tra l’attività produttiva e la residenza 145. b) – “Il paesaggio degli eventi culturali” La seconda e la terza fascia sono quelle in cui è forse più evidente la necessità di avviare il processo di trasformazione della “nuova urbanità” in quel “paesaggio ricomposto”, sia nel senso fisico, sia in quello culturale, a cui si accennava in precedenza. Anche se le due fasce si differenziano per alcuni caratteri fondamentali, e quindi si propongono interventi diversi, tuttavia la presenza delle ville storiche, sia sulla costa degradante sull’acqua, sia sulla riva del lago, sia a volte perfino sull’acqua, ne costituisce l’elemento di collegamento. Dunque, tutte le proposte che riguardano il tema dell’interfaccia vengono illustrate in questo stesso punto. E’ su questa valenza fondamentale del paesaggio che si basa la sua ricomposizione attraverso le due grandi direttive di azione, contemporanee e strettamente collegate tra loro: da un lato la realizzazione di una serie di eventi che facciano avvicinare il pubblico alle strutture di questo particolare patrimonio, il quale richiama a sua volta una lunga serie citazioni letterarie, storiche, artistiche, botaniche; dall’altro, la scelta e l’approfondimento dei contenuti culturali, nonché l’organizzazione dei servizi, dei tempi e delle dinamiche che richiede questa realizzazione. Ciò comporta sicuramente molte occasioni di tipo economico per tutte le attività collegate al settore del tempo libero, ma anche alcuni vantaggi per la conduzione stessa delle proprietà storiche. Ad esempio, un consorzio formato dagli amministratori, dagli operatori interessati a qualsiasi titolo, dagli esperti incaricati di volta in volta, nonché dai proprietari interessati, potrebbe organizzare il programma degli eventi relativi alla stagione delle presenze turistiche, peraltro piuttosto prolungata in questi luoghi, da aprile a novembre, ispirandosi a un tema dominante per la stagione stessa. Tutti i luoghi collegati con questo tema, dai particolari punti del paesaggio alle strutture delle ville, potrebbero essere visitati secondo le modalità concordate con il consorzio. In qualche modo, anche se con molte differenze, è ciò che è avvenuto nel 2004 in occasione delle celebrazioni del centenario della nascita di Giuseppe Terragni a Como. Questo circuito di visite, di iniziative e di diffusione culturale, legato ad un tema specifico e stagionale, potrebbe fare da cornice a quello più duraturo, formato da quei luoghi che ormai sono una meta entrata nella consuetudine del turismo locale, o addirittura nella mitologia del turismo mondiale, come nel caso, ad esempio, di Bellagio. In questo senso, esiste già uno spunto di rilievo che, 145 Il tema del “borgo cablato” è stato sviluppato nell’edizione del 2004 dell’Accademia internazionale di progettazione, i cui risultati sono stati presentati in varie sedi, tra cui si ricorda quella della DBU – Deutsche Bundesstiftung für Umwelt, a Osnabrück, in occasione di un convegno dedicato ai temi del recupero ambientale, nel settembre di quello stesso anno. 203 opportunamente adeguato in alcuni punti, potrebbe diventare il nocciolo centrale di un circuito ben più ampio. Infatti, partendo dall’imbarcadero di Tremezzo, raggiunto dal lago o da terra, si propone immediatamente la visita della famosissima Villa Carlotta; poi, invece di tornare indietro, percorrendo a piedi un sentiero da mettere in sicurezza in alcuni punti che oggi si presentano pericolosi, si potrebbe arrivare fino a Villa Vigoni, visitarla attraverso i percorsi progettati appositamente 146, e poi scendere verso il lago attraverso il sentiero che conduce a Nobiallo e subito dopo a Menaggio, imbarcarsi di nuovo e tornare a Tremezzo o in qualunque altro punto del lago servito dal battello (fig. 8). Fig. 8 – Un possibile percorso misto di visita a piedi e in battello Così, in un’organizzazione complessiva delle visite legate sia agli eventi stagionali sia alle mete consolidate nella tradizione, che si potrebbe allargare gradatamente, potrebbero cominciare a essere interessati ad aprire le loro dimore storiche anche alcuni di quei proprietari che attualmente non riconoscono alcun motivo per farlo, ma che potrebbero, al contrario, offrire un notevole contributo alla diffusione della conoscenza del patrimonio di questi luoghi. Essi potrebbero ottenere in cambio alcuni vantaggi, di tipo fiscale come di tipo gestionale. Per fare ciò, sarebbe necessaria un’organizzazione di tipo collegiale connessa al consorzio a cui si accennava in precedenza, la quale provvedesse a fornire e gestire tutti quei servizi integrati che sono essenziali per garantire la sicurezza, la riservatezza e il livello culturale indispensabili perché le occasioni di apertura al pubblico e di visita di questi organismi delicatissimi delle ville e dei loro parchi si mantengano al livello adeguato al loro molteplice valore. 146 Si rimanda, a questo proposito, al progetto intitolato Per un’area di riequilibrio, citato al punto 1). 204 Forse questa potrebbe essere la strada giusta per far convogliare tutti gli interessi presenti in una serie articolata ma univoca di obbiettivi culturali ed economici, ma anche ecologici, poiché in questo modo anche la fascia più interna, come nel caso del percorso circolare illustrato, che dal lago riconduce al lago stesso passando attraverso la visita delle due ville storiche, potrebbe essere ricollegata alle altre due e, attraverso una sua riorganizzazione nel senso esposto al punto precedente, ricostruirsi ecologicamente e autonomamente. In questo processo di ricomposizione dai molteplici aspetti, che alla lunga potrebbe creare delle reti materiali e immateriali, si possono pensare delle forme di diffusione, oltre che delle informazioni, anche di alcuni prodotti, materiali e immateriali. Infatti, se il “borgo cablato” può ricevere, elaborare e restituire le informazioni, il suo territorio può anche produrre e diffondere quei prodotti agricoli locali che, se se ne potesse ricavare un ritorno economico realmente significativo, potrebbero essere diffusi nelle altre due fasce, aggiungendo un ulteriore aspetto caratterizzante. c) – “Il paesaggio delle strutture temporanee” Lungo il lago, l’auspicato potenziamento della mobilità pubblica e privata sull’acqua può comportare certamente una trasformazione anche nell’uso delle strutture insediative. La diminuzione del traffico su gomma e il coordinamento del flusso turistico e delle merci preludono a una specie di “isola pedonale”, in cui il passaggio dei mezzi non è escluso completamente, ma certamente contingentato. Questa è la condizione essenziale affinché in tale scenario si possano collocare delle idee di riorganizzazione che integrino e completino la riqualificazione di tutte e tre le fasce. Pertanto, si tratta di intervenire, dove si ritiene opportuno, sempre nell’ottica di salvaguardare le strutture di pregio e di riqualificare quelle meno significative, senza peraltro sommare alcun intervento nuovo di tipo permanente alle strutture esistenti. Dunque, l’idea è quella di proporre comunque delle forme di intervento che non riguardino in alcun modo l’espansione delle strutture insediative destinate alla residenza o ai servizi, ma di promuovere la realizzazione di un sistema di forme di segnalazione, di riorganizzazione sia funzionale sia visiva, di comunicazione del grande patrimonio culturale che risiede in questo paesaggio, che assumano molto raramente il carattere della struttura permanente, ma che in generale conservino sempre e comunque lo spirito dell’identificazione culturale. Il “paesaggio ricomposto”, che deriva dall’azione congiunta del nuovo modello culturale e di quello del paesaggio complessivo, deve essere segnalato dal lago e dalla terraferma da una serie di strutture che, proprio per il loro carattere temporaneo, sottolineano la presenza di alcuni eventi, collegati alle tematiche individuate secondo i criteri illustrati al punto precedente. 205 Ad esempio, l’Isola Comacina potrebbe essere collegata alla costa attraverso una struttura studiata appositamente, sia nella forma sia nei materiali, per facilitarne l’accesso da parte dei visitatori che volessero raggiungere la chiesa romanica sull’isola, la quale, attraverso un’opera di restauro ancora in corso e la realizzazione di un antiquarium previsto dall’AQST, di cui si accennava in precedenza, si appresta a diventare un luogo di estremo interesse. Ma lo stesso si può dire anche per altri luoghi trasformati in modo significativo dal paradigma del tempo libero secondo altre declinazioni: quella ludica, che ha tra gli esempi più significativi il “Giardino del Merlo” a Dongo, e quella sportiva, rappresentata in maniera molto particolare dal Club del Golf di Croce di Menaggio, la cui fondazione risale al 1907 da parte di una famiglia inglese, al secondo posto della classifica dei Club del Golf più antichi d’Italia. Questo club narra molte vicende contemporaneamente: la presenza del turismo straniero, inglese e tedesco, che per secoli ha scelto questa direttiva per iniziare il Grand Tour in Italia; l’esigenza di trasformare gli ecosistemi naturali in funzione di esigenze non produttive ma legate al tempo libero, riproducendo così artificialmente una porzione del paesaggio anglosassone, con canoni ed effetti non sempre di lieve impatto; il passaggio dal carattere popolare dello sport del golf, diffuso nel paesaggio quasi naturale, al carattere elitario ed esclusivo assunto dopo il suo trapianto in un luogo estraneo. Dunque, attraverso una rielaborazione che sottolinea la presenza di eventi particolari, quale ad esempio i festeggiamenti per il compimento del secolo del club di Croce, le testimonianze più antiche e meno antiche possono mostrare il loro valore non solo passato, ma anche attuale e potenziale. Infatti, l’occasione del giubileo di una struttura sportiva, anche se non direttamente collocata sul lago e sicuramente non aperta al grande pubblico, può richiedere tuttavia l’installazione di una di quelle strutture temporanee, caratterizzanti e flessibili, che richiamano gli eventi che si svolgono nelle fasce di paesaggio più vicine alla costa, collegandole in un effetto di continuità spaziale e percettiva. Ma ciò che preme sottolineare è l’importanza fondamentale che riveste il disegno di queste strutture: esse devono costituire un impegno collettivo di grande livello creativo da parte di architetti del paesaggio, di progettisti strutturali, di designer, di esperti della progettazione dello spazio in tutte le sue forme. La collegialità di questo lavoro rappresenta un altro degli aspetti innovativi della possibile esperienza di riorganizzare il paesaggio, poiché si mette a disposizione e affianca lo sforzo collettivo di tutte le componenti sociali per raggiungere l’obbiettivo comune di ricomposizione. Dunque, si profila ancora un altro aspetto di quel modello culturale da riflettere nel modello nel “paesaggio delle strutture temporanee”. Se esse fossero realizzate singolarmente, o richiamassero l’attenzione su un solo luogo, avrebbero un ruolo, per quanto di rilievo, comunque molto limitato; al contrario, la loro diffusione in un numero adeguato, e il loro opportuno collegamento, potrebbero creare una rete di interventi a 206 piccola scala che, tutti insieme, potrebbero conferire al paesaggio quel nuovo carattere fondativo che ricollegherebbe in qualche modo tutto il lago a una scala molto più vasta. Così, l’idea di restituire allo specchio d’acqua gli aspetti più qualificanti dell’antica identità si traduce nel tentativo di riorganizzare il lago e il suo immediato entroterra in un’unica entità territoriale, operando degli interventi che favoriscano il continuo salto dalla scala più ridotta a quella ampia. In questo senso, può essere molto utile riflettere sull’esperienza avviata in Svizzera con l’Expo 02, poi ripresa e ampliata da Oswald nel suo saggio transdisciplinare sul dissolvimento del paesaggio, e quindi proposta per lo sviluppo sostenibile della regione del Giura 147. Ed è proprio il carattere temporaneo di queste installazioni, collocato in un progetto culturale, e quindi territoriale, di grande respiro, che ha la forza di attrarre continuamente il pubblico, invitato ogni nuova stagione a visitare il paesaggio storico che si rinnova sempre e continuamente: la sua temporaneità diventa così il suo carattere permanente. Il paesaggio si arricchisce momentaneamente di strutture temporanee che gli permetteranno di tornare al suo stato attuale quando viene meno lo scopo per cui sono state installate; ma, essendo flessibili, esse saranno installate nella stagione successiva con altri fini, per segnalare un altro tema e altri eventi a esso collegati, nello scenario delle ville storiche che non sarà più immobile, ma si trasformerà momentaneamente, accogliendo i visitatori secondo quei principi organizzativi, economici e gestionali, accennati in precedenza, che ne tutelano la qualità. Questo modello del “paesaggio ricomposto” si colloca molto bene nella scala più vasta di tutta la regione megalopolitana padana, poiché ne può costituire un’occasione di riequilibrio culturale, territoriale e ambientale, così come può esserlo per tutta l’Insubria. Infatti, seguendo solo uno dei tanti spunti tematici che potrebbero essere scelti per l’avvio del processo per la ricomposizione e il riequilibrio del “paesaggio delle ville storiche” del Lago di Como, si può pensare di organizzare un percorso che si spinga fino a condurre a visitare le proprietà extraurbane della famiglia Mylius, da Loveno di Menaggio fino a Sesto S. Giovanni, utilizzando i mezzi pubblici di trasporto sul ferro e sull’acqua, per ricostruire non soltanto la storia di una famiglia, di un periodo politico e culturale molto significativo per le vicende italiane, ma soprattutto per mostrare come il suo prolungamento, sotto certi aspetti, fino a oggi, rappresenti un complesso di cause concomitanti che sta alla base della frammentazione culturale del paesaggio attuale. Nonostante l’apparente paradosso e la loro stridente scissione, le cupe aree industriali dismesse di Sesto e il paesaggio incantato delle ville storiche hanno la stessa radice storica, sono state generate dalla disgregazione dello stesso modello culturale, e richiedono lo stesso coraggio di riflettere e di tentare la strada di una ricomposizione e di un riequilibrio. 147 Cfr. F. OSWALD, Die Stadt im Schmelztiegel, in: F. Oswald – N. Schüller (a cura di), op. cit., pp. 31-57. 207 Riepilogo • • • • • • “Nuova urbanità” e “paesaggio ricomposto” “Il paesaggio della nuova ruralità” “Il paesaggio degli eventi culturali” “Il paesaggio delle strutture temporanee” Significato del modello proposto nel riequilibrio a scala locale, megalopolitano e dell’Insubria Schema metodologico – applicativo della ricerca del gruppo multidisciplinare 208 RITA COLANTONIO VENTURELLI – ANDREA GALLI – GIULIO PETTI (IN COLLABORAZIONE CON MONICA BOCCI – MARIA EMILIA FARACO – GIORGIO MANGANI – ERNESTO MARCHEGGIANI – GIOVANNA PACI) PER UN PAESAGGIO DELLA “PRODUZIONE MARCHE-ITALIAN STYLE”: IL CASO DI STUDIO DELL’AREA METROPOLITANA DI ANCONA Il prodotto interno lordo non tiene conto dello stato di salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione e della gioia dei loro giochi. Non comprende la bellezza della nostra poesia o solidità dei nostri matrimoni, l’intelligenza delle nostre discussioni o l’onestà dei nostri dipendenti pubblici. E’ indifferente alla decenza delle nostre fabbriche e insieme alla sicurezza delle nostre strade. Non tiene conto né della giustizia dei nostri tribunali né della giustezza dei rapporti tra noi. Il prodotto interno lordo non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio né la nostra saggezza né le nostre conoscenze né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita meritevole di essere vissuta, e può dirci tutto dell’America, eccetto se siamo orgogliosi di essere americani. Bob Kennedy Introduzione Lo spunto per lo sviluppo di questo caso di studio è stato fornito da un convegno sul tema della riqualificazione del centro storico della città di Ancona (capoluogo della Regione Marche) organizzato nel dicembre del 2003 dalla CNA – Confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola e media e impresa, in particolare l’Associazione provinciale di Ancona, a cui ha fatto seguito un incontro sullo stesso tema, tra gli iscritti all’Associazione provinciale e i responsabili della ricerca che viene presentata in questa sede, e cioè Giulio Petti, allora dirigente del Comune di Ancona, Rita Colantonio Venturelli e Andrea Galli, entrambi docenti dell’Università Politecnica delle Marche (DISASC -Dipartimento di scienze applicate ai sistemi complessi, AGRUR – Area gestione risorse urbane e rurali). Questo gruppo di lavoro fa parte di quello più vasto, denominato Osservatorio sul paesaggio culturale, che si è formato nell’ambito della Conferenza di ricerca trilaterale franco-tedesco-italiana più volte citata. 1) Gli scopi della ricerca La consapevolezza che la posizione competitiva delle singole imprese è influenzata anche dalle caratteristiche tangibili e intangibili di un’area territoriale, insieme all’esigenza di perseguire uno sviluppo sostenibile, sta spingendo gli Enti pubblici e il mondo dell’impresa a concepire e a impostare la gestione del territorio in un’ottica nuova, più integrata e basata su un approccio organico e relazionale. 209 L’attuazione e la realizzazione di questa “gestione condivisa ed integrata” sposta l’attenzione sul “territorio”, sulle opportunità di integrazione sociale, economica e ambientale esistenti fra le diverse realtà pubbliche e private presenti in un’area geografica, e sulla necessità di coniugare la valorizzazione con l’innovazione. In questo senso, la sostenibilità, intesa come perseguimento di uno sviluppo compatibile con lo stato ecologico del paesaggio ed equo sia sotto il profilo economico sia sotto quello sociale, permea sempre di più le politiche a scala locale, dove vi è una maggiore facilità a implementare puntualmente i principi che ne formano la struttura. La logica del command and control è ora superata da un approccio proattivo, di forte motivazione nel perseguire i propri scopi di miglioramento ambientale ed efficienza ecologica. Dunque, il primo passo consiste nell’aiutare le imprese del distretto a prendere coscienza, ad esempio tramite lo strumento del bilancio ecologico, del risultato della propria attività e di quanto questo pesi sia a livello ambientale che di reali costi vivi per l’impresa stessa. Si ritiene poi di grande importanza il raccordo con la pianificazione, i cui temi andrebbero affrontati all’interno di una logica sistemica in grado di eliminare la separatezza indotta, tra l’altro, dalle demarcazioni territoriali. Per quanto concerne la programmazione, le attività in fase di dismissione andrebbero riconvertite e riorganizzate in funzione del contesto, mentre quelle di nuovo impianto dovrebbero avere un carattere sempre più flessibile, che ne consenta in futuro un’eventuale trasformazione. Pertanto, si ribadisce la necessità di impostare una pianificazione integrata, che coordini tutti gli altri processi decisionali settoriali. Nel caso dell’area di studio si è operato a un triplice livello: il transetto territoriale dalla costa verso l’interno, un ulteriore approfondimento sulle zone campione e il livello della singola impresa. Infine, è stato effettuato un tentativo di bilancio ecologico riferito alle attività che insistono sulla stessa, diffondendo un questionario in forma anonima a un campione di imprese per conoscere la superficie occupata dall’azienda, la superficie verde ove esistente, il tipo di materiali e la quantità annua impiegata nella produzione, i consumi energetici, i rifiuti prodotti. Dall’analisi delle voci di bilancio emerge che una larga percentuale di consumi è dovuta al trasporto del prodotto finito alla destinazione finale (imballaggi, carburante e olio esausto). Impostare una politica di gestione di questo segmento produttivo e di ottimizzazione dei consumi porterebbe sicuramente a un contenimento degli stessi con notevole beneficio anche per l’ambiente. Dunque, uno degli scopi fondamentali della ricerca è proprio quello di contribuire a individuare e suggerire l’uso adeguato degli strumenti di gestione ambientale da integrare con un’adeguata programmazione territoriale, non soltanto per quanto riguarda le aree su cui si è concentrata maggiormente l’attenzione, ma anche per la costruzione di un’ottica di rinnovamento gestionale orientata a un nuovo rapporto tra produttività e produzione. 210 2) Gli obbiettivi della ricerca Il gruppo di ricerca si è proposto di indagare sul rapporto tra il modello produttivo complessivo attuale e quello produttivo locale marchigiano, con particolare riferimento all’area di studio individuata, determinandone le dinamiche del possibile sviluppo e i suoi riflessi nei confronti del modello insediativo futuro. Dunque, i quesiti fondamentali che si sono posti al centro della ricerca, e ai quali ci si è posto come obbiettivo di dare una risposta, soprattutto per decifrare le trasformazioni territoriali e ambientali proponibili, si possono sintetizzare come segue: • è corretto continuare a operare in modo che la produttività e la produzione si contrappongano in modo squilibrato? • quale modello di sviluppo complessivo può scaturire dal mutamento di questo rapporto tra produttività e produzione? • quale modello insediativo ne può conseguire da proporre alle amministrazioni locali, e quindi da inserire negli strumenti di piano? Riepilogo • Riflessioni generali sul modello di sviluppo attuale • Gli effetti di un processo di deindustrializzazione attivo a livello mondiale,lo sbilanciamento marchigiano del rapporto produttività/produzione ed i fattori di criticità e di crisi del sistema: l’analisi ambientale della mobilità, l’aggravio dei costi sociali • Gli scopi della ricerca • Gli obbiettivi della ricerca ed i quesiti fondamentali 3) Il paesaggio della produzione industriale e l’assetto territoriale “a maglia larga” Nel paesaggio dell’Italia centrale si rispecchia quel modello culturale che è collegato con le istanze storiche dell’Umanesimo, e che ha improntato a sua volta le origini dell’assetto attuale del paesaggio stesso. Le sistemazioni collinari, i campi regolari delle vallate pianeggianti, le coltivazioni a rotazione sono le caratteristiche tipiche del paesaggio agrario rinascimentale 148. Anche se gli ecosistemi produttivi sono stati trasformati dalle tecniche di coltivazione successive, che hanno permesso il loro sfruttamento sempre più intenso, tuttavia l’impianto originale dell’ordinamento territoriale è ancora molto evidente in numerosi tratti del paesaggio attuale. 148 Per uno studio esaustivo del tema, si rimanda a: E. SERENI, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari, 1996. 211 Ad esempio, è questo il caso del territorio dell’area metropolitana di Ancona, dove le regole insediative hanno seguito la logica della cosiddetta “maglia larga”, e cioè della localizzazione poco compatta dei centri produttivi e dei centri urbani – per lo più di modeste dimensioni, localizzati sui rilievi e spesso ben conservati. In particolare, seguendo le trasformazioni del modello culturale, e quindi con l’avvento della ferrovia e con l’imporsi delle esigenze dell’impiego delle risorse idriche per la produzione, gli insediamenti produttivi e quelli residenziali si sono spostati nei fondo valle, invadendo il territorio pianeggiante e causando spesso dei rischi ambientali di notevole entità 149. Le maglie ampie del tessuto precedente hanno cominciato a essere riempite e a restringersi, fino ad assumere un carattere sempre più compatto; ma, in assenza di un principio ordinatore che le governasse, questa compattezza non ha contribuito ad imprimere un’organizzazione spaziale rivolta alla valorizzazione e alla tutela degli spazi aperti, bensì ha dato luogo ad un’occupazione sempre crescente dello spazio, erodendolo continuamente ed in modo indiscriminato. Il sorgere dei capannoni industriali in modo sgranato e casuale negli interstizi delle maglie, sommato all’abbandono del modello produttivo agrario mezzadrile precedente senza che ne subentrasse uno nuovo e organizzato, ha provocato un risultato spesso fortemente preoccupante, non soltanto per la situazione attuale ma anche per le minacce crescenti di rischi futuri di diverso genere, legati alla compatibilità ambientale, alla perdita dell’identità territoriale, alle trasformazioni sociali 150. Ed è proprio su quest’ultimo aspetto che si traduce sia in termini di organizzazione economica, sia in termini di percezione del paesaggio da parte della popolazione che vi risiede, che verte una parte dell’originalità della ricerca intrapresa, la quale necessita dell’apporto delle competenze economiche e di quelle territoriali, ma anche di quelle che riguardano la storia, la cultura e l’identità di quell’uomo che ha un rapporto costante e diretto con il “suo” paesaggio, trascorrendovi la sua vita 151. In particolare, l’area interessata dalla ricerca comprende sette comuni: Ancona, Falconara Marittima, Chiaravalle, Montemarciano, Monte San Vito, Agugliano e Polverigi. Il territorio in oggetto comprende la fascia costiera e la collina dell’entroterra anconetano fino all’area che si snoda all’intorno dell’asta fluviale dell’Esino dalla foce verso l’interno. La struttura a pettine del territorio marchigiano rappresentata dai bacini fluviali principali che dall’area appenninica scendono paralleli fino alla costa caratterizza anche l’area di studio. Il bacino del fiume Esino che da Fabriano giunge fino all’Adriatico è l’asse che attraversa le tre fasce che corrono parallele alla linea di costa: dall’appenninica a quella collinare fino a quella costiera. Per una sintesi delle trasformazioni subite dal paesaggio marchigiano, si confronti lo schema illustrativo presentato dal gruppo Colantonio – Galli nella prima edizione della Conferenza di ricerca “Il paesaggio culturale tra storia, arte e natura”, Centro Italo-Tedesco Villa Vigoni, Loveno di Menaggio, 31/1 – 2/2 2005. 150 Si confrontino, a questo proposito, le immagini relative a questo punto. 151 Per una riflessione sul tema, si rimanda a: G. MANGANI, Il paesaggio marchigiano e (è) l’Arcadia, contributo al convegno sul tema del paesaggio tenutosi ad Ascoli nell’ottobre del 2003. 149 212 L’area costiera rappresenta l’ambito più fortemente urbanizzato, occupato dalle grandi infrastrutture ferroviarie, autostradali e portuali. L’asse del fiume Esino è caratterizzato da altrettanti importanti aree urbanizzate e da una complessa rete infrastrutturale: oltre alle infrastrutture viarie (SS 76 e SS 16) nell’area tra Falconara – Chiaravalle – Jesi sono localizzati l’asse ferroviario Ancona-Roma e il nodo aeroportuale. Pur ricadente all’interno del comune di Jesi, il nascente interporto rappresenta una infrastruttura nevralgica per l’assetto economico-produttivo dell’intera area. Tale area si connota quindi come una delle più fortemente urbanizzate della regione, con la più alta presenza delle grandi infrastrutture di interesse regionale, quali l’areoporto e l’interporto. I Comuni che sono situati ai lati della pianura dell’Esino sorgono su ambiti collinari caratterizzati dal rapporto tra paesaggio agrario marchigiano e i centri storici collocati lungo i crinali, quali quelli di Polverigi, Agugliano, Montemarciano e Monte S. Vito. Non ultimo, la presenza dell’impianto della Raffineria Api di Falconara, dopo gli incidenti accaduti nei primi anni del 2000, ha imposto l’individuazione dell’Area ad Alto Rischio di Crisi Ambientale (AERCA) che ha introdotto ulteriori vincoli ambientali con cui gli enti locali devono operare le dovute verifiche ogni qualvolta si intervenga nei processi di trasformazione territoriale. Riepilogo • Il modello culturale originario • La “maglia larga” e gli insediamenti produttivi nell’area metropolitana di Ancona • La necessità delle competenze scientifiche che studiano il rapporto tra l’identità della popolazione locale e quella del paesaggio 4) Per un nuovo paesaggio della produzione dal “made in Marche” al “Marche-Italian style” L’idea di fondo che deve governare qualsiasi trasformazione del territorio è quella di inaugurare una nuova politica della produzione, basata essenzialmente su due punti: da una parte c’è la necessità di riorganizzare l’assetto del territorio raggruppando le imprese in alcune delle aree esistenti, dando loro il ruolo di aree produttive intercomunali, in cui far convergere le nuove richieste di localizzazione e quelle di trasferimento delle imprese, incentivandole con ogni mezzo in questa operazione. Ovviamente, ciò si potrebbe realizzare soltanto a patto che i proventi della tassazione delle imprese venissero ridistribuiti tra tutti i comuni interessati a consorziarsi a questo fine, come sta avvenendo, ad esempio, in altre realtà italiane 152. 152 Si veda, a questo proposito, l’esperienza del Piano provinciale di Bologna. 213 Dall’altra parte, si propone che le aree industriali escano dal loro anonimato che le rende tutte uguali nella mancanza di identità e di qualità. Dunque, è fondamentale che la differenziazione tra l’una e l’altra, operando in modo da conferire una caratterizzazione prevalente per ciascuna di esse, renda tipica un’area rispetto a tutte le altre, sia nelle attività svolte, sia nell’integrazione tra di esse. Ad esempio, mentre una di esse può trasformarsi in un parco eco – industriale a ciclo chiuso, un’altra può diventare un’area di produzione integrata con l’agricoltura ma anche con la residenza, collegando le funzioni tra di loro; un’altra ancora può svilupparsi tenendo conto delle testimonianze dell’archeologia industriale, dove sono presenti, e così via. Però, alcuni requisiti devono essere fissati in modo stabile per tutte le aree, e costituire così delle invarianti: a) di tipo ambientale: - nel rapporto con il paesaggio circostante - nel risparmio di risorse e di energia derivante dal raggruppamento e dall’accorpamento delle attività che si possono collegare tra loro, producendo di conseguenza dei grandi vantaggi economici e di cooperazione - nella riqualificazione e nella nuova attenzione agli aspetti architettonici e bio-architettonici b) di tipo economico: - nella tipicità della lavorazione, e quindi del marchio, dei prodotti che vengono confezionati in quel luogo - nel rilancio economico attraverso la ristrutturazione dell’assetto complessivo di ciascuna area - nel fornire le aree di servizi alle imprese c) di tipo sociale: - nel rapporto con il contesto sociale circostante - nel creare dei consorzi di aziende in ciascuna area perché le singole aziende siano rappresentate nel dialogo con le amministrazioni da un’azienda capofila che viene delegata, sviluppando così i presupposti per la cooperazione e la condivisione - nell’integrazione delle aree produttive con il piano della mobilità, con particolare riguardo al trasporto pubblico - nel raccordo con i principi di tutela e di sviluppo del paesaggio in tutte le sue dimensioni culturali e produttive. 214 Riepilogo • Proposta di far uscire le aree produttive dall’anonimato, differenziandole l’una dall’altra, ed operando in modo da conferire una caratterizzazione prevalente a ciascuna di esse • Determinazione di alcune invarianti comuni a tutte le aree produttive 5) Per un nuovo paesaggio della produzione dal “made in Marche” al “Marche-Italian style” 5.1. Il modello insediativo differenziato Viene proposto un esempio di sviluppo qualitativo per ciascuna delle tipologie di area individuate: ad esempio, quella in via di formazione potrebbe avere un indirizzo più marcatamente ecologico, mentre quella quasi completata potrebbe averne uno più economico, e quella in via di completamento potrebbe assumere una connotazione sociale – nel senso del dialogo con l’esterno; quella vicino al corso dell’Esino, potrebbe collegarsi con il parco fluviale e il sistema delle centraline elettriche storiche che sono presenti a poca distanza, e quindi non essere la sede altro che di attività produttive dimostrative del processo d’insediamento storico, quasi un museo della produzione. Dunque, si possono dare dei criteri di sviluppo diversi per ciascuna area 153. Per realizzare questa pluralità di caratteri, si definiscono alcuni indicatori, da stabilire in base alle specificità delle singole aree, che descriveranno il loro stato e le loro potenzialità secondo il modello stato – pressione – risposta (SPR), e che saranno utilizzati anche come strumento di controllo nella gestione complessiva delle aree stesse. Infine, per ciascuna area, viene contattata un’impresa perché collabori nella stesura del suo bilancio ecologico e illustri le sue scelte rispetto alla certificazione ambientale volontaria. In questo modo, essa darà un contributo collaborativo alla valutazione ambientale dell’area di studio, ad esempio attraverso il bilancio ecologico esemplificativo, da costruire con i parametri disponibili, metodologicamente significativi per comprendere l’ordine di grandezza del bilancio stesso. L’obbiettivo della collaborazione è quello di dimostrare come, se entrasse nell’uso comune questo strumento, l’azienda potrebbe giungere ad autovalutarsi 154. In conclusione, lo schema concettuale proposto, realizzato in forma tridimensionale, esprimerà meglio i risultati dello studio se diventerà multidimensionale, illustrando le numerose componenti interagenti del paesaggio alle quali vengono applicati gli indicatori 155. 153 Parchi eco-industriali. R. COLANTONIO VENTURELLI, (a cura di), op .cit. 155 Ad esempio, quelli impiegati da E. GIGLIO INGEGNOLI, Valutazione ecologica di un lotto per eventuali trasformazioni produttive, in “Urbanistica”, n. 125. 154 215 Da così: Ecologia (stato) unità territoriale (zona produttiva, impresa, ecc.) Società (risposta) Economia (pressione) A così: unità territoriale (zona produttiva, impresa, ecc.) In questo schema multidimensionale le componenti dell’indagine vengono messe a sistema per costruire il corretto supporto alla pianificazione territoriale integrata. Riepilogo • Il coinvolgimento delle imprese attraverso la distribuzione di alcuni questionari • Definizione degli indicatori secondo il modello stato – pressione - risposta • Articolazione dei diversi livelli della ricerca • Trasformazione del modello concettuale tridimensionale SPR in modello multidimensionale 5.2. Quadro tematico 5.2.1. Gli strumenti di gestione del sistema insediativo 156 Alcune prime indicazioni di metodo che emergono dalla ricerca impongono di distinguere l’operatività riferita a due diverse specifiche situazioni: 156 A cura di Monica Bocci. 216 le aree produttive esistenti o in fase di completamento: in questi casi è necessario mettere a punto obiettivi e metodologie di intervento volte e migliorare e riqualificare gli ambiti già insediati, tenendo conto dei piani e degli strumenti di gestione esistenti e non trascurando la messa a punto di meccanismi di incentivi eco-ambientali tali da favorire gli obiettivi appena descritti; le aree produttive di nuovo insediamento: qui, in misura ancora più incisiva, valgono gli indirizzi volti a insediare le nuove aree produttive, tenuto conto della complessità dei fattori legati sia alla necessità di fornire adeguate infrastrutturazioni, sia alla riduzione dell’impatto ambientale. La legge regionale n. 16/2005 contiene un articolato che preannuncia le linee guida della politica territoriale marchigiana in materia di insediamenti produttivi: obiettivo è il miglioramento della qualità insediativa delle imprese sul territorio, sia di quelle esistenti che di quelle di nuova localizzazione. Se, come cita la legislazione regionale vigente, si definiscono “aree produttive ecologicamente attrezzate quelle aree destinate ad attività industriali, artigianali e commerciali dotate di requisiti urbanisticoterritoriali, edilizi e ambientali di qualità, nonché di infrastrutture, sistemi tecnologici e servizi caratterizzati da forme di gestione unitaria, atti a garantire un efficiente utilizzo delle risorse naturali e il risparmio energetico”, si possono delineare strumenti e obiettivi coerenti con quanto già sottolineato. 5.2.2. Gli strumenti di gestione del sistema ambientale 157 Il bilancio ecologico è uno strumento che misura l’impatto della componente antropica, tramite le sue attività residenziali e produttive, sulle risorse ambientali e fornisce un’informazione qualitativa e quantitativa sullo stato dell’ambiente, sulla disponibilità delle risorse naturali sottoposte a pressione, sulle prestazioni ambientali delle aziende che operano nell’area in esame. Lo stato di un sistema, generalmente ampio e complesso, viene reso percepibile mediante indicatori, ovvero strumenti in grado di quantificare informazioni in maniera sintetica, immediatamente visibile e semplificata. Per la scelta degli indicatori da impiegare nel presente studio, ci si è orientati su quelli già utilizzati per il calcolo del bilancio ecologico della Regione Marche effettuato nel 1985 ad opera di un gruppo interdisciplinare di lavoro coordinato da Rita Colantonio Venturelli. La ricerca citata 158, prima del genere in Italia, è estremamente interessante per la metodologia adottata: infatti, la valutazione è avvenuta in base a diverse aree produttive omogenee, individuate tramite un indice di specializzazione e uno di localizzazione, e le informazioni sono state raccolte a partire dalle caratteristiche interne delle singole imprese (ampiezza, numero addetti, dati Istat ecc.) e dal tipo e dalla quantità di materiali impiegati nella produzione. Queste ultime informazioni sono state A cura di Giovanna Paci. I risultati sono confluiti nella pubblicazione: R. COLANTONIO VENTURELLI, I potenziali del paesaggio, Clua Edizioni, Ancona. 157 158 217 definite sulla scorta delle categorie proposte dall’ingegnere svizzero Müller-Wenk, ideatore dello strumento: consumo di materiale e di energia, residui solidi e aerei, rifiuti liquidi e termici. Il bilancio finale è dato dalla somma dei prodotti di tutti i materiali impiegati nella produzione per i relativi coefficienti di equivalenza, che si calcolano considerando la scarsezza ecologica degli stessi materiali o delle sostanze. Nel nostro caso la ricerca è stata condotta – come già accennato – prendendo in prestito categorie e coefficienti del precedente gruppo di lavoro che, dato il tempo intercorso, avrebbero dovuto essere aggiornati. Non si è fatto perché più che la precisione del dato ci interessa l’impostazione metodologica e la definizione di un ordine di grandezza del fenomeno rappresentato. Quindi, è stato distribuito un questionario in forma anonima a un campione di imprese, chiedendo di fornire alcuni dati, tra cui la superficie occupata dall’azienda, la superficie verde ove esistente, il tipo di materiali e la quantità annua impiegata nella produzione, i consumi energetici, i rifiuti prodotti. 5.2.3. Gli strumenti di gestione del sistema rurale 159 Il contesto territoriale e le sue risorse non possono più essere considerate variabili esogene all’impresa. La capacità di percepire l’ambiente, il territorio e il paesaggio, non come fattori limitativi della produzione, ma come valori competitivi e spendibili è il presupposto per le imprese al fine di ‘internalizzare’ nuovi fattori di competizione, come ad esempio la certificazione di prodotto in funzione dell’area di produzione. Il territorio è il risultato dell’opera incessante dell’uomo che lo abita, al contempo, matrice mnemonica e trasportatore, nel tempo, dei valori capitalizzati e delle esperienze millenarie su di esso stratificatesi. E’ necessario recuperare la capacità di collegare prodotti e servizi, offerti dalle aziende italiane, al valore aggiunto rappresentato dalla bellezza delle città d’impronta romana e storia rinascimentale, e dalle campagne “splendide” del gran tour ottocentesco, che fanno da cornice. Le attività agricole, e la ‘ruralità’ dei luoghi, fino a oggi marginali e parallele rispetto alle politiche di sviluppo degli altri settori, possono essere chiamate in causa nel tentativo di risolvere la frattura che ha prodotto negli ultimi 50 anni la separazione tra luoghi del vivere, del lavorare e del tempo libero, e anonimi non-luoghi antropologici 160. In tale quadro, l’agricoltura, operando su vaste porzioni del territorio, rappresenta uno dei principali fattori di trasformazione del territorio – e della società – e antropogenesi del paesaggio. In secondo luogo, tra le attività economiche dell’uomo, l’agricoltura fin dalla sua origine ha dovuto confrontarsi con la dimensione spaziale e sistemica del rapporto A cura di Ernesto Marcheggiani. Dai luoghi della modernità baudelairiana, ferventi di attività costruttive ma ispirati alla memoria del passato, ai nonluoghi antropologici della surmodernità, anonimi e sterili (M. AUGÉ, “Non luoghi”, elèuthera, 1996). 159 160 218 uomo/territorio. Lo scenario agricolo recente è ricco di esempi virtuosi di sinergie tra prodotto e area di produzione che da tempo sono realtà pienamente operative; produzioni agricole legate alla filiera vitivinicola, olivicola, casearia – ma se ne contano molte altre – realizzate in territori di pregio in cui la valorizzazione delle risorse unitamente a sistemi certificati di garanzia dei marchi di tutela (DOP, DOC, IGP, ecc.), permettono l’offerta dei prodotti a prezzi significativamente superiori alla media di analoghe merci, anonime rispetto alla loro origine. Il contesto storico: la memoria del passato Seguendo le principali tappe della sua formazione, il modello territoriale marchigiano, fin dalla preistoria, è rappresentato dall’attività agricola 161; già nel Paleolitico è accertata la presenza umana lungo i terrazzi del fiume Esino e del fiume Misa, così come sulle pendici del monte Conero, basata sulla coltivazione di cereali e sull’allevamento di bestiame domestico. L’evoluzione storica di tale sistema ha visto la nascita e la crisi – dal contratto mezzadrile, alla formazione dei grandi poderi cinquecenteschi, fino alle tipologie abitative e funzionali rurali nel corso del XVIII secolo – di un sistema che palesava già nel secolo passato le prime avvisaglie di squilibrio fra le risorse a disposizione e i fabbisogni; squilibrio che diverrà particolarmente evidente nel corso della seconda metà del secolo ventesimo (fig. 1). Fig. 1 – Il paesaggio rurale marchigiano (in alto) e compromissione del paesaggio agrario (in basso) Il catasto del 1929 (provincia di Ancona) testimoniava ancora un territorio provinciale ripartito in due principali “Regioni Agrarie”: montagna e collina. 161 219 Il contesto territoriale Analizzando, oltre al contesto storico, quello fisiografico, è importante sottolineare come le aree dell’indagine CNA, se osservate a grande scala, appaiono poste tra un waterfront costiero e un agrifront caratterizzato per la maggior parte da attività legate a diverse forme di agricoltura e dalla presenza di centri storici puntiformi, intercalati ad aree seminaturali, posti su onde sinclinali con sviluppo parallelo alla linea di costa che a partire dalla zona più interna degradano nella distesa delle colline dolci fino alle aree pianeggianti delle pianure al limitare della linea adriatica. Le aree collinari meno acclive e il sistema a pettine dei fondovalle dei bacini fluviali e delle pianure a ridosso della costa, rappresentano la sede dove negli ultimi cinquant’anni si è concentrata la maggior parte del tessuto residenziale, produttivo industriale e infrastrutturale e la sua espansione a macchia d’olio, che peraltro non sta risparmiando le altre aree (fig. 2). Fig. 2 – Modello spaziale dei casi di studio 220 I1 q ( 200 m J4 J1 J2 J3 p ( 2% 2% < p ( 8% 8% < p ( 15% 109605 98031 J5 15% < p ( 30% < p ( J6 p > 60% 30% 60% 129494 128262 10575 0 4927 13570 19187 4562 0 724 2891 6431 2180 0 296 977 1955 711 0 0 0 0 2 0 0 0 1 0 0 I2 200 m ( q <300 1193 m I3 300 m ( q <400 67 m I4 400 m ( q <600 74 m I5 600 m ( q <800 0 m I6 q > 800 m 0 Tab. 1. – classi di quota e di pendenza utilizzate per costruire le unità fisiografiche, e frequenza relativa delle celle unitarie di superficie 250 m2 Possibili sinergie tra imprese agricole e gli altri settori Dalle analisi condotte a scala di area vasta, emerge chiaramente che i soggetti centrali del presente studio, le PMI, sono calate in un complesso sistema territoriale: immerse in una matrice prevalentemente agricola, da un lato, e contigue alle aree urbane e alle principali infrastrutture. E’ auspicabile una nuova integrazione in cui l’agricoltura, in funzione delle “contiguità” e in rapporto alle attese del nuovo piano di sviluppo agricolo regionale (strumento principe che ne regola lo sviluppo a livello regionale), si integri positivamente per innescare sinergie di sviluppo sostenibile. Un’agricoltura che insieme alle sue radici più classiche svolga anche funzioni nuove, opportunamente sostenuta creando interconnessioni tra gli attuali strumenti di piano e finanziamento o creandone di nuovi ad hoc a partire dall’ispirazione e dagli stimoli che provengono dalle politiche a livello comunitario e internazionale. 221 Si potrebbe delineare, per esempio, un modello basato su tre livelli o distretti: 1° livello/distretto: aree agricole marginali, zone svantaggiate e zone soggette a vincoli ambientali, in cui le misure agro-ambientali siano finalizzate alla conduzione di terreni agricoli secondo tecniche a basso impatto ambientale e protettive dell’ambiente, per la salvaguardia del paesaggio e delle caratteristiche tradizionali dei terreni agricoli. In cui privilegiare il monitoraggio ambientale relativamente ai rischi di erosione dei suoli e di inquinamento delle acque superficiali e profonde, benefici in termini di riduzione dell’erosione del suolo, stabilità delle zone in pendio e miglioramento paesaggistico andrebbero a vantaggio anche delle comunità locali, tra l'altro, qualificando maggiormente l’offerta turistico-ricreativa; 2° livello/distretto: avvicinadosi alle zone di fondovalle, in cui si concentrano gli insediamenti residenziali e produttivi e gli assi infrastrutturali, le imprese agricole potrebbero enfatizzare le funzioni di valorizzazione del contesto e migliorare la qualità del paesaggio anche della produzione industriale con un’accelerazione sinergica dei valori marginali. Considerando che la spesa per gli aiuti erogati dal PSR darebbe un rendimento maggiore se se si contabilizzassero anche le ricadute positive per i gli altri settori; 3° livello/distretto: aree dove la stretta interrelazione tra territori residuali agricoli, zone industriali sature o in espansione e aree periurbane, in cui l’agricoltura (periurbana) svolga azioni simbiotiche (v. “Metodologia generale”), perdendo le sue funzioni più classiche e concentrandosi, per esempio, sulle nuove tecniche per la produzione di energia pulita (biodiesel o da biomasse), oppure aiutando le aree industriali limitrofe nello smaltimento delle scorie partecipando alla realizzazione di filiere a “emissione zero” o “filiere “locali” a basso impatto di energia in sinergia con aziende artigiane. In particolare nelle aree periurbane e perindustriali una nuova agricoltura, opportunamente sostenuta da strumenti di piano e regolazione economica e politica, massimizzerebbe i risultati concentrandosi anche sulla sostenibilità delle compromesse funzioni sociali legate alla perdita del sistema seminaturale nell’area. 5.2.4. Gli strumenti di gestione delle aree produttive della costa 162 Lo sviluppo delle attività produttive e il rapporto con il paesaggio: considerazioni di metodo Anche lo sviluppo delle attività produttive industriali non potrà che partire dall’obiettivo di valorizzare la singolarità dei luoghi (fig. 3), individuando forme economiche appropriate ai luoghi, potenziandone le risorse interne, nella consapevolezza che tale valorizzazione deve anche fondarsi sugli obiettivi di riequilibrio ecologico e, laddove presenti, di eliminazione, o almeno di riduzione dei rischi ambientali, introducendo il tema dell’identità culturale che si esprime nella complessità di relazioni tra ambiente fisico, antropico e costruito, che dà luogo alla configurazione del paesaggio, attraverso la 162 A cura di Giulio Petti e Maria Emilia Faraco. 222 riappropriazione della dimensione simbolica, spirituale, storica e memoriale. Lo strumento da utilizzare per il raggiungimento di questi obiettivi non sarà quindi rappresentato dalla zonizzazione classica di P.R.G., bensì da un progetto urbanistico edilizio, attraverso il quale possono più adeguatamente essere rappresentate non solo la dimensione funzionale, ma anche quella culturale nelle sue articolazioni formali, estetiche e simboliche che, basate sull’identità storica, concorrono a caratterizzare e distinguere un luogo da un altro. Fig. 3 – Il tratto costiero anconetano 223 Alla luce di queste considerazioni, l’analisi della soluzione recentemente proposta per l’assetto del Porto dall’Autorità Portuale, seppur particolarmente interessante dal punto di vista funzionaleorganizzativo e apprezzabile per le possibilità a essa collegate di restituire l'arco portuale storico alla città, ripristinando quel sistema di relazioni con la città storica perduto nel secolo scorso, che può cambiare il volto dell’intera città, deve acquisire la configurazione di un progetto urbanisticoarchitettonico dove possano trovare la giusta considerazione gli aspetti paesaggistici intesi come rappresentazione di sintesi delle molteplici forme di azione e significazione della cultura in ambito naturale, storico e simbolico. Inoltre in un’area in cui, oltre a una criticità ambientale diffusa, legata ai modelli di sviluppo precedenti, si aggiungono anche le criticità specifiche individuate in sede di Dichiarazione di AERCA (Area a elevato rischio di crisi ambientale) di Ancona, Falconara, Bassa Valle dell’Esino, per le quali già il Piano di Risanamento individua le azioni urgenti, qualsiasi proposta di modello insediativo, quali quelle esaminate nei precedenti paragrafi, non potrà che strutturarsi sull’obiettivo prioritario di eliminazione o almeno di riduzione dei rischi ambientali presenti. In particolare le azioni da intraprendere dovranno essere collocate all’interno di un piano strutturale che proponga un sistema di viabilità di connessione diretta e dedicata al porto. Le previsioni che riguardano le attività portuali, che rappresentano il settore produttivo principale della città di Ancona, dovrebbero, quindi, essere coerenti con gli obiettivi di messa in sicurezza del sistema infrastrutturale costiero, ma anche di consolidamento e stabilizzazione delle aree costiere in frana, nonché con gli obiettivi di ripristino e valorizzazione del sistema di relazioni tra entroterra e litorale marino, così come proposto anche dai progetti esistenti e non realizzati, e in definitiva con l’obiettivo complessivo di riqualificazione ambientale, paesaggistico e funzionale della fascia costiera che si sviluppa dall’arco portuale di Ancona fino a Falconara. Le aree produttive della costa La struttura della mobilità dell’area anconetana è dotata della presenza di tutte le tipologie infrastrutturali: ferrovia, autostrada, aeroporto, porto, ma è carente delle interconnessioni che colleghino in modo diretto e non promiscuo i diversi flussi di traffico di persone e di merci; questa situazione penalizza particolarmente il porto anconetano. Gli spazi portuali, in particolare quelli del reinterro della zona della Zipa, originariamente destinati anche ad attività che oggi risultano improprie (ma che sono state il volano dell’iniziativa) oggi si vanno razionalizzando e si orientando verso la cantieristica da diporto che tuttavia per essere competitiva richiede servizi di formazione e di commercializzazione attualmente inesistenti. Per quanto 224 riguarda il settore delle merci va presa in esame la previsione avanzata dalla nuova Autorità Portuale di realizzare una penisola dedicata alle destinazioni commerciali e produttive, che si attesta sulla darsena attuale in corso di completamento e che pertanto dovrebbe aver già precostituito l’assetto ambientale . La previsione di un reale trasferimento delle attività improprie dal porto storico alla nuova sede consentirebbe un attracco specifico alle navi-merci e passeggeri, questi ultimi in aumento a fronte di una attuale parziale recessione del settore delle merci favorendone l’inversione di tendenza. Conclusioni Il tentativo di rispondere ai quesiti fondamentali posti dalla ricerca ha condotto a una serie di conclusioni, che vengono esposte in relazione a ogni quesito, come segue: È corretto continuare ad operare in modo che la produttività e la produzione si contrappongano in modo squilibrato? Il modello di sviluppo a cui nel corso della ricerca si è fatto riferimento, ha strutturato il territorio marchigiano non solo dal punto di vista economico, ma anche insediativo, basandosi su una pressoché totale coincidenza del concetto di produttività con quello di produzione industriale. La produttività di un territorio, invece, risulta essere un concetto ben più ampio, che integra nella sua accezione anche quella di qualità. Il quesito posto ripropone, quindi, implicitamente la fondamentale dicotomia tra sviluppo quantitativo e sviluppo qualitativo: può una crescita fondata unicamente su basi monetarie essere sostenibile, ovvero – così come viene intesa nella dizione francese di développement durable – durevole nel tempo? La monocultura produttiva che ha guidato lo sviluppo degli ultimi decenni si è imposta con una tale forza da impedire l’esaltazione di altre potenzialità offerte dal territorio. Ciò che, a nostro avviso, può riequilibrare tale rapporto tra produttività e produzione è l’adozione di una visione integrata, che tenga conto di tutte le componenti ambientali, economiche, sociali. Quale modello di sviluppo complessivo può scaturire dal mutamento di questo rapporto tra produttività e produzione? L’impetuoso sviluppo produttivo che si è verificato a partire dagli anni ’60 ha impresso una notevole accelerazione alle modifiche del territorio marchigiano, omogeneizzandone i caratteri e cancellando i segni del “bel paesaggio” italiano, che resistevano da secoli. Il risultato sono stati capannoni dai volumi sempre uguali, villette residenziali in aree agricole, zone industriali nelle aree di 225 fondovalle. Tale nuovo sviluppo è stato visto come segno di modernità e, spesso, si è cercato di importare stilemi di un modello di crescita metropolitana già in essere in altre zone di Italia, ma del tutto estraneo alla tradizione regionale, senza, peraltro, tenere in alcuna considerazione i costi che una simile diffusione urbana e produttiva comporta. Il modello da riproporre con decisione consta nel ritorno alle invarianti ed è l’unico in grado di garantire un riequilibrio territoriale, integrando al contempo sviluppo insediativo, economico, culturale e sociale. Quale modello insediativo ne può conseguire da proporre alle amministrazioni locali, e quindi da inserire negli strumenti di piano? Prima di ipotizzare qualunque risposta, è assolutamente determinante stabilire qual è l’aspetto fondamentale che il modello insediativo futuro deve evitare di assumere. Infatti, il territorio dell’Italia centrale è stato escluso da quel processo di trasformazione che ha generato prima il cosiddetto “triangolo industriale” tra Milano, Torino e Genova, e poi la più vasta “megalopoli mediterranea”, e che ha inglobato praticamente tutte le regioni settentrionali italiane, dalla Valle d’Aosta alla Liguria e all’Emilia Romagna. Questa marginalizzazione ha favorito il radicamento di un modello insediativo diverso, basato su alcuni fattori fisiografici, economici, storici e sociali che hanno determinato nelle Marche, e in particolare nell’area metropolitana di Ancona, da un lato la sopravvivenza di alcune consuetudini gestionali politiche ed economiche che la caratterizzano in maniera peculiare; dall’altro, la trasformazione più lenta, anche se a volte comunque invasiva, delle strutture territoriali. Dunque, l’esclusione dal processo metropolitano, rapidissimo e travolgente, spesso interpretata nel passato come un limite molto pesante, in realtà si sta dimostrando come una pluralità di potenzialità formidabili, poiché ha permesso di conservare, forse inconsapevolmente, l’originalità di ampie porzioni del territorio e dei suoi rapporti con gli abitanti. Ebbene, è proprio per questo potenziale ancora presente che è impossibile pensare a importare passivamente un modello insediativo metropolitano, peraltro ormai superato, e soprattutto generato da un modello rispondente ad altre matrici culturali. Per quanto possa essere impegnativo, è indispensabile sforzarsi di tratteggiare un modello insediativo rispondente a quelle invarianti territoriali che sono state definite nella ricerca. In questo contesto, le zone produttive possono svolgere un ruolo importante, assumendosi la responsabilità di invertire alcune tendenze negative in atto, e divenendo così, al contrario di quanto la consuetudine non le abbia fatte apparire finora, un motore dello sviluppo qualitativo dell’ambiente. 226 In quest’ottica, i rapporti con il paesaggio agrario e con i caratteri culturali dell’uomo che vive e lavora in quei luoghi, diventano la base su cui fondare quelle caratterizzazioni, specifiche di ciascuna zona produttiva, che sorreggono tutta la logica pianificativa del territorio che le ospita, da travasare poi negli strumenti di piano. Alcuni esempi metodologici dimostrativi sono illustrati nella ricerca. Riepilogo • Riflessioni conclusive • Risposte ai quesiti fondamentali 227 Glossario Accordo di programma Atto amministrativo, istituito con legge 142/1990, promosso da Presidente delle Regione, dal Presidente della Provincia o dal Sindaco, e sottoscritto da tutti gli enti pubblici interessati alla definizione e alla realizzazione integrata e coordinata di opere, interventi o programmi di interventi. Qualora l’oggetto dell’accordo di programma sia in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti, esso ne costituisce variante, che in ogni caso deve essere approvata dal Consiglio comunale del Comune interessato, a pena di decadenza (vedi D.Lgs. 267/2000). Apparato paesistico Suddivisione degli ambienti di un territorio secondo il criterio della funzione paesistica, come proposto da Odum fin dal 1971. Secondo Ingegnoli, si distinguono: apparati habitat naturale: - scheletrico (dominato dai processi geomorfologici); - connettivo (elementi con funzioni connettive); - stabilizzante (elementi con alta metastabilità);resiliente (elementi ad alta capacità di recupero); - escretore (il reticolo fluviale). apparati dell’habitat umano: - protettivo (piantagioni a funzione protettiva); - produttivo (sistemi agricoli); - abitativo (sistema di residenza e servizi); - sussidiario (funzioni industriali, energia, trasporti). Azzonamento Dall’inglese zoning, divisione del territorio in aree omogenee, dal punto di vista della destinazione e delle funzioni. Anche zonizzazione. Area metropolitana L’area metropolitana è una zona circostante un’agglomerazione (o una conurbazione) che per i vari servizi dipende dalla città centrale (metropoli) ed è caratterizzata dall’integrazione delle funzioni e dall’intensità dei rapporti che si realizzano al suo interno. Il concetto di area metropolitana è diverso e più ristretto rispetto a quello di regione metropolitana. In Italia le aree metropolitane sono state individuate sin dalla Legge 142/90 (modificata da numerosi interventi successivi) nelle zone circostanti le città di Bari, Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Roma, Torino, Venezia. Le regioni a statuto speciale hanno facoltà di individuare autonomamente aree metropolitane. A oggi, sono state proposte Palermo, Catania, Città dello Stretto (Messina - Reggio Calabria), Cagliari e Trieste. All’interno delle area metropolitane Italiane, la normativa prevede la possibilità di istituire un nuovo Ente Locale: la città metropolitana. Area Vasta E’ rappresentato da un modello di policentrismo a rete, con centri di dimensione medio-piccola, relativamente compatti e separati da trame verdi consistenti, ben collegati tra loro e con un polo centrale di dimensioni maggiori. 228 Secondo studi recenti, la Città Metropolitana può solo essere l’area centrale di un disegno più ampio che descrive, per il periodo lungo, i piani di sviluppo di un’area vasta previsti dalla Regione interessata. I problemi dello sviluppo dell’area vasta sono affrontati con strumenti e modalità multi-disciplinari: le discipline economiche, geografiche, urbanistiche, sociologiche e giuridiche-istituzionali, offrono importanti contributi per lo sforzo interpretativo dei fenomeni considerati. Gli aggregati di area vasta e metropolitani sono caratterizzati dalla concentrazione territoriale di attività di trasformazione industriale e di produzione di servizi. Bacino Area geografica definita da fattori fisici, socioeconomici o di relazione: bacino idrografico, di traffico o di pendolarità, di utenza di una determinata infrastruttura ecc. Bilancio di impatto ambientale Dall’esperienza americana dell’Environmental Impact Assessment. Strumento conoscitivo preliminare, di natura sia fisico-tecnologica che socioeconomica, che delinea una ipotesi di costi/benefici rispetto ad una azione proposta (opera o attività). Capacità insediativa Quantità teorica di popolazione insediabile in un territorio, stabilita dagli strumenti urbanistici (P.R.G.) secondo un indice metri cubi pro-capite. Cartografia Insieme dei rilievi grafici convenzionali, eseguiti con tecnica varia, di uno spazio. Può riguardare l’altimetria, la distribuzione dei vari servizi a rete, la vegetazione, le infrastrutture, gli usi del suolo, gli elementi geologici, vari temi analitici (popolazione, attività ecc.). Centro abitato Agglomerato, spazio edificato o elemento funzionale di varie dimensioni, perimetrabile e distinguibile, in grado di esercitare attrazione nei confronti di un insediamento più ampio. E’ quindi un aggregato edilizio con caratteristiche urbane, dotato di opere diurbanizzazione primaria e secondaria. L’ISTAT definisce il centro abitato “aggregato di case continue o vicine con interposte strade, piazze e simili [...] ove sogliono concorrere gli abitanti dei luoghi vicini”. Comparto (edificatorio o edilizio) Aggregazione di più unità catastali per conseguire dimensioni più ampie di aree e fabbricati, da trasformare secondo un indirizzo unitario attraverso piano particolareggiato. Completamento Zona di completamento, ovvero considerata satura, salvo alcune porzioni ancora suscettibili di edificazione. E’ caratteristica delle aree centrali o di immediata espansione. Comprensorio Territorio comprendente più Comuni, di dimensione inferiore a quello di una Regione costituzionale, coincidente o meno con una circoscrizione amministrativa, individuato per fini di pianificazione urbanistica, programmazione socioeconomica, gestione di attrezzature e servizi. Conferenza dei servizi Articolazione amministrativa, istituita con legge n. 142 del 1990, indetta da un ente pubblico quando il procedimento preveda l’acquisizione di intese, concerti, nulla osta o assensi di altre amministrazione pubbliche (vedi D.Lgs 267/2000). 229 Contributo di costruzione Somma da versare al Comune per ottenere la concessione edilizia. Si compone di varie quote, relative a vari parametri: quota di urbanizzazione per le relative spese; quota di costruzione per edifici o impianti residenziali, turistici, commerciali; quota ecologica per le opere di smaltimento nel caso di insediamenti industriali e artigianali; quota ambientale per le opere di risistemazione di luoghi alterati da insediamento di attività produttive. Conurbazione Saldatura di vari centri urbani di una certa importanza in un continuum di grandi dimensioni, a scala regionale. E’ analogo all’agglomerazione, ma se ne distingue per l’assenza di un centro ordinatore principale. Convenzione Contratto fra operatori pubblici e privati in campo edilizio o urbanistico, per garantire la realizzazione di servizi e spazi collettivi, o i prezzi di vendita e locazione degli immobili. La lottizzazione convenzionata introdotta dalla legge 765/1967 mira a realizzare opere di urbanizzazione accollandone in parte l’onere agli operatori privati. Delega Trasferimento di competenze da parte di un’autorità superiore. Esempio: dallo Stato alle Regioni della materia urbanistica nel 1972; dalle Regioni ai Comuni per l’approvazione di strumenti urbanistici esecutivi. Densità Misura della concentrazione spaziale di un fenomeno: densità abitativa/di popolazione (in area urbana per ab/ha, a scala territoriale per ab/Kmq), o edilizia, che indica il rapporto mc/mq fra i volumi edificati e le rispettive superfici. Destinazione d’uso Funzione (residenza, attività produttive ecc.) a cui, in base alle norme urbanistiche e edilizie o nei fatti, è destinato uno spazio o edificio urbano. Può essere principale, quando qualifica le caratteristiche di una zona, complementare quando integra quella principale; eventuale quando pur non rientrando nei primi due casi non è esplicitamente in contrasto con essi. Diritto di superficie Autorizzazione concessa dal proprietario di un’area a realizzare sulla stessa una costruzione, la cui proprietà rimane separata da quella del terreno. Ecologia Insieme o modello di relazioni fra gli esseri viventi e tra loro e l’ambiente fisico e biotico. Ecologia del paesaggio Scienza multidisciplinare di affrontare la complessità dei sistemi ecologici e del paesaggio sia attraverso un approccio ai processi che agli organismi. Ecosistema Concetto che esprime un determinato livello di organizzazione e analizza le relazioni fra compartimenti piuttosto che all’interno degli stessi. La struttura dell’ecosistema è costituita da fattori abiotici, popolazioni di produttori, popolazioni di consumatori, popolazioni di decompositori. 230 Edificabilità Attitudine di una determinata porzione di territorio ad accogliere costruzioni. E' definita dalle norme urbanistiche ed edilizie di zona. Impatto ambientale Insieme di effetti sull’ambiente delle modifiche indotte da trasformazioni d’uso: residenziali, produttive ecc. Assume connotati sia fisici che socioeconomici, che possono essere giudicati con la procedura tecnica-decisionale della Valutazione di Impatto Ambientale (VIA). Incentivo Gli incentivi sono costituiti da tutte le azioni (anche di concessione di contributi in conto interessi o in conto capitale nonché di convenzionamento con gli operatori del credito per l’erogazione di mutui, a tasso agevolato o meno, o di project financing) idonee a favorire e a sostenere iniziative e interventi da parte di soggetti pubblici e/o di operatori privati. Indicatore e indice Il dibattito attuale sugli strumenti di misura e analisi in campo ecologico, ambientale, normativo e pianificatorio distingue due grandi categorie: indicatori e indici. La prima categoria è inerente a “cosa misurare” e con il termine indicatore si intendono grandezze identificabili che servono per la descrizione dello stato di una situazione o di un sistema complesso. Gli indicatori sono distinti, a loro volta, in tre famiglie: (1) indicatori di pressione, intesa come “peso dell’attività su…” (2) indicatori di stato, e infine, (3) indicatori di regolazione, o normativi reazione politica, che assistono funzioni di regolazione attivate attraverso provvedimenti non necessariamente legislativi (sensu OCSE). Per indice si intendono le modalità di misura o valutazione di un determinato indicatore; in ultima sintesi, l’algoritmo utilizzato. Misure di salvaguardia Norme in pendenza dell’approvazione di strumenti urbanistici generali, introdotte dalla legge 3 novembre 1952 n. 1902, a fini di tutela del territorio. Consistono nel non autorizzare opere in contrasto con un piano solo adottato dall’amministrazione. Perequazione urbanistica Nel linguaggio urbanistico si intende generalmente per perequazione quel principio la cui applicazione tende a ottenere due effetti concomitanti e speculari: la giustizia distributiva nei confronti dei proprietari dei suoli chiamati a usi urbani e la formazione, senza espropri e spese, di un patrimonio pubblico di aree a servizio della collettività. Pianificazione attuativa Pianificazione particolareggiata, che realizza in dettaglio le scelte del piano regolatore generale (PRG): piani per gli insediamenti produttivi; piani di zona per l’edilizia popolare; piani di lottizzazione; piani particolareggiati; piani di recupero, ecc. Pianificazione generale In urbanistica, per caratteristiche e contenuto delle prescrizioni, la scala di pianificazione non direttamente esecutiva: piani territoriali di coordinamento; piani regolatori generali; piani intercomunali. Le più recenti leggi regionali hanno già individuato due livelli di piano attraverso cui si ridefinisce il PRG: il piano strutturale e il piano operativo, accompagnati da un regolamento urbanistico che individua l’articolazione degli stessi. Il primo individua le invarianti territoriali, il secondo è relativo alla programmazione degli interventi, infatti è conosciuto anche come “piano del Sindaco”. 231 Pressione ambientale Si intende la somma degli impatti sull’aria, sull’acqua, sul suolo, sul clima e – in generale – sull’ambiente prodotti dagli insediamenti produttivi esistenti e di presumibile produzione da parte degli insediamenti produttivi previsti dagli strumenti urbanistici generali od attuativi. Sulla base della pressione ambientale (accertata e/o valutata) debbono essere approntate, in relazione alle diverse esigenze, adeguate misure di neutralizzazione oppure di mitigazione e di compensazione. La valutazione della pressione ambientale tiene conto delle diverse tipologie di insediamento produttivo (aree industriali; aree miste industriali, commerciali, direzionali; aree miste industriali e residenziali). Produttività ecologica Capacità di produrre biomassa nell’unità di tempo stabilita, a differenza di quella economica che si misura tramite unità di misura monetaria. Produzione ecologica Quantità di biomassa prodotta. Programma di riqualificazione urbana e di sviluppo sostenibile del territorio – PRUSST Raggruppamento di progetti innovativi in ambito urbano, regolati dal D.M. 8-10-1998, aventi l’obiettivo di avviare una sperimentazione sulle azioni amministrative più efficaci per attivare i finanziamenti che sarebbero stati previsti nel quadro di sostegno comunitario. I finanziamenti nazionali previsti derivavano dalle disponibilità non utilizzate dei precedenti Programmi di riqualificazione urbana. Project Financing E’ un insieme di procedure che consentono di realizzare opere pubbliche con l’apporto di capitale e competenze proprie del settore privato. Essenzialmente il Project Financing (o Finanza di Progetto) è normato dalla Dir. 93/37 della CEE (14 giugno 1993) “Direttiva del Consiglio che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori” e dalle successive modifiche e integrazioni. Per l’Italia dalla Legge 11 febbraio 1994, n.109, “Legge quadro in materia di lavori pubblici” e successive modifiche e integrazioni. Le fasi principali di un’operazione di Project Financing sono la costruzione e la gestione dell’opera realizzata, attraverso la quale l’investitore deve rientrare del capitale investito e attraverso la quale deve ottenere un congruo profitto. E’ per questo che il finanziamento dell’opera ruota attorno non tanto alle garanzie che sono capaci di fornire i soggetti promotori dell’iniziativa, ma alle qualità tecnico-economiche del progetto. E’ il progetto che deve essere in grado di generare flussi di cassa e che deve costituire la garanzia primaria per il rimborso del debito e per la remunerazione del capitale di rischio. La fase di gestione dell’opera diventa perciò di primaria importanza nell’economia complessiva dell’operazione dato che solo una gestione efficace potrà consentire di generare i flussi di cassa necessari a soddisfare tutti i soggetti investitori. Protocollo d’intesa È un accordo fra enti pubblici (al quale possono, in varia forma, partecipare anche soggetti privati) caratterizzato da una certa genericità. Può trattarsi di un accordo fine a se stesso, oppure di un accordo preliminare a uno più dettagliato e più rigidamente vincolante; un esempio di questo tipo di accordo è dato da quello che può scaturire da una conferenza di servizi convocata (ai sensi dell'art. 34 del D.lgs. 267/2000) al fine di verificare la fattibilità di un accordo di programma. Spesso si usa erroneamente l’espressione accordo di programma per definire accordi nei quali difettano i contenuti per essi previsti dalla legge, e che sono in realtà dei protocolli di intesa. Regime dei suoli Insieme delle leggi e norme che regolano l’uso e la proprietà del suolo, in particolare urbano, nei rapporti tra operatore pubblico e privato. 232 Rendita Corrispettivo economico che il proprietario di un immobile acquisisce cedendone ad altri lo sfruttamento. E’ assoluta la rendita intesa come corrispettivo dell’affitto o cessione. E’ differenziale la rendita che esprime le differenze di collocazione degli immobili nel contesto urbano (più o meno vicino al centro, in zone più pregiate dal punto di vista ambientale). Risanamento Azione urbanistica o edilizia originariamente tesa alla bonifica igienica dell’abitato o del suolo, spesso attraverso sventramenti, demolizioni e ricostruzioni. Risanamento conservativo è ripristino e protezione delle caratteristiche originarie degli edifici o di gruppi di edifici, analogo al restauro. Rischio E’ la base della probabilità e determina le decisioni. Questa definizione distingue il rischio dall’incertezza nella quale le probabilità sono sconosciute. Oggi, si è consapevoli che rischio e vulnerabilità non sono più limitati all’attività individuale, ma potenzialmente si diffondono al di fuori della sfera individuale di controllo. Ad esempio, sono oggi evidenti le molteplici minacce alla sopravvivenza dell’umanità e dell’ambiente naturale. Dimensione, intensità e qualità di rischio e vulnerabilità impongono il coinvolgimento delle persone e delle loro comunità sociali. Controllo ed azioni, volte a prevenire ed a reagire al rischio, devono essere sviluppate a livello locale nell’ambito di una consapevolezza globale. Sistemi Informativi Territoriali (SIT) o Geographical Information System (GIS) Strumenti informatici per raccogliere, memorizzare, richiamare, trasformare e referenziare dati spazialmente riferiti. Sostenibilità Il problema ambientale è di difficile soluzione; in generale occorre una strategia globale. I paesi sviluppati, pur comprendendo solo un quarto della popolazione mondiale, consumano l’80% dei beni del mondo. I paesi in via di sviluppo consumano il loro ambiente e le loro risorse rinnovabili più rapidamente di quanto possano ricostituirlo. Il concetto di “sviluppo sostenibile” offre una indicazione per una strategia ambientale; esso tiene conto della compatibilità ambientale, ma anche delle aspirazioni dei Paesi in via di sviluppo e delle necessità delle generazioni future. Risulta comunque fondamentale tenere presenti le componenti della sostenibilità, all’interno dell’obbiettivo della massima integrazione delle politiche al suo raggiungimento. - sostenibilità economica, ossia operare in modo che le scelte societarie aumentino il valore dell'impresa non solo nel breve periodo ma soprattutto siano in grado si garantire la continuità aziendale nel lungo periodo, attraverso l’applicazione di un avanzato modello di corporate governance; - sostenibilità sociale, ossia promuovere una condotta etica negli affari e contemperare le aspettative legittime dei diversi interlocutori nel rispetto di comuni valori condivisi; - sostenibilità ambientale, ossia produrre minimizzando gli impatti ambientali diretti e indiretti della propria attività produttiva, per preservare l’ambiente naturale a beneficio delle future generazioni. Standard Dotazione, espressa in termini numerici, di aree e attrezzature pubbliche secondo indici prefissati: verde, parcheggi, scuole, strutture sanitarie ecc. Alle quantità relative indicate dagli standard, devono adeguarsi gli strumenti urbanistici e le relative realizzazioni. In Italia gli standard urbanistici sono stati fissati dal Decreto Interministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, che fissa limiti all’edificazione e rapporti massimi tra insediamenti e spazi pubblici. 233 Tutela Serie di azioni finalizzate alla difesa e valorizzazione di uno spazio naturale o costruito, nei suoi aspetti storici e ambientali. La tutela può essere attiva quando si sostanzia in azioni di trasformazione e uso, passiva quando si basa su vincoli all’uso. Unità di paesaggio Rappresentano ambiti territoriali con specifiche, distintive e omogenee caratteristiche di formazione e di evoluzione. Esse permettono di individuare l’originalità del paesaggio, di precisarne gli elementi caratterizzanti e consentiranno in futuro di migliorare la gestione della pianificazione territoriale integrata, specificando gli aspetti olistici del paesaggio. Urbanistica È la disciplina che studia e regola i processi di antropizzazione del territorio. Nata come arte e tecnica dello sviluppo urbano (e fra arte e tecnica si è sempre posta, attratta ora dall’una ora dall’altra, senza avere mai una chiara e conclusa definizione dei suoi strumenti di azione) ha ormai assunto in Italia, prima nella forma e nelle intenzioni con la legge urbanistica del 1942, e ora man mano nella realtà – sia pure tra ritardi e ostacoli – il ruolo di disciplina del territorio, essendo ormai chiaro che lo sviluppo edilizio non è certo l’unico fenomeno che determina l’assetto del territorio e che l’abitare, il risiedere, il lavorare ha per luogo non solo la casa e la città, ma il territorio nel suo insieme. L’urbanistica ha per strumenti di conoscenza l’analisi, per mezzi di intervento gli strumenti urbanistici e per oggetti una vasta gamma di realtà territoriali, da quelle corrispondenti a parti di città o di territori oggetti di piani attuativi, a quelle del territorio regionale oggetto di piani di inquadramento. Il significato del termine non è quindi più quello letterale, essendo l’operatività dell’urbanistica ormai ampliata a realtà non solo urbane. Per comodità, ma senza una stretta divisione di compiti, l’urbanistica può suddividersi in pianificazione territoriale e pianificazione urbana. Validità del piano Arco di tempo nel quale lo strumento urbanistico ha valore di legge: indeterminato per gli strumenti di pianificazione generale; determinato per gli strumenti urbanistici attuativi. Valutazione ambientale strategica – VAS Procedura prevista dalla Direttiva 2001/42/CE concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi. Si tratta di un processo sistematico inteso a valutare le conseguenze in campo ambientale di una politica, di un piano o di iniziative nell’ambito di un programma, ai fini di garantire che esse siano pienamente incluse e affrontate in modo adeguato fin dai primi stadi del processo di formulazione delle decisioni, allo stesso modo delle considerazioni economiche e sociali. Valutazione d’impatto ambientale –VIA Analisi e giudizio degli effetti ambientali, sociali, produttivi di una trasformazione introdotta dall’uomo. Si articola in un’analisi tecnico-scientifica sui costi e benefici di un’opera o iniziativa (bilancio di impatto ambientale), e in una decisione di carattere politico. E’ obbligatoria per tutti gli interventi riguardanti la pianificazione e lo sviluppo del territorio suscettibili di determinare un impatto significativo e rilevante Variante Modifica parziale o totale di uno strumento urbanistico, a seguito di modificazioni avvenute nella normativa o nel territorio che il piano intende governare. Vincolo Limitazione all’uso di un ambiente, o territorio, o parti di esso, prescritto da un piano o da un programma. Può essere urbanistico, idrogeologico, o paesaggistico ecc. 234 Zona omogenea Parte di territorio con caratteri di omogeneità, o individuata come tale dallo strumento urbanistico e sottoposta a relative norme tecniche. In un territorio comunale, secondo il Decreto Interministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, si individuano attraverso il piano urbanistico zone omogenee contrassegnate da una lettera dell’alfabeto: “A” per le parti di interesse storico e pregio ambientale; “B” per le aree parzialmente edificate e prive di particolare interesse ambientale; “C” per le zone di espansione dell’abitato; “D” per gli insediamenti produttivi; “E” per l’uso agricolo; “F” per attrezzature o impianti di interesse generale. 235 PIERRE DONADIEU LE PAYSAGE, IDENTITES PAYSAGERES ET LE DEVELOPPEMENT DURABLE URBAIN Introduction : Le paysage, l’identité, la ville durable et le bien commun La relation sensible, principalement visuelle, à l’espace et à la nature des sociétés humaines, repose sur les interprétations de ce qu’elles en perçoivent 163. Ces perceptions et représentations, dans les sociétés occidentales, font appel à de nombreuses valeurs qui donnent un sens au monde habité (l’écoumène au sens de BERQUE, 1995). Ces évaluations, individuelles et collectives, relèvent de la satisfaction, d’une part de besoins physiques et mentaux fondamentaux (bien-être et mal-être), d’autre part de demandes sociales et culturelles (signes esthétiques et symboliques identitaires, lieux de mémoire et de liberté, biens patrimoniaux naturels et culturels, utilités de l’espace, etc.) Elles caractérisent le cadre de vie des habitants, qu’ils soient sédentaires ou mobiles, et la relation à leur territoire de vie. L’ensemble de ces relations est souvent appelé paysage, de manière floue dans les discours politiques et techniques, et en référence à des champs disciplinaires comme ceux des sciences géographiques, écologiques et sociales. Cette doxa technico-politique fait référence à la revendication d’un droit au paysage, que l’on peut comprendre comme une aspiration sociale à disposer et jouir de cadres de vie remarquables autant qu’ordinaires, et qui a été concrétisée par la convention européenne du paysage de Florence en 2000. Des politiques publiques de paysage, plus ou moins formalisées selon les Etats, sont apparus progressivement en Europe, pour donner un cadre légal à ces aspirations individuelles et collectives parfois utopiques 164. La construction des identités individuelles et collectives par la médiation du paysage est donc un enjeu social et politique de l’aménagement de l’espace important parmi d’autres. Dans un cadre localisé de vie qui n’offre pas de prises paysagères 165 à l’individu habitant, celui-ci ne peut construire sa propre identité, celle qui le distingue ou le rapproche des autres (l’Altérité). Ces prises sont des formes des paysages vécus, qui deviennent alors des signes familiers, dont la permanence rassure et dont la destruction ou la disparition désespèrent 166. Collectives, les identités paysagères contribuent ainsi à façonner les identités territoriales et politiques comme celles de la Suisse 167 et de l’Angleterre 168. Ces Convention européenne du paysage, 2000. P. DONADIEU – M. PERIGORD, Clés pour le paysage, Gap, Ophrys, 2005 ; P. DONADIEU – M. PERIGORD, Le paysage, entre natures et cultures, Paris, A. Colin, 2007. 165 A. BERQUE, Les raisons du paysage, de la Chine antique aux environnements de synthèse, Paris, Hazan, 1995. 166 E. BIGANDO, La sensibilité au paysage ordinaire des habitants de la grande périphérie bordelaise, Thèse de doctorat en Géographie, Université de Bordeaux, 2006. 167 F. WALTER, Les figures paysagères de la nation, territoire et paysages en Europe (XVIe-XXe siècles), Paris, EHESS, 2004. 163 164 236 constructions paysagères, à la fois matérielles et immatérielles (le chalet dans la montagne suisse, le bocage anglais, le bleu tunisien du village emblématique de Sidi-Bou-Said par exemple) peuvent-elles mobiliser les valeurs du développement durable, et en particulier celles qui aspirent à la construction des villes durables ? La notion de développement durable (sustainable development), inventée par Madame Brundtland en 1987, est considérée par les scientifiques comme une utopie ou une doctrine relayée, depuis le sommet de Rio-de-Janeiro de 1992, principalement par les pouvoirs politiques. Elle vise surtout à transmettre aux générations futures un héritage matériel et immatériel compatible avec leurs intérêts humains, vitaux et non vitaux. Cette idéologie, fondée sur la critique de la pensée productiviste et techniciste, tente de concilier des finalités contradictoires, économiques (emploi, richesse), environnementales (ressources, risques), sociales (équité) et culturelles (identités) de la vie humaine sur la Terre. Concernant la catégorie de pensée de la ville durable, les scientifiques depuis le début des années 1990 en France ont largement investi le champ depuis différents domaines d’études urbaines (géographie, histoire, écologie, sociologie, urbanisme, sciences politiques, architecture, etc.). Les uns pensent qu’il ne s’agit que d’une appellation supplémentaire d’un changement rêvé de politiques publiques inefficaces, succédant à d’autres utopies historiques 169, les autres démontrent que les chartes d’Athènes (1933) et d’Älborg (1994) ne sont pas de même nature et qu’il existe une discontinuité idéologique, voire épistémologique, entre elles. Certains géographes s’accordent à dénoncer la réduction par les pouvoirs urbains d’une ambition complexe à des additions vaines d’actions « durables » sectorisées (lutte contre l’étalement urbain, économie d’énergie, recyclage des déchets, mixité sociale, actions citoyennes, etc.) 170. Beaucoup de chercheurs remettent en cause l’exemplarité des bonnes pratiques (les modèles de quartiers écologiques et de villes vertes en Europe du Nord, celui aussi de la ville austère et frugale par exemple) comme méthode de diffusion d’un nouveau progrès. Ils montrent les limites d’actions bureaucratique (réglementer), scientiste (surestimer la connaissance scientifique des faits naturels et sociaux) et intégrés (gouvernance, concertation) du fait de la remise en cause difficile des pouvoirs publics sectorisés. En bref, pour les uns, la ville durable ne serait qu’un rêve sociopolitique, séducteur et inaccessible, pour les autres, elle représenterait une opportunité pour penser et évaluer différemment les modes urbains de vies humaine, végétale et animale de manière multi ou supradisciplinaire. Que peut alors apporter la notion de bien commun à la recherche utopique d’un monde meilleur ? H. BULLER, « La Countryside britannique : un espace symbolique », in Vers un rural postindustriel, Rural et environnement dans huit pays européens (M. Jollivet édit.), Paris, L’Harmattan, 1997. 169 GAUDIN, 1998 ; BRUNET, 1997 cités par A. MATHIEU – Y. GUERMOND (édit.), La ville durable, du politique au scientifique, CEMAGREF, CIRADIFREMER, INRA, 2005. 170 A. MATHIEU – Y. GUERMOND (édit.), La ville durable, du politique au scientifique, op. cit., p. 16. 168 237 Le socioéconomiste Ricardo PETRELLA 171 appelle bien commun les biens matériels ou immatériels dont l’usage social se traduit par un sentiment d’appartenance aux groupes dont les membres ont en commun l’usage de ces biens publics ou privés (par exemple, non seulement l’usage du puit communal par les habitants d’un village ou celui d’une église ou d’une mosquée, mais les règles d’usage de ce puit et les rites et valeurs de la religion elle-même). Le bien commun est donc, comme le définissent les économistes, ni exclusivement public, ni seulement privé. Nous appellerons bien commun paysager les biens matériels et immatériels qui sont issus de la similarité des relations humaines polysensorielles à l’espace et à la nature et qui concrétisent un projet d’intérêt commun. Le sens religieux de la relation visuelle des habitants à l’église (propriété publique) de leur village définit par exemple un bien commun paysager local. Il concerne ceux qui considèrent l’édifice comme symbole de leurs croyances et lieu de leur culte. Il en est de même en France pour les biens communaux, lieux autrefois propriétés de la commune à des fins de pâturage et d’affouage. Au Maghreb, les biens collectifs, qui relèvent soit de communautés religieuses (habous), soit de fractions tribales qui en font par exemple un usage pastoral et sylvo pastoral, entrent dans la catégories des biens communs paysagers. Le bien matériel perd son sens paysager relatif si aucune perception et aucune conscience humaine n’en sont constatées, ainsi que son sens collectif, s’il n’est que sous le contrôle des pouvoirs publics (Etat, Région, Province, département, groupe de communes, commune). Ainsi formulé, le sens paysagiste du mot paysage, qui le réduit aux aménagements paysagers décoratifs et publics et à la protection publique des sites patrimoniaux remarquables, est étendu à celui de cadre de vie construit par et pour ceux qui y projettent leurs valeurs communes. Il ne se confond pas avec la qualification de territoire qui n’en représente que la dimension sociale (appartenance) et politique (étendu spatiale de l’exercice des pouvoirs publics). Le texte qui suit essaiera de montrer que l’idée de paysage durable, en remettant les sensibilités humaines au monde en devenir au centre des projets et des actions d’aménagement de l’espace, permet de construire les identités individuelles et collectives comme biens communs paysagers locaux et globaux. En effet, les pratiques paysagères qui en sont issues privilégieront sans doute en priorité les valeurs de survie collective face aux risques locaux et globaux, comme au cours de l’histoire, elles l’ont été (les biens communaux et collectifs des sociétés traditionnelles ont été des garanties sociales de survie à l’échelle locale). 171 R. PETRELLA, Le bien commun. Eloge de la solidarité, Bruxelles, Labord, 1996. 238 Le paysage durable, outil d’action publique ou nouvelle utopie ? Le paysage comme bien commun La notion de paysage désigne à la fois ce qui, dans l’environnement humain est perçu, la manière dont cette perception est interprétée, et les projets que ce jugement suscite. À la fois objective, subjective et projectuelle, elle n’est réductible ni à des matérialités connaissables (les paysages de la géographie, les images des artistes), ou à des jugements ou à des émotions (les paysages vécus et contemplés), ni à des volontés individuelles et collectives d’anticiper les évolutions des paysages en prenant en compte les enjeux sociaux et politiques. L’idée de paysage traduit l’ensemble complexe de ces relations, qu’il est toujours tentant de simplifier. Elle est globale et trajective, et relationnelle plus que systémique 172. Dans les sociétés occidentales, où son origine est culturelle (picturale et littéraire), la relation au paysage fait une large place aux valeurs esthétiques. L’expérience des paysages beaux et laids peut être cependant interprétée autant selon la posture kantienne (le beau s’éprouve indépendamment des utilités et intérêts de ce qui est perçu), que selon la posture platonicienne (le beau est assimilable à ce qui est bon et utile). La beauté et la laideur de paysages et de lieux sont alors exprimées en fonction de critères esthétiques (harmonie et disharmonie des formes perçues), environnementaux (bien-être/mal-être, promesse de santé ou de pathologie des êtres vivants) et sociales (ségrégation/mixité de l’espace public, plein emploi/chômage, liberté/coercition des individus, mise en valeur/abandon de l’espace, etc.). Les valeurs sont mobilisées selon des échelles variables de concernement des individus. À l’échelle individuelle, l’expérience de « mon paysage » n’est pas celui de l’Autre (« son paysage ») même si le paysage est matériellement identique. Il est singulier et s’inscrit dans le parcours de vie de chacun, comme dans son contexte social et culturel. À l’échelle locale du groupe, « notre paysage » diffère en effet de « leur paysage ». Il enregistre une mémoire sociale inconsciente ou revendiquée dans des lieux de vie. Enfin, il existe une troisième échelle de mobilisation des valeurs, celle, supralocale, qui impliquent des territoires politiques et culturels, régionaux, provinciaux, nationaux et supranationaux. Ces échelles spatiales globalisantes 173 peuvent concerner les communautés et organisations européennes (Union européenne, Conseil de l’Europe) ou internationale (l’UNESCO, la FAO, l’ONU par exemple). Elles offrent aussi des rêves de paysages lointains, et exotiques : rêves de nature sauvage ou de villes A. BERQUE – P. DONADIEU – Y. LUGINBÜHL – P. AUBRY – J.P. LE DANTEC – A. ROGER, Mouvance 2, soixante-dix mots pour le paysage, Paris, éd. De la Villette, 2006. 173 Yves Luginbühl, séminaire ENSP, février 2007. 172 239 fascinantes pour le temps d’un voyage touristique. Elles permettent l’existence là aussi de biens communs aux groupes qui en font usages (les touristes, les organisateurs et les bénéficiaires du tourisme) parfois aux dépens d’autres groupes sociaux. Selon ces échelles d’évaluation, mais aussi selon les facteurs objectifs qui font varier les paysages (nuit/jour, saisons, climats, géologie et hydrologie, modes de mise en valeur, politiques publiques, structures sociales, etc.), les évaluations du paysage perçu peuvent être convergentes ou divergentes. Une ville peut être belle la nuit et laide le jour, ou inversement, un marécage urbain peut-être considéré comme répulsif, car dangereux pour les uns (une mère de famille avec des enfants) ou attractif pour les autres (un ornithologue ou un botaniste) pour des raisons de richesse écologique. Les espaces d’activités agricoles autour des villes auront plutôt une fonction de décor esthétique idéalisé pour les cadres supérieurs alors que les agriculteurs en feront d’abord leur cadre de vie professionnelle. En tant que biens à constituer en commun, le paysage, souvent objet de tensions, de dissensions et de conflits entre les partis prenantes de son évolution ou de sa stabilité d’usages, est construit – protégé, restauré ou créé – au sein de pratiques de gouvernance, faisant des places très variables aux acteurs sociaux et politiques selon les pays. En effet, c’est le changement des paysages qui est un enjeu culturel, social, environnemental et économique, tant pour les habitants que pour les acteurs publics. Les ruptures brutales (une tempête destructrice ou une construction autoroutière à fortes nuisances) désespèrent les habitants concernés en Europe, mais pas les automobilistes ; les plus lentes (l’étalement urbain, les déprises agricole et industrielle, les conséquences écologiques des pollutions de l’air et de l’eau), inquiètent ou indiffèrent, mais interpellent les pouvoirs publics 174. Les biens paysagers communs et disputés selon les intérêts privés et publics en présence peuvent-ils être produits selon l’éthique utopiste de la ville idéale « durable » ? Quels sont ces biens communs dans les régions urbaines ? Le paysage comme bien commun durable Ces biens communs paysagers et urbains existent aujourd’hui. Ce sont par exemple toutes les infrastructures dites vertes : les bois, forêts, parcs et jardins publics et privés, les cimetières, les terrains de sports, les zones de protection des nappes phréatiques, les voieries routières, piétonnes, cyclistes et ferroviaires, les couloirs de lignes électriques à haute tension, les canaux, les ports, les espaces 174 P. DONADIEU – M. PERIGORD, Le paysage, entre natures et cultures, Paris, A. Colin, 2007. 240 agricoles 175 etc. Ils n’excluent pas des biens paysagers non verts, les patrimoines architecturaux ou industriels par exemple. Héritées des idéaux occidentaux de ville du XIXe et XXe siècles : la ville hygiénique, esthétique et fonctionnelle, les politiques publiques produisant ces équipements urbains ont été reconduites avec un relatif consensus dans la plupart des villes du monde. Elles contribuent à l’élaboration de biens communs paysagers dans la mesure où ces derniers ne sont pas seulement publics et pas uniquement privés. C’est le cas par exemple des concessions du Bois de Boulogne et de Vincennes faites par la ville de Paris à des organisations privées d’utilité publique ou non (les restaurants, les clubs de tennis, les sociétés de pêche et d’équitation, les hippodromes, etc). Celles-ci valorisent les ressources publiques des Bois parisiens en les réservant à des publics particuliers (clients des restaurants, amateurs de courses hippiques, membres de clubs sportifs, etc.). Sélectionnés par des organisations habilitées par la Ville de Paris, les usagers de ces concessions bénéficient de services privés, qui leur sont communs, sans pour autant devenir communautaires (sauf peut-être quand les concessions sont faites à des organisations religieuses : la pagode boudhiste à Vincennes). De même, dans l’espace accessible aux publics, les usagers des Bois (qui ne sont plus des clients) peuvent contribuer à l’entretien des espaces fréquentés en payant des droits d’entrée comme dans le parc de Bagatelle 176. Accessibles dans un cadre gratuit ou onéreux, ces biens paysagers urbains en sont-ils pour autant durables ? La ville durable idéale, inscrite dans les courants américains du New Urbanism ou de la Smart Growth, est au Canada « aménagée selon les principes de la conservation des ressources, de l’équité et de l’accessibilité » 177. Ces valeurs utopiques privilégient alors la proximité et la densité de l’urbanisation, qui de fait deviennent une condition favorable au bien commun paysager en réduisant le temps nécessaire aux transports. L’idéal canadien est alors la ville compacte monocentrique ou polycentrique. Un autre volet de ce projet de ville durable est en effet de la rendre « autosuffisante » en conservant dans sa proximité les espaces agricoles, boisés et de protection des eaux et de la biodiversité. L’action publique de lutte contre l’étalement urbain vise alors à réorienter les raisons des choix de localisation des ménages dans les banlieues (coût faible du sol, habitat pavillonnaire, aggrégation ethnolinguistique, goût pour la nature). Dans ce contexte politique, les biens communs paysagers fournisseurs d’aménités et de services résidentiels, sont créés dans les centralités, en évitant de limiter les accès aux biens immobiliers pour les plus faibles revenus et d’encombrer la circulation dans les centres 178. C’est donc la localisation 175 P. DONADIEU, « La construction de la ville-campagne, vers la production d’un bien commun agriurbain », Colloque international de Turin « Creare paesaggi » organisé par l’ordre des architectes italiens (« La costruzione della città-campagna, verso la produzione di un bene comune agriurbano » in « In ogni modo » (C. Cassatella et F. Baglioni édit.), Firenze, Alinea, pp. 80-85, 2005b. 176 P. DONADIEU, « Les Bois parisiens », in Atlas de la nature, Paris, APUR, 2006. 177 SENECAL et al, in A. MATHIEU – Y. GUERMOND, op. cit., p. 75. 178 A. MATHIEU – Y. GUERMOND, op. cit., p. 77. 241 des biens communs paysagers comme outil de la ville durable sans trop de dépendance de l’automobile qui devient un enjeu : dans les centres principaux, ou dans les centres secondaires des métropoles comme les villes nouvelles en France. Une autre dimension politique des biens communs paysagers urbains durables est celle de la naturalisation des villes qui a autant d’adeptes que d’adversaires. D’un côté les logiques « substantialistes » qui invitent à intégrer des valeurs objectives économiques, environnementales et sociales données à l’avance pour concilier le local et le global, le court et le long terme. De l’autre les rationalités « procédurales » et politiques qui construisent et hiérarchisent les actions publiques « durables », sans normes à priori, au sein d’une gouvernance de projets 179. Du point de vue des politiques vertes et d’une logique « substantialiste », il s’agira alors de favoriser – top down – la lutte contre les incidences microclimatiques des pollutions de l’air urbain (l’épuration de l’air), la lutte contre les nuisances phoniques (écran phonique), la restauration des milieux et populations spontanées menacées (biodiversification), enfin la qualité et la quantité des espaces publics de loisirs. D’un point de vue « procédurale », – bottom up – il s’agira d’associer dans une gouvernance publique les acteurs réels des ressources et des espaces (techniciens des espaces verts des villes, agents de la gestion forestière, agriculteurs, organisation de jardiniers, etc.) aux usagers des espaces (association de quartiers par exemple). Au Québec, la conciliation consensuelle de ces deux logiques a été mise en oeuvre avec succès dans le plan d’action du Saint Laurent Vision 2000 180. En matière de politique de forêts urbaines, elle peut aussi se traduire par des transferts de pouvoirs de gestion publique comme à Strasbourg de l’Etat (l’ONF) à la communauté urbaine 181. Interprétée à travers les notions de biens communs, de gouvernance et d’actions publiques, la notion de paysage durable se présente à la fois comme un outil d’action publique et comme un ensemble de valeurs d’intérêt public. Elle peut donc être comprise comme, d’une part une aspiration complexe à une qualité de cadre de vie individuel et collectif, et d’autre part une construction sociale de biens matériels partageables au nom de valeurs communes inscrites dans l’idéologie de la durabilité. Parmi celles-ci, les valeurs économiques, environnementales et sociales du développement durable sont idéalement transformables en biens communs paysagers pour autant que sont conciliés dans des procédures de concertation et de gouvernance, les aspirations et projets des représentants des acteurs publics, collectifs et privés locaux. Qu’en est-il de l’identité individuelle et sociale, en tant que facteur de mise en œuvre de la ville durable ? Autrement dit, dans quelles conditions peut-on observer une GAUTHIER – LEPAGE, in A. MATHIEU – Y. GUERMOND, op. cit. GAUTHIER – LEPAGE, op. cit. 181 A. DECOVILLE, La forêt frontière de la ville ? Mise en perspective de deux villes rhénanes : Strasbourg et Karlsruhe, Thèse de doctorat de l’Université L. Pasteur de Strasbourg, 2006. 179 180 242 adhésion sociale (commune) à des processus constructifs, déconstructifs, conservateurs ou créateurs d’identités paysagères désignées comme durables ? Le rôle de l’identité paysagère dans la construction des paysages durables La relation entre l’identité des populations et la notion de paysage est explicitement faite dans la Convention européenne du paysage. Elle est reprise dans l’article 5 du décret du 20 décembre 2006 portant application de la Convention en France : « Chaque Partie s’accorde à reconnaître juridiquement le paysage en tant que composante du cadre de vie des populations, expression de la diversité de leur patrimoine culturel et naturel, et fondement de leur identité ». La relation identitaire est repérable dans les paroles des habitants par les expressions : mon paysage, nos paysages : ma rivière, notre parc, mon coin de pêche ou de promenade, mon jardin. L’identité individuelle ou collective est construite avec des fragments d’espace vus et vécus qui sont symboliquement ou réellement appropriés : le clocher de l’église ou le minaret de la mosquée, le magnolia du jardin, le château voisin. L’identité des populations ainsi construite se définit par rapport à celle des Autres : l’altérité : leur forêt, leur minaret, son jardin. Les Autres sont des individualités (le voisin) ou des collectifs (le terrain de sport de la commune, les musulmans, les chrétiens) : la place publique de la commune peut être leur ou notre place selon le degré de concernement de chacun par les affaires publiques communales. Des jugements différents sur un élément du paysage déclenchent des tensions : l’ espace agricole de la dernière ferme de la commune est à protéger pour les uns, à construire pour les autres. L’identité paysagère est une valeur qui est souvent attachée à celles du bien-être et de la beauté. La modification imprévue d’un paysage approprié déclenche des crises collectives (mécontentement, création d’associations de défense) violentes ou larvées. Plus généralement l’identité distingue et qualifie des paysages quand la monotonie ou le changement menace. C’est pourquoi, l’identité paysagère n’est pas dissociable du processus de transformation des relations entre les hommes et leurs espaces : Elle est conservée, construite ou bien disparaît, dans un contexte conflictuel ou non. La conservation des identités paysagères C’est le processus le plus connu et le plus fréquent. Les paysages, protégés de la ruine ou de la destruction, sont immobilisés par les pouvoirs publics, et le plus souvent figés dans une permanence rassurante et consensuelle. Ouverts à la fréquentation du public, ils donnent à voir des lieux symboliques d’identités des territoires : nationaux comme les jardins du château de Versailles, la tour de Belem à Lisbonne ou les jardins de Stourhead en Angleterre ; religieux comme la « colline éternelle » de 243 Vézelay ou celle du Sacré-Cœur de Montmartre à Paris ; régionaux à l’instar des paysages nords italiens du lac de Côme, des chaumières restaurées ou neuves de la Normandie ou de la Grande Brière au nord de Nantes, ou encore réhabilités comme les paysages vernaculaires de canaux (les conches) de La Venise verte dans le Marais poitevin. Ainsi maintenus, en tant que lieux de mémoires et de plaisirs visuels, par des actions publiques qui mobilisent l’argent des contribuables, ces paysages s’inscrivent dans de nouvelles économies territoriales : celles du tourisme, de la résidence et du loisir. Produits par de nouveaux projets sociaux et économiques, ils prolongent les apparences de cultures agraires (le marais, le bocage) ou industrielles (les terrils charbonniers) révolues, qui deviennent ainsi les cadres des activités d’aujourd’hui et de demain. Dans les milieux urbains, les signes identitaires sont omniprésents : à côtés des formes patrimonialisées architecturales et urbaines, le citadin et le touriste identifient les architectures orientales et les couleurs (le rouge) des communautés asiatiques (Chinatown) dans la plupart des métropoles, ou bien la couleur bleu pâle et emblématique du bleu tunisien. Très revendiqué le bleu est aussi celui des villages du Connemara en Irlande et des îles grecques. Mais il y a aussi l’ocre des façades italiennes et la blancheur immaculée des médinas arabes et des villages des Pouilles. Ces singularités ont été parfois des inventions historiques (le bleu de Sidi-Bou-Said a été prescrit et mis en œuvre par le baron d’Erlanger au début du siècle dernier), mais les créations sont toujours contemporaines. La création des identités paysagères Dans les sociétés occidentalisées, européennes ou non, il y a deux façons de créer des identités paysagères. Soit la matérialité perçue est volontairement changée à cet effet, ce que font d’une part les professionnels du paysage, quand ils créent des parcs, jardins et espaces publics et privés, et d’autre part les acteurs privés et publics quand ils changent les paysages matériels pour affirmer leurs valeurs, par exemple économiques (une nouvelle entreprise dans l’espace périurbain) et/ou environnementales (une construction de haute qualité environnementale – HQE - notamment). Soit les regards sur cette matérialité changent, et créent des paysages qualifiés ou disqualifiés, reconnus localement ou non, ce qui peut aussi être le fait des professionnels du paysage, architectes du paysage ou non. Quand l’architecte paysagiste allemand Peter Latz crée à Duisbourg nord au début des années 1990 le parc de l’Emscher, il monumentalise les vestiges d’une usine sidérurgique, installe des nouveaux lieux paysagers végétaux et minéraux et propose de nouvelles pratiques de lecture aux visiteurs 182. L’ancienne usine devient un cadre social de loisirs, un espace de pédagogie de la science écologique et un musée de la sidérurgie disparue de la Ruhr. Parce qu’elle offre autant des signes de mémoire locale 182 P. DONADIEU, « Le Landscape urbanism en Europe : des friches industrielles au développement durable urbain », Jola, n° 2, 2007. 244 que des lieux de création artistique, elle est devenue pour les habitant de Duisbourg et de la Ruhr « notre parc » : un espace apaisant de remémoration autant que de scénographie écologique du changement prévisible d’un lieu en voie de reconquête par la végétation spontanée des bouleaux forestiers. Dans le contexte français, où l’appel roboratif à la nature est beaucoup moins évident que chez les Allemands, l’intérêt marqué pour les jardins familiaux et communautaires (très nord européens par ailleurs) témoigne d’une autre façon de créer des identités paysagères et des lieux de mixité sociale. Dans le parc Balzac à Angers par exemple, la création de petits jardins et de leurs cabanes peintes en bleu pâle (presque tunisien d’ailleurs) concrétise la volonté municipale de prêter aux citadins des immeubles collectifs voisins un espace visible de liberté et d’expression de groupes. Pendant la belle saison, et à l’occasion des vacances ou des week ends, le jardin devient le lieu d’une convivialité où se resserrent les liens entre les membres des familles et leurs invités, en fonction des origines ethniques notamment 183. L’identité paysagère se confond alors avec celle des origines des jardiniers et de leurs entourage. Des processus sociaux et spatiaux proches sont à l’œuvre, quand, près de Toulon, les communes achètent des parcelles de vieilles oliveraies centenaires pour les mettre à la disposition des activités de loisirs des habitants des communes ; quand au sud de Paris, à Sceaux, les coulées vertes qui occupent le passage souterrain du TGV sont en partie utilisées par des concessions de jardins ; quand dans les communes périurbaines des petites et moyennes villes françaises, des espaces ordinaires agricoles, aquatiques et de peupleraies sont rachetés par les collectivités pour créer des espaces publics de promenade et de pêche, là où il n’en existait pas ; quand, enfin, dans l’ouest français, les entrées des lotissements aux toits monotones en ardoises bleutées arborent des signes distinctifs étranges : la figure en bois d’une fée forestière ou les troncs curieux appelés localement « trognes » : « nos trognes » 184. Cessation et pertubation d’identités paysagères : entrée et sortie de conflits L’identité paysagère n’est pas éternelle. Les habitants de Suresnes, à l’ouest de Paris, ont aujourd’hui oublié que leur colline : le mont Valérien, était au XVIIe siècle un haut lieu de pélerinage 185. Cette amnésie ne suscite aucune nostalgie perceptible. Un paysage a succédé au précédent : aujourd’hui celui d’une forteresse militaire. Longtemps, cette amnésie a été le plus souvent la règle de l’évolution des paysages, jusqu’à l’invention de l’idée de patrimoine en tant que signe et condition de l’identité sociale et individuelle. P. DONADIEU et al., « Les jardiniers restaurent notre monde », Les Carnets de paysage n° 9, 2003. H. DAVODEAU, « L’enjeu paysager, vecteur de l’appropriation de l’espace », Travaux et documents de l'Unité Mixte de Recherche 6590 (ESO), n°21, 2004, p.79-83. 185 S. SCHAMA, Le paysage et la mémoire, Paris, Seuil, (traduit de l’anglais par Josée Kamoun), édité en 1995 à New York), 1999. 183 184 245 Depuis que l’Etat français a fait des paysages et de son territoire, le patrimoine de la nation (1995), la ruine et l’abandon d’un héritage visible posent question aux acteurs publics français. Par exemple, l’abandon actuel, par leurs propriétaires, des talus plantés de hêtres qui protègent du vent les bâtiments des « clos-masures » de Haute-Normandie, suscite des projets de conservation par l’Etat (Direction régionale de l’environnement) et les communes concernées dans le cadre de ZPPAUP (zone de protection du patrimoine architectural et urbain). N’est-ce-pas pour les ethnologues un bien commun d’identité régionale à désigner comme tel et à conserver ? La menace d’une urbanisation ou d’une exploitation industrielle (carrières alluviales) non contrôlable mobilise dans les régions périurbaines d’Ile-de-France, l’outil juridique du classement de site, par exemple pour protéger les sites des falaises de la Roche-Guyon dans la vallée de la Seine, ou bien ceux de la Bièvre et du val de Gally près de Versailles. Toutefois, dans de nombreux cas, c’est l’Etat lui-même qui déclenche des tensions, voire des conflits avec les riverains des autoroutes et des centrales nucléaires qu’il aménage et installe. Dans le cas d’une forte mobilisation sociale locale (consensus identitaire au sens de M.L. Rouquette), il peut y avoir refus d’accepter « ces paysages » nouveaux, même si les protestataires y trouvent des intérêts (transport, énergie). Il en est de même pour les collectivités qui veulent créer des incinérateurs d’ordures ménagères, accueillir des déchets nucléaires, ou autoriser l’implantation d’éoliennes. « Nos paysages » (ceux des groupes hostiles au changement) ne peuvent être modifiés sans « notre » assentiment, position validée par le recours réglementaire aux enquêtes publiques et la circulaire du 1er mars 2007 aux préfets. Il leur est demandé d’organiser une fois par an, « au titre de l’affirmation d’une politique publique des paysages, une journée annuelle d’information et de concertation associant les principaux acteurs du paysage ». Les tensions et les conflits relatifs à l’espace sont, pour les géographes et les sociologues, les moteurs normaux des changements géographiques et sociaux locaux, régionaux et mondiaux. Ils ne doivent pas être évités, mais compris et reconnus par les acteurs sociaux. Dans de nombreux cas, les partis en présence sortent du conflit les opposant entre eux et avec les acteurs publics. Le cas des basses vallées angevines 186 est un cas d’école, aussi connu par les chercheurs en sciences sociales que celui de la crise de la pêche des coquilles Saint-Jacques de la baie de Saint-Brieux dans les années 1970. Dans la région urbaine inondable de la ville d’Angers (9 000 hectares), au début des années 1990, à la confluence de la Maine, de la Sarthe et de la Mayenne, l’extension des peupleraies privées de rapport (50 hectares par an) menaçait les dernières prairies d’élevage, autant que les biotopes du râle des 186 D. MONTEMBAULT, « L’histoire comparée du Val d’Authion et de la Loire armoricaine en Anjou : pour comprendre la nouvelle appropriation citadine des paysages ligériens », revue Norois n° 192, 2004, pp. 47-62. 246 genêts et les activités de loisirs des Angevins. Comment concilier les ambitions économiques des uns (généralisation de la populiculture), les difficultés des éleveurs et la protection du bien commun menacé (l’ornithofaune et les lieux diversifiés de promenade) ? C’est l’Etat, et principalement la Direction départementale de l’agriculture avec les organisations agricoles (ADASEA) et la Ligue pour la protection des oiseaux (LPO) qui a initié le processus de fabrication de nouvelles règles paysagères. D’un côté, une zonation des extensions possibles des peupleraies a été approuvée, de l’autre des espaces non ou peu plantés occupés par les activités d’élevage, de protection de la nature et de loisirs ont été désignés dans les documents d’urbanisme locaux. Un nouveau produit, « presqu’un label », aujourd’hui vendu sur les marchés locaux : « l’éleveur et l’oiseau », est issu de nouvelles pratiques extensives d’exploitation des prairies, à fauche tardive, qui garantissent la nidification réussie de l’invisible oiseau nommé râle des genêts. Les paysages des Basses vallées sont ainsi devenues des paysages communs aux populiculteurs, aux éleveurs, aux naturalistes et aux promeneurs. Cette identité paysagère commune et récente (nos paysages des basses vallées), et qui en pratique correspond à un partage consensuel (par évidence acquise au sens de Rouquette) de l’espace, n’exclut pas une sociabilité plus forte entre acteurs, mais ne l’induit pas nécessairement. Pour la communauté d’agglomération d’Angers (Angers Métropole), qui s’est auto-proclamée « ville durable », cette sortie de conflits, permettant la multifonctionnalité d’un espace convoité et désormais identifié comme fragment de territoire urbain (les basses vallées, l’île Saint-Aubin), contribue à l’image d’agglomération exemplaire vendue dans son marketing international, notamment au Japon. Elle renforce son attractivité urbaine. Construits à la fois de manière « substantialiste » (top down) et « procédurale » (bottom up), ces paysages, perçus comme naturels sont autant des éléments de l’identité urbaine (nos Basses Vallées), que ceux des identités des producteurs de formes rurales et des consommateurs de temps et d’espaces de loisirs de plein air. Ils peuvent donc être qualifiés de paysages « soutenables » au sens où les scientifiques ont traduit ce slogan politique : à la fois économique, environnemental, social et culturel. La situation locale n’en est pas pour autant paradisiaque et stable. Conclusion L’identité paysagère n’est qu’une composante de la construction sociale et culturelle des paysages en tant que « partie des territoires perçue par les populations ». Elle est la partie sensible (visible surtout) des espaces vécus qui est offerte au regard des hommes habitant et circulant. Pour cette raison, comme dans le cas de l’identité vestimentaire, le sens du paysage exprime la manière dont il est fabriqué et pensé, et pour qui. Les valeurs – économiques, écologiques, sociales, historiques, etc. – qui y sont repérables sont autant de moyens de fabriquer des identités individuelles et sociales attachées à des signes et à des fragments de territoire. 247 Ces identités sont ancrées dans les expériences humaines de l’espace concerné. Elles se confondent souvent avec les faits d’y être né, de l’habiter, mais aussi de parler une langue commune, d’y avoir des pratiques communes (pécher, chasser, cuisiner, jouer). Au-delà des limites spatiales des territoires de chacun et des conflits sociaux et ethniques qui peuvent s’y nouer, la construction des identités paysagères peut tisser de nouvelles relations entre ceux qui regardent et ceux qui produisent les paysages. Incluse dans les débats d’une gouvernance urbaine, la notion de paysage est à la fois une matrice, un outil et un produit de politiques publiques : d’image, de patrimoine, de sécurité, de bien-être collectif, de création ou de limitation d’espace public, etc. Les réponses peuvent être conservatrices, mais aussi créatrices de nouveaux paysages partagés. Lorsqu’il y a conflit, elles peuvent déboucher sur des trêves arbitrées par les pouvoirs publics, mais pas nécessairement sur une pacification définitive. Enfin, les valeurs du développement durable sont aujourd’hui parties prenantes de la production du sens commun des paysages qui s’y réfèrent, pour les acteurs publics comme pour les acteurs privés et collectifs. En dépit des controverses qui concernent une notion très utopiste, mais indispensable à l’action et à la pensée de l’action, l’idée de paysage durable peut, elle, être très réaliste. Car elle dit à travers les paroles des protagonistes des actions, si l’éthique du soutenable est une référence pour eux, et quelles résistances et adhésions sociales sont offertes à l’incitation publique à mobiliser de « bonnes pratiques » de production des paysages, à les choisir, à les hiérarchiser, et in fine à faire des territoires un cadre de vie habitable pensé ou non à l’échelle globale. 248 Bibliographie A. BERQUE, Les raisons du paysage, de la Chine antique aux environnements de synthèse, Paris, Hazan, 1995, 192 p. A. BERQUE – P. DONADIEU – Y. LUGINBÜHL – P. AUBRY – J.P. LE DANTEC – A. ROGER, Mouvance 2, soixante-dix mots pour le paysage, Paris, éd. De la Villette, 2006. E. BIGANDO, La sensibilité au paysage ordinaire des habitants de la grande périphérie bordelaise, Thèse de doctorat en Géographie, Université de Bordeaux, 2006, 503 p. H. BULLER, « La Countryside britannique : un espace symbolique », in Vers un rural postindustriel, Rural et environnement dans huit pays européens (M. Jollivet édit.), Paris, L’Harmattan, 1997. H. DAVODEAU, « L’enjeu paysager, vecteur de l’appropriation de l'espace », Travaux et documents de l'Unité Mixte de Recherche 6590 (ESO), n°21, 2004, p. 79-83. A. DECOVILLE, La forêt frontière de la ville ? Mise en perspective de deux villes rhénanes : Strasbourg et Karlsruhe. Thèse de doctorat de l’Université L. Pasteur de Strasbourg, 2006, 400 p. P. DONADIEU et al., « Les jardiniers restaurent notre monde », Les Carnets de paysage n° 9, 2003. P. DONADIEU – E. MAZAS, Des mots de paysage et de jardin, Dijon, Educagri, 2002. P. DONADIEU – M. 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MONTEMBAULT, « L’histoire comparée du Val d’Authion et de la Loire armoricaine en Anjou : pour comprendre la nouvelle appropriation citadine des paysages ligériens », revue Norois n° 192, 2004, pp. 47-62. R. PETRELLA, Le bien commun. Eloge de la solidarité, Bruxelles, Labord, 1996. S. SCHAMA, Le paysage et la mémoire, Paris, Seuil, (traduit de l’anglais par Josée Kamoun), édité en 1995 à New York), 1999. F. WALTER, Les figures paysagères de la nation, territoire et paysages en Europe (XVIe-XXe siècles), Paris, EHESS, 2004. 249 GIOVANNI BUZZI LA DIMENSIONE ECONOMICA E SOCIALE DEL PAESAGGIO CULTURALE EXTRAURBANO I nuovi paesaggi culturali extraurbani Quando, provenendo da nord, si vola verso l’aeroporto di Malpensa, dopo aver superato l’arco alpino si passa sopra la città diffusa che da Milano si espande sino ai piedi delle Alpi Meridionali, in seguito si scende di quota sorvolando il Parco del Ticino e, infine, per atterrare, si ritorna verso nord curvando sopra le risaie che si estendono in direzione del fiume Po. Questo percorso costituisce una vera e propria sintesi dei quattro principali tipi di paesaggi culturali dell’Europa odierna. Il paesaggio agro-pastorale tradizionale alpino – che dal Settecento in poi ha attratto milioni di ammiratori e di turisti – conosce fenomeni di abbandono di differente intensità e carattere, fatta eccezione dei centri del turismo invernale. In particolare, nelle aree alpine e prealpine situate lungo il versante meridionale l’agricoltura ha subito un vero e proprio collasso e la popolazione è diminuita non soltanto in termini relativi ma anche assoluti. Il paesaggio al di sotto del limite della vegetazione è monopolizzato dal bosco che ha invaso campi, prati e ha già parzialmente inghiottito i maggenghi, le stazioni intermedie delle migrazioni agro-pastorali alpine. Il paesaggio urbano si dilata in tutte le direzioni, lungo gli assi stradali, con le sue strutture di produzione, di servizio e d’abitazione, fagocitando i villaggi, i borghi e le città preesistenti. Milano e il suo immediato hinterland ospitano 2,5 milioni di abitanti che generano 8 milioni di movimenti giornalieri. La stragrande maggioranza della popolazione vive per gran parte dell’anno in paesaggi artificiali divoratori di energia, produttori di enormi quantità di scarti urbani e induttori di inquinamenti. Il paesaggio agrario moderno è in gran parte occupato dalle monoculture cerealicole (nel nostro caso dal riso) o da quelle foraggiere per nutrire del bestiame allevato in vere e proprie fabbriche di animali. Pur estendendosi su una superficie sempre di molto superiore di quella della città diffusa, questo paesaggio agrario è gestito da una esigua minoranza di agricoltori. Le macchine e la chimica hanno sostituito le migliaia di braccia un tempo chiamate a seminare e mondare le risaie, a raccogliere, trasportare e commerciare il riso. Per aumentare le rese e ridurre il lavoro manuale anche l’agricoltura moderna consuma grandi quantità di energia e induce inquinamenti talvolta più incisivi e duraturi di quelli prodotti dalle città. Nel paesaggio del parco si esercita lo sviluppo sostenibile, si tutelano la biodiversità, i paesaggi naturali e quelli culturali tradizionali. Qui vive un esiguo numero di abitanti e – fortunatamente – i 250 fruitori di queste aree protette sono ancora una minoranza rispetto alla grande massa che si riversa nei luoghi del turismo tradizionale. Fatta eccezione dal paesaggio urbano della città diffusa, le tre categorie di paesaggi sopradescritti fanno parte della grande famiglia dei paesaggi culturali extraurbani. Tra di essi e la città diffusa si sviluppa un paesaggio periurbano in cui si mescolano insediamenti residenziali o produttivi e superfici agricole; quest’ultime accolgono le più disparate attività produttive e del tempo libero oppure che giacciono abbandonate. La centralità dell’agricoltura nella formazione dei paesaggi extraurbani „Die Landwirtschaft ist die wichtigste Kunstfertigkeit und der hauptsächliche Beruf unter aller weltlichen Arbeiten. (Fra tutte le attività umane, l’agricoltura è l’arte più importante e la principale professione).” Così scriveva nel 1774 Martin Schmid 187, un illuminista grigionese pieno di curiosità per il lavoro dei contadinipastori alpini. Effettivamente, la gran parte dei paesaggi culturali extraurbani è il prodotto delle pratiche, delle tecniche, delle economie e delle politiche agricole, un’arte che per millenni ha modellato e gestito l’ecumene creando quella varietà di paesaggi tradizionali che costituisce una delle principali ricchezze culturali dell’Europa. Chi si occupa di scienze del paesaggio, volente o nolente si vede confrontato con due paradossi. Il primo paradosso è costituito dal fatto che la contemplazione colta del paesaggio è un’invenzione della città che concerne solo marginalmente la campagna. Chi produce paesaggi non li percepisce in primo luogo come opere d’arte ma soprattutto come oggetti utili da cui trarre di che alimentarsi e/o un reddito. Il cittadino vorrebbe conservare quei paesaggi che hanno ispirato la letteratura e le arti figurative – diventati in seguito attrazione turistica e persino veicolo pubblicitario –, mentre per il contadino la libertà di trasformarli costituisce la principale garanzia di sopravivenza. Il secondo paradosso è la generale assenza dai dibattiti, dalle conferenze, dai simposi e dalle pubblicazioni dedicate ai paesaggi culturali extraurbani di coloro che questi paesaggi li gestiscono e li trasformano. Che l’arte del contadino sia predestinata a non essere ammessa alla mensa del sapere? Eppure, l’illuminista Martin Schmid non ha esitato a definire l’agricoltura l’arte più importante fra tutte le attività umane. Si potrebbe formulare allora la domanda precedente in modo diverso. Senza l’esperienza e il coinvolgimento dei contadini o, almeno, delle scienze agronomiche, non arrischia la scienza dei paesaggi di essere un sapere astratto, mutilato e impotente? 187 J. MATHIEU, Bauern und Bären. Eine Geschichte des Unterengadins von 1650-1800, Bozen, 1994. 251 Alcuni elementi determinanti della storia del paesaggio culturale nella dimensione economica e sociale Dall’antichità sino alla rivoluzione industriale, il 90% della popolazione abita nei territori extraurbani. A ondate successive le città sono aumentate di numero e si sono diffuse dalle aree subtropicali temperate fino a raggiungere il circolo polare artico. A questo proposito si ricordano la colonizzazione fenicia, quella greca, quella romana, le numerosissime fondazioni di città in età alto medievale e la colonizzazione tedesca dell’Europa Orientale che hanno potato alla nascita di quella che Max Weber ha chiamato la Città Europea 188. Le dimensioni delle città preindustriali sono molto modeste. Tra il 1700 e il 1800 il grado di urbanizzazione medio dei paesi dell’Europa Occidentale oscilla tra il 9% e l’11%. Nel 1700, in Europa (senza la Russia) le città che superano i 20 mila abitanti sono soltanto 130, 22 delle quali si trovavano in Italia. Dopo Londra e Parigi (con più di 500 mila abitanti) le città più popolose sono Napoli, con 210 mila abitanti, e Amsterdam, con 150 mila abitanti 189. In questo contesto demografico sostanzialmente stabile i paesaggi culturali si sono modificati molto lentamente acquisendo però tratti distintivi molto marcati. Alla fine del XX secolo, nelle società occidentali prendono il sopravvento le attività di servizio e la tecnica. Le energie animate (cioè la forza degli uomini e degli animali) sono soppiantate dalle energie inanimate (carbone, petrolio, atomo) facilmente e capillarmente distribuibili (elettricità). In Europa, meno del 5% della popolazione vive oggi delle attività agricole. La società occidentale si è emancipata dal lavoro della terra e non partecipa più direttamente a modellare il paesaggio. Ma quali sono i tratti distintivi dell’agricoltura industriale e postindustriale? A questa domanda non è sufficiente rispondere ricordando lo sviluppo delle pratiche, delle tecniche e delle politiche agricole. Appaiono altrettanto determinanti i trasporti, le tecniche di conservazione degli alimenti e le mode alimentari. I primi fenomeni di globalizzazione dell’agricoltura sono già presenti in epoca romana ma sono circoscritti entro i limiti dell’impero. Le radici di questo moderno fenomeno si possono far risalire alla fondazione della Compagnia delle Indie. Ma, sino alla decadenza dell’Impero Britannico e rispetto all’insieme dei paesaggi culturali tradizionali, i paesaggi extraeuropei destinati alle monoculture (per esempio, del cotone, del te, del caffè, del tabacco, dell’oppio o delle spezie più svariate) occupano superfici relativamente modeste anche se sovente determinanti per i destini di intere regioni. Ancora prima dello sviluppo dei moderni mezzi di trasporto già si assiste a fenomeni di spostamento delle pratiche monoculturali da un continente all’altro. Il cotone dal Medio Oriente viene trapiantato in 188 189 W. SIEBEL (a cura di), Die europäische Stadt, Frankfurt a. M., 2004. P. BAIROCH, De Jérico à Mexico. Villes et économie dans l’histoire, Paris, Gallimard, 1985. 252 quelle aree del sud degli Stati Uniti che si affacciano sull’Atlantico e la produzione di caffè viene trasferita dalla Penisola Araba al Centro e Sud America. Alla fine dell’Ottocento, l’avvento delle ferrovie e dei bastimenti consente un enorme aumento della quantità, della velocità e della sicurezza delle merci trasportate. Questi nuovi mezzi di trasporto inducono le prime incisive quanto rapide trasformazioni dei paesaggi europei. Per esempio, l’importazione per ferrovia di grandi quantità di cereali prodotti a buon mercato nell’Europa Orientale trasforma l’Altopiano Svizzero da area cerealicola in area riservata alle attività di allevamento per la produzione di latticini, in questo favorito anche dall’invenzione della cioccolata al latte e dalle migliori rese del bestiame allevato in pianura rispetto a quello di montagna. Quasi contemporaneamente l’importazione di grandi quantità di seta prodotta in Estremo Oriente è responsabile della scomparsa in pochi decenni dei paesaggi promiscui del gelso che dominavano le campagne del Piemonte e della Lombardia collinare prealpina. Dopo la seconda guerra mondiale, la mobilità per via terra e per via mare conosce un secondo grande balzo in avanti. Grazie alle tecniche di conservazione chimica (conservanti) e fisica (refrigerazione, congelazione o messa sotto vuoto) si rendono possibili il trasporto a grande distanza e l’immagazzinamento per periodi sempre più lunghi di tutte le derrate alimentari deperibili. Assieme alla velocità, al basso costo dei trasporti e a queste nuove tecniche di conservazione, le pratiche di produzione che consentono una quasi totale indipendenza dal clima e dalle stagioni (vedi le coltivazioni hors-sol in serre asettiche) hanno indotto la delocalizzazione e l’estemporalizzazione di molti prodotti dell’agricoltura. Presto si potranno mangiare durante tutto l’anno pomodori prodotti a basso costo a ridosso del circolo polare artico grazie a serre riscaldate e illuminate artificialmente dall’energia naturale dei geyser islandesi. La delocalizzazione assume proporzioni sempre maggiori anche a causa delle grandi differenze sociali ed economiche tra gli stati occidentali e quelli in via di sviluppo. Per esempio, il 70% del territorio necessario per coprire l’attuale fabbisogno svizzero di prodotti alimentari si trova al di fuori dei confini nazionali, in gran parte in paesi oltre oceano 190. Si deve supporre che le altre nazioni ricche dell’Europa Occidentale si trovino in una situazione del tutto analoga. I veri architetti che modellano gran parte dei paesaggi culturali del mondo sono sempre di più gli interessi del commercio mondiale e le multinazionali che producono, trasformano e distribuiscono le derrate alimentari condizionando le economie e le politiche dei paesi esportatori e importatori di prodotti agricoli. La dimensione economica e sociale del paesaggio si trova confrontata con due paradossi. Il primo paradosso è dato dal fatto che nelle aree del mondo in via di sviluppo e nel terzo mondo si sottraggono grandi superfici necessarie all’alimentazione della popolazione locale mentre in Europa si 190 L. Würtenberger – C. Binder – T. Köllner, Nachhaltige Landwirtschaftspolitik macht an der Grenze nicht halt, in „Gaia“ 3-2004. Nel calcolo citato non sono state considerate le superfici destinate alla coltivazione di piante tessili. 253 abbandonano tutte quelle produzioni e quei territori non più in grado di sostenere la concorrenza dei prodotti alimentari importati da paesi poveri che producono a basso costo e/o dove non vigono leggi di protezione dell’ambiente. La crisi dell’agricoltura e delle politiche agricole europee è anche una crisi dei paesaggi culturali confrontati con il dilemma tra il loro sfruttamento intensivo, semi intensivo o il loro abbandono. Il secondo paradosso è la conseguenza del primo. Mentre la società e il mercato liberalizzati pretendono dagli stati la rinuncia al protezionismo e ai sussidi a favore di un’agricoltura a cui si chiede più rispetto per l’ambiente (costringendo così i contadini a scegliere pratiche produttive con impatti ambientali sempre più incisivi e inquinanti), la medesima società investe risorse per tutelare vasti santuari di paesaggi culturali tradizionali, comunque anch’essi esposti a buona parte delle immissioni dannose prodotte sia dai paesaggi urbani, sia da quelli dell’agricoltura industriale. A livello percettivo, e disastri naturali permettendo, per le società postindustriali la natura da fenomeno onnipresente, onnipotente e imprevedibile è diventata fenomeno esotico, addomesticato, puramente scenografico, e persino oggetto di speculazione (si veda la messa sotto brevetto delle sementi, anche quelle non modificate geneticamente, o la privatizzazione delle risorse d’acqua potabile). I tre scenari evolutivi proposti da Andreas Muhar (Traduzione e sintesi della redazione) Dieci anni fa, Andreas Muhar 191 – professore di ecologia e pianificazione del paesaggio presso l’Università di Vienna – si chiedeva se “è sostenibile preservare e ricostruire i primi paesaggi conosciuti dell’inizio dell’Ottocento facendo astrazione del contesto sociale che li ha prodotti?” Formulando questa domanda Muhar ricordava che i paesaggi culturali tradizionali sono, in effetti, il prodotto “di una collettività dove persistevano ancora i caratteri di una società feudale suddivisa in classi impermeabili e dove per una minoranza di latifondisti laici e religiosi lavorava una maggioranza di servi della gleba alla mercè di ricorrenti carestie e di mentalità patriarcali repressive. Questi paesaggi non erano tavole imbandite bensì veri e propri campi di battaglia cruenti dove ognuno combatteva per la propria sopravvivenza quotidiana.” L’autore concludeva che, per contro, “l’agricoltura è oggi confrontata con problemi ben più gravi e il voler preservare dei paesaggi specchio di una società affamata e ingiusta” – oltre ad essere “segno dell’ipertrofia di una società dello spreco” – non aiuta certamente a risolverli visto che, in Europa, si stanno in effetti delineando due differenti e preoccupanti scenari: 191 A. MUHAR, Landschaft von gestern für die Kultur von Morgen, in „Topos“ 6-1994. 254 • Scenario 1: Il paesaggio del GATT Con l’applicazione sistematica e definitiva degli accordi tariffali del GATT (General Agreement on Tariffs and Trade – Accordo generale sulle tariffe e sul commercio, 1947-66) l’agricoltura conoscerà un’ulteriore razionalizzazione e verrà concentrata sui terreni migliori. Si rinuncerà alle colture promiscue (per esempio, l’allevamento combinato con le colture foraggiere e la frutticoltura) a favore di monoculture intensive e sempre più specializzate. Le grandi aziende agricole industrializzate saranno ancora affiancate da piccole aziende che operano nell’economia di nicchia delle produzioni biologiche ma che non assumeranno mai rilevanza economica. Alcuni paesaggi culturali tradizionali verranno eccezionalmente mantenuti come scenografie richieste dall’economia del tempo libero. Ma soltanto i più redditizi centri turistici saranno in grado di finanziare la gestione di questi paesaggi-museo. Assieme alle aziende di media grandezza, gran parte delle aree dell’arco alpino dovranno, invece, essere abbandonate. • Scenario 2: Il paesaggio della protezione naturalistica Gli attuali sussidi all’agricoltura di mercato saranno convertiti in premi ecologici conformi alle direttive del GATT con lo scopo di mantenere un minimo di popolazione agricola chiamata a curare i paesaggi culturali. La protezione della natura diventerà un importante fattore economico, sociale e di politica agraria. Il territorio extra urbano si presenterà come una scacchiera di aziende agricole a produzione intensiva (che si occupano della produzione di derrate alimentari per i consumi di massa) inframmezzate da aree protette ai fini ecologici (diversità biologica, protezione contro l’erosione e il degrado dei suoli, ecc.), che offrono derrate alimentari biologiche di nicchia ma il cui prodotto principale è in effetti il paesaggio stesso. In questo caso non si potrà comunque ottenere una diminuzione sensibile del fabbisogno energetico e neppure delle immissioni nocive dovute prodotti utilizzati per la massimizzazione delle rese (concimi, pesticidi, insetticidi). Dopo aver constatato che: • oggi più nessuno misconosce il fatto che i sistemi industriali di produzione agricola richiedono un enorme dispendio di energie non rinnovabili e conducono a un degrado dei suoli, dell’aria e dell’acqua non più illimitatamente espandibile, • che questo significa spostare la discussione sulla preservazione dei paesaggi culturali dal mantenimento delle forme storiche alle risposte da dare agli attuali problemi di equiliobrio ecologico e di sviluppo sostenibile. Andreas Muhar concludeva proponendo che sarebbe “auspicabile che i paesaggi culturali del futuro diventino quelli dove i sistemi di produzione potranno avvalersi di un minimo di risorse (finanziarie, energetiche, tecniche) e dove dovranno essere presi in considerazione, ossia internalizzati, anche i costi esterni dovuti ai processi di trasformazione, di conservazione e di trasporto delle derrate alimentari come pure di eliminazione dei materiali di imballaggio. In questo contesto lo sguardo dello 255 storico non servirà tanto a ricostruire i paesaggi culturali tradizionali bensì a recuperare quelle conoscenze perdute che hanno permesso ai nostri antenati di ottimizzare il rapporto tra lavoro e prodotto facendo capo ai nuovi mezzi tecnici, all’energia solare o ad altre fonti energetiche rinnovabili. Il paesaggio dovrebbe trasformarsi da specchio di sfruttamento insensato della natura e degli uomini da parte di altri uomini in un sistema economico circolare riproducibile. (Eine Landschaft, die nicht Spiegelbild der Ausbeutung von Natur und Menschen durch die Menschen ist, sondern sich and den Prinzip der Kreislaufwirtschaft orientiert).” Purtroppo, questo progetto di “paesaggio giusto specchio di una società giusta schizzato da Muhar si trova confrontato con una collettività dove predomina una mentalità a tal punto nichilista da farci credere che solo adottando, in maniera metodica, e su ampia scala, il principio del consumo e della distruzione degli oggetti, possiamo garantirci identità, stato sociale, esercizio della libertà e benessere” 192. Due proposte operative L’esempio austriaco Agli inizi degli anni Novanta, l’Austria ha dato inizio a un vasto progetto nazionale di ricerca sui paesaggi culturali (KLF – Kulturlandschaftsforschung). Nella prima fase di realizzazione del programma (1992-1998) la ricerca si è concentrata sul tema dell’interdisciplinarietà mentre nella seconda fase, ancora in corso, si è scelto come tema centrale l’elaborazione di linee guida dello sviluppo sostenibile. “Il programma di ricerca KLF si è dato tre obiettivi programmatici: la riduzione sostanziale delle immissioni di origine antropica, l’ottimizzazione del rapporto tra biodiversità e qualità di vita e la promozione di alternative di sviluppo delle dinamiche di trasformazione dei paesaggi culturali. Le novità della proposta austriaca sono individuabili nei due principali obiettivi del programma, in particolare l’interdisciplinarietà della ricerca (approccio olistico) e la transdisciplinarietà della sua applicazione da intendere come dialogo continuo tra scienza e società, tra conoscenza e pratica. Oltre a questi aspetti, anche in Austria rimane sempre prioritaria la preoccupazione di tutti i paesi alpini di contenere per mezzo di incentivi pubblici l’emigrazione della popolazione dalle valli e il conseguente abbandono dei paesaggi culturali. Inoltre, la biodiversità - che è un dato oggettivo misurabile - viene messa a confronto con la qualità di vita, quest’ultima molto più difficilmente decifrabile.” 192 U. GALIMBERTI, I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli, Milano, 2005. 256 L’esempio svizzero La Scuola universitaria professionale di Rapperswil e il Service Romand de Vulgarisation Agricole hanno proposto lo strumento della Concezione dell’evoluzione del paesaggio (CEP) inteso come dispositivo metodologico per progettare e gestire un’evoluzione sostenibile del paesaggio. La CEP non propone però un metodo standard ma delle procedure adattabili alle più disparate situazioni con l’obiettivo di elaborare un progetto di massima (esquisse) dell’evoluzione di un determinato paesaggio culturale ai fini della sua utilizzazione durevole e della sua valorizzazione ecologica ed estetica. L’elaborazione di una CEP è anzitutto un processo partecipativo che intende coinvolgere tutti quegli attori che utilizzano un determinato paesaggio (per esempio, i contadini), che applicano le leggi che regolamentano queste utilizzazioni (per esempio, i funzionari comunali e cantonali) o che usufruiscono del medesimo paesaggio passivamente (per esempio, i turisti e gli abitanti). Per favorire il successo di una Concezione dell’Evoluzione del Paesaggio e dei suoi obiettivi tutti gli attori coinvolti devono in tutti i casi condividere una visione olistica del paesaggio pur avendo coscienza del fatto che ogni paesaggio è indissociabile dalla percezione individuale di chi lo utilizza e da quella di chi lo contempla. Un progetto CEP non implica costrizioni di carattere giuridico, non deve dunque sottostare alle procedure politico-amministrative spesso lente e complicate. In questo modo si possono individuare soluzioni partendo da premesse scientifiche e tecniche libere dalle costrizioni della loro immediata fattibilità e da quelle di regole amministrative sovente obsolete o troppo settoriali. I progetti CEP possono nascere per motivi contingenti e interessare piccole o grandi porzioni di paesaggi: la correzione di un corso d’acqua, la revisione di un piano regolatore, un gruppo di agricoltori che vuole coordinare i contributi di compensazione ecologica, un progetto di bonifica fondiaria, un ente turistico che intende migliorare l’immagine di una località applicando il principio della sostenibilità economica, un servizio forestale che deve organizzare delle piantagioni protettrici, un’associazione naturalista che intende valorizzare ecologicamente un paesaggio degradato, ecc. Conclusioni Il modello ideale di carattere sociale ed economico proposto da Muhar, l’approccio primariamente scientifico del modello austriaco e quello più pragmatico del modello svizzero hanno in comune la visione olistica dei problemi del paesaggio e come obiettivo la promozione di alternative alle attuali dinamiche di trasformazione dei paesaggi culturali tradizionali e di quelli moderni. 257 Nell’utilizzazione attiva e passiva dei paesaggi, la sostenibilità dovrebbe prevalere sulla produttività mentre gli obiettivi di carattere estetico-formale dovrebbero armonizzare con quelli di carattere etico-funzionale. Le politiche di pianificazione e di gestione dei paesaggi extraurbani – soprattutto le politiche agricole – dovrebbero mirare al superamento della generale tendenza alla selezione dei paesaggi in buoni e belli da contemplare (le aree naturalistiche protette e i parchi) e in cattivi e brutti per produrre (le aree forestali, agricole e quelle costruite). In altre parole, in futuro non si dovrebbe aver più bisogno di paesaggi protetti come antidoto alla cattiva coscienza di tanti disastri ecologici e sociali. Sin tanto che il buon governo non sarà riuscito a trasferirsi dal Palazzo Comunale di Siena al Palazzo di Vetro di New-York rimangono comunque ampliamente irrisolti i paradossi di una società e di una politica internazionale sostanzialmente contraddittori, se non proprio ambigui. 258 PIERRE DONADIEU LE LANDSCAPE URBANISM EST-IL UN NOUVEAU MODELE DE PRATIQUES PAYSAGISTES ? Dans les années 1990, l’architecte paysagiste allemand Peter Latz est intervenu à la demande des pouvoirs urbains de Duisbourg sur des sites abandonnés par l’industrie sidérurgique. L’un d’entre eux ne sera pas détruit, mais conservé à l’état de ruines. Le public est aujourd’hui invité à visiter les anciens hauts-fourneaux, reconquis en partie par une végétation spontanée de bouleaux. En dix ans, l’usine est devenue un lieu de mémoire autant qu’un site de tourisme industriel. Depuis cette date, cette réalisation est devenue emblématique pour la plupart des théoriciens anglophones de l’aménagement de l’espace, qu’ils écrivent dans le cadre du landscape urbanism 193 ou dans celui de l’architecture du paysage 194. Pour expliquer la diffusion de l’expression landscape urbanism en Europe comme en Amérique du Nord depuis une dizaine d’années, on peut faire l’hypothèse que ces nouvelles pratiques ainsi nommées ont été et sont toujours une réponse à deux grandes questions posées depuis trente ans, d’une part aux architectes et aux urbanistes, d’autre part aux architectes paysagistes. La première concerne le devenir des paysages postindustriels et l’autre les nouvelles manières de fabriquer les villes et leurs paysages en les inscrivant dans les valeurs du développement « soutenable ». Ces questions récurrentes dans la plupart des pays occidentaux concernés par le déclin des industries lourdes depuis trente ans a amené les enseignants de certaines écoles d’architectes, d’urbanisme (urban design) et d’architecture du paysage (landscape architecture) à renouveler leurs formations professionnelles 195. Un nouveau champ de pratiques et d’enseignement a été nommé landscape urbanism à la fin des années 90 aux Etats-Unis. Dans d’autres pays comme la France, ce néologisme n’apparaît pas, mais il semble bien que les pratiques professionnelles et de formation des écoles d’architecture du paysage, notamment à Versailles, aient évolué très tôt dans un sens comparable à certaines écoles américaines et anglaises d’architecture et d’urbanisme. Peut-on affirmer aujourd’hui qu’un même modèle de pratiques a inspiré les professionnels du paysage (au sens large) de part et d’autre de l’Atlantique ? Ce thème peut être étudié à partir de nombreuses publications au cours de ces huit dernières années 196. 193 K. SHANNON, « From theory to resistance : landscape urbanism en Europe », in The Landscape Urbanism Reader (édit. C. WALDHEIM), 2006. 194 S. HERRINGTON, « Framed again : The Picturesque Aesthetics of Contemporary Landscapes ». Landscape Journal 25 : 1-06, 2006. Cet article a en commun avec le précédent le parc nord de Duisburg par Peter Latz et le parc sidérurgique de Caen par Dominique Perrault. 195 Ce renouvellement de la pédagogie date en pratique à l’Ecole nationale supérieure du paysage de Versailles de 1985, date à laquelle l’architecte paysagiste Michel Corajoud a pris la direction pédagogique de l’établissement. Dès cette époque, les principes des théories et pratiques qui allaient ensuite être nommés Landscape urbanism étaient enseignés. 196 Notamment : J. CORNER (ed.), Recovering Landscapes : Essay in Contemporary Landscape Architecture, New York, Princetal Architectural Press, 1999. M. MOSTAFAVI – N. CIRO (eds.), Landscape Urbanism : A Manual For The Machinic Landscape, 259 1. – Le Landscape urbanism : une forme de gestion des paysages postindustriels Les origines de l’expression L’idée de créer une nouvelle expression « landscape urbanism » est née à Chicago en 1997 dans le département d’architecture de l’université de l’Illinois. L’architecte Charles Waldheim a inventé pour les étudiants en architecture une formation qui porte ce nom. Elle est définie, au début, comme « une branche de l’écologie du paysage qui s’intéresse aux espaces urbains abandonnés par l’industrie » 197. En Europe comme aux Etats-Unis, des réponses partielles avaient été déjà apportées à cette question importante d’aménagement urbain et périurbain. En 1975, Richard Haag avait parmi les premiers retenu l’idée de créer des lieux de mémoire industrielle en créant le « Gaz works park » à Seattle 198. Peter Latz, 20 ans plus tard, avait créé selon le même principe le Park Nord à Duisbourg le long de la rivière Emscher en y apportant des notes écologiques (le respect des dynamiques végétales de reconquête spontanée du site) et artistiques. Dans un article récent, Kelly Shannon fait références à d’autres théoriciens et philosophes pour expliquer l’émergence de cette idée. Au théoricien américain Kenneth Frampton qui a développé en 1983, à partir des thèses du philosophe français Paul Ricœur la notion de « Régionalisme critique » 199. Pour résister à l’homogénéisation technique de la civilisation technologique mondiale, il suggère de s’appuyer sur les caractères des sites et du (génie) des lieux à aménager. Au philosophe français Sébastien Marot 200, qui a forgé en 1995 la notion de suburbanisme (à la fois méthode de planification et d’expérimentation, et champ théorique et critique de l’urbanisme) et en a désigné l’opérateur principal l’architecte paysagiste, qu’il situe curieusement entre le urban designer et la « paysannerie agraire ». Il indique que le concepteur paysagiste doit fonder ses projets d’abord sur la géographie et la mémoire du site, et faire valoir toutes ses potentialités dans la négociation avec les commanditaires pour produire l’espace public urbain et périurbain. À l’urbaniste belge Marcel Smet (2002), des concepts de paysage permettent de travailler avec les incertitudes du développement des territoires. Si ces travaux tentent de promouvoir l’idée de paysage urbain (urban landscape) et du paysage comme outil de l’aménagement, il ne semble pas qu’ils aient donné un sens explicite à la notion de Landscape urbanism qu’ils n’utilisent pas. Au début des années 2000, une autre interprétation du landscape urbanism est donnée par l’architecte américain Ignacy Bunster-Ossa. Il considère que cette expression désigne un mode écologique ou soutenable (au sens du sustainable development) d’aménagement des espaces ouverts aux London : AA Publications, 2003 et C. WALDHEIM (ed.), The Landscape Urbanism Reader, Princeton Architectural Press, Jul 2006. 197 G. SHANE, « The emergence of landscape urbanism, reflexion on Stalking Detroit », Harvard Design Magazin, 2003-2004, n° 19. 198 P. NICOLIN – F. REPISTHI, Dictionnary of today’s landscape designers, Milano, Skira, 2003. 199 K. FRAMPTON, « Towards a Critical regionalism. Six Points for an Architecture of Resistance », in Hal Foster (ed.), The Anti-Aesthetic essays on Postmodern Culture, Seattle, Bay Press, 1983. 200 S. MAROT, « L’alternative du paysage », Le Visiteur,1995, p. 54-77 et Sub-urbanism and the art of memory. London, AA Publications, 2003. 260 usages urbains. Dans ses textes et ses projets, il inclut dans cette notion le recyclage et l’épuration des eaux urbaines de surface, les techniques d’économie d’énergie dans les bâtiments, l’utilisation jugée bénéfique du végétal sur les toits et les façades, les mesures d’enrichissement floristique et faunistique du milieu urbain, et la conservation des agricultures, des jardinages et des boisements urbains 201. « The objective is to create a seamless green urban fabric fusion, rather than division, is the order ». Dans ce projet conforme aux valeurs écologiques et sociales du développement durable et des agendas 21 de la conférence de Rio-de-Janeiro en 1992, tout l’espace de la ville, construit ou non, est concerné. Le landscape urbanism ne se limite plus aux espaces postindustriels. Il planifie le « vert » des espaces ouverts dans la ville et le met pratiquement en oeuvre sous la forme d’une architecture et d’un urbanisme écologique 202. Ne doit-on pas chercher des raisons plus complexes à l’apparition de la notion de Landscape urbanism ? Doit-on limiter ces raisons à une alternative rationnelle – sitologique et écologique – à la « tabula rasa » des architectes et des urbanistes ? Les sources du landscape urbanism La première semble être les concepts et méthodes de la Landscape ecology (discipline issue de la Geoökologie et de la Landschaftsökologie), terme inventée en 1938 par le géographe allemand de l’est Carl Troll 203. En République Démocratique Allemande, la finalité planificatrice de ces travaux, sociale autant que politique, était de rationaliser les rapports matériels entre activités sociales, économiques et environnement naturel. En fait, les éléments biologiques, pas plus que la dimension subjective n’y avaient une grande place 204. Les dimensions écologiques, en revanche, sont devenues plus explicites dans les travaux de l’architecte paysagiste américain Ian Mac Harg. Son ouvrage de 1969 Design with nature qui sera traduit en français en 1979 (Composer avec la nature) induira le courant anglo-saxon de planification écologique. Mais il faudra attendre la fin des années 1980 pour constater dans les travaux franco-américains de Richard Forman et Michael Godron l’apparition d’une véritable science écobiologique travaillant à l’échelle du paysage avec des concepts originaux (connectivité, matrice, corridors, etc.) 205. La seconde source, issue de la pensée et de la culture de l’architecture et de l’architecture du paysage, mais aussi des positions politiques des maîtres d’ouvrage publics, reprend l’idée de la reconversion des sites industriels abandonnés, soit pour en faire des lieux de mémoire, soit pour les réaffecter, avec ou sans conservation des bâtiments, à d’autres usages économiques, sociaux et culturels. I. BUNSTER-OSSA, « Landscape urbanism », Urband land, Juillet 2001. Qui correspond à l’application en France des normes de haute Qualité Environnementale, mais aussi à des pratiques originales à références vernaculaires (architecture en terre, architecture en bois, etc.). 203 C. TROLL, Landscape ecology, Pub. Unesco, Delft, 1966. 204 G. ROUGERIE – N. BEROUTCHACHIVILI, Géosystèmes et paysages, Colin, 1991, p. 72. 205 R.T.T. FORMAN – M. GODRON, Landscape ecology, New York, John Wiley and sons, 1986. 201 202 261 À Paris par exemple, à l’initiative de l’Etat comme de la ville, de nombreux parcs ont été ainsi créés sur l’emplacement d’anciens abattoirs (le parc de La Villette, le parc Georges Brassens) ou d’anciennes usines et entrepôts (le parc André Citroën, le parc de Bercy). Dans tous ces cas (sauf celui de A. Citroën), l’aménagement a gardé la mémoire matérielle du patrimoine architectural des anciennes halles (La Villette, G. Brassens) ou des chais (Bercy). Ils se sont inscrits dans les théories émergentes du Landscape Urbanism en affirmant des relations explicites au site et à son histoire 206. La troisième source nous paraît être celle de l’abondant débat philosophique et épistémologique sur le paysage depuis les années 1980. Les conditions de l’usage de la notion de paysage ont depuis cette époque fait l’objet d’interminables controverses entre spécialistes de différentes disciplines. Alors que les théoriciens anglosaxons cherchaient à sortir du seul paradigme de l’écologie, en lui opposant des postures culturalistes et professionnelles, historiennes et géographiques 207, les spécialistes français, sans concertation apparente avec leurs collègues d’Europe ou d’Amérique du Nord, prenaient une voie comparable avec les travaux des paysagistes Michel Corajoud, Bernard Lassus et Gilles Clément, du philosophe Alain Roger, de l’historien Jean-Pierre Le Dantec et des géographes Augustin Berque et Yves Luginbühl 208. En Allemagne, les positions théoriques du philosophe Joachim Ritter 209 et en France d’Aaugustin Berque ont convergé pour expliquer l’intérêt actuel de la notion de paysage. La conséquence du dualisme occidental moderne, qui sépare le sujet connaissant de la nature à connaître et à maîtriser, est la nécessité d’avoir recours à la notion de paysage pour reconstruire les relations des hommes à l’espace et à la nature rompues par la rationalisation moderne. L’usage du mot paysage n’est plus alors défini seulement dans les champs géographique, historique, sociologique ou écologique mais aussi dans celui de l’anthropologie humaine et culturelle 210. Dans ce dernier champ, le sens du terme paysage est également expliqué par les distinctions que l’anthropologue Philippe Descola fait entre les sociétés naturalistes – celles de culture occidentale (à paysages au sens de A. Berque) – et les autres (animistes, totémistes et analogistes) sans paysage. Figures du landscape urbanism dans l’architecture du paysage Les quatre origines, écologistes, architecturales, paysagistes et épistémologiques du landscape urbanism se retrouvent selon des dosages variables dans les théories et pratiques des architectes paysagistes contemporains. H. SOULIER, La friche urbaine : déchet ou ressource ? Thèse de doctorat en architecture de l’Université Paris 8, 2006, 349 p. et annexes. Il est notable que cette thèse n’évoque pas la notion de landscape urbanism alors qu’elle en développe largement les principes. 207 M.O. CONZEN, (édit.), The making of the american landscape, New York : Routeledge, 1994. 208 A. BERQUE (édit.), Mouvance, cinquante mots pour le paysage, Paris : éd. De la Villette, 1999. 209 J. RITTER, « Zur funktion des Ästhétishen in der modernen gesellschaft », in : Schriften zur förderung der westfälischen Wilhem universität, Heft 54, Münster, 1979. Cité par D. Ipsen et H. Weichler, Landscape urbanism. 210 P. DESCOLA, Au-delà de nature et culture, Paris, Gallimard, 2005, 628 p. 206 262 Dans les travaux de l’architecte paysagiste américain James Corner, qui a succédé à Ian Mac Harg à l’université de Pennsylvanie, l’urbanisme paysagiste prépare l’espace ouvert urbain à de nouvelles activités connues ou inconnues. Reprenant les idées de Charles Waldheim, il définit trois étapes du processus de reconquête du site industriel abandonné : d’abord la déconnection matérielle du site de la ville, la démolition des usines, puis la révégétalisation naturelle (dynamiques végétales spontanées) ou artificielle (plantations) du site. Celle-ci permet ensuite de réimplanter dans la matrice végétale obtenue les activités économiques, résidentielles ou environnementales qui sont jugées opportunes. Leur arrêt entraînera ensuite le même scénario qui fait alterner dans le même espace processus écologiques et processus socioéconomiques. Ce type de pratique intègre l’incertitude relative à l’arrivée et à la durée des implantations humaines. Il prévoit de détruire un paysage condamné quand sa rentabilité économique ou ses usages sociaux disparaissent, puis d’attendre le retour d’une implantation en végétalisant le site vacant. En France, ce modèle est connu chez les paysagistes depuis les années 1980 sous la forme du préverdissement des sites industriels abandonnés. Nombreux sont aujourd’hui les paysagistes français qui ont été sollicités par les pouvoirs publics pour intervenir sur les friches industrielles. Invité par l’Établissement public de la métropole Lorraine, le paysagiste Jacques Sgard a été appelé pour « mettre en place une trame verte structurante accompagnée d’une démarche d’urbanisme » 211 selon les techniques de végétalisation mises au point par l’Institut de développement forestier 212 et développées par l’ingénieur horticole Jean-Claude Hardy. Le but à Hagondange, Villerupt, Homécourt-Jœuf, Micheville et Pompey, où le naufrage de la sidérurgie lorraine était visible, était de « réaliser des plans d’urbanisme avec une trame végétalisée structurante, mais dont la contrainte ne soit pas trop forte pour préserver une certaine souplesse d’usage ultérieur » 213. À Villerupt, la mémoire de la mine reste aujourd’hui visible sous la forme de murs de soutènement qui donnent au site une allure de « forteresse à la Vauban » et les fronts de taille sont colonisés par les bouleaux et les saules ; le cirque de l’ancienne mine de fer à ciel ouvert était il y dix ans le cadre d’un festival du film italien. Les mêmes idées ont été reprises ensuite par les jeunes paysagistes français élèves de Jacques Sgard. Parmi eux, Michel Desvignes et Christine Dalnoky ont réalisé la plantation forestière de friches industrielles du site du dôme du Millenium à Londres, en tant que « nature intermédiaire » destinée ensuite à accueillir des quartiers résidentiels. C’est la même idée que Michel Desvignes et François Grether ont utilisé pour intervenir sur la zone d’abandon industriel à la confluence entre la Saône et le Rhône à Lyon. À Londres, ils donnaient de cette notion la définition suivante : « Un environnement vivant à une échelle géographique, qui procure des qualités à un territoire pour composer avec elles plus tard ». Leur projet prévoyait d’envahir le site aux sols pollués avec des végétations arborées plantées. A. VIGNY, Jacques Sgard, paysagiste et urbaniste, Liège, Mardaga, 1995. C. GUINAUDEAU, Planter aujourd’hui, bâtir demain, le préverdissement, Paris, IDF, 1987. 213 A. VIGNY, op. cit., p. 91. 211 212 263 12 000 arbres ont ainsi été mis en place pour créer un paysage forestier qui devait évoquer la forêt alluviale qui aurait pu spontanément se mettre en place sur les rives de la Tamise. Selon leurs propres termes, ils ont cherché à définir une « esthétique de la transformation » 214. Dans tous ces cas la notion d’« urbanisme paysagiste » qui n’est pas encore inventée formellement (l’expression n’existe pas en France) n’est pas utilisée. Pour désigner ces pratiques apparues avec la création du Centre national d’études et de recherches du paysage (CNERP) de Trappes près de Versailles (1972-1978), c’est l’expression de « paysagiste d’aménagement » qui se substitue parfois à celle d’architecte paysagiste. Elle distingue ceux qui, comme le pionnier Jacques Sgard, ont réalisé des plans de paysage à l’échelle de très vastes territoires ruraux ou urbains autant que des actions opérationnelles locales. D’autres exemples sont souvent cités en Europe : celui de la création d’un parc sur un vieux site sidérurgique à Caen par l’architecte Dominique Perrault 215, les boulevards périphériques de Barcelone par l’équipe de Bernardo de Sola 216. Beaucoup d’autres réalisations pourraient être ajoutées dans la mesure où elles témoignent de projets – d’architectures, de villes, de quartiers, de jardins, d’infrastructures – qui s’incorporent au site existant, à son écologie et à son histoire et apportent du bien-être aux habitants. D’une manière plus générale, le savoir-faire paysagiste, est apparu nécessaire à la fabrication de la ville, comme l’analyse l’urbaniste française Ariella Masboungi dans son ouvrage Penser la ville par le paysage 217. Enfin, il existe en France une dernière pratique qui pourrait relever de l’urbanisme paysagiste, dans sa phase gestionnaire de l’espace public produit par les concepteurs. Il s’agit de ce que les techniciens des espaces verts des villes appellent la gestion différenciée (ou gestion écologique ou harmonique). Inspirée de l’exemple de quelques villes des Pays-Bas, d’Allemagne et de Suisse, cette pratique, expérimentée en France dans les années 1980 à Rennes et Orléans, et par quelques architectes paysagistes (Gilbert Samel, Gilles Clément) vise à réduire l’usage des pesticides et des engrais autant qu’à diversifier les formes des espaces verts publics (des plus horticoles aux plus naturels) 218. Elle a été reprise dans le cadre du développement durable urbain et de l’application de la norme Iso 14 001. En résumé, le Landscape urbanism désigne les « bonnes pratiques » de l’aménagement de l’espace qui répondent autant aux commandes des pouvoirs des collectivités publiques, qu’à la demande de qualité du cadre de vie des habitants d’une ville ou d’un quartier. Les praticiens, à la demande des pouvoirs publics, contribuent ainsi autant à produire des nouveaux paysages urbains que l’infrastructure 214 M. HUGLIEZ, « Michel Desvignes et Christine Dalnoky », in Créateurs de jardins et de paysages (M. Racine édit.), Versailles, ENSP/Actes Sud, 2002, p. 338. Voir aussi C. DALNOKY – M. DESVIGNES, “Pixel d’arbres pour Greenwich”, in Pages Paysages n° 7, 1998-99. 215 K. SHANNON, op. cit. ; S. HERRINGTON, op. cit. 216 K. SHANNON, op. cit. 217 A. MASBOUNGI (édit.), Penser la ville par le paysage, Paris, ed. de la Villette, 2002. 218 G. AGGERI, La nature sauvage et champêtre dans les villes : origine et construction de la gestion différenciée des espaces verts et publics. Le cas de la ville de Montpellier, Thèse de doctorat en sciences de l’environnement de l’ENGREF/ENSP, 2004, 323 p. 264 verte publique de l’espace urbain et périurbain de la collectivité qui les déterminent en partie. Cette infrastructure verte et aquatique est engendrée par des processus écologiques spontanées (successions écologiques) ou techniques (plantations, végétalisation aidée). Elle préserve des signes de mémoire de l’activité économique disparue, met en scène le site et la ville pour ses usagers, et pour une grande partie reste accessible aux publics citadins, voire aux touristes. Potentiellement, car réversible, l’infrastructure verte et ses paysages sont destinés à accueillir de nouvelles activités économiques et sociales. La notion de paysage est devenu alors un outil de fabrication de la ville autant qu’une finalité de l’aménagement dans la mesure où elle place les hommes, et notamment les citadins, au centre de la fabrication urbaine. Cette position est celle de la culture professionnelle des architectes paysagistes depuis que ce métier existe et que le jardin en a été le laboratoire et la matrice de pensée. Elle est nouvelle pour les urbanistes fonctionnalistes qui rejoignent ainsi les positions des urbanistes et des historiens de l’urbanisme dits culturalistes par Françoise Choay 219. Cette posture est-elle applicable aux territoires périurbains ? 2 – L’urbanisme paysagiste est-il aussi une forme de gestion des paysages péri urbains post agricoles ? Les espaces ouverts des régions urbaines comportent selon les villes une part très variable d’espaces agricoles et non agricoles qui dépend de la nature des paysages périurbains. La ceinture verte de la région parisienne comporte autant de boisements que d’espaces agricoles. Les périphéries de Toulouse et Milan sont essentiellement agricoles, et celle de Londres est à dominante boisée. En Europe, le changement de politique européenne agricole en 2006 va peut-être modifier le comportement des agriculteurs. En France, la diminution incessante du nombre d’agriculteurs (bientôt moins de 450 000) se traduit souvent par l’agrandissement des exploitations agricoles, mais l’abandon des parcelles et des fermes est un phénomène constant dans tous les espaces où l’agriculture ne rassemble pas les conditions de sa compétitivité (dans les montagnes, les zones humides et les régions périurbaines notamment). L’abandon des activités agricoles peut-il être compris de la même façon que les friches industrielles et interprété selon les mêmes principes du landscape urbanism analysés auparavant ? Les théories du landscape urbanisme n’abordent la question des relations entre l’agriculture et la ville que sous un angle métaphorique. En citant de manière récurrente la contribution de Rem Koolhas au projet de Melun-Senart en 1987 (un archipel d’îles urbaines dans un océan agricole), les commentateurs soulignent le rôle souhaitable de l’activité agricole dans la « faible urbanisation », ce que Bernard Secchi appelle la « citta diffusa » 220, Paola Vigano la « ville dispersée » 221, Yves Chalas « la villeF. CHOAY, « Doctrines et théories d’urbanisme non progressistes », Histoire de la France urbaine, Vol. 4, La ville de l’âge industriel, Paris, Le Seuil, 1983, pp. 252-255. 220 B. SECCHI, Prima lezione di urbanistica, Rome, Bari, Laterza, 2000. 219 265 campagne ou la ville-nature » 222 et Pierre Donadieu « la campagne urbaine » 223. Dans ces visions de la ville avec ce qui traditionnellement n’en fait pas partie (la ruralité), il est fréquent que les producteurs de boisements comme d’agricultures n’existent pas aux yeux des experts de la ville. Ces projets supposent en effet des acteurs agricoles permanents, ce qui n’est pas toujours le cas. Un urbanisme paysagiste agricole existe déjà Il apparaît sous deux formes : les fermes pédagogiques et les agricultures de plaisance (hobby farming, community gardens). A Duisbourg, à côté du parc Nord créé par Peter Latz, une ferme pédagogique a été créée par la ville sur le site industriel ancien. Elle réunit des prairies plantées de pommiers, des pâturages pour les moutons et les vaches et des jardins familiaux pour les citadins voisins. Cette ferme authentique, dotée de hangars, d’étables et de matériels agricoles a une mission d’abord urbaine : montrer les activités agricoles aux citadins et à leurs enfants, mais aussi leur vendre des produits agricoles de qualité et de proximité. Ces fermes existent dans la plupart des villes européennes à Lausanne, comme à Paris (au bois de Vincennes ou dans le Parc du Sausset au nord de la capitale), à Marseille, Londres, Amsterdam ou Francfort/Main. Elles exploitent parfois des reliques d’espaces agricoles, ou sont le plus souvent des créations volontaires des pouvoirs publics. Une seconde forme, celle des fermes de plaisance, est beaucoup plus répandue dans le monde entier. Elle suppose que l’activité agricole n’est pas l’activité principale du propriétaire qui la finance, éventuellement, avec son revenu principal. Dans ce cas, les friches agricoles n’apparaissent pas, car le déficit possible de revenus agricoles est pris en charge par le propriétaire. Ces phénomènes sont fréquents dans les régions méditerranéennes du nord et du sud notamment avec les activités de vergers (les oliviers et les agrumes notamment dans les régions périurbaines 224) qui sont la propriété de citadins proches ou lointains. Cet « agriurbanisme » se fait parfois grâce à des urbanistes qui protègent des sites ruraux périurbains remarquables comme en Italie à Fiesole. Il peut aussi se passer des hommes de l’art comme en Tunisie où la villégiature urbaine garantit, un certain temps, la survivance des espaces agricoles de villégiature et de rapport (swani). Dans d’autres cas, en revanche, comme dans certains parcs publics périurbains de Montpellier, les services techniques urbains font appel à un agriculteur pour cultiver un champ de fleurs bleues et rouges, afin d’évoquer la mémoire impressionniste du parc Méric où vécut le P. VIGANO, Territories of a new modernity, Napoli, Electra, 2000. Y. CHALAS – G. DUBOIS-TAINE, La ville émergente, La Tour d’Aigues, L’Aube. 223 P. DONADIEU, Campagne urbane, una nuova proposta du paessagio della città (a cura di M.V. Mininni), Roma, Donzelli, 2005, 205 p. 224 C’est le cas des olivettes des collines protégées de l’urbanisation à Fiesole près de Florence ou des vergers des swanis tunisois ou soussis consacrés à la villégiature. 221 222 266 peintre Frédéric Bazille 225. Symbolique, la forme agricole éphémère s’inscrit alors dans une vision esthétique et artistique du paysage urbain. Art, mémoire et nature sont ici associés. C’est aussi le cas plus nostalgique de la recréation de nombreux petits vignobles de « mémoire » dans une centaine de communes d’Ile-de-France. À ces catégories d’agriculture urbaine s’ajoutent les jardinages familiaux et communautaires, plus fréquents au nord de l’Europe qu’au sud. Dans certains cas, leurs productions, souvent à rôle d’insertion sociale, peuvent prendre une forme commerciale par exemple avec le réseau AMAP (Association pour le maintien de l’agriculture paysanne) qui désigne en France des formes d’horticulture artisanale contractuelles entre producteurs et citadins consommateurs (abonnement à des paniers journaliers de fruits et légumes). Dans ces deux formes, l’agriculture réelle ou symbolique est conservée ou recréée autour de la ville par la volonté des citadins et de leurs représentants. Cependant, si les activités agricoles disparaissent à l’avenir autour des villes plus vite que l’urbanisation ne les consomme, peut-on imaginer que les démarches d’urbanisme paysagiste puissent être utilisées ? Que faire des friches agricoles près des villes ? Prévenir ou suivre la déprise agricole ? Prévenir la disparition de l’agriculture autour des villes est la solution la plus logique, mais sans doute pas la plus réaliste. En effet, les agricultures que rencontrent les tissus urbains en expansion appartiennent à trois catégories décrites par les dernières synthèses des chercheurs 226. Il y a : Celles qui sont traditionnellement associées à la ville pour alimenter en produits frais les consommateurs citadins. Soit elles sont expulsées par les villes qui se renouvellent et se densifient, soit elles persistent dans le tissu urbain en répondant aux nouvelles demandes (agricultures biologiques ou de proximité). Parfois ces activités se relocalisent dans les périphéries nouvelles. Elles relèvent de différentes formes d’agricultures dites urbaines dans la mesure où ville et agriculture entretiennent des relations à bénéfices réciproques, notamment dans un cadre de projet politique urbain. Celles qui se sont développées, en tant qu’agricultures rurales à distance des villes, et sont déstabilisées par l’arrivée des fronts ou des essaimages urbains liés aux villes dominantes. Leur pérennité est le plus souvent remise en cause par la vente des terrains agricoles pour la construction avec ou sans relocalisation loin de la ville ou bien par la concurrence de la ville pour l’usage de la 225 G. AGGERI – P. DONADIEU, « La nature sauvage dans les parcs urbains : du wild garden à la gestion différenciée », Les Carnets du paysage n° 9, 2003. 226 A. FLEURY (édit.), Multifonctionnalité de l’agriculture périurbaine, Cahiers de la multifonctionnalité n° 8, 2005. J. NASR – M. PADILLA (eds.), Interfaces : agricultures et villes à l’est et au sud de la Méditerranée, Delta/IFPO, Beyrouth, 2004. O.B. SMITH – P. MOUSTIER – L.J.A. MOUGEOT, Développement durable de l’agriculture urbaine en Afrique francophone, (A. Fall eds.), Edition CIRAD / CRDI (Ottawa), 2004. 267 ressource en eau. Il s’agit dans ce cas d’agricultures dites périurbaines au sens géographique. L’existence de filières organisées et de stratégies de qualité des produits est néanmoins un facteur de stabilité des exploitations agricoles. Celles qui, enfin, ont développé, grâce à la multifonctionnalité de l’agriculture, des stratégies d’adaptation à la proximité urbaine, soit pour assurer la survie de familles (agricultures de crise), soit pour procurer de nouveaux revenus aux exploitants (diversification) et de nouveaux services à la ville (jardins familiaux, insertion sociale, fermes pédagogiques, loisirs urbains). Dans le premier cas, l’état d’abandon, dans des situations en général très urbaines est transitoire, car il signifie le plus souvent une perspective proche d’urbanisation. Le maraîcher ou l’arboriculteur a abandonné son exploitation et le propriétaire (qui peut être le même) l’a vendu ou est en instance de le vendre. Parfois s’intercalent des formes d’attente de vente comme la location précaire (sans bail) à des céréaliculteurs demandeurs de terres. Mais cette demande risque de n’être plus aussi forte après la réforme de la PAC qui n’indexe plus les aides sur les surfaces cultivées en céréales et en oléoprotéagineux. Dans le second cas, plus périphérique à la ville centre et dense, les surfaces libérées par les arrêts d’exploitation de fermes sont souvent résorbées, soit par une redistribution des terres entre fermiers voisins, soit par des reprises régulées en France par des organismes publics fonciers comme les SAFER 227, le Conservatoire national de l’espace littoral ou les conservatoires d’espaces naturels régionaux qui les rachètent pour les revendre à des agriculteurs ou les ouvrir au public. En Europe de l’Ouest, le scénario du désastre agricole comparable à celui de l’industrie lourde européenne est donc peu probable. En revanche, une vision durable (sustainable) de la région urbaine impliquant un agriurbanisme procurant des bénéfices tant aux citadins qu’aux agriculteurs reste un enjeu des politiques urbaines. Il passe, c’est le troisième cas, par la reconnaissance de la multifonctionnalité de l’agriculture par les pouvoirs publics et agricoles aux dépens des conceptions spécialisées et intensives qui ont été promues par le passé. Ces agricultures de services et de produits, d’entreprises, résidentielles, de loisirs et de tourisme, rassemblées ou non au sein de parcs agricoles comme à Barcelone ou à Milan sont aujourd’hui des alternatives connues, qui ne nécessitent pas d’attendre des activités nouvelles comme dans le cas post industriel. Sans doute ne représentent-elles qu’une alternative, familiale et paysanne surtout, à l’agriculture entrepreneuriale, mais des cas connus de diversification des fermes importantes montrent que ce n’est pas aussi simple ! L’urbanisme agricole, un cas de figure de l’urbanisme paysagiste, est évidemment une notion paradoxale. Cette pratique débutante suppose que le projet urbain peut admettre l’agriculture comme une composante ordinaire de la ville, ce qui suppose des conditions : de proximité, de nature des 227 Société d’aménagement foncier et d’établissement rural. 268 exploitations et des pratiques, de sécurité des produits alimentaires et d’accessibilité aux citadins. Il est surtout diffusé dans les villes des pays du Sud. Il n’y aura donc pas à chercher à éteindre « l’incendie » hypothétique des enfrichements agricoles massifs des régions périurbaines, mais à orienter les politiques publiques urbaines précocement vers les alternatives à favoriser dans les projets urbains en termes de développement durable urbain. Un urbanisme paysagiste agricole soutenable On a vu que l’urbanisme paysagiste pouvait aussi s’inscrire dans une vision résolument soutenable de la ville. Pour y parvenir, il lui est nécessaire d’agir à la fois sur la création et la conservation des emplois, sur le renouvellement des ressources naturelles sensibles (l’eau, l’air, le sol, l’énergie, la biodiversité notamment) et sur la répartition équitable des richesses produites autant que des ressources et des emplois : tâche titanesque ! Ce qui est plus à portée de main est de savoir si les activités agricoles à maintenir avec la ville peuvent concourir au projet de ville soutenable. Si l’agriculture est restreinte aux modèles de l’entreprise agricole défendus par les syndicats agricoles majoritaires en France, il est difficile de défendre une vision ambitieuse hors des intérêts de ces catégories professionnelles. En revanche si, comme le permettent ses définitions scientifique et juridique, l’agriculture regroupe toutes les activités liées à la croissance et au développement des végétaux et des animaux sur un sol ou sur un substrat, le cadre agricole est beaucoup moins contraint. Il englobe l’agriculture marchande, mais aussi la pêche et la chasse, la sylviculture, la foresterie urbaine ainsi que toutes les activités de productions de biens et services de nature (jardinage, parcs publics, ingénierie paysagiste, réserves et parcs naturels, etc.). Dans ce cadre, le projet urbain et de paysages doit en pratique choisir pour demain la gamme des activités, des usages et des espaces qui est réservée à l’urbanisme paysagiste : ceux qui relèvent de la sécurité civile : les coupures agricoles des zones forestières méditerranéennes, les zones inondables, les zones de protection des captages d’eau, les couloirs aériens, les couloirs de transport d’énergie, les infrastructures routières, etc. ; ceux qui relèvent de la sécurité alimentaire de proximité : les espaces agricoles et horticoles ; ceux qui relèvent de la conservation de la biodiversité (les réserves naturelles, les parcs, les zoos, les trames de corridors biologiques) ; ceux qui relèvent des usages de loisirs et de tourisme (les parcs d’attractions, les parcs naturels, les forêts urbaines et périurbaines, les squares et parcs publics, les parkways, etc.), sans compter tous les espaces liés à des équipements qui relèvent du service public (les cimetières, les terrains de sports, les écoles, crèches, lycées et universités, les hôpitaux, etc.). 269 Vue sous cet angle, l’agriculture paysagiste et urbaine fournit sans doute plus de services que de produits à la ville et détient un potentiel impressionnant de fonctions : alimentaire, énergétique, environnementale, patrimoniale, touristique, sociale, économique, symbolique, esthétique, etc. Considérée dans une perspective de durabilité, la mobilisation de ce potentiel relève d’abord des pouvoirs politiques et agricoles, et ensuite de l’expérimentation faite qui n’en est qu’à ses débuts. S’il existe une situation post-agricole, c’est celle qui apparaîtra après l’époque agri-industrielle, et qui pour une partie relèvera des formes d’agricultures paysagiste et urbaine. Conclusion La notion de landscape urbanism désigne des activités de planification et d’aménagement de l’espace ouvert sous influence urbaine. Elle met en relation des théories et pratiques qui étaient, soit juxtaposées, soit isolées les unes des autres : celles des architectes (concevoir et réaliser un édifice) ; des urbanistes (concevoir, planifier et mettre en œuvre l’organisation urbaine) ; des paysagistes (concevoir et planifier la ville en intervenant principalement dans les espaces ouverts) ; des spécialistes des systèmes vivants (écologues, agronomes, forestiers), sociaux (sociologues) et culturels (historiens, ethnologues, artistes). Elle met l’accent sur les « bonnes pratiques » nouvelles de la production de la ville : intégrer le site, son histoire, son écologie et sa géographie dans le projet urbain de territoire, et le faire pour et avec les habitants dans une perspective soutenable. À l’origine, ces pratiques sont apparues en Amérique et en Europe du Nord à la fin des années 1960, sous les appellations de planification écologique et paysagère (avec Ian Mac Harg aux Etats Unis, Bernard Fischesser et Jacques Sgard en France notamment) 228. Elles ont pris en charge ensuite la question du devenir des paysages post-industriels, puis post-agricoles (en France avec les pratiques dites de « paysage d’aménagement » qui concernent autant la ville que l’espace périurbain, rural, montagnard et littoral). Enfin, elles se sont inscrites dans les « bonnes pratiques » suggérées par les valeurs du développement soutenable, notamment en admettant la réversibilité de l’usage des espaces ouverts et les incertitudes du développement économique. Ces deux évolutions ont été proches de chaque côté de l’Atlantique, mais avec une écoute des pouvoirs publics urbains et gouvernementaux et une gouvernance urbaine plus importante en Europe de l’Ouest 229. L’apparition dans les différentes langues de la notion d’urbanisme paysagiste (traduction possible en français de landscape urbanism 230) dans le vocabulaire de l’aménagement de l’espace présente donc plusieurs intérêts : En fait elles ont surtout adapté à des contextes urbains nouveaux la tradition de la planification urbaine du paysage qu’avaient expérimenté et diffusé F.L. OLMSTED à la fn du XIXe siècle et vulgarisé J.C.N. FORESTIER en France dans son ouvrage (Grandes villes et système de parcs) en 1908. 229 K. SHANNON, op. cit. 230 On peut aussi traduire par « urbanisme paysager » (plus large que urbanisme paysagiste qui implique seulement les paysagistes) ou par « urbanisme paysagique » ( qui suppose surtout des approches scientifiques géographiques). 228 270 - Elle nomme des pratiques professionnelles hybrides nouvelles, d’une part entre art, architecture, paysagisme, urbanisme, d’autre part entre experts de disciplines comme l’écologie du paysage, l’agronomie, la foresterie, l’histoire, la géographie, l’économie, la sociologie, etc. Ces « hybridations » sont de plus en plus voulues et organisées par les maîtres d’ouvrage de l’aménagement du territoire (les collectivités notamment : de la région à la commune). - Elle désigne une préoccupation explicite d’introduire des projets (des visions) de paysage comme moteurs du développement local urbain. Dans les régions urbaines d’Europe de l’ouest, les notions de ville-paysage, ville agricole, ville-parc ou ville-nature, montrent que les conceptions de la ville ont changé et sont désormais élaborées à l’échelle de vastes territoires intercommunaux urbains et périurbains en tenant compte des propriétés des sites et des lieux. Leur utilisation indique que les regards des citadins sont devenus des références pour l’aménageur et l’élu, comme alternatives à des conceptions des villes fondées par les techniciens et les pouvoirs politiques seulement sur les exigences de logement, de flux de transport, d’équipements collectifs, d’emplois et de sécurité publique. L’urbanisme paysagiste signifie que les images et les fonctions de la ville doivent être associées selon des modalités variables avec les points de vue (lieux, images et opinions) des citadins 231. - La notion d’urbanisme paysagiste désigne donc une association de compétences professionnelles (l’architecte, l’urbaniste et l’architecte paysagiste surtout), plus qu’un modèle de pratiques prêt à faire penser et agir. En témoignent en France l’attribution des grands prix nationaux d’urbanisme à des architectes paysagistes (Michel Corajoud, Alexandre Chemetoff) et l’implication ordinaire aujourd’hui en France des paysagistes dans la fabrication des nouveaux documents d’urbanisme (Schéma de cohérence territoriale et plan local d’urbanisme). - L’urbanisme paysagiste s’inscrit en général dans la mouvance des idées du développement et de la ville soutenables, mais pas toujours de manière explicite : les enjeux planétaires de l’aménagement sont souvent masqués par des enjeux locaux, régionaux ou nationaux. Pour les professionnels de l’architecture et de l’urbanisme, il s’agit bien d’idées et de pratiques nouvelles qui sont diffusées depuis dix ans. En revanche, pour les architectes paysagistes français, ces nouvelles pratiques avaient été enseignées dès le début des années 1980. L’urbanisme paysagiste correspond moins à un modèle nouveau de pratiques professionnelles, qu’à la désignation récente de savoir-faire nés il y a une trentaine d’années en Amérique du Nord comme en Europe. 231 P. DONADIEU – M. PERIGORD, Clés pour le paysage, Gap, Ophrys. 271 PAOLA BRANDUINI LA GESTIONE DELLE TRASFORMAZIONI NEL PAESAGGIO AGRICOLO PERIURBANO. PERMANENZE STORICHE E PAESAGGI FUTURI Il paesaggio agricolo periurbano sta subendo profonde e veloci trasformazioni e con esso il significato che gli viene attribuito e le politiche che i diversi Paesi mettono in atto per governarlo. Si riscontra un’esigenza a livello europeo ad accogliere le istanze del territorio agricolo e a integrarle maggiormente nei processi di pianificazione urbana: ne è testimonianza, tra le altre iniziative, la formazione della rete di regioni europee Purple (PeriUrban Regions PLatform Europe) che si fa carico di trasmettere all’Unione Europea le sollecitazioni delle aree agricole periurbane e di generare strumenti per la conservazione degli spazi agricoli. Tali spazi non sono connotati solo dal situarsi al margine della città, costretti a diminuire progressivamente per l’inevitabile espansione delle aree destinate alle costruzioni urbane: l’attività agricola che si svolge su di essi ha generato e può continuare a generare rapporti di mutua dipendenza con la città stessa, che si sono evoluti nel corso del tempo e che cambiano in base alle società, ma che per molti paesi europei sono assimilabili. Il problema della gestione degli spazi agricoli intorno e all’interno delle agglomerazioni urbane è sempre più oggetto di discussione nelle politiche di governo del territorio. Spazi rurbanizzati o caratterizzati da un’edilizia diffusa si mescolano con spazi aperti incastonati in insediamenti di grandi e medie dimensioni. Qual è la qualità e il ruolo di questi spazi aperti? Sono spazi ancora agricoli, dove gli agricoltori continuano a coltivare le colture tradizionali o provano nuove colture che possono attirare il mercato cittadino, o dove i cittadini coltivano il loro orto; sono spazi lasciati dall’agricoltura per problemi di affittanza o proprietà, in attesa di diventare altro e ora occupati abusivamente da popolazioni nomadi sempre più stanziali o da extracomunitari in attesa di un permesso di soggiorno; sono spazi in attesa di una nuova destinazione d’uso, lasciati dall’industria e pronti a divenir luogo di residenze. Situazioni di agricoltura periurbana odierna possono essere simili in diverse metropoli europee: eccesso di urbanizzazione, contrazione dell’agricoltura, intralcio nella circolazione dei mezzi agricoli, difficoltà nel rinnovo contrattuale. Ma il peso che ciascuno di questi fattori ha nella gestione del territorio dipende dalle peculiarità dello sviluppo dell’agricoltura in quella zona. Prendendo ad esempio metropoli di notevole sviluppo urbano, quali Parigi e Milano, esse presentano problemi simili per il consumo di suolo, ma il problema fondiario e del rinnovo dei contratti risulta decisamente più pressante a Milano; la circolazione dei mezzi agricoli tra aree frammentate presenta difficoltà in entrambe le realtà, ma a Milano la proprietà risulta più compatta e accorpata al centro aziendale, mentre 272 in Ile-de-France l’acquisto di piccoli terreni da parte degli agricoltori la rende più frammentata e con difficoltà di accesso maggiori 232. Fig. 2 – La distribuzione attuale delle parcelle coltivate in relazione ai proprietari in due comuni periurbani dell’Ile-de-France (a sinistra) e dell’intorno milanese (a destra): in area milanese rimangono più accorpate e distribuite intorno al centro aziendale (la cascina) (elaborazioni di Teresa Fresu). La continuità dell’agricoltura delle aree prossime alla città costituisce una risorsa per la gestione degli spazi aperti vegetali di cui i cittadini esprimono necessità nei loro movimenti del tempo libero: essi trovano occasione di ricreazione (ad esempio lungo i sentieri e ripe fluviali), offerta di servizi da parte dalle aziende agricole (agriturismi, maneggi, fattorie didattiche) e di produzioni locali (raccolta diretta o vendita dei prodotti). Il costo di manutenzione di tali spazi “verdi” è molto basso o pressoché nullo per la collettività se continuano a essere oggetto di cure da parte degli agricoltori poiché inseriti in un sistema produttivo; se gli stessi divenissero parchi urbani avrebbero costi di gestione assimilabili a quelli del verde pubblico comunale che, estesi su ampie superfici quali quelle agricole, sarebbero insostenibili per la collettività. Le permanenze del paesaggio agricolo periurbano La grande mescolanza e accostamento di funzioni e di spazi generano in questi territori un paesaggio multiforme, ma talvolta caotico, confuso, dove spesso è difficile riconoscere i tratti storici, la costruzione degli insediamenti, così come la struttura del paesaggio agrario storico. Eppure anche nel caso vi siano campi coltivati con le tecnologie più moderne, permangono in genere estese tracce delle strutturazioni antiche del territorio: ad esempio nella pianura del basso 232 T. FRESU, L’agricoltura periurbana. Proposte di metodo d’indagine e analisi comparata tra due casi di studio nelle aree periurbane di Parigi e Milano, Tesi di laurea in Scienze e Tecnologie Agrarie, Facoltà di Agraria, Università degli Studi di Milano, A.A. 03-04. 273 milanese i campi di riso livellati perfettamente grazie all’ausilio della strumentazione laser collegata al trattore, sono perimetrati dai tracciati delle strade che risalgono ai Romani e dalle canalizzazioni delle acque che derivano dall’opera di bonifica medievale dei Cistercensi e degli Umiliati. Molte di queste linee e di questi spazi sono rimasti lì da secoli e non sono stati mutati nel corso del tempo: sono le invarianti di un territorio che si consolidano nella memoria più o meno inconsapevole della popolazione. Per consolidare l’agricoltura di questi paesaggi è possibile avanzare per diversi contesti urbani europei proposte simili di valorizzazione, che riguardino ad esempio la diversificazione dell’attività agricola, con uno scambio di soluzioni da un territorio all’altro: ma un’operazione di valorizzazione che guarda solo alla situazione presente senza comprendere quali sono state le ragioni più lontane dello sviluppo di quest’agricoltura e della forma di paesaggio cui ha dato origine non basta. E’ importante andare a guardare le ragioni storiche, sociali ed economiche della trasformazione dei paesaggi e i segni delle modifiche un tempo avvenute ed ancora oggi presenti: leggere il palinsesto del paesaggio, non per singoli oggetti ma per “sistemi di paesaggio” 233. Una lettura per sistemi E’ consolidato il metodo di riconoscimento del valore storico del singolo manufatto, la cascina, la chiesa, il mulino, sostenuto da una tradizione di inventari dei beni culturali e da una tutela che ha gettato le basi nella salvaguardia del singolo bene. Più difficile è riconoscere il sistema agricolo che sta intorno al singolo bene, che gli ha dato senso nel corso del tempo e che spiega le ragioni della sua collocazione, della sua forma, dei suoi materiali; oppure l’insieme di manufatti agricoli (cascine, ponti, ponticanali, rogge, chiuse ecc.) vitali per il funzionamento dell’agricoltura, della produzione, della cascina come centro fisico gestionale della campagna produttiva; ma soprattutto la volontà singola e/o collettiva che ha mosso le fila di un progetto di vita che si è tradotto in progetto di paesaggio. Una lettura per avvenimenti essenziali di ogni epoca storica e loro concatenazioni va integrata con la comprensione delle intenzioni dei soggetti che hanno partecipato agli avvenimenti e che hanno prodotto determinati paesaggi 234. Una lettura per sistemi non si limita alle permanenze materiche, ma cerca di comprendere anche le logiche progettuali che hanno guidato alla formazione dei luoghi e che permangono ancora oggi leggibili, in tutto o in parte, nello stato attuale. Consente di comprendere meglio le motivazioni della 233 Per sistema di paesaggio si intende un’organizzazione dei luoghi fondata su relazioni fisiche, funzionali, simboliche, naturali, espressione di una coerenza progettuale unificante, singola o collettiva, realizzata, integrata, modificata nel corso del tempo. Si veda a tal proposito il saggio di L. SCAZZOSI, Leggere e valutare i paesaggi, in L. SCAZZOSI (a cura di) Leggere il paesaggio. Confronti internazionali, Gangemi, Roma, 2002. 234 S. LANGÈ, La dimensione della ricerca storica nel processo di conoscenza del paesaggio, in A. GHERSI (a cura di) Politiche europee per il paesaggio: proposte operative, 2007, Gangemi, Roma, p. 39. 274 trasformazione del paesaggio in determinate e significative epoche storiche: nel caso dei manufatti consente di comprendere le aggiunte, le nuove costruzioni in relazione alle coltivazioni e se le relazioni che hanno dato vita a un singolo manufatto sono ancora esistenti e leggibili. Due metropoli a confronto Nonostante ci siano problemi comuni tra gli attuali territori periurbani delle diverse metropoli, le soluzioni per la conservazione e la valorizzazione non possono essere le stesse: ogni paesaggio agricolo ha le sue peculiarità e la sua storia. Osservando ad esempio le situazioni dell’agricoltura intorno a Milano e a Roma all’Unità d’Italia si assiste a scenari totalmente diversi. I paesaggi agricoli periurbani delle due grandi città provengono da situazioni storiche molto differenti che hanno portato a un aspetto del paesaggio molto diverso. Da un lato l’efficienza agronomica dall’altro la scarsa produzione. Il carattere di efficienza dell’agricoltura lombarda, milanese in particolare, non è recente, ma è emerso in tutte le epoche storiche nonostante le crisi agrarie e il susseguirsi delle diverse dominazioni (spagnola, austriaca, francese ecc.); l’agricoltura intorno a Roma si è confermata in vari momenti storici sempre come poco efficiente da un punto di vista agronomico. Per comprenderlo non basta guardare alle singole permanenze, ma occorre essere attenti alle relazioni storiche instaurate, ovvero al “sistema di paesaggio”, attraverso la ricostruzione delle vicende e delle dinamiche storiche di trasformazione che nel corso delle diverse epoche hanno condotto all’attuale assetto. Nel 1861 la campagna di Roma è in genere poco coltivata, suddivisa in grandi proprietà subaffittate, adibita al pascolo o a coltura estensiva gestita a quarteria (coltivata per un anno e lasciata a riposo per tre), senza sistemazioni agrarie e alberature, poche strade e in pessimo stato 235; la città svolge la funzione di magazzino di fieno e foraggio (come testimoniano i nomi di alcune strade); verso la fine dell’Ottocento vengono iniziate le bonifiche dell’Agro romano dai proprietari coordinati da stato e comuni; all’inizio del Novecento avvengono le grandi urbanizzazioni (ippodromo, aeroporto…) che si insediano in alcune grandi tenute dei nobili romani. A Milano dopo la metà dell’Ottocento è invece presente un’agricoltura fiorente, dedita nella pianura irrigua a sud all’allevamento del bestiame, alla produzione casearia e alla coltivazione del riso, contrassegnata da grandi unità aziendali (fino a migliaia di ettari) e gestita da affittuari che ricevono in consegna la terra dai proprietari sulla base di contratti decennali e la fanno coltivare a salariati, legata nella pianura asciutta a nord all’allevamento del baco da seta, prodotto all’interno di ristrette unità poderali. L’incremento della produzione e l’efficienza nelle coltivazioni non sono frutto di una recente 235 L. BORTOLOTTI, Le persistenze della Campagna Romana:alcuni aspetti della sua evoluzione storica, in A. CAZZOLA (a cura di), Strumenti e metodi per la conoscenza del paesaggio della Campagna Romana, Quaderni della Ri-Vista Ricerche per la Progettazione del Paesaggio, numero 1 volume 2, maggio-agosto 2004, Firenze University Press, Firenze. 275 conquista di benessere ma “il risultato di una razionale applicazione dei progressi agronomici, avvenuti per effetto di un secolare processo di sistemazione idraulica e di bonifica.” 236 Che cosa rimane nel paesaggio agrario oggi? Nell’intorno romano rimangono “immutati” fino a oggi i pascoli e dove non c’è stata urbanizzazione permangono i tratti del paesaggio pastorale in cui non è avvenuta alcuna intensificazione colturale. In una ricerca sull’evoluzione del paesaggio di Cerveteri, a nord di Roma, è stato evidenziato come si possono ancora riscontrare permanenze materiche superficiali (le necropoli), morfologiche (gli spalti rocciosi, alcune vie etrusche di attraversamento dell’attuale città, la divisione degli appezzamenti), di relazioni (commerciali tra il litorale e i monti), simboliche (le fortificazioni, la cittadella, le necropoli) e funzionali (abitative dei borghi) risalenti agli Etruschi 237. A Milano, nelle zone più urbanizzate del nord, così come nella più agricola area sud, si può ancora riscontrare una sostanziale continuità nelle forme. L’orditura dei campi del Settecento ricompare oggi adattata a un sistema viario urbano, in quanto l’espansione urbana si è basata sul sistema delle trame agricole e fondiarie già esistenti. Questo a chiaro beneficio della permanenza dei maggiori tracciati storici. Oggi sono dunque riconoscibili sia la continuità negli usi storici del territorio (canalizzazioni ancora utilizzate, coltivazioni arboree…), sia le dismissioni di cui sono presenti ancora alcune tracce (per esempio alberi in ex vite maritata, ora solo in mezzo ai piccoli orti). Un cambiamento di sguardo Motore di coesione fisica, funzionale e simbolica era l’agricoltura intorno alla cui produzione ruotava tutta la vita. Molti dei metodi per analizzare il paesaggio agrario sono legati alla pianificazione tradizionale legata alle esigenze dello sviluppo urbano 238, ma è importante cambiare l’ottica di analisi, dall’urbanizzato al tessuto agricolo. Rispetto alla quotidiana perdita di tracce e al cambio di uso dei campi agricoli, il paesaggio periurbano è più minacciato dalle trasformazioni che provengono dalle esigenze urbane, tanto da cambiare significativamente l’aspetto dei luoghi. Cambiano le ragioni del comporre e del costruire e nuovi sistemi si sovrappongono, cambiano gli elementi passati e si sovrappongono nuovi ordini compositivi e funzionali. 236 D. LIMONTA, L’agricoltura lombarda dal Settecento ad oggi:appunti storici, sociali, economici e scientifici, in Lombardia – verde, giugno-luglio 2005, www.agricoltura.regione.lombardia.it. 237 C. ROBBIATI, Siti Unesco e paesaggio verso un modello di Piano di gestione. Il caso di Cerveteri, Dottorato di Ricerca in Architettura. Urbanistica e Conservazione dei luoghi dell’abitare e del paesaggio, XVIII ciclo, Politecnico di Milano, 2006-07. 238 A. CAZZOLA, Quale chiave di lettura per il paesaggio agrario? Permanenze, persistenze e trasformazioni nei paesaggi agrari della campagna romana, Quaderni della Ri-Vista Ricerche per la Progettazione del Paesaggio, numero 1 volume 3, settembre-dicembre 2004, Firenze University Press, Firenze. 276 In tale contesto “il palinsesto può apparire impoverito o minacciato ma è raramente completamente distrutto o sostituito da un completo nuovo paesaggio” 239. I processi di trasformazione del paesaggio sono inevitabili, ma si tratta di riconoscere i sistemi agricoli storici, valutare quanto di essi rimane e fare in modo che le nuove trasformazioni non alterino irrimediabilmente i manufatti puntuali, lineari e i loro rapporti simbolici, funzionali e percettivi. Oggi sono cambiati i rapporti sociali ed economici di un sistema agricolo storico, però possono esistere ancora i manufatti facenti parte di esso: filari e doppi filari di alberi all’ingresso delle proprietà, siepi che si rinnovano costantemente negli anni ma la cui collocazione permane, così come la massa, il tracciato, l’ingombro visivo, il cambiamento climatico (in estate dal caldo nel campo al fresco della siepe lungo il canale). Molto spesso ci sono ancora i segni del rapporto instaurato dalla campagna con la città ma sono meno percepibili perché compromessi da una serie di sovrapposizioni, come ad esempio i commerci, le stazioni per il trasporto merci dalla campagna alla città che diventano mezzi per i cittadini di raggiungere la campagna la domenica 240: un rapporto non così conflittuale come spesso accade ora per le veloci trasformazioni. Sistemi di paesaggio storico IX-XIV secolo XVIII - inizio XIX secolo Vie d’acqua naturali Struttura viaria romana con aggiunta di collegamenti tra feudi Divisione fondiaria e amministrativa in Contadi (potere laico) e Pievi (potere religioso) Coltivazioni di cereali e vite in coltura promiscua alternati a pascoli e boschi Formazione piccoli nuclei rurali Vie d’acqua naturali Canali artificiali per navigazione e irrigazione Prevalenza divisione fondiaria in grandi proprietà private Divisione amministrativa in Province e Distretti Ville agricole e di villeggiatura lungo canali di navigazione Realizzazione giardini e orti a fianco delle ville Presenza oratori isolati Costruzioni filande Coltivazioni di cereali (frumento, granturco) con vite maritata al gelso ai margini dei campi; prati adaquatori; pochi pascoli e boschi; coltivazione vite per uva da tavola Disegni di Laura Frigerio 239 L. SCAZZOSI, Agricultural land in periurban areas – a plaidoyer for a palimpsest, in Fieldwork: Landscape Architecture Europe, Birkhäuser, Basel-Boston, 2006, pp. 36-43. 240 Ad esempio piccole stazioni di Palaiseau in Ile de France. 277 Continuità nel tessuto agrario e nuova urbanizzazione A nord-ovest di Milano, verso il Ticino, i terreni mantengono ancora oggi, per la maggior parte, l’uso storico del suolo risalente al 1730 (poche marcite, ampio tratto di brughiera e di aratorio) con colture già riscontrate nei catasti settecenteschi e ottocenteschi; esistono tratti di brughiera storica della Valle del Ticino, che ancora oggi mantiene le proprie caratteristiche botaniche e faunistiche, cosi come sono permanenze la viabilità, l’orditura dei campi, le alberature, le visuali e i punti panoramici dell’area. Le trasformazioni sono avvenute in epoca recente a causa della costruzione del collegamento tra l’aerostazione di Malpensa con l’autostrada per Torino, che taglia completamente l’area compromettendo l’ecosistema dei corridoi ecologici ivi presenti 241. Fig. 3 – Sintesi delle permanenze dell’orditura storica dei terreni nell’area a sud di Malpensa: la sovrapposizione della trama dei campi antecedente al 1830 sull’urbanizzato attuale mostra come, nell’espansione della città, il reticolo urbano delle strade si sia sovrapposto al reticolo dei campi mantenendo gli stessi tracciati (elaborazione grafica Laura Bonicelli). In una situazione vicina lungo l’Olona, a nord ovest di Milano, sebbene l’urbanizzato abbia occupato gran parte dell’area agricola, l’orditura dei campi ancora presenti è rimasta pressoché invariata dall’epoca del catasto teresiano; la permanenza di manufatti agricoli è costituita dai mulini da grano, la cui attività risale al 1200 circa. Il tracciato del fiume Olona è rimasto invariato tranne che in un tratto tra due mulini a causa della costruzione del depuratore, mentre i tracciati stradali sono quasi totalmente cambiati; l’unica parte invariata è quella prossima al Castello Visconteo; spesso le strade sterrate sono state asfaltate ma non sono state allargate, quindi hanno mantenuto la stessa dimensione. 241 L. BONICELLI, Tutela, riqualificazione e valorizzazione dei caratteri paesaggistici dell’area di Sant’Antonino Ticino, Tesi di Laurea, Rel. Prof. Lionella Scazzosi, corel. Arch. Cincia Robbiati, A.A. 2003-04, Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura Civile. 278 Permanenze di manufatti e dei relativi sistemi agricoli Nella zona sud di Milano alcune cascine, come la cascina Ronco a San Donato, mantengono ancora oggi in modo più o meno riconoscibile i segni di un’organizzazione agricola efficiente e di una progettualità unificante e costituiscono preziosi documenti di quel dinamico sistema agricolo che nel corso di tutte le epoche storiche ha governato le terre milanesi. Rispetto all’espansione settecentesca della cascina 242 qualcosa è cambiato: la perdita principale è quella della stalla che chiudeva e completava la corte dal lato del borgo; inoltre le baste (ricoveri) dei maiali sono state eliminate. Alcune attività non sono più svolte, come la pilatura e la trasformazione del latte in formaggio, poiché gli agricoltori hanno sostituito, a seguito dell’incendio della stalla, l’allevamento delle bovine da latte con bovine da carne; ma i locali che un tempo ospitavano le attività di trasformazione dei prodotti agricoli (casera, mulino, pila) sono ancora presenti e in discrete condizioni, e necessiterebbero solo di manutenzione ordinaria per ritornare funzionanti. I limiti della proprietà terriera sono pressoché rimasti gli stessi dalle prime testimonianze catastali dei possedimenti del marchese Gagnola 243, proprietario della cascina dal 1739 al 1790 a oggi: solo alcuni campi a sud, confinanti con la cascina, hanno lasciato il posto a una recente urbanizzazione residenziale, frapponendosi all'asse visivo che idealmente esce dalla corte. Il reticolo principale dei campi, segnato dai canali irrigui, è ancora leggibile, così come la fascia arborata lungo il cavo Danese. Gli usi dei campi si sono naturalmente evoluti in funzione del mercato agricolo ma anche dell’influenza della città: i “prati di marcita” e gli “adacquatori arborati vitati” del catasto teresiano hanno lasciato il posto alle risaie e ai pascoli e poi agli attuali campi di mais, soia e orzo e qualche coltura orticola 244. Casa da masssaro Aratorio Aratorio vitato con moroni Aratorio adacquatorio a vicenda Prato adacquatorio Prato di marcita Risaia Costa con arbori forti Orto Pascolo Fig. 4 – Cascina Ronco: evoluzione dal 1754 (catasto teresiano) al 1855 (catasto lombardo-veneto) allo stato attuale 2005 dell’uso del suolo, della maglia poderale (campi e strade), dei canali di irrigazione, della vegetazione ripariale. 242 243 12. Planimetria presente all'archivio E.C.A. di Milano, ora I.P.A.B. - Istituzioni di pubblica assistenza e beneficenza. I possedimenti del marchese Luigi Cagnola sono segnalati dal Catasto Teresiano, 1754, Archivio di Stato di Milano, bob. 244 P. BRANDUINI, Un sistema rurale da tutelare: la cascina Ronco a Poasco, Atti del convegno Giardini, Contesto, paesaggio. Sistemi di giardini e architetture vegetali nel paesaggio. Metodi di studio, valutazione e tutela, Olschki, Firenze, 2005. 279 La percezione sociale del paesaggio agricolo Il riconoscimento scientifico dei segni fisici su di un paesaggio non è sufficiente per capire se tali permanenze sono comprese e riconosciute dalla popolazione che vive il territorio. Un paesaggio è “vivo” per come viene percepito dalla gente e se sollecita verso azioni di salvaguardia e di valorizzazione. La percezione sociale dei soggetti nei confronti del paesaggio dipende sia da fattori personali legati all’esperienza – che consente di tenere mentalmente presenti situazioni, sensazioni e oggetti percepiti in passato, in particolare relativi all’appropriazione dello spazio – sia da fattori “collettivi” o comuni, legati alla cultura di appartenenza, alle immagini e informazioni trasmesse dai mezzi di comunicazione pubblici (quali campagne di informazione degli enti amministrativi – governo, regioni, comuni) o commerciali. La percezione sociale non è la percezione individuale né la somma delle percezioni dei singoli individui, né un valore medio dei punti di vista delle percezioni individuali; è un fenomeno dove l’aspetto qualitativo è molto più importante di quello quantitativo, frutto del rapporto instaurato da una popolazione con il suo territorio e delle diverse percezioni che di esso ha, e ha avuto nel corso della storia. Indagare sulla percezione sociale dei luoghi è utile per comprendere quali sono i luoghi più rappresentativi all’interno o all’esterno dell’insediamento per gli abitanti, per i quali è importante non alterare l’immagine. Strumenti di rilevazione Tra gli strumenti più utilizzati per rilevare l’attuale percezione del paesaggio in generale e anche agricolo in particolare, è quello dell’intervista che può essere di tipo diretto (a domande chiuse) o indiretto o semi diretto (a domande aperte). Per comprendere come è cambiato un territorio nella percezione degli abitanti si può realizzare un piccolo Atlante iconografico, raccogliendo cartoline, stampe, incisioni, mappe storiche che raffigurino l’insediamento nel contesto paesaggistico e luoghi all’interno dell’insediamento. Si possono svolgere delle interviste dirette agli abitanti unite allo studio dei documenti di storia locale (archivi parrocchiali, comunali ecc.). Utili informazioni sulla percezione del paesaggio da parte di una comunità si possono comprendere attraverso le fasi di lettura partecipata del paesaggio dei laboratori di progettazione che sono frequenti in aree urbane (contratti di quartiere e programmi Urban) ma che si stanno diffondendo anche in aree rurali (Agende 21). A tal proposito una sintetica descrizione delle modalità sono presentate nella scheda “progettazione partecipata”. 280 La conoscenza dei luoghi agricoli da parte della popolazione Ad esempio le interviste svolte nel lavoro di ricerca sui mulini dell’Olona 245 hanno messo in evidenza che i cittadini, pur attraversando spesso sia a piedi sia in bicicletta l’area e dichiarando la conoscenza della storia dei manufatti agricoli, non conoscono le colture praticate; gli agricoltori invece si dichiarano poco informati dei progetti di trasformazione, a differenza dei cittadini che conoscono i progetti di trasformazione anche del territorio agricolo. Le aspettative dei cittadini nei confronti dell’agricoltura Talvolta le aspettative dei cittadini si rivolgono a un’immagine arcadica della campagna e non corrispondente alle reali modifiche occorse nel tempo: in alcuni casi se non trovano le componenti tradizionalmente riconosciute e presenti nella loro infanzia nella grande cascina agricola, ovvero coltivazione dei campi e allevamento di vacche da latte, si trovano spaesati e non riconoscono il valore dell’attività della cascina. I cittadini non si interrogano sulle ragioni che hanno portato all’eventuale cambiamento delle pratiche agricole, all’abbandono dell’allevamento o della trasformazione dei prodotti, ma desiderano ritrovare costantemente la loro rappresentazione mentale della cascina, con i campi ben ordinati e gli animali in stalla. Talvolta il complesso rurale viene riconosciuto come un elemento forte della storia locale e la popolazione si fa portavoce della sua salvaguardia. E’ il caso di un’associazione di cittadini del sud Milano che si sono riuniti per opporsi alla trasformazione in residenza del borgo di Viboldone, antica abbazia degli Umiliati che fa parte del sistema monumentale religioso e agricolo che ha costruito la campagna milanese, così come di un gruppo di abitanti del borgo di Poasco (nel comune di San Donato, una delle città simbolo dello sviluppo tecnologico milanese) ha firmato una petizione per mantenere l’attività agricola in una cascina la cui parziale esclusione dal perimetro del Parco Agricolo Sud esponeva al rischio di completa trasformazione in residenza. Il riconoscimento sociale della funzione paesaggistica dell’agricoltura In un’indagine di confronto tra due situazioni franciliane (comune di Morainvilliers e altopiano dell’Essonne centrale) e due milanesi (Comune di Locate Triulzi e area dei navigli e abbazie nel Parco sud Milano), all’interno delle quali sono stati individuati i principali attori (agricoltori e amministratori) e le funzioni che essi attribuiscono all’agricoltura periurbana è emerso un quadro diverso tra le due realtà periurbane. E’ stato ipotizzato uno scenario delle tendenze di trasformazione del paesaggio a partire dal 245 Sono state svolte in totale 56 interviste, di cui 50 a cittadini e 6 ad agricoltori, ovvero tutti quelli operanti nell’area d’esame e sono state finalizzate a comprendere la conoscenza dell’area (strade sterrate, manufatti rurali, colture) e la posizione nei confronti dei progetti di trasformazione (PLIS, vasche di laminazione). 281 significato che i diversi attori attribuiscono al paesaggio. Tutti gli agricoltori di Evry riconoscono la funzione paesaggistica dell’agricoltura: ciò significa che si collocano come attori chiave dell’immagine dell’altopiano. Essi notano l’apprezzamento dei cittadini quando vengono fornite loro spiegazioni sui lavori agricoli e in tal senso rafforzano la coscienza del ruolo svolto e il senso di orgoglio a rimanere in questa zona. Considerano il risultato della loro azione sugli spazi aperti come benefico per l’insieme dei fruitori del territorio e in particolare per i cittadini. Gli agricoltori delle aree milanesi hanno difficoltà a riconoscere il loro ruolo di gestori del paesaggio e dunque a porsi come i principali promotori della qualità paesaggistica delle terre dove operano. Allo stesso modo non comprendono appieno le potenzialità commerciali che la cura del paesaggio può avere sulla loro attività. Il rapporto degli agricoltori con la città è maggiormente di “difesa” piuttosto che di “sfruttamento”. Gli agricoltori non si rendono conto delle possibilità di commercializzazione diretta che la presenza della città offre loro, ma sono abituati a distribuire i loro prodotti attraverso canali codificati di vendita (il latte alla Centrale di Milano o alla Cooperativa di Peschiera Borromeo, il riso attraverso un mediatore, ecc.). Vedono i servizi che la città può offrire loro quando essi si recano in città, ma pochi pensano a come portare i cittadini presso di loro e a ricavare ulteriore reddito dall’offerta di prodotti e servizi. In tal senso nella maggior parte di loro si nota il desiderio di rimanere all’interno della propria cascina come in una isola felice, lontana dalla confusione della città, che resta comunque a portata di mano quando necessario. A una scarsa disponibilità ad accogliere il pubblico, giustificata con una scarsa frequenza di contatti, non corrisponde un reale allontanamento dei cittadini da parte degli agricoltori, ma cordialità e apertura: infatti anche quando dichiarano di non “essere fatti per dar retta alla gente”, trovano piacere se un passante chiede loro informazioni e se manifesta riconoscenza nel mantenimento delle strade campestri pulite dai rifiuti urbani. Il rapporto saltuario con il singolo cittadino è più facile da gestire che l’idea di gestire un gruppo di cittadini in cascina o sui campi. La mediazione tra agricoltori e Comune L’operazione svolta dal comune di Locate Triulzi con la consultazione degli agricoltori per il Piano delle Cascine 246 ha consentito di definire il riuso dei fabbricati in accordo con le istanze dei proprietari e degli affittuari, dando l’opportunità al comune stesso di comprendere come viene vissuto il rapporto degli agricoltori con il territorio comunale. Il comune ha cercato di accogliere le richieste di ogni singolo agricoltore favorendo il recupero delle cascine anziché la costruzione di nuovi edifici residenziali, valorizzando l’ampliamento della fruizione della campagna, attraverso le proposte di 246 T. FRESU, op.cit. 282 agriturismo e diversificazione colturale, nonché incoraggiando il contatto fra abitanti desiderosi di coltivare un orto e gli stessi agricoltori. Vi è carenza di terreni liberi nell’area comunale e un’elevata domanda di terra da parte degli abitanti e ciò rende lunga la lista di attesa per ottenere un appezzamento. Si tratta di un’esigenza da non sottovalutare, purtroppo non facile da soddisfare nel breve periodo, ma positiva dal punto di vista dell’aggregazione sociale, in considerazione dell’allungamento della vita media della popolazione e del ruolo terapeutico e antidepressivo, delle attività di orticoltura e giardinaggio. Probabilmente nell’ottica di ampliare la multifunzionalità o la pluriattività, la ricettività e la diversificazione dell’indirizzo produttivo dell’azienda, qualche agricoltore potrebbe accettare di essere coinvolto in un progetto di agricoltura sociale. Quale tutela per il paesaggio agricolo periurbano? Il peso crescente che negli ultimi anni è stato attribuito all’identificazione e alla valutazione dei paesaggi periurbani porta con sé la necessità di definire metodi e strumenti per la sua lettura, e un ruolo importante è riservato allo scambio di informazioni e al confronto tra esperienze diverse. Il problema è comune a molte aree metropolitane europee. Molti paesi dell’Europa possono contare su una cultura del paesaggio di lunga data rivolta soprattutto a una scala vasta (nazionale e regionale), ora però si ha anche l’esigenza di rivolgersi alla scala locale puntando alla qualità dei luoghi sia nelle sue parti eccezionali, sia in quelle ordinarie e degradate. Il paesaggio agricolo periurbano è spesso oggetto di minore tutela perché considerato già compromesso o non considerato nella totalità delle sue problematiche o per i conflitti di uso del suolo. Ad esempio in Inghilterra la legislazione per la protezione delle siepi (1997) prevede la richiesta di un permesso di taglio solo per quelle situate a margine delle terre comuni, protette, agricole, forestali o per l’allevamento equestre, da cui rimangono escluse quelle a confine di un sito residenziale o sportivo, frequente nel periurbano 247. Nel Parco agricolo Sud Milano la definizione dei confini è durata un decennio per la difficoltà dei 61 comuni di cedere aree al parco sulle quali non poter esercitare un controllo diretto e la possibilità di rilasciare autorizzazioni per la costruzione. La salvaguardia dei manufatti agricoli La tutela del paesaggio ha lentamente progredito dalla tutela del manufatto eccezionale a quella del manufatto cosiddetto “minore”: dall’opera di pregio architettonico e artistico a quella rurale. E così con la salvaguardia di piccoli manufatti accessori, ma in realtà fondamentali al funzionamento 247 COUNTRYSIDE COMMISSION, Vision for a sustainable multifunctional rural-urban fringe, 15 December 2004. 283 dell’agricoltura, si è cominciato a guardare al mondo rurale come a un territorio ricco di piccole testimonianze della cultura di un luogo e di un popolo. La salvaguardia di elementi vari sparsi nel territorio non garantisce la continuazione nella leggibilità di un precedente sistema agricolo, perché le relazioni visive sono spesso compromesse (filari, campi, canali), oppure sono trasformati i luoghi organizzatori del sistema (se anche permangono l’insieme dei canali, filari e ponti, può mancare la cascina oggi trasformata in residenza e con perdita dei suoi caratteri. La cascina lombarda, ad esempio, è un insieme di edifici progettati per ospitare attività strettamente legate alle produzioni dei campi, alle trasformazioni dei prodotti, all’immagazzinamento dei prodotti per la trasformazione e per l’alimentazione degli animali che producevano latte che in parte era venduto e in parte trasformato nella cascina stessa. Dunque un sistema complesso che per funzionare ha bisogno, oggi, come al tempo della sua concezione, dei campi da cui trae la sua ragion d’essere. Alcune delle attività allora presenti non sono più svolte, ma gli edifici insieme ad alcuni strumenti rimangono a testimoniare le motivazioni per le quali sono stati realizzati (la pila, il mulino, gli attrezzi dell’officina): essi testimoniano non tanto un preciso momento temporale quanto l’evoluzione storica dell’economia agricola che si è riflettuta sulle tecniche, sulla vita sociale, sull’uso degli spazi e degli edifici della cascina stessa. Questa evoluzione non si può né si deve immobilizzare, perché vorrebbe dire immobilizzare l’economia all’interno della quale si reggono. Talvolta però l’economia urbana conduce a dei cambiamenti così rapidi che rischiano di modificare l’esistente in brevissimo tempo e di perdere traccia dei mutamenti avvenuti. Solo se un fabbricato agricolo svolge ancora una funzione per l’agricoltore la sua manutenzione è sostenibile (come per impedirne il crollo e perderne traccia); solo se un agricoltore ha la certezza di mantenere l’attività agricola a medio o lungo termine può impegnarsi economicamente nel recupero dei fabbricati rurali e nel loro riutilizzo con funzioni complementari all’attività agricola quali quelle legate alla fruizione cittadina del tempo libero. Nel momento in cui siano garantite queste condizioni è possibile per l’agricoltore esprimere gli altri ruoli che riveste, in particolare di manutentore del paesaggio, e dimostrare l’identità e la qualità architettonica dei suoi fabbricati di fronte ai cittadini. L’impegno della pubblica amministrazione nel mantenimento delle cascine e nel perdurare il loro legame con l’agricoltura è più significativo quando è evidente l’importanza attribuita dalla collettività al valore di memoria che la cascina trasmette e che può essere dimostrata ad esempio con una petizione per il suo mantenimento. 284 La prosecuzione del ruolo di patrimonio sociale che una cascina riveste deve però essere perseguito attraverso la salvaguardia dell’unità inscindibile del nucleo edificato e dei suoi campi, così come testimoniato dai documenti storici e ancor oggi leggibile. Senza questa unità il fabbricato agricolo non rende esplicite le ragioni della sua nascita nel territorio e del suo perdurare nel tempo né resiste il suo ruolo di vettore della memoria rurale storica, richiesto proprio dalla popolazione odierna e specialmente nelle aree periurbane dove l’accostamento di usi del territorio e degli edifici è spesso più caotico. Questo è valido nel caso di opere straordinarie come ordinarie, come ricorda la Convenzione Europea del Paesaggio 248, ovvero di complessi monumentali riconosciuti dalla legislazione 249 come di testimonianze “minori” della capacità di concepire e realizzare un progetto articolato di edifici uniti da relazioni funzionali sociali, visive all’interno di un’azienda agricola. Le tutele del paesaggio periurbano Le forme tradizionali di tutela sono quelle vincolistiche che hanno dato luogo alle aree protette per la necessità di delimitare prioritariamente un territorio e vincolarlo per poterlo salvare dall’espansione urbana e poter conseguentemente agire su di esso per valorizzarlo. Fanno parte del gruppo i parchi metropolitani 250. Tra di essi ve ne sono alcuni la cui attenzione si focalizza sulla salvaguardia della qualità paesistica del nuovo edificato, come il Parco delle Groane, altri più attenti alla lettura delle preesistenze e del tessuto agricolo storico, quali il Parco Sud Milano e il Parco del Ticino. Il Parco delle Groane, nel Piano di Settore Zone edificate e norme paesaggistiche 251 fornisce precise indicazioni per la costruzione del nuovo residenziale, produttivo e terziario, e presta poca attenzione al recupero dell’esistente. Si occupa della compatibilità dei nuovi usi con le finalità del Parco, delle dimensioni, dei materiali e dei colori dei nuovi fabbricati, di quantificare le opere di mitigazione e compensazione ambientale, ma non provvede a indicazioni per la collocazione dei nuovi manufatti, nel rispetto dei tracciati viari esistenti, delle forme dei campi e degli edifici rurali. 248 CONVENZIONE EUROPEA DEL PAESAGGIO, Art. 1, Firenze 2000. In base al Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, 2004, già sottoposte a tutela secondo il cosiddetto vincolo monumentale ai sensi della Legge 1089/39. Ad esempio, nel caso del Castellazzo di Bollate, villa e parco settecentesco con accanto il nucleo dei fabbricati agricoli organizzato in due grandi corti chiuse, quest’ultimo rischia di essere trasformato in sola residenza, mentre è importante per consentire la trasmissione del valore di unicità progettuale tenere in vita il legame con la produttività agricola, senza musealizzare la passata funzione agricola, ma conservando il più possibile delle funzioni che siano testimonianza dell’uso agricolo per il quale gli edifici sono stati costruiti e insediando nuove funzioni agricole e/o artigianali che producano un reddito tale da rendere l’attività economicamente sostenibile, e che avvicinino il mondo urbano (i cittadini) alle pratiche agricole e che in particolare alla storia agricola del borgo. 250 Così definiti e riuniti in categoria nel corso della II Conferenza Nazionale sulle Aree Protette svoltasi a Torino nel 2002 e riportate nel sito www.parks.it. 251 PARCO DELLE GROANE, Piano di settore zone edificate e norme paesaggistiche per l’edificazione nel Parco (PSE) - Variante generale 2004 in adeguamento della variante al PTC. 249 285 E’ una tutela degli aspetti compositivi degli edifici, volta a garantire un’uniformità del nuovo e a evitare eccessi di originalità, che si rifugia nella compensazione ambientale delle opere per assicurare un livello di equità nella concessione di una nuova costruzione: la commistione delle funzioni sembra indurre più a un’attenzione verso le altre attività produttive che al recupero dell’attività agricola, limitando le potenzialità di sviluppo del paesaggio periurbano solo agli insediamenti produttivi e alle villette. Nel Parco Sud Milano invece, tra le norme generali di tutela dell’attività agricola, viene conferito un carattere di centralità al raccordo tra “l’attività produttiva agricola con quella di tutela vegetazionalefaunistica e ambientale-paesaggistica” 252. In un articolo del Piano Territoriale di Coordinamento 253 si stabilisce che le “norme di tutela ambientale-paesaggistica debbono tutelare gli elementi del paesaggio e dell’ambiente agrario, quali alberature, fasce boscate, siepi, filari, reticolo idrico naturale ed artificiale, fontanili, zone umide, marcite, e debbono evitare l’alterazione di elementi orografici e morfologici del terreno, nonché l’effettuazione di sbancamenti, spianamenti e bonifiche che comportino l'asportazione di materiali”. In tal senso sono consentiti e promossi “progetti di riequipaggiamento della campagna (filari, alberature e siepi); di arredo di centri aziendali ed agglomerati rurali; di conversione di boschi monospecifici esistenti in boschi misti; di rimboschimento e di recupero di aree degradate”. Per la realizzazione delle stesse il Parco prevede delle forme di agevolazione o compensazione per l’imprenditore agrario. La regola basilare vigente sul territorio del parco è che ogni intervento (al di fuori dell’ordinaria manutenzione, quale la potatura) sull’equipaggiamento arboreo e arbustivo della rete irrigua primaria e secondaria (ad esclusione di quella aziendale), deve comportare un complessivo aumento di naturalità con particolare riferimento alle diversità floristiche, alla presenza di specie autoctone e alla ricettività per la fauna. In un successivo articolo 254 propone, promuove ed incentiva interventi di tutela, conservazione e potenziamento degli ecosistemi naturali del parco, tra cui recuperare, ricostruire e potenziare la trama storica del rapporto vegetazione-acqua che caratterizza il paesaggio ed i territori agrari evitando l’alterazione dei tracciati delle acque e delle strade rurali ed incentivando la dotazione di alberature di ripa. Nella definizione dei “territori agricoli e verde di cintura urbana” sono date precise indicazioni per la tutela del paesaggio. Il piano individua, nei territori di cintura urbana, aree soggette a prescrizioni circa la valorizzazione dell’ambiente, la qualificazione del paesaggio e la tutela delle componenti della storia agraria, per le quali il piano di cintura urbana può ulteriormente prevedere specifiche azioni e 252 PARCO AGRICOLO SUD MILANO, Piano Territoriale di Coordinamento, Bollettino Regione Lombardia, suppl. straord. N°38. Milano, 2000. 253 Art. 16 “norme generali di tutela ambientale-paesaggistica”. 254 Art. 20 “norme generali di tutela della vegetazione ed equipaggiamento naturale del paesaggio agrario”. 286 prescrizioni. Tali piani sono finalizzati a coordinare interventi di diversa natura nei territori di cintura urbana, e contengono tutte le restrizioni atte a riqualificare i margini urbani e a definire le componenti paesistiche in ordine al recupero delle fasce di collegamento tra città e campagna. Il piano di cintura urbana deve inoltre individuare gli interventi volti al recupero paesistico delle aree degradate e delle aree aventi un utilizzo improprio o incompatibile con il parco, nonché le revisioni riguardanti la qualificazione ambientale degli orti urbani esistenti o di nuova realizzazione, nei casi in cui siano considerati ammissibili. Nel Parco del Ticino viene prestata particolare attenzione alla tutela degli edifici e degli insediamenti rurali: in tal senso viene fatta una classificazione di qualità degli insediamenti in tre categorie 255 con relativi interventi edilizi ammessi; si consiglia di ristrutturare secondo le tipologie definite da un abaco; vengono indicati quali criteri di base il rispetto della fisionomia originaria dell’insediamento, delle caratteristiche tipologiche degli edifici, del rapporto tra edifici e contesto esterno (recinzioni, viali ecc.); si invita a chiudere i porticati, se necessario, con superfici vetrate, a non dividere gli spazi comuni (corte) e in caso di pavimentazioni, a utilizzare lastricati d’uso comune; si indicano i materiali delle partizioni del fabbricato e le tipologie costruttive locali. Nelle aree naturalistiche sono indicate prescrizioni più restrittive per la conservazione della morfologia e della naturalità del paesaggio agrario, poiché è vietata qualsiasi forma di bonifica, nonché livellamenti, sbancamenti o spianamenti del terreno. Le ragioni però sono conseguenti ad un rispetto della flora e delle fauna e non discendono da ragioni di tutela storico paesaggistica. Nelle aree agricole comprese nelle zone e ambiti di rispetto delle zone naturalistiche viene espressa l’esigenza di rispetto delle caratteristiche del paesaggio agrario: sono pertanto vietati non solo gli sbancamenti e gli spianamenti, ma anche gli accorpamenti fondiari, le modifiche della rete viaria e si invita alla manutenzione degli elementi morfologici esistenti. Nelle forme di tutela del paesaggio periurbano talvolta si assiste ai migliori esempi di tutela del paesaggio agrario, come nel Parco del Ticino e nel Parco Sud Milano: all’interno di tessuti agricoli storici talvolta molto compromessi dalla nuova edificazione e infrastrutturazione e di fronte a forme di pressione urbana consistente, nascono modelli di salvaguardia restrittivi e attenti alle preesistenze. 255 Le tre classi sono: 1. edifici o elementi di alto valore architettonico, tipologico, storico, ambientale; interventi ammessi: restauro e risanamento conservativo 2. edifici o elementi che concorrono a definire e a caratterizzare il complesso e la sua struttura; interventi ammessi: ristrutturazione edilizia 3. edifici o elementi di scarso o nullo valore, superfetazioni, elementi deturpanti; interventi ammessi: ristrutturazione, demolizione e ricostruzione (per gli edifici privi di valore storico architettonico) (Regolamento relativo alle modalità per l’individuazione ed il recupero degli insediamenti rurali dimessi, Del.n.106 del 26/10/2005). 287 Riconoscere le specificità dei paesaggi Per il governo delle trasformazioni sono nuovamente di grande aiuto i concetti espressi nella Convenzione Europea. Essa mette in evidenza il problema della qualità di tutti i luoghi di vita delle popolazioni, di tutto il territorio; infatti non parla di singolo paesaggio ma della globalità dei paesaggi europei, che comprende aree urbane e periurbane, agricole, naturalistiche, sia straordinarie che ordinarie. In gran parte dei Paesi Europei, fino ai decenni più recenti, si identificavano aree o componenti del paesaggio di particolare interesse e si attribuivano valori secondo una gerarchia assoluta allo scopo di proteggerle attraverso normative caratterizzate da vincoli e limitazioni all’agire ma, soprattutto, distinti da quelle parti ritenute prive di particolari qualità che venivano lasciate a più libere trasformazioni. Anche la Convenzione mette in evidenza la necessità di identificare e valutare i paesaggi ma lo fa parlando di paesaggi al plurale mettendo in questo modo l’accento sulle specificità di ogni luogo e sulla necessità di conoscerle. Prevede, quindi, politiche rivolte non solo alla salvaguardia di paesaggi esistenti a cui si riconosce una qualità, ma anche alla produzione di nuovi paesaggi di qualità attraverso innovazioni, adeguamenti e recuperi in quanto il paesaggio deve essere una risorsa sia culturale che economica. Lo scopo è quello di agire a tutto campo per risolvere i problemi specifici che ogni parte del paesaggio presenta per assicurare una qualità generale. L’esperienza recente di vari Paesi mette in risalto come la regolamentazione della libertà di trasformazione dei luoghi da parte dei singoli attraverso norme diventi efficace se accompagnata da attività di sostegno agli enti locali, agli operatori, ecc. Ed è in questa direzione che la Convenzione di Firenze sottolinea l’importanza della gestione rivolta ad individuare: i criteri di manutenzione a medio o lungo termine, gli interventi di carattere eccezionale sulla fisicità dei manufatti, la valutazione degli investimenti necessari e disponibili, le competenze amministrative da coinvolgere, l’individuazione delle risorse su cui poter contare, la formulazione di coordinamento degli enti, degli operatori, ecc. Per attuare la tutela dei valori e il governo delle trasformazioni serve quindi una consapevolezza diffusa sia dei molteplici significati che i paesaggi hanno per le popolazioni, sia del loro potenziale valore di risorsa economica e di utilità sociale e individuale. Per tutto questo non basta solo la conoscenza, ma diventa importante anche la comunicazione, per arrivare a definire indicazioni e norme paesaggistiche (piani, progetti, indirizzi, ecc.) che, come accade nell’esperienza internazionale più matura, sono sempre più visti come uno strumento di descrizione e comunicazione piuttosto che una passiva regolamentazione attraverso norme. Conoscere e valutare i paesaggi significa, essenzialmente, leggere e comunicare le differenze e le specificità che li contraddistinguono, sottolineandone anche problemi e potenzialità. 288 E’ sempre la Convenzione europea del Paesaggio che invita a “una protezione dei paesaggi, tramite azioni di conservazione e di mantenimento degli aspetti significativi o caratteristici di un paesaggio, giustificati dal loro valore di patrimonio” 256: per poter garantire la qualità dei paesaggi e la qualità di vita delle popolazioni bisogna gestire le trasformazioni, tutelando, vincolando e mantenendo il paesaggio nelle sue attuali condizioni, ma anche riqualificando e recuperando le zone degradate, valorizzando le qualità diffuse e le risorse locali. Per garantire quella qualità, è utile ricercare le specificità storiche, culturali, sociali che si ritrovano nella comprensione dell’evoluzione che ha avuto quel paesaggio e che l’ha portato all’aspetto attuale, rendendolo unico: quindi la sua specificità nella storia. Quali paesaggi futuri? Nella visione del paesaggio come sistema anche il significato del recupero si allarga. Preservare un sito o un singolo manufatto non basta, bisogna garantire la continuità nel tempo dell’insieme degli elementi che costituiscono il sistema. La legislazione italiana in materia di tutela si è evoluta in tal senso e ha allargato le zone di protezione intorno ai manufatti soggetti a vincolo monumentale, così come ha definito meglio la protezione paesaggistica (vincolo indiretto) 257. Non sempre tutti gli elementi che compongono il sistema sono protetti, non sempre sono riconosciuti nel vincolo ed è loro attribuito un valore. Soprattutto l’azione di imposizione del vincolo non basta a preservare un paesaggio, ma ci vuole un’azione di riconoscimento di elementi e relazioni e una valorizzazione. Non è facile definire il riuso appropriato o compatibile come si usa dire. Compatibile è un termine troppo generico per bastare a influenzare le scelte degli imprenditori e il giudizio che devono esprimere i valutatori (tecnici comunali). Lascia molte possibilità ai primi e non aiuta i secondi a criticarle e respingerle. Di fronte al problema del riuso, molti studi si preoccupano di definire nuovi usi per evitare che si perda il bene (si degradi al punto da essere irrecuperabile) nel presente, cercando funzioni innovative e rispondenti a esigenze future, senza capire quale è stato il significato del bene nel paesaggio, come si è modificato nel tempo, quali significati ha assunto nelle varie epoche, come ha modificato il paesaggio e come il contesto economico-sociale storico ha influenzato il suo aspetto 258. Per la gestione nel tempo dei paesaggi può essere utile porsi tre domande fondamentali: Quale paesaggio abbiamo? Verso quale paesaggio andiamo? Quale paesaggio vogliamo? 256 CONVENZIONE EUROPEA DEL PAESAGGIO, capitolo 1, art. 1, definizioni, Firenze 2000. Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, Decreto Legislativo numero 42 del 22 gennaio 2004. 258 In Inghilterra, relativamente al contesto periurbano (urban fringe) mentre la Countryside Agency si preoccupa soprattutto di suggerire nuovi usi dei manufatti, l’English Heritage si sofferma sulle relazioni del manufatto con il suo contesto nelle varie epoche storiche prima di arrivare a definire quelle attuali dalle quali partire per proporre nuovi usi. 257 289 Si tratta di comprendere lo stato attuale del paesaggio, fatto dal permanere di un passato agricolo nei segni del territorio e nelle memorie della gente e di una qualità degli attuali luoghi di vita delle popolazioni che abitano le campagne intorno alle città, di visualizzare le continue trasformazioni in corso, le grandi opere così come i meno estesi ma costanti ampliamenti dei quartieri urbani, le trasformazioni dei fabbricati agricoli così come i cambiamenti delle attività agricole, di definire quale paesaggio è desiderato, esplicitamente e concordemente tra gli attori in gioco, quale paesaggio si vuole che garantisca una buona qualità di vita dei suoi abitanti. 290 PIERRE DONADIEU LES PROFESSIONNELS DU PAYSAGE ET LA CONSTRUCTION DES BIENS COMMUNS PAYSAGERS. LE CAS DE L’AGRICULTURE URBAINE Introduction En France, comme dans la plupart des pays du nord de l’Europe, les professionnels du paysage ont pris une part de plus en plus importante à l’aménagement des territoires ruraux et urbains. De 1970 à 2000, l’effectif des paysagistes en activité, architectes et ingénieurs, est passé de 100 à au moins 3000. Que font ces professionnels que n’ont pas su faire ou qu’ont mal fait les architectes, les urbanistes et la plupart des ingénieurs et entrepreneurs des travaux publics ou privés dans les espaces urbains ou ruraux ? Ce texte montrera que, au-delà du rôle de décorateur de paysages qu’ils n’ont pas souvent adopté, l’enjeu était pour eux d’un autre ordre : construire de nouveaux paysages partageables par la plupart des destinataires de l’aménagement ou de la planification. En cherchant à proposer, et parfois en parvenant à réaliser ou à faire réaliser un projet de paysage, ils ont pu donner un sens (c’est-à-dire des valeurs) appropriable par tous ceux qui devenaient les spectateurs et parfois les acteurs de cette transformation, ou de cette conservation plus ou moins inventive 259. L’envers du « décor » a été d’éliminer les acteurs sociaux dont les paysages produits n’étaient pas compatibles avec le projet accepté par les pouvoirs publics. De ce point de vue, le professionnel du paysage est un acteur à part entière de la recomposition sociale et spatiale des territoires sous administration publique. Il devient alors l’un des médiateurs des relations entre les pouvoirs publics et les habitants, où plus exactement un facilitateur des transformations locales du paysage matériel et de ses représentations. Les mutations des rapports sociaux et spatiaux entre l’agriculture et la ville sont à ce titre exemplaires. 1 Le professionnel du paysage : un régulateur de l’organisation des paysages agriurbains en France Une régulation de plus en plus forte pendant cinquante ans Pendant quarante ans en France, de l’après-guerre aux années 1990, les espaces agricoles autour des villes étaient en général perçus par tous les acteurs concernés comme une réserve foncière vouée au développement du tissu urbain et à ses infrastructures. Tous les acteurs des territoires y avaient intérêt, P. DONADIEU, « Pour une conservation inventive du paysage », in Cinq propositions pour une théorie du paysage (Berque édit.), Seyssel, Champ Vallon, 1994, pp. 51-80. 259 291 le propriétaire des terrains qui allait bénéficier d’une substantielle rente foncière, l’agriculteur d’une indemnité d’éviction et les élus de l’imposition des nouveaux habitants. Cette situation reste encore aujourd’hui ordinaire dans la plupart des pays développés ou non, par exemple à l’Est et au Sud de la Méditerranée 260. Toutefois, l’idée que l’agriculture urbaine puisse être bénéficiaire aux catégories sociales défavorisées (au titre du développement durable) est développée de plus en plus et fait l’objet de nombreux travaux de recherches agronomiques dans les pays en voie de développement 261. L’idée que la notion de paysage puisse porter un intérêt pour des valeurs spatiales et sociales, territoriales ou patrimoniales communes, n’émergea pratiquement en France dans le discours public qu’à partir de 1945. D’une part furent créées par ordonnance les commissions des « sites, perspectives et paysages » chargées de veiller à l’application de la loi sur la protection des monuments naturels et des sites de 1930, d’autre part fut mise en place par décret une formation d’architectes paysagistes dans la « section du paysage et de l’art des jardins » au sein de l’Ecole nationale d’horticulture de Versailles. La notion de paysage porta ainsi pendant la période de croissance économique et de relatif dirigisme étatique (1950-70) à la fois les valeurs de protection des paysages remarquables (valeur d’identité nationale) et celle de l’urbanisme fonctionnaliste de la charte d’Athènes (l’espace vert comme espace récréatif et d’épanouissement social). Dans ce dernier cas, les paysagistes étaient chargés explicitement du verdissement des espaces extérieurs aux nouveaux ensembles d’habitation 262. Les lois d’urbanisme des années 60 ne retinrent que la dimension protectrice des idées de paysage. En 1967, la loi d’orientation foncière créa les Schémas directeurs et les Plans d’occupation des sols : article L.123-2 « Dans les zones à protéger en raison de la qualité de leurs paysages [...] les plans d’occupation du sol peuvent [...] opérer des transferts de COS (coefficient d’occupation du sol) ». Cela signifiait que les agents de l’Etat pouvaient modifier le rapport entre la surface de l’espace construit et celui de l’espace non construit. Dans la loi sur la protection de la nature de 1976 « la protection [...] des paysages est d’intérêt général » et de 1977 sur l’architecture « le respect des paysages naturels ou urbains [...] est [...] d’intérêt public », les textes sont plus vagues. Seule la circulaire du ministère de l’Intérieur de 1973 s’intéressa à l’action paysagiste en fixant les normes de surface verte par habitant dans les agglomérations. Pendant les années 70, la réponse à la question des paysages urbains à créer passait surtout par la création de parcs et de jardins. Celle des paysages ruraux et urbains en mutation relevait surtout de la science sitologique naissante 263 et des perspectives protectionnistes et restauratrices qu’offraient les sciences écologiques. J. NASR – M. PADILLA (édit.), Interfaces : agricultures et villes à l’Est et au sud de la Méditerranée, Delta édit., 2004. O.B. SMITH et al. (édit.), Développement durable de l’agriculture urbaine en Afrique francophone, enjeux, concepts et méthodes, CIRAD/CRDI, 2004. 262 F. DUBOST, Les paysagistes et l’invention du paysage, Sociologie du travail, 4, 1983 ; B. BLANCHON, «Les paysagistes français de 1945 à 1975 », Les Annales de la recherche urbaine, n° 85, 1999. 263 P. FAYE – M. TOURNAIRE, Travaux du Centre d’études techniques du génie rural et des eaux et forêts de Grenoble de 1975 à 1995, 1974. 260 261 292 Les ministères publics, notamment ceux de l’Environnement, de l’Equipement et de l’Agriculture, n’envisagèrent de considérer les paysages « ordinaires et quotidiens » qu’avec la création de la mission interministérielle du Paysage en 1979. Les expressions de « grand paysage » et de « paysage d’aménagement » vinrent exprimer, de manière pragmatique et un peu floue, le besoin d’encadrer la production des paysages issus du développement économique du pays. Cette évolution politique, qui supposa une expérimentation d’au moins 10 ans (1979-1990) et la formation des opérateurs paysagistes, se concrétisa au plan juridique par la loi de 1993 sur « la protection et la mise en valeur des paysages et modifiant certaines dispositions législatives en matière d’enquêtes publiques ». Elle marqua au cours des années 90 le début d’un vaste déploiement d’actions publiques de paysage (plans de paysage, chartes de paysage, atlas de paysage, 1% paysages autoroutiers, zones de protection du patrimoine architectural, urbain et paysager, mesures agrienvironnementales, etc.). Dans ce nouveau cadre d’expérimentation des plans de paysage, certaines villes comme Rennes en 1993, s’intéressèrent à la conservation de leur agriculture périurbaine en faisant appel à des architectes paysagistes devenus également des planificateurs. Il devenait en effet flagrant que le district urbain (aujourd’hui communauté d’agglomération) devait s’intéresser aux paysages engendrés par son extension extra urbaine. Contenir cette expansion dans des gros bourgs périphériques en préservant les espaces agricoles, notamment céréaliers, fut un objectif inscrit dans le schéma directeur de l’époque264. C’est à la même période, dans la ceinture verte de la Région Ile-de-France ainsi qu’à Grenoble, qu’émergèrent les politiques de protection des espaces agricoles périurbains. Aujourd’hui : les plans de paysage des Schéma de cohérence territoriale (SCOT) et des plans locaux d’urbanisme (PLU) L’idée que les pratiques paysagistes ne se réduisent pas à la protection des sites remarquables, au verdissement et au fleurissement urbain ne transparaît pas clairement dans la loi Solidarité et renouvellement urbain (SRU) de 2000. Pourtant la loi SRU fait reposer le PLU sur le plan d’aménagement et de développement durable (PADD) débattu publiquement. Cela signifie que des valeurs communes à une majorité d’habitants concernés doivent apparaître dans le projet et notamment dans le plan de paysage qui peut être demandé en amont du SCOT ou du PLU. Ces valeurs peuvent aussi émaner d’instances publiques régionales, nationales ou internationales et inspirer la construction du sens des nouveaux paysages territoriaux. Par exemple, dans le schéma directeur d’Angers, dès 1994, la politique de protection des Basses vallées angevines inondables (BVA) désignait les paysages de prairies comme des biens communs précieux : autant pour des raisons naturalistes (l’intérêt de la protection des populations d’un oiseau : le râle des genêts) que pour des raisons paysagistes (l’intérêt esthétique des espaces ouverts prairiaux 264 P. DONADIEU – M. PERIGORD, Clés pour le paysage, Gap, Ophrys, 2005, p. 362. 293 menacés par l’extension des peupleraies). Dans le récent SCOT de la communauté d’agglomération, les basses vallées font partie de la région urbaine et leur conservation est affirmée pour plusieurs raisons : paysagères, de loisirs de plein air, de conservation du patrimoine naturel (inscription dans le réseau européen Natura 2000), mais aussi agricole (un label d’élevage : « la viande et l’oiseau » a été créé). Le même type de projet, ou du moins très comparable, a été mis en œuvre dans les Schémas de Cohérence Territoriale (SCOT) et les Plan Locaux d’Urbanisme (PLU) des communautés urbaines de Strasbourg et de Lyon 265. L’idée de plan de paysage n’est pas neuve en France, mais ne s’est développée que très lentement. Dès la fin des années 1960, le paysagiste Jacques Sgard, qui avait obtenu un diplôme d’urbaniste aux Pays-Bas, introduisait cette pratique dans l’enseignement de la Section du paysage de l’école d’horticulture de Versailles qui était dominé par la tradition des parcs et jardins urbains. Cette pratique a ensuite été développée dans la formation donnée au Centre national d’étude et de recherche du paysage (CNERP) de Trappes (1972-1978), puis relancée dès 1982 par la Mission du Paysage dans le cadre des ateliers pédagogiques régionaux expérimentaux de l’ENSP de Versailles. Elle fut ensuite reprise par le ministère de l’Equipement, sous forme de commandes expérimentales à quelques paysagistes et bureaux d’études au début des années 1990. Par la suite, surtout depuis 2000, elle fut largement utilisée, notamment à partir de la loi « Chevènement » de 1999 sur l’intercommunalité et de la loi SRU. Le plan de paysage est en effet présenté par le ministère de l’Environnement 266 comme un outil d’anticipation du devenir des paysages soumis à de fortes probabilités de mutation, notamment pour des raisons d’urbanisation ou de proximité urbaine comme de déprise agricole ou industrielle. Plus qu’une défense d’espaces menacés, il doit argumenter et illustrer un projet de construction de paysages. Pour cette raison, il mobilise des valeurs relevant autant des forces de mutation (économiques, démographiques, politiques, sociales) que des formes paysagères matérialisant et symbolisant ces valeurs. Par exemple dans les BVA, le plan de paysage établi par les paysagistes et par la Direction Départementale de l’Agriculture a abouti à un plan de régulation des espaces, d’une part plantables avec des peupliers, d’autre part protégés de cette plantation (prairies) 267. Dans ce cas, il s’agit d’un compromis entre acteurs au nom de biens et services communs (le patrimoine naturel des prairies, le loisir urbain) et de biens privés économiques et patrimoniaux (les peupliers, l’élevage). Ce type de sortie de conflits n’est pas la règle. Dans d’autre cas, les pouvoirs urbains peuvent évincer les agriculteurs, ou au contraire leur accorder une place prépondérante. S. AUTRAN, Les infrastructures vertes à l’épreuve des plans d’urbanisme, l’agglomération lyonnaise, la construction d’une stratégie, Lyon, CERTU, 2004. 266 B. FOLLEA – C. GAUTIER, Guide des plans de paysage, des chartes et des contrats, Ministère de l’Aménagement du territoire et de l’environnement, Paris, 2001. 267 S. LE FLOCH, « Le peuplier dans la peinture de paysage, esthétique et originalité d’un arbre de l’ordinaire », Paysage et aménagement, 34, 1996, p. 14-22. 265 294 2. La régulation des paysages agricoles périurbains L’agriurbanisme est encore au stade de l’utopie. Néanmoins, les valeurs que ses promoteurs portent relèvent-elles réellement du bien commun ? Cette communauté est-elle celle des économistes (le bien commun n’est pas exclusif du bien privé non compatible en revanche avec le bien public) ? Cette utopie est-elle une chimère ou est-elle réaliste ? Tous les citadins peuvent-ils bénéficier des avantages promis par l’agriurbanisme ? Aux nouvelles régions urbaines agricoles, ne peut-on pas opposer les avantages plus séduisants des villes arborées et/ou aquatiques ? Un enjeu tardif de la croissance urbaine Dans le Plan d’aménagement et d’organisation générale (PADOG) de la région parisienne de 1965, l’espace agricole, représenté en blanc, n’existait pas pour les pouvoirs publics urbains et les planificateurs. Or les travaux du géographe M. Phlipponeau (1956) montraient très bien que l’agriculture, par ses champs et ses agriculteurs, était présente autour de la capitale : les arboriculteurs dans leurs vergers, les maraîchers dans leur marais et les agriculteurs sur leurs vastes parcelles de grandes cultures (céréales, betteraves, protéagineux, etc.). Les uns alimentaient le marché parisien, les autres approvisionnaient les marchés nationaux et internationaux. Appartenant au monde rural, ils étaient exclus de la représentation de la ville qui pouvait de toute évidence se développer à leurs dépens. La plupart des agriculteurs avaient d’ailleurs intégré dans leurs projets cette évolution, les uns pour délocaliser leurs parcelles et leur exploitation à distance de Paris (les maraîchers), les autres pour préparer la vente des terrains en vue de constituer un capital de retraite. S’il y avait un intérêt commun à cette consommation d’espace à cette époque, il était public : il fallait créer des logements, notamment pour les rapatriés d’Afrique du Nord de 1956 à 1965. L’intérêt public était, comme encore aujourd’hui, de libérer des terrains pour la construction, de prévoir l’extension de la capitale, et non de protéger des espaces agricoles qui apparaissaient être en quantité illimitée et de peu de valeur relative. À partir des années 70, la politique des villes nouvelles autour de Paris confirma l’intérêt de l’espace agricole comme réserve foncière. D’autant plus que le début de la crise environnementale urbaine rendait précieux la plupart des espaces boisés périurbains et urbains et les écartait, pour des raisons sociopolitiques, de l’urbanisation ou de la destruction par les infrastructures (autoroutes, voies ferrées, etc.). L’espace agricole n’apparut réellement comme tel dans la planification régionale qu’à partir du moment où la Région d’Ile-de-France manifesta son intérêt pour la protection des espaces non construits agricoles et forestiers sous la forme des zones naturelles d’équilibre (ZNE) dans le schéma 295 directeur d’aménagement et d’urbanisme de la région Ile-de-France (SDAURIF) de 1976 268. Ce projet de protection des espaces agricoles fut repris dès 1985 dans le projet de ceinture verte de l’IAURIF puis dans le SDRIF de 1994 où apparaissent, du point de vue de l’Etat signataire du décret, les espaces agricoles auparavant invisibles (par exemple ceux du plateau de Saclay à 40 kilomètres à l’ouest de Paris). Dès cette époque, les travaux des paysagistes pour l’IAURIF (Institut d’aménagement et d’urbanisme de la Région d’Ile-de-France), notamment ceux de Jacques Sgard et de Pierre Marie Tricaud, soulignaient l’intérêt des espaces agricoles en tant qu’espaces ouverts multifonctionnels, à la fois structures du paysage urbain et espaces économiques et de loisirs. Toutefois la planification de l’Etat était loin de converger partout avec les prévisions du plan vert de la Région 269 (IAURIF, 1995), comme avec celles des syndicats intercommunaux. Le SDRIF, en effet, prévoyait parfois des secteurs d’urbanisation là où la Région ne l’envisageait pas, par exemple dans la boucle arboricole et maraîchère de Chanteloup-les-Vignes dans le Nord du département des Yvelines. Le bien commun agricole de la Région n’était donc pas nécessairement celui de l’Etat qui avait besoin d’espaces à urbaniser, ni celui des communes qui envisageaient aussi la mutation des terrains agricoles en voie d’abandon en terrains à urbaniser et en parcs publics. Dans d’autres Régions comme celle de Rhône-Alpes, c’est la convergence de projets du département de l’Isère, de la ville de Grenoble et de l’agence pour le développement agricole de l’Y grenoblois (ADAYG) qui a abouti à la protection des terres agricoles de la région urbaine. L’idée de bien commun agricole périurbain est donc portée d’abord par les collectivités territoriales et urbaines qui s’appuient sur les projets des associations d’agriculteurs et d’élus (l’ADAYG à Grenoble) et sur ceux des paysagistes et des urbanistes (la ceinture verte d’Ile-de-France, le district de Rennes). Dans le cas du district de Rennes comme dans celui du plateau du Saclay, il y a eu convergence entre les projets des paysagistes et ceux des élus. Le projet de paysage et le projet agriurbain : des outils de la volonté publique avec ou sans les agriculteurs Dans le cas du plateau de Saclay (Yvelines et Essonne) à l’ouest de Paris, la construction de la conscience d’un bien commun résulte de la convergence progressive entre les propositions des techniciens de l’IAURIF, les vœux des élus et la pression des associations locales de défense de l’environnement et de l’agriculture. Maintenu en espace rural par le SDAURIF de 1976, les 5600 hectares du plateau de Saclay (dont 2600 hectares agricoles) au sud de Versailles représentaient le quatrième espace d’importance de la M. BOURAOUI, L’agriculture, nouvel instrument de la construction urbaine, étude de deux modèles agriurbains d’aménagement du territoire : le plateau de Saclay à Paris et la plaine de Sijoumi à Tunis, Thèse de doctorat en sciences de l’environnement ENGREF/ENSP, 2000. 269 IAURIF, Plan vert régional d’Ile-de-France, Institut d’aménagement de la région Ile-de-France, 1995. 268 296 ceinture verte francilienne proposée au début des années 1980. Il apparaissait, dans les cartes de l’IAURIF, comme « espace vert public ou privé d’usage public ». À l’origine de cette prise de conscience d’un paysage agricole à préserver, la revendication dans un « Livre blanc » édité en 1976 par les 25 000 chercheurs et techniciens qui travaillaient sur le plateau (universités, grandes écoles, centres de recherches, etc.). Celle-ci portait sur la limitation de l’urbanisation, l’exclusion d’un projet autoroutier et l’affirmation de la vocation agricole du plateau. Face au maintien du projet autoroutier, mais aussi à la menace d’extension de la ville nouvelle de Saint-Quentin-en-Yvelines, fut créé en 1988 un collectif d’associations : l’union des associations de sauvegarde du plateau de Saclay. Etaient invoqués, dans un article Des Nouvelles de Rambouillet en 1989, « la coupure du plateau, le saccage des réserves ornithologiques des étangs de Saclay, et […] la disparition des terres agricoles : véritable poumon vert de la région » 270. Face à cette pression sociale locale, l’Etat, via le préfet de Région, demanda à un nouveau syndicat intercommunal d’étude et de programmation de Saclay (SIPS), qui deviendra en 1991 le District (DIPS) regroupant les 15 communes concernées, de définir une politique d’aménagement 271. Sous la forme d’un plan d’actions paysagères (PAP) élaboré par les urbanistes et paysagistes de l’IAURIF, cette politique prévoira en 1996 le maintien de 2000 hectares de terres agricoles et l’extension du pôle scientifique et urbain sur 600 hectares. C’est à partir de ce plan que sera ensuite négociée l’adhésion des 12 agriculteurs du plateau à une politique agriurbaine, sous la forme des contrats territoriaux d’exploitation (CTE) à partir de 2000, mais sans succès. En effet, les handicaps des agriculteurs dans cette région urbaine sont importants : difficultés de circulation des engins agricoles sur les routes, choix limité des productions végétales (abondance des pigeons), dégradations des récoltes, éloignement des services aux agriculteurs, etc., même si certains se placent dans une stratégie d’adaptation aux marchés urbains (location de bâtiments, compostage, pensions pour chevaux, vente directe, cueillette directe, circuits courts de vente, visites de fermes, jardineries). Le bien commun agricole paysager, en pratique une infrastructure urbaine verte sur le plateau de Saclay, est donc une construction sociopolitique qui se fait à l’interface de logiques strictement privées (l’agriculteur libre dans son exploitation) et strictement publiques (l’espace agricole comme parc paysager public et l’agriculteur comme jardinier). La mise en paysage commun ne s’opère que si les acteurs privés et publics entrent dans une relation « gagnant-gagnant » ; par exemple si les agriculteurs de la commune de Saclay ont intérêt à rester sur le plateau autant que la Région et les collectivités le souhaitent ; ce qui est évidemment loin d’être réalisé et encore incertain en 2005, surtout dans le contexte de la réforme de la PAC et du « découplage » des aides européennes entre le montant des aides et la production. Ces M. BOURAOUI, op. cit. p. 195. Le District est devenu en 2003 la Communauté d’agglomération du plateau de Saclay avec 9 communes réunissant 97 000 habitants. 270 271 297 actions communes relèvent aujourd’hui de la communauté d’agglomération et notamment des rachats de terres agricoles qu’elles opèrent via l’agence régionale des espaces verts et de la SAFER. Le lien entre agriculteurs et citadins se fait par une agriculture de services et notamment par les cueillettes à la ferme et les ventes directes. Les alternatives à l’espace ouvert périurbain : des villes agricoles ou boisées ? La communauté de biens paysagers entre producteurs et spectateurs d’espaces n’est déclarée que si les clients de ce marché de biens réels et symboliques sont satisfaits. Réels car il s’agit d’espaces concrets ; symboliques parce ce qu’ils représentent d’autres valeurs que celles que leurs producteurs leur donnent. Quand, en 1978, le département de Seine-Saint-Denis créa avec des paysagistes le parc du Sausset, il remplaça des terres productrices de céréales et de betteraves à sucre par un espace essentiellement boisé (200 hectares). Le projet politique des élus était de compléter l’équipement en espaces verts d’un département qui en était très dépourvu à l’exception du parc de La Courneuve (400 hectares). À cette époque, les paysages céréaliers n’étaient porteurs d’aucune aménité urbaine contrairement aux arbres des parcs publics. Le bien paysager qui était mis à disposition des usagers était public, comme son accès à des fins récréatives. Il ne supposait qu’une composition paysagère faisant une large place aux structures arborées de boisement et de bocages. Il ne fit pas place à des agriculteurs, même si l’idée en fut émise par les paysagistes. Si, en vingt ans, il a été possible dans quelques agglomérations françaises d’imaginer un espace vert sous une forme agricole plutôt qu’arborée, c’est que la demande sociale de paysage avait changé. Comme l’ont montré les sociologues Bertrand Hervieu et Jean Viard 272, les formes de campagne se sont transformées pour la majorité des Français en paysages pour le tourisme, la villégiature ou la résidence. D’alimentaire, la campagne est devenue d’abord un cadre idéal de vie avec des attributs paysagers persistants comme l’eau, l’herbe, la fleur et l’arbre. Nulle place en général pour ceux de l’agro-industrie : le tracteur, la serre, les tunnels plastiques, les ensilages et les fosses à lisier en sont exclus. Les Français, prisonniers d’une imagerie désuète, n’ont plus su reconnaître les campagnes d’aujourd’hui et cultivent souvent la nostalgie d’un âge d’or rural mythique. Leur besoin d’arbres a atteint une frénésie quasi compulsive comme dans certaines villes anglaises 273. En d’autres termes, l’espace agricole périurbain (en général sans arbres ou ligneux à l’exception des vergers et des vignes) n’entre dans la catégorie des biens communs paysagers que si le projet alternatif de paysage arboré est éliminé. Or le rejet de cette forme symbolique puissante ne va pas de B. HERVIEU – J. VIARD, Au bonheur des campagnes (et des provinces), La Tour d’Aigues, l’Aube, 1996. S. NAIL, « L’idée de nature en milieu urbain », in Nouvelles valeurs dans l’Angleterre d’aujourd’hui (M. Charlot édit.), Presses Sorbonne Nouvelle, 2003. 272 273 298 soi. Car l’arbre, à la fois permanence et mouvement saisonnier cyclique, est le paradigme de l’appartenance (de l’enracinement) à un territoire et de l’esthétique paysagère. La haie résiste, le bosquet subsiste dans les campagnes comme l’arbre fruitier solitaire car ils symbolisent des valeurs humaines essentielles 274. Ce qui n’est pas le cas des cultures sous serres ou des élevages de poulets. C’est pourquoi l’opérateur paysagiste traditionnel, formé à l’art des jardins et de la composition paysagère, est très démuni dans un projet agriurbain s’il ne connaît pas le vocabulaire paysager de l’agriculture contemporaine et s’il n’en a pas de représentations précises. Cette difficulté est moindre avec le forestier car l’arbre est un élément commun entre les deux praticiens, même si les logiques économiques de la sylviculture peuvent les séparer totalement comme dans le cas des basses vallées angevines. La régulation paysagiste des projets agriurbains oscille donc toujours entre des solutions conformes à la réalité matérielle produite par l’économie (pas de travestissement arboré, herbacé ou fleuri) et des solutions décoratives dites paysagères, entre un point de vue proche de ceux des agriculteurs et de ceux des citadins. Si le point de vue utilitaire du « paysageur » (par exemple l’agriculteur qui produit le paysage agricole) doit s’imposer, c’est parce qu’il est mis en image comme tel, sans déformations, avec le risque de n’être pas adopté par le public 275. S’il l’est, doit-on supposer que sans artifice cosmétique, le paysagiste peut constituer en bien commun le produit de l’agriculteur paysageur ? Dans ce cas, le paysagiste aura réduit voire annulé le décalage entre la réalité et son image. Il montrera ce que la ville et l’agriculteur acceptent ensemble de produire. Comment cette opération estelle possible ? S’agit-il d’admettre comme dans le cœur vert agricole et arboré de la Randstadt aux PaysBas qu’il existe un modèle paysager rural à ne pas transgresser ? Ou bien s’agit-il de ne mettre en image et en scène que les paysages porteurs de valeurs acceptables par les acteurs sociaux concernés ? Ce qui revient peut-être au même. 3. Les enjeux de la construction d’un bien commun paysager agricole : les pratiques de la désignation Nous admettrons que la construction d’un bien commun paysager est fondée par la désignation de celui-ci par un groupe social qui en devient le titulaire, c’est-à-dire en est, en quelque sorte, responsable. Or désigner veut dire, selon l’étymologie latine, à la fois marquer d’un signe (signaler, choisir) et représenter (dessiner) 276. Ce qui veut dire que celui qui désigne peut aussi être un dessinateur (designer). C’est ainsi que procède la mise en paysage d’un espace par désignation, soit par des dessinateurs (les architectes R. DUMAS, Traité de l’arbre, essai d’une philosophie occidentale, Actes Sud, 2002. P. DONADIEU – M. PERIGORD, Clés pour le paysage, Gap, Ophrys, 2005, p. 362. 276 Désigner signifie aussi nommer quelqu’un à une fonction dont il devient ainsi titulaire. Design, riche du mot dessin et dessein, est un emprunt récent à l’anglais design (1959) issu du mot français dessein qui signifiait à la fois dessin et but jusqu’au XVIIe siècle (Rey, 1992). 274 275 299 paysagistes qui mettent en images), soit par des opérateurs qui ne le sont pas, mais marquent eux aussi d’un ou plusieurs signes les formes du paysage qu’ils choisissent ou font choisir. Les acteurs paysagistes sélectionnent les acteurs gagnants Les architectes et les ingénieurs paysagistes sont sollicités par les collectivités urbaines pour réaliser des plans de paysage ou préparer des chartes de paysage. Ce sont des opérateurs investis d’une légitimité par la formation qui leur a été donnée et le diplôme qui l’a sanctionnée : celui de paysagiste DPLG notamment. Par ce titre, l’Etat a sélectionné des experts capables d’anticiper les évolutions d’un paysage et d’en reconnaître les qualités et les fonctionnalités dans le cadre d’un projet (de paysage). Pour ces praticiens, la notion de paysage n’évoque pas de valeurs en soi, mais un projet de mise en cohérence des fonctions et des formes de l’espace perçu (bâti ou non). Face à un espace à aménager, à grande et moyenne échelles géographiques, et qui devient alors un site à travailler pour le recomposer, les postures professionnelles des concepteurs varient. Les uns, plutôt plasticiens, privilégient la reconnaissance sensible du site qui s’appuie surtout sur les pratiques de désignation des formes et des relations à établir entre elles. Les formes du site, c’est-àdire sa géographie physique – soutiennent des paysagistes comme Gilles Vexlard et ses élèves 277 – portent le potentiel de cohérence et de composition du paysage local à faire advenir. Le paysagiste, en dessinant croquis et plans, désigne la structuration des formes et fonctions susceptibles d’être reconnues par les usagers comme paysages appréciables. Seul le succès du projet mis en œuvre peut alors révéler un public qui se l’est approprié et en a fait alors un bien public. Car, dans ces cas, il s’agit surtout de biens publics (parcs, squares, places, rues, etc.) rarement remis en questions par les usagers, mais autant des lieux d’expériences (place) que des porteurs de paysages (images). Les autres, plus scientifiques, s’attachent d’abord à analyser l’évolution des formes et des fonctions d’un paysage. À cet effet, ils mobilisent de nombreuses disciplines productrices de connaissances scientifiques : la géographie physique et sociale, l’écologie des populations et de la restauration, l’histoire, l’économie, le droit, la sociologie, les sciences de l’environnement et celles des techniques, etc. De leurs points de vue, ce sont les connaissances acquises sur le site par les sciences et les valeurs projetées qui motivent le parti de projet. Par exemple, la dynamique végétale pour le paysagiste Gilles Clément consulté pour le jardin du Rayol dans le Var ou le parc Matisse à Lille. Ces paysagistes, qui dessinent, cherchent à mettre en place des actions didactiques et exemplaires des valeurs esthétiques, éthiques et fonctionnelles qu’ils veulent illustrer dans leurs réalisations. Beaucoup de paysagistes tentent la synthèse des approches dites sensibles (plasticiennes ou poétiques) et des approches scientifiques. Mis en situation d’interpréter les questions des élus et de La plupart des paysagistes français s’inscrivent dans la filiation de Jacques Simon, Michel Corajoud et Bernard Lassus qui sont à la fois des architectes paysagistes et des designers paysagistes. 277 300 répondre à celles des autres techniciens de l’aménagement, ils créent un espace de projet pluraliste, à la fois spécialisé (la prestation du paysagiste perçu comme un spécialiste à côté de l’urbaniste et de l’architecte) et généraliste (le paysagiste comme coacteur de la cohérence paysagère : esthétique, symbolique et fonctionnelle, du territoire d’une collectivité). Porteur d’un projet de paysage à mettre en œuvre sous forme de plans, chartes ou contrats avec les collectivités, ils portent donc aussi les valeurs éthiques et esthétiques que les choix politiques entraînent. Privilégier les formes agricoles revient à disqualifier les formes forestières et les sylviculteurs, les formes urbaines et les formes industrielles et bien d’autres encore. Mais ce choix de l’opérateur paysagiste, qui ne dit pas qui produit les formes agricoles, donne un avantage aux agriculteurs qui s’adaptent aux marchés urbains comme à ceux du tourisme, en bref les emmène vers une agriculture de services que néanmoins la plupart redoutent. Ce qu’une Politique Agricole Commune, demain plus rurale qu’agricole, ne peut que conforter, et les lobbies agricoles majoritaires déplorer. Les acteurs non paysagistes aussi Hors des paysagistes porteurs de la compétence officielle de désignation et de réalisation paysagiste, il existe d’autres acteurs qui se présentent sur le même créneau de compétences professionnelles : celles de savoir ou de vouloir accompagner la recomposition sociale et spatiale des territoires des collectivités. La plupart sont des scientifiques issus de culture géographique, agronomique, écologique ou urbanistique. Ces derniers ne sont pas enclins à une réponse de type « projet de paysage » à un client public (maître d’ouvrage) comme la plupart des paysagistes. Leurs paradigmes sont ceux de la connaissance scientifique déterminant l’action publique, ou de la médiation sociale. En général de formation scientifique, ils font l’hypothèse que les formes du paysage ne sont pas un donné géographique à recomposer, mais un produit spatial et social à comprendre. C’est pourquoi ils dessinent peu ou pas, cartographient beaucoup, et s’attachent à chercher les causes des faits paysagers et des questions sociales et politiques de paysage. Les uns sont producteurs de connaissances mobilisables par les acteurs publics pour modifier ou créer les actions publiques ; les autres sont engagés dans l’action sur les territoires communaux ou intercommunaux, notamment dans les parcs naturels régionaux. Chercheurs de laboratoires du Centre national de la recherche scientifique ou encore de l’Institut national de la recherche agronomique (INRA), géographes, historiens, agronomes, sociologues ou écologues, ils expliquent par exemple les paysages des néobocages de l’Ouest de la France. Les logiques de replantation de haies par les agriculteurs en fonction de leur encadrement technique 301 apparaissent comme une cause de l’évolution des paysages agricoles des Côtes d’Armor 278. En Ille-etVilaine, dans la région de Rennes, c’est le rapport symbolique et fonctionnel des agriculteurs aux arbres des haies qui apparaît surtout déterminant 279. Le fait d’avoir confié aux agriculteurs le soin de replanter les arbres sur leurs parcelles pose la question de l’usage des fonds publics pour engendrer les biens communs paysagers ainsi créés. L’absence fréquente de projets publics dans les collectivités concernées par ces plantations restreint le bénéfice des plantations aux groupes agricoles et ne l’élargit pas souvent aux usagers non agricoles de la campagne (promenade, équitation, cyclisme, pêche, etc.). Dans ces cas, ce sont les modalités des actions paysagères qu’il faut revoir en conseillant utilement les collectivités territoriales (Région, département, communauté d’agglomération, etc.) et l’Etat. Le chercheur, en repérant les acteurs gagnants et perdants dans ces actions publiques, donne les moyens de mieux dépenser les fonds publics et engage à mieux préciser les objectifs des politiques paysagères. En général, elles ont été peu précises avec des objectifs plus spatiaux que sociaux. Comme les précédents, les médiateurs de paysage, animateurs du développement rural dans les parcs naturels régionaux par exemple, s’intéressent à l’action paysagère. Le paysage est pour eux un outil de l’action publique. Constatant eux aussi le décalage entre les formes paysagères produites par l’économie et le statut des sols, et ce qu’en attendent, de manière souvent contradictoire, les habitants, ils accompagnent sur le terrain la mise en œuvre des projets urbains ou ruraux de développement. Ces actions dites paysagères produisent entre communes des différences spatiales que mettent à profit ceux qui recherchent des identités sociales de territoires. Sont autant d’enjeux locaux, la préservation d’un marais, la restauration du petit patrimoine hydraulique, le tracé de sentiers piétonniers, la conservation de savoir-faire locaux, la reconquête de terrains abandonnés, de friches, de landes, la maîtrise du reboisement autant que de l’urbanisation, etc. Définies par les politiques de parcs, ces actions s’enchaînent pour produire des paysages parfois singuliers, parfois normalisés en fonction des rapports entre logiques d’actions communales et intercommunales. Là aussi disparaissent les acteurs locaux et leurs paysages qui ne peuvent s’inscrire dans ces recompositions sociopaysagères : industriels et éleveurs polluant les eaux, lignes électriques jugées nuisantes, propriétaires négligents, etc. Parallèlement émergent les « bonnes pratiques » qui visent à réduire le décalage entre les formes produites et « consommées » : planification paysagère et urbaine, plantations de l’espace public, gestion hydraulique, accès à l’espace, restauration patrimoniale, création architecturale encadrée, etc. Parfois le « pays résiste au paysage », comme dans les régions de marais, mais peut être pas pour très longtemps 280. 278 M. TOUBLANC, « Un dispositif d’évaluation sommaire au service d’une action publique incertaine. L’exemple de la reconstitution du paysage de bocage dans le département des Côtes-d’Armor », in L’évaluation du paysage une utopie nécessaire ? (D. Puech et A. Rivière-Honegger édit.), CNRS, Montpellier, UMR 5045, 2004, pp. 465-486. 279 S. PERICHON, L’évolution des paysages d’arbres et de haies en Ille et Vilaine – Histoire récente vue par trois générations d’agriculteurs. Thèse de doctorat en sciences de l’environnement, Paris, ENGREF-ENSP, 2003. 280 E. LAMBREY, Perceptions et représentations des marais : du vu au vécu, les liens sensibles entre les hommes et les marais, Thèse de doctorat en géographie culturelle de l’EHESS, 2 tomes et annexes, 2004. 302 En résumé, les paysagistes en titre formulent plutôt des projets d’action sur les formes matérielles du paysage avec d’inévitables répercussions sociales ; alors que les non paysagistes 281 préfèrent informer les pouvoirs publics ou agir avec les acteurs sociaux pour modifier le paysage produit. Mais ces deux types de pratiques interfèrent dans la réalité des pratiques d’aménagement de l’espace et ces interférences sont mal connues. On aura compris que ces pratiques paysagistes, proches de l’action de terrain et des pouvoirs publics, sont engagées dans l’encadrement du développement économique et social des villes et des campagnes. L’enjeu dans les régions urbaines est autant de conserver les héritages paysagers, locaux et nationaux, que de les adapter à l’évolution des marchés qui font évoluer les paysages agricoles, et à celle des regards qui les contemplent ou cherchent à les comprendre. Cette dépense d’argent et d’énergie ne saurait cesser tant que les regards des citadins sur les paysages périurbains ne s’accorderont pas avec ce qu’ils en attendent. Ce qui n’arrivera peut-être jamais, car les paysages de l’agriculture ne peuvent devenir communs de manière durable, que s’ils relèvent du patrimoine public ! Cette aporie trouvera une solution soit dans une quête publique incessante et épuisante du paysage idéal, soit dans la construction d’un double regard à la fois contemplatif et compréhensif. Ce qui relève du fonctionnement normal et équilibré de notre cerveau ! Conclusion Il existe en France comme dans la plupart des pays du nord de l’Europe une catégorie de professionnels de l’aménagement de l’espace qui pratiquent l’architecture du paysage et la planification du paysage. Ces praticiens sont mobilisés par les pouvoirs publics pour accompagner le développement économique et social, et réduire l’écart problématique entre les formes paysagères produites et leurs représentations sociales. Dans le cas des espaces agricoles des régions urbaines, ces professionnels du paysage ont participé à la désignation progressive des paysages agriurbains comme infrastructures d’espaces ouverts et verts d’agglomérations de plus en plus étalées. Cette construction sociale est passée d’abord par la reconnaissance publique de l’idée de paysage ordinaire comme outil de la construction des territoires des collectivités. Ces actions publiques : plans, atlas et chartes de paysage sont toujours des outils de projets recommandés par l’Etat et relayés plus ou moins par les collectivités. Dans une seconde étape, c’est l’espace agricole qui, après avoir été ignoré par la planification urbaine jusqu’à la fin des années 1970, fut désigné comme digne de protection en Ile-de-France. Il fallut cependant attendre le SDAURIF de 1994 pour que, en Région parisienne et notamment avec Il ne s’agit ici que de distinction des professionnels du paysage entre eux : d’un côté les paysagistes diplômés comme les paysagistes DPLG en France, de l’autre ceux qui n’ont pas ce diplôme d’architecture du paysage, mais sont concernés par les mêmes pratiques. 281 303 l’expérience du plateau de Saclay, les paysages agricoles commencent à être considérés comme précieux pour l’intérêt général, à la fois par les professionnels du paysage et de l’urbanisme, les élus et les associations de protection de l’environnement. Cette prise de conscience est loin d’être généralisée dans les agglomérations françaises. Le succès de ces pratiques, à Grenoble et Rennes, comme en région parisienne, mais aussi aujourd’hui à Lille, Nantes et Lyon ne mobilisa pas nécessairement les agriculteurs. Selon les cas, leurs intérêts étaient ou non convergents avec les intérêts des élus et ceux de l’Etat et des collectivités. Par ailleurs, il fallait que le projet agriurbain s’impose à l’alternative d’une occupation boisée du sol que recommandaient souvent les paysagistes. En outre il fallait faire admettre que le paysage agricole entre dans le tissu urbain sous sa forme brute, sans être affecté par les apprêts paysagistes et leurs modèles de parcs et de jardins. Cette reconnaissance d’un bien commun paysager agriurbain impliqua une évolution des pratiques paysagistes pour ne plus faire appel au modèle stylistique et idéologique de la campagne pittoresque et préconiser, prosaïquement, les formes produites par l’agriculture contemporaine ordinaire 282. Deux types de réponses ont été faites par les professionnels du paysage. Les uns, experts paysagistes légitimés par l’Etat, ont souhaité agir principalement sur les formes du paysage avec d’inévitables conséquences sociales (sélection). Les autres, chercheurs ou animateurs ont agi plutôt sur les producteurs de paysage, soit directement, soit par l’intermédiaire des pouvoirs publics. Tous ont abouti au même résultat : la recomposition sociale et spatiale des territoires concernés. Dans ce processus long, les agriculteurs des régions urbaines peuvent être gagnants ou perdants selon leurs capacités à s’adapter aux marchés urbains et à l’action politique urbaine. Issues de l’univers des architectes de jardins ou des sciences de la nature et de la société, les pratiques des paysagistes se sont adaptées, de manière différente, à une nouvelle demande sociale de paysage, celle de campagnes ordinaires « telles que perçues par les populations ». Cette définition du paysage dans la convention européenne du paysage de 2000 ne dit pas que les paysages agricoles désignés par les opérateurs seront reconnus par tous. Mais, partageables par le plus grand nombre, ils ne seront produits « durablement » que par ceux qui en saisissent les enjeux singuliers à l’interface des mondes ruraux et urbains. Pour ce faire, il semble que le pouvoir de désignation doive être confié à la fois à des designers et à des scientifiques, compétences entre lesquelles les sociétés habitantes arbitreront si elles le jugent nécessaire. Ainsi peut être construit le bien commun paysager, ni exclusivement privé, ni exclusivement public. Il permet de faire exister des espaces ouverts hybrides qui redéfinissent les formes de la ville étalée et la contiennent. 282 S. HERRINGTON, « Framed again : the Picturesque Aesthetics oof contemporary Landscapes », Landscape Journal, 25 : 1, 2006. 304 Bibliographie S. AUTRAN, Les infrastructures vertes à l’épreuve des plans d’urbanisme, l’agglomération lyonnaise, la construction d’une stratégie, Lyon, CERTU, 2004, 319 p. B. BLANCHON, «Les paysagistes français de 1945 à 1975 », Les Annales de la recherche urbaine, n° 85, 1999. M. BOURAOUI, L’agriculture, nouvel instrument de la construction urbaine, étude de deux modèles agriurbains d’aménagement du territoire : le plateau de Saclay à Paris et la plaine de Sijoumi à Tunis, Thèse de doctorat en sciences de l’environnement ENGREF/ENSP, 2000, 427 p. F. DUBOST, Les paysagistes et l’invention du paysage, Sociologie du travail, 4, 1983. P. DONADIEU, « Pour une conservation inventive du paysage », in Cinq propositions pour une théorie du paysage (Berque édit.), Seyssel, Champ Vallon, 1994, pp. 51-80. P. DONADIEU – M. PERIGORD, Clés pour le paysage, Gap, Ophrys, 2005, p. 362. R. DUMAS, Traité de l’arbre, essai d’une philosophie occidentale, Actes Sud, 2002, 255 p. P. et B. FAYE et al., Site et sitologie, Comment construire sans casser le paysage, Paris, J.J. Pauvert, 1974, 159 p. B. FOLLEA – C. GAUTIER, Guide des plans de paysage, des chartes et des contrats, Ministère de l’Aménagement du territoire et de l’environnement, Paris, 2001, 129 p. B. HERVIEU – J. VIARD, Au bonheur des campagnes (et des provinces), La Tour d’Aigues, l’Aube, 1996. S. HERRINGTON, « Framed again : the Picturesque Aesthetics oof contemporary Landscapes », Landscape Journal, 25 : 1, 2006. IAURIF, Plan vert régional d’Ile-de-France, Institut d’aménagement de la région Ile-de-France, 1995, 259 p. E. LAMBREY, Perceptions et représentations des marais : du vu au vécu, les liens sensibles entre les hommes et les marais, Thèse de doctorat en géographie culturelle de l’EHESS, 2 tomes et annexes, 2004, 488 p. S. LE FLOCH, « Le peuplier dans la peinture de paysage, esthétique et originalité d’un arbre de l’ordinaire », Paysage et aménagement, 34, 1996, p. 14-22. S. NAIL, « L’idée de nature en milieu urbain », in Nouvelles valeurs dans l’Angleterre d’aujourd’hui (M. Charlot édit.), Presses Sorbonne Nouvelle, 2003. J. NASR – M. PADILLA (édit.), Interfaces : agricultures et villes à l’Est et au sud de la Méditerranée, Delta édit., 2004, 429 p. O.B. SMITH et al. (édit.), Développement durable de l’agriculture urbaine en Afrique francophone, enjeux, concepts et méthodes, CIRAD/CRDI, 2004, 173 p. M. TOUBLANC, « Un dispositif d’évaluation sommaire au service d’une action publique incertaine. L’exemple de la reconstitution du paysage de bocage dans le département des Côtes-d’Armor », in L’évaluation du paysage une utopie nécessaire ? (D. Puech et A. Rivière-Honegger édit.), CNRS, Montpellier, UMR 5045, 2004, pp. 465-486. S. PERICHON, L’évolution des paysages d’arbres et de haies en Ille et Vilaine – Histoire récente vue par trois générations d’agriculteurs. Thèse de doctorat en sciences de l’environnement, Paris, ENGREF-ENSP, 2003, 311 p. M. PHLIPPONNEAU, La vie rurale de la banlieue parisienne : étude de géographie humaine, Paris, A. Colin, 1956. M. TOUBLANC, « Un dispositif d’évaluation sommaire au service d’une action publique incertaine. L’exemple de la reconstitution du paysage de bocage dans le département des Côtes-d’Armor », in L’évaluation du paysage une utopie nécessaire ? (D. Puech, A. Rivière-Honegger, édit.), CNRS, Montpellier, UMR 5045, 2004, pp. 465-486. 305 ABSTRACTS Introduzione – introduction – Einleitung RITA COLANTONIO VENTURELLI ALCUNE RIFLESSIONI SULLA POSSIBILITÀ DI DEFINIRE UN NUOVO MODELLO CULTURALE DI PAESAGGIO EUROPEO Deutsche Zusammenfassung: Der Beitrag untersucht die historischen Vorgaben, an denen sich das künftige Kulturmodell der europäischen Landschaft inspirieren könnte. Besonders berücksichtigt wird dabei die mittelalterliche Raumordnung, da dort gemeinsame Wurzeln aufgedeckt werden können. Ausgehend von den disziplinenübergreifenden Ergebnissen der Forschungskonferenzen der Jahre 2005 und 2006 wird das neue Kulturmodell skizziert, das den drei Hauptaspekten der gemeinsamen Überlegung gerecht wird: Landschaft als Erzählung und Erfindung; Landschaft als Wissenschaft und Darstellung; Landschaft als Projekt und Governance. Als Folge des neuen Kulturmodells wird ein mögliches neues Landschaftsmodell entwickelt, das diejenigen aktuellen bzw. leicht vorhersehbaren Tendenzen ausschließt, die nicht den dargestellten kulturellen Prinzipien entsprechen. Daraus ergibt sich der Entwurf eines möglichen physischen Szenariums, ohne dass Aussagen über die effektiven räumlichen Charakteristika getroffen werden. Résumé français : Le texte interroge les prémisses historiques sur lesquelles pourrait se baser le futur modèle culturel du paysage européen. Dans cette perspective, les principes de l’organisation de l’espace au Moyen-âge jouent un rôle fondamental puisque c’est à cette époque qu’on peut observer de fortes similitudes sur le plan européen. Les résultats pluridisciplinaires obtenus durant les deux conférences organisées en 2005 et 2006 ont permis d’esquisser un nouveau modèle culturel. Ce nouveau modèle culturel s’appuie sur les trois axes de réflexion développés par le groupe de recherche : le paysage comme récit et invention ; le paysage comme science et représentation ; le paysage comme projet et gouvernance. Le modèle culturel ainsi établi a un impact direct sur un possible nouveau modèle de paysage. Ce modèle de paysage exclue les tendances actuelles ou aisément prévisibles qui ne correspondent pas aux principes culturels énoncés par le groupe de recherche. Il en découle l’ébauche d’un possible scénario physique qui ne fournit pas encore d’indications spatiales concrètes pour le nouveau modèle de paysage. Prima parte – première partie – erster Teil RITA COLANTONIO VENTURELLI – ANDREA GALLI – GIOVANNA PACI MULTIDISCIPLINARIETÀ E RICOMPOSIZIONE DEL SAPERE. UN CONTRIBUTO PER LA GESTIONE DEL PAESAGGIO CULTURALE Deutsche Zusammenfassung: Entwicklungen wie die landwirtschaftliche Revolution, die städtische Revolution und schließlich die Revolutionen im Energiesektor und im Informatikbereich haben die wichtigsten Etappen der Geschichte begleitet. Ein synthetischer Vergleich zwischen einzelnen Abschnitten des Interaktionsprozesses zwischen 306 Strukturen, Funktionen und Energieflüssen im menschlichen Habit kann dazu dienen, Überlegungen über die Zukunft dieses Habitats anzuregen. Für einen solchen Vergleich empfiehlt es sich, zwei Gebiete zu wählen, die im selben Zeitraum teils ähnliche, teils unterschiedliche Entwicklungen durchlaufen haben. Aus diesem Grund wurden für die vorliegende Studie zwei italienische Beispiele gewählt: das erste betrifft Norditalien und insbesondere den lombardischen Teil der Poebene; das zweite befindet sich in Mittelitalien und betrifft vor allem die Region Marken. Der Beitrag gliedert sich in drei Fragestellungen, die er zu beantworten versucht: 1) Was ist mit dem Begriff “Landschaft” gemeint? Das Landschaftssystem befindet sich in einem kontinuierlichen Entwicklungsprozess. Die einzelnen Umwandlungsprozesse – sowohl die vom Menschen eingeleiteten als auch die spontan entstandenen – haben eine Kulturlandschaft geschaffen, in der der Mensch Spuren unterschiedlicher Ausprägung hinterlassen hat: Dazu gehören ästhetische, ethische, kulturelle, administrative, politische und die Umwelt betreffende Spuren. Die Strukturen und Funktionen der Kulturlandschaft lassen sich anhand der Analyse einiger Modelle aus Vergangenheit und Gegenwart darstellen, die im Beitrag kurz beschrieben und miteinander verglichen werden. 2) Ist es sinnvoll, weiterhin das Konzept räumlicher und zeitlicher Skalen zu verwenden, um die zeitgenössische Landschaft zu beschreiben? Es besteht die Notwendigkeit, das Wissen für ein allgemeines Studium der Landschaft neu zu organisieren; wichtig wären vor allem: - die Aufnahme eines multidisziplinären Dialogs zur Entwicklung von kulturellen Instrumenten, die die Analyse und die integrative Landschaftsplanung ermöglichen; - die Überwindung der traditionellen, parataktischen Formen der Zusammenarbeit, um geeignete wissenschaftliche Instrumente zu entwickeln; - eine syntaktische Zusammenarbeit und ein Nachdenken über “Schnittstellen” zwischen einzelnen Disziplinen, an denen man ansetzen könnte, um mögliche konkrete Ansatzpunkte für eine Zusammenarbeit zu finden. 3) Gibt es Parameter für eine multidisziplinäre Auffassung der Landschaft? Spontan würde man hier an Indikatoren denken, die dabei helfen, die Phänomene zu beschreiben und zu messen. Jedoch hat die Untergliederung des Wissens zu einer ausgeprägten Dichotomie zwischen der Forschung und ihrer Anwendung in den unterschiedlichen Bereichen geführt. Dies wiederum hat die wachsende Notwendigkeit einer Integration und Interdependenz zwischen der Theorie und ihrer Anwendung nach sich gezogen. Es sollte also versucht werden, einen kontinuierlichen Prozess anzuregen, der dieser Notwendigkeit gerecht wird und zudem als experimentelle Überprüfung der theoretischen Annahmen und als Impuls für neue und weiterführende Forschungsthemen dienen kann. Dies gehört zu den Zielen der gemeinsamen Treffen im Rahmen der Forschungskonferenzreihe. Gedacht ist an ein gemeinsames Vorgehen mit folgenden Zielsetzungen: - Erarbeitung einiger Grundbegriffe, die die Grundlage bilden für analytische Untersuchungen im Hinblick auf eine korrekte Verwaltung der Kulturlandschaft; - Anwendung der so erarbeiteten Methode auf Fallstudien mit dem Ziel, spezifischere Indikatoren zu ermitteln. Abschließend wird ein Motto vorgeschlagen, das die angestrebte wissenschaftliche Ausrichtung folgendermaßen zusammenfasst: “Neuordnung des Wissens für eine Neuordnung der Landschaft”. Résumé français : Les révolutions successives – agricole, urbaine, énergétique et informatique – ont accompagné la marche de l’Histoire. Une comparaison synthétique des étapes historiques du processus d’interaction entre structures, fonctions et flux énergétiques dans l’habitat humain peut nourrir une réflexion sur le possible développement futur des lieux de vie de l’être humain. Afin de procéder à une telle comparaison et d’obtenir des résultats clairs, il est préférable de choisir comme sujet d’observation deux territoires qui ont subi durant la même période des évolutions en partie semblables et en partie différentes. C’est pour cette raison que la présente étude a retenu les deux exemples de territoire italien. Le premier se situe en Italie du Nord, dans la partie lombarde de la plaine du Pô. Le deuxième territoire étudié se trouve au cœur de la péninsule italienne, dans la région des Marches. La présente étude s’articule autour de trois problématiques suivantes : 307 1) Qu’est-ce qu’on entend par ‘paysage’ ? Le paysage est un système en perpétuelle évolution. Les différents processus de transformation – tant ceux ayant une origine humaine que les processus naturels – ont donné naissance à un paysage culturel dans lequel l’être humain a laissé son empreinte, qu’elle soit esthétique, éthique, culturelle, administrative, politique ou qu’elle touche à l’environnement. Les structures et les fonctions du paysage culturel peuvent être analysées à l’aide de modèles récents ou plus anciens. Ces modèles sont décrits et comparés brièvement dans l’article. 2) Est-il sensé de continuer à utiliser le concept d’échelles spatiales et temporaires pour décrire le paysage contemporain Il est nécessaire de réorganiser les savoirs qui ont trait à l’étude du paysage et : - de développer un dialogue multidisciplinaire, indispensable à la création d’instruments culturels permettant l’interprétation, l’étude et la gestion intégrée du paysage ; - d’abandonner les collaborations traditionnelles paratactiques pour créer des instruments scientifiques adaptés ; - de mettre en place une collaboration syntactique, c’est à dire dans un premier temps de réfléchir aux possibles “interfaces” entre les diverses disciplines afin de trouver des terrains communs en vue d’une coopération concrète. 3) Quels paramètres de lecture multidisciplinaire du paysage ? D’un prime abord, on penserait que ces instruments de lecture multidisciplinaire pourraient être des indicateurs qui aideraient à mesurer et à décrire les phénomènes liés au paysage. Toutefois, la division du savoir entre plusieurs disciplines a créé une dichotomie évidente entre la recherche scientifique et son application. Cette division a pour conséquence une nécessité toujours croissante d’intégrer savoir théorique et applications pratiques. Il est donc nécessaire de chercher à initier un processus continu qui puisse répondre à cette exigence d’intégration, mais aussi offrir la possibilité de mettre les théories au banc d’essai et stimuler l’émergence de nouveaux thèmes de recherche. La définition de ce processus figure parmi les objectifs de la présente série d’Ateliers de Recherche. On se propose de procéder comme suit : - déterminer des concepts fondamentaux composant la base des recherches analytiques qui auront pour finalité la gestion correcte du paysage culturel ; - appliquer la méthode ainsi obtenue à des cas concrets avec pour objectif d’affiner les indicateurs. En guise de conclusion, on pourrait proposer la devise suivante, reprenant l’esprit de la démarche scientifique adoptée: “Recomposition du savoir pour recomposer le paysage”. GIORGIO MANGANI TOPICA DEL PAESAGGIO Deutsche Zusammenfassung: Man kann im 20. Jahrhundert zwei Arten von Landschaftsanalysen unterscheiden: Während sich die erste Analyserichtung auf die objektiven Komponenten der Landschaft konzentriert, steht bei der zweiten Richtung die psychologische und perzeptive Dimension im Vordergrund. Allerdings gab es in den letzten Jahren auch Tendenzen, beide Richtungen zu kombinieren. Anhand einer aus der geographischen und kartographischen Theorie abgeleiteten rhetorisch-linguistischen Landschaftsanalyse kann man herausarbeiten, dass sozial und historisch geprägte rhetorische Strukturen die Lesart von Landschaften im Laufe der Geschichte beeinflusst haben. Die (reale sowie auch die vorgestellte) Landschaft wurde, den rhetorischen Gesetzen folgend, zum mnemonischen Repertoire. Die Landschaft ist somit nicht nur das Ergebnis menschlichen Handelns und 308 menschlicher Wahrnehmung, sondern fungiert auch als Erzeugerin menschlichen Verhaltens. Diese Feststellung erlaubt es, die zwei Hauptmerkmale der Landschaft in strukturierter Form zu verbinden – einerseits „organisches Ensemble aus objektiven Komponenten“ und andererseits „wahrgenommenes Objekt“ – und den traditionellen Gedanken zu überwinden, der davon ausgeht, dass die Wahrnehmung der Landschaft nur vom „Gemütszustand“ des Betrachters abhängig sei. Résumé français : Au XXème siècle, on distingue deux types d’analyse du paysage : le premier se concentre sur les composantes objectives du paysage, tandis que le deuxième en examine la dimension psychologique et perceptive. Toutefois, ces derniers temps, on observe une tendance visant à concilier ces deux approches. Grâce à une analyse rhétorico-linguistique du paysage, dérivée de la théorie géographique et cartographique, on peut établir que, au fil du temps, la lecture du paysage a été filtrée par des structures rhétoriques, conditionnées par la société et par l’histoire. D’après les lois établies par la rhétorique, le paysage tant physique que sa représentation intellectuelle a été utilisé comme support mnémonique. Par conséquent, le paysage n’est pas seulement le résultat commun de l’action et de la perception humaines, il joue aussi le rôle d’initiateur du comportement humain. Cette constatation permet de faire le lien entre les deux aspects du paysage : c’est un ensemble organique présentant des composantes objectives ainsi qu’un objet perçu. Il s’ensuit que, contrairement aux idées reçues, la perception du paysage dépasse l’« état d’âme » de celui qui le contemple. HANSJÖRG KÜSTER NATUR UND LANDSCHAFT IN NATURWISSENSCHAFTLICHER SICHT: ZWEI BEGRIFFE, DIE UNTERSCHIEDEN WERDEN MÜSSEN Riassunto italiano: In tedesco i due concetti di “natura” e “paesaggio” vengono spesso utilizzati in maniera sinonimica. Si parla di un contrasto tra “paesaggio naturale” e “paesaggio culturale”. Il “paesaggio naturale” non viene influenzato dall’uomo e dalla sua cultura, mentre il “paesaggio culturale” ne viene invece modellato. Da un punto di vista scientifico-naturalistico questo utilizzo dei concetti di “natura” versus “paesaggio” da un lato, e di “paesaggio naturale” versus “paesaggio culturale” dall’altro, non è tuttavia accettabile. La natura si trasforma in continuazione: un ecosistema non rappresenta infatti una costante, bensì un processo. Contrariamente alla natura, il paesaggio può essere pensato come una dimensione stabile. La natura può esistere con o senza uomini, ma un paesaggio esiste solo se l’uomo lo riconosce, coscientemente o anche incoscientemente. Il paesaggio si costruisce o si definisce sempre a partire da un punto di vista culturale, ed è questo il motivo per cui non si può per principio accettare il concetto di paesaggio naturale. Da ciò consegue che la formula “paesaggio culturale” non debba essere utilizzata; essa è infatti una tautologia, dal momento che il paesaggio è sempre culturale. Se si considera il concetto di protezione della natura, bisogna comprenderlo in termini di protezione di un processo dinamico, mentre spesso con tale idea si intende piuttosto una conservazione dello status quo, di una condizione che con la continua trasformazione della natura non ha niente a che vedere. Il vero scopo che in questo modo viene perseguito è la protezione di un paesaggio, la preservazione di un modello con tutte le strutture che questo modello comprende. Tale fine è della massima importanza, ma non può essere definito protezione della natura; si tratta piuttosto dello scopo principale della protezione del paesaggio. A un paesaggio non ci si dovrebbe accostare solo con analisi scientifico-naturalistiche; esso dovrebbe poter essere rappresentato anche in termini di sintesi, poiché è questo di cui hanno bisogno i progettisti (e anche i politici). Tutti gli uomini sono chiamati a riflettere insieme sull’immagine del “loro” paesaggio nel presente e nel futuro. A questo riguardo, è indispensabile che possa svilupparsi un compromesso “intersoggettivo” su quale paesaggio debba essere protetto – come spazio di lavoro, di riposo, di sentimento o come patria. 309 Résumé français : En allemand, les expressions « nature » et « paysage » sont souvent employées comme synonymes. On parle par exemple d’un contraste entre « paysage naturel » et « paysage culturel », en affirmant que le « paysage naturel » ne serait pas influencé par l’homme et sa culture tandis que le « paysage culturel » serait forgé par l’être humain. Toutefois, d’un point de vue scientifique, cette utilisation des concepts « nature », « paysage », « paysage naturel » et « paysage culturel » n’est pas recevable. La nature est en perpétuelle transformation : un écosystème n’est pas une constante, mais un processus continu. En revanche, le paysage peut être pensé comme une dimension stable. La nature peut exister avec ou sans l’être humain, mais un paysage existe seulement si l’homme le perçoit, de manière consciente ou inconsciente. Le paysage se construit ou se définit toujours à partir d’un point de vue culturel. C’est la raison pour laquelle on ne peut, par principe, accepter le concept de « paysage naturel ». Il s’ensuit que l’expression « paysage culturel » est une tautologie, vu que le paysage est toujours culturel. Si l’on considère le concept de protection de la nature, il faut l’entendre comme protection d’un processus dynamique. Souvent, on conçoit plutôt la protection de la nature comme conservation du status quo. Or cette acception occulte complètement le processus de perpétuelle transformation de la nature. Le véritable but de la protection de la nature est en réalité la protection d’un paysage, la préservation d’un modèle et de ses structures intrinsèques. Ce dessein est certes de la plus grande importance, mais il ne peut être défini comme protection de la nature en tant que telle : il faudrait plutôt parler de protection du paysage. Un paysage ne devrait pas être analysé seulement par les sciences naturelles. Il devrait également faire l’objet de synthèses de différentes approches, étant donné que les urbanistes (et aussi les politiciens) ont besoin d’analyses prenant en compte toute la complexité du sujet. Chacun est appelé à réfléchir sur l’image de « son » paysage, au présent comme au futur. A cet égard, il est indispensable qu’on trouve un compromis « intersubjectif » sur le paysage à protéger – comme espace de travail, lieu de repos, support de sentiments ou patrie. ALFONS DWORSKI ARCHITEKTUR- UND LANDSCHAFTSVERSTÄNDNIS IM WANDEL VON ORT UND ZEIT. EINIGE EPISODEN DER EUROPÄISCHEN IDEENGESCHICHTE AM LEITFADEN VON ARCHITEKTUR- UND LANDSCHAFTSBETRACHTUNGEN Riassunto italiano: Il paesaggio è uno stato di cose che dipende dalla percezione umana: una realtà geografica diventa paesaggio solamente attraverso un soggetto che la osserva. Le percezioni si fondano su determinate conoscenze umane dell’ambiente, nonché su interessi e aspettative definite. Questi interessi, aspettative o conoscenze orientate all’ambiente naturale, fra loro connesse, sono dovute alla situazione storica, sociale e regionale, alla descrizione del soggetto osservante o della società. Attraverso l’architettura si rendono manifeste le regole della delimitazione, per esempio tra l’interno e l’esterno, nonché quelle dell’interconnessione. A queste regole sottostà sempre, per lo meno implicitamente, un determinato atteggiamento nei confronti della natura e del paesaggio, cioè un preciso modo di utilizzare lo spazio. L’uso rurale dello spazio struttura il paesaggio culturale della campagna e le autentiche tipologie architettoniche regionali, mentre l’uso cittadino sfrutta il paesaggio culturale esistente, all’occasione in armonia con i programmi regionali. Il modello spaziale storico cetual-bipolare, paesaggio rurale versus città borghese, non rappresenta più le caratteristiche sociali attuali; in futuro l’ulteriore sviluppo del paesaggio culturale e dell’architettura verrà definito da spazi vitali multifunzionali, interconnessi in modo rizomatico. Il futuro dell’architettura coincide con il futuro del paesaggio. Résumé français : Le paysage est intimement lié à la perception humaine : une réalité géographique devient « paysage » seulement à travers un sujet qui l’observe. Les perceptions de l’observateur se fondent sur des connaissances humaines de l’environnement, sur ses intérêts propres et des attentes bien définies. Ces intérêts, attentes ou connaissances vis 310 à vis de l’environnement dépendent des situations historique, sociale et régionale ainsi que de la description qu’en fait l’observateur ou la société. C’est à travers l’architecture que se manifestent les règles de la délimitation – par exemple entre intérieur et extérieur ou bien leur interconnexion. Ces règles dépendent toujours, au moins implicitement, de l’attitude choisie à l’égard de la nature et du paysage ou bien de la façon d’utiliser l’espace. L’utilisation rurale de l’espace structure le paysage culturel de la campagne et les typologies authentiques de l’architecture régionale. L’urbanisme quant à lui exploite le paysage culturel existant, occasionnellement, en harmonie avec les programmes régionaux. Le modèle spatial historique bipolaire lié aux structures sociales – le paysage rural versus la ville bourgeoise – ne correspond plus aux caractéristiques sociales actuelles. A l’avenir, le développement du paysage culturel et de l’architecture sera défini par des espaces vitaux plurivalents, interconnectés au sein de réseaux. Le futur de l’architecture coïncide avec celui du paysage. YVES LUGINBÜHL GOUVERNER UN PAYSAGE Deutsche Zusammenfassung: Der Beitrag gibt zunächst einen Überblick über die Entstehung und Entwicklung des Begriffs „Landschaft“, der im 15. Jahrhundert in den Niederlanden entstand (Landskap) und dort von Anfang an in erster Linie im Zusammenhang mit Landschaftsplanung und Raumordnung verwendet wurde. Im Laufe der Jahrhunderte wurde der Begriff in den verschiedenen Ländern mit Idealvorstellungen des Sublimen und Pittoresken aufgeladen. Im Frankreich der 1970er Jahre beschäftigen sich zunehmend auch die Sozialwissenschaften und die Ökologie mit Landschaft, und der Begriff gewinnt an Komplexität: Er bezeichnet seither sowohl ein materielles Objekt (die konkrete und veränderbare Landschaft) als auch einen immateriellen Prozess (die Vorstellungen von „Landschaft“, die der Mensch sich macht) und steht damit im Spannungsfeld zwischen Natur und Gesellschaft. Am Beispiel des Mont Saint-Michel und der zunehmenden Versandung dessen Bucht illustriert der Beitrag die vielfältigen Faktoren, die im komplexen System der Landschaft wirken und miteinander in Verbindung stehen: Zum Beispiel wird der Versandungsprozess der Bucht durch ein vermehrtes Wachstum der Gemeinen Quecke (Agropyrum repens) begünstigt, das wiederum möglicherweise Konsequenzen für die Nahrungskette hat und seinerseits unter anderem durch Nitrifikation der Salzwiesen entstanden sein könnte. Die Verwaltung eines solchen Gebiets stellt die Verantwortlichen vor die Herausforderung, unterschiedlichen Akteuren mit zum Teil kontrastierenden Interessen (Landwirtschaft, Schalentierzucht, Tourismus, Trinkwasserversorgung, etc.) gerecht zu werden und biologische, ökologische, politische und soziale Faktoren gleichermaßen zu berücksichtigen. Riassunto italiano: Il contributo offre una visione d’insieme sull’origine e sullo sviluppo della nozione di “paesaggio”, nata nel XV Secolo nei Paesi Bassi (Landskap), dove fin dall’inizio veniva utilizzata nel contesto della pianificazione e della gestione del paesaggio. Nel corso dei secoli il termine si arricchì, nei vari Paesi, con l’accettazione dei concetti di “sublime” e “pittoresco”. A partire dagli anni Settanta del Novecento, i sociologi e gli ecologisti francesi cominciarono a interessarsi in maniera crescente alle problematiche paesaggistiche e il termine acquistò la sua attuale complessità: da allora indica sia un oggetto materiale (il paesaggio concreto e modificabile), sia un processo immateriale (le rappresentazioni del “paesaggio”), e viene dunque a collocarsi tra natura e società. L’esempio del Mont Saint-Michel e del progressivo insabbiamento della sua baia illustra i molteplici fattori che si intrecciano e si influenzano vicendevolmente nel sistema complesso del paesaggio: il processo di insabbiamento è favorito, tra l’altro, dall’espansione crescente della gramigna (Agropyrum repens); tale espansione avrà probabilmente delle ripercussioni sulla catena alimentare e potrebbe essere causata, a sua volta, dalla nitrificazione dei prati salati. La gestione di un tale territorio pone i responsabili davanti alla sfida di dover essere all’altezza di attori diversi con interessi in parte contrastanti (agricoltura, acquacoltura, turismo, approvvigionamento con l’acqua potabile ecc.), considerando fattori biologici, ecologici e politici. 311 FRANÇOISE DUBOST UN POINT DE VUE ETHNOLOGIQUE SUR L’ESTHETIQUE DU PAYSAGE Deutsche Zusammenfassung: Der Beitrag geht aus von den Ergebnissen einer nationalen Umfrage zu den bevorzugten Landschaftstypologien der Franzosen: Es zeigte sich, dass die Mehrheit der Franzosen weniger die herausragenden Beispiele für Landschaftskultur zu ihren Lieblingslandschaften deklarierte, als vielmehr gewöhnliche Landschaften ihrer Umgebung mit subjektiver emotionaler oder affektiver Bedeutung. Dies wirft die Frage auf, inwiefern man von einer „Ästhetik des Gewöhnlichen“ sprechen kann. In ethnologischer Perspektive gilt es zu untersuchen, wer wie und warum über Landschaft spricht (bzw. nicht spricht). Die Ergebnisse unterschiedlicher Studien zeigen die Komplexität dieses Forschungsgebietes: Die ästhetische Auffassung von Landschaft wird zum einen durch die Traditionen einer Gesellschaft geprägt; andererseits ändert sich das Landschaftsideal mit der Zeit im Zuge der sich wandelnden äußeren Lebensbedingungen. Auch muss das Idealbild einer Landschaft nicht unbedingt der aktuellen Landschaftsrealität entsprechen. Zudem wird Landschaft individuell unterschiedlich wahrgenommen, und vor allem der emotionalen und symbolischen Komponente der Landschaftsbindung muss Rechnung getragen werden. Riassunto italiano: Il contributo prende spunto dagli esiti di una inchiesta nazionale sulle tipologie di paesaggio preferite dai Francesi: ne è risultato che la maggioranza dei Francesi annovera tra i paesaggi preferiti non tanto i grandi esempi della cultura paesaggistica, quanto piuttosto i paesaggi consueti da cui sono circondati, che rivestono per loro un significato personale emotivo o affettivo. Questo esito ripropone la domanda se e in che modo si possa parlare di una “estetica dell’abituale”. In una prospettiva etnologica vale la pena esaminare chi, come e perché parla di paesaggio (o non ne parla). I risultati di svariati studi dimostrano la complessità di tale campo di ricerca: da un lato le tradizioni di una società condizionano il sentimento estetico del paesaggio; dall’altro l’ideale paesaggistico si può modificare nel tempo, man mano che cambiano le condizioni esterne di vita. Anche il paesaggio ideale non corrisponde necessariamente alla realtà paesaggistica attuale. Inoltre, il paesaggio viene percepito in modo diverso dalle singole persone; è quindi da considerare con particolare attenzione la componente emotiva e simbolica del legame paesaggistico. Seconda parte – deuxième partie – zweiter Teil RAFFAELE MILANI DETERMINAZIONE DI UN’ESTETICA DEL PAESAGGIO Deutsche Zusammenfassung: Dieser Beitrag versucht, die Bedeutung und den Wert der Landschaft als ästhetische Kategorie zu bestimmen. „Landschaft“ ist ein Grundbegriff der menschlichen Sensibilität und ist mit komplexen Reflektionen über die vielfältigen Manifestationen der Natur und deren Verarbeitung in Kunst und Literatur verbunden. Die ästhetische Erfahrung wird über ein dichtes Netzwerk aus kritischen Bemerkungen und Gefühlsausdrücken zu einem kognitiven Prozess und eröffnet ein noetisches und ontologisches Feld. Ästhetische Kategorien sind Indikatoren für die Beziehungen, die von unserer subjektiven Bewertung und unseren eigenen Empfindungen 312 abhängen; als solche vermögen sie, zwischen der menschlichen Intention und der inhärenten Natur der Welt zu vermitteln und können dadurch die wahre Struktur der Objekte und Phänomene offen legen. „Landschaft“ wird heutzutage zunehmend mit Ökologie, Geographie und Landnutzung gleichgesetzt, soll jedoch in diesem Beitrag auf ihren ästhetischen Wert und ihre Funktion hin analysiert werden – Kategorien, die Aufschluss geben über ihre kulturelle und historische Identität. Für gewöhnlich gilt die Landschaft als Evolution einer Konstanten, einer Vielfalt von unterschiedlichen Komponenten, deren Bedeutung gleichwohl “identisch” ist, da sie implizit in der Sprache und im menschlichen Leben verwurzelt sind. „Landschaft“ ist die Antwort auf ein emotionales Bedürfnis, gibt aber gleichzeitig auch der Suche nach Abstraktion Ausdruck. In der Landschaft finden wir ethische Wahrheit, denn wir feiern nicht nur die „ungezähmte“ Natur, sondern auch den Lebensraum, der die Menschen verbindet, den Ort des Zwingenden und des Möglichen, den Aristoteles als endekhomenon bezeichnete, eine Realität, in der wir nachdenken können und die wir auch verändern können. Die Landschaft als ästhetische Kategorie wird somit zu einem philosophischen Instrument; als ein vom Geschmack abhängiges Produkt interagiert sie mit künstlerischen Prozessen: Landschaft wird mit bildnerischem Auge betrachtet und erfahren, wird theatralisiert oder in Reisetagebüchern beschrieben. Landschaft wird jedoch auch in einem weiter gefassten Kontext diskutiert: Die Figur des Menschen wird dabei in die Natur, Geschichte, Kultur oder in Mythen integriert, und der Mensch besitzt die Fähigkeit, das Geheimnisvolle, Unerklärliche und Unsichtbare zu verstehen. Objekte der Natur, auch diejenigen, die in keinerlei Zusammenhang zur menschlichen Produktion stehen, können zum künstlerischen Ausdruck werden – und dies geschieht auf der Grundlage einer mehr oder weniger bewussten Bewertung der Natur als ästhetische Erfahrung. Résumé français : Cette contribution essaie de définir le sens et la valeur du paysage comme catégorie esthétique. Le « Paysage » est une notion fondamentale de la sensibilité humaine et est lié à une réflexion complexe sur les multiples manifestations de la nature dans l’art et la littérature. L’expérience esthétique devient un processus cognitif à travers un réseau dense de remarques critiques et d’expressions sentimentales : elle devient noétique et ontologique. Les catégories esthétiques indiquent une dépendance des objets et des phénomènes par rapport à notre évaluation subjective et nos propres sensations. En tant que telles, elles servent d’intermédiaires entre l’intention humaine et la nature inhérente du monde et peuvent révéler la véritable structure des objets et des phénomènes. De nos jours, la notion de « paysage » est de plus en plus assimilée à l’écologie, à la géographie et à l’exploitation du terroir. Cet article a toutefois pour objectif d’analyser la notion de « paysage » au regard de sa valeur esthétique et de sa fonction et ainsi de mettre à jour l’identité culturelle et historique du paysage. Communément, on considère le paysage comme étant l’évolution d’une constante, d’une multitude de composantes différentes, dont le sens est néanmoins « identique », vu qu’elles sont enracinées implicitement dans la langue et dans la vie humaines. Le « paysage » répond à un besoin émotionnel et exprime en même temps la recherche de l’abstraction. Dans la nature, nous trouvons une vérité éthique : on ne célèbre pas seulement la nature « sauvage » mais aussi l’espace vital qui connecte les humains, le lieu du coercitif et du possible, nommé endekhomenon par Aristote, une réalité qui nous invite à la méditation et que nous pouvons influencer. Le paysage comme catégorie esthétique devient ainsi un instrument philosophique. Dépendant de la personne qui l’observe et de ses goûts, le paysage interagit avec le processus artistique : il est perçu et expérimenté par les yeux du peintre, est théâtralisé ou décrit dans les carnets de voyage. Le traitement du paysage peut aussi s’ouvrir à un contexte plus vaste : la figure humaine se trouve intégrée dans la nature, dans l’histoire, dans la culture ou dans les mythes et possède la faculté de comprendre le mystère, l’inexplicable, l’invisible. Les objets de la nature, y compris ceux qui n’ont aucun rapport avec une activité humaine, peuvent devenir expression artistique. Cette transformation s’opère sur la base d’une évaluation, plus ou moins consciente, de la nature comme expérience esthétique. 313 MICHEL COLLOT PAYSAGE ET IDENTITE(S) EUROPEENNE(S) Deutsche Zusammenfassung: Der Beitrag geht von der Hypothese aus, dass die Landschaft einen Ausgangspunkt für die Konstruktion einer europäischen Identität darstellen kann. Die Landschaft spielt seit jeher eine wichtige Vermittlerrolle zwischen der konkreten Erfahrung und symbolischen Konstruktionen, zwischen lokalen und nationalen Identitäten bzw. einer sich herausbildenden europäischen Identität. Die Landschaft ist ein Raum des Übergangs; als solcher kann sie ein Modell anbieten für eine „offene Identität“, die die Öffnung zum Anderen nicht ausschließt. Um seine Identität zu konstruieren, muss Europa sich sowohl dem Horizont der unterschiedlichen innereuropäischen Kulturen als auch dem äußeren Horizont der Europa umgebenden Welt öffnen. Wenn Europa seine Landschaften und die in ihnen enthaltenen lokalen, regionalen oder nationalen Identitäten pflegt und erhält, so bedeutet das nicht, dass Europa sich nach außen hin verschließt, denn jede Landschaft kommuniziert über den eigenen Horizont hinaus. Daher ist die Landschaft für Europa zum einen eine Quelle des Ursprungs, aus der es schöpfen kann, und zum anderen ein Horizont, der ihm erlaubt, über sich selbst hinauszugehen. Riassunto italiano: Il contributo parte dall’ipotesi che il paesaggio possa rappresentare un punto chiave per la costruzione di un’identità europea. Da sempre il paesaggio gioca un ruolo di mediazione importante tra l’esperienza concreta e le costruzioni simboliche, tra le identità locali e quelle nazionali o riconducibili all’identità europea che si va formando. Per il suo essere spazio di transizione, il paesaggio può offrire un modello di “identità aperta”, che non esclude l’apertura verso l’altro. Per costruire la propria identità, l’Europa deve aprirsi su un duplice orizzonte: da un lato quello delle sue diverse culture interne, dall’altro quello del mondo esterno. Se l’Europa cura e conserva i suoi paesaggi e le identità locali, regionali e nazionali che in essi sono contenute, non significa che si chiuda in se stessa: ogni paesaggio comunica oltre il proprio orizzonte. Per questo motivo il paesaggio rappresenta per l’Europa una fonte originaria di rinnovamento e un orizzonte che le consente di andare oltre se stessa. YVES LUGINBÜHL PAYSAGE ET POLITIQUE Deutsche Zusammenfassung: Landschaft und Politik stehen in einem engen Zusammenhang, der in diesem Artikel in seinen unterschiedlichen Facetten aufgezeigt wird: Auf der einen Seite hängen die Umwandlungsprozesse der Landschaft oft mit wirtschaftspolitischen Entscheidungen zur Bodennutzung zusammen. Auf der anderen Seite betreffen stadtentwicklungs- und wohnungsmarktpolitische Entscheidungen oftmals auch die Landschaft, indem sich die Stadtgrenzen verschieben und auf vormals ländliche Gebiete ausdehnen. In einem Rückblick auf die vergangenen Jahrhunderte zeigt sich, dass die Veränderungen im politischen Denken immer einen starken Einfluss auf die jeweilige Landschaftsauffassung bzw. den Stellenwert der Landschaft hatten: Die jeweiligen Machtinhaber bestimmten die Art und Weise der Gebietsordnung und somit auch die Landschaftsentwicklung. Der Freskenzyklus Die gute und die schlechte Regierung von Ambrogio Lorenzetti aus dem Jahr 1336 zeugt bereits von dem Gedanken einer regierungsabhängigen Landschaftsentwicklung, wobei das italienische Wort paesaggio erst in der Renaissance Eingang in die italienische Sprache findet. Im England des 18. Jahrhunderts entwickelt sich im Zuge der Abschaffung der Feudalherrschaft und der Einführung des privaten Bodenbesitzes, der landwirtschaftlichen und der industriellen Revolution eine neue Sensibilität für die Natur: Der Englische Garten entsteht und prägt ein neues ästhetisches Ideal, dem zufolge die Landschaft „natürlich“ sein und keine Spuren der menschlichen Aktivität aufweisen soll. Dieses Modell sollte die Gartenkultur der europäischen Länder im 19. Jahrhundert entscheidend bestimmen, während im 20. Jahrhundert mehr und mehr 314 ökologische Aspekte in den Vordergrund treten. In der heutigen Zeit lässt sich beobachten, dass Landschaft zunehmend als Bestandteil der individuellen Lebensumstände wahrgenommen wird, zu dem die Bevölkerung ein Mitbestimmungsrecht wünscht. Dem trägt die Europäische Landschaftskonvention Rechnung, indem sie die Zusammenarbeit mit der Bevölkerung bei allen Stadien der Erarbeitung von Landschaftspolitiken und – planungsprojekten fordert. Riassunto italiano: Il paesaggio e la politica si trovano in un rapporto di stretta intercorrelazione che quest’articolo indaga nelle sue molteplici sfaccettature: Da un lato le trasformazioni del paesaggio dipendono spesso da decisioni di politica economica riguardanti l’utilizzo del terreno; dall’altro le decisioni sullo sviluppo urbano e sull’alloggio influiscono spesso anche sul paesaggio, visto che i confini delle città si allargano fino a comprendere terreni che una volta erano rurali. Attraverso una retrospettiva sui secoli passati si può esaminare come i cambiamenti del pensiero politico abbiano sempre avuto forti ripercussioni sulla concezione del paesaggio e sull’importanza accordatagli: i potenti decidevano sull’ordine e sulla gestione del terreno e in questo modo anche sul paesaggio. Il ciclo di affreschi L’allegoria del buono e del cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti del 1336 ci offre una testimonianza di come lo sviluppo del paesaggio sia dipendente dalla governance, anche se il termine paesaggio entrerà nella lingua italiana solo in epoca rinascimentale. Nell’Inghilterra del XVIII Secolo, l’abolizione del feudalismo, l’introduzione della proprietà terriera privata, la rivoluzione dell’agricoltura e quella industriale contribuirono all’emergere di una nuova sensibilità nei confronti della natura: è in quel periodo che si sviluppa il “giardino all’inglese”, legato a un nuovo ideale estetico che preconizza la massima “naturalezza” del paesaggio, privo di tracce riconducibili all’attività umana. Tale modello determinerà in maniera decisiva la cultura del giardino nei Paesi europei durante il XIX Secolo, mentre a partire dal XX Secolo gli aspetti ecologici prevarranno sempre più su quelli estetici. Al giorno d’oggi si osserva che il paesaggio viene percepito in modo crescente quale parte integrante del quadro di vita individuale, un elemento alla cui gestione la popolazione chiede di poter collaborare. La Convenzione Europea del Paesaggio riconosce tale richiesta e rivendica il principio della cooperazione con la popolazione durante tutti gli stadi dell’elaborazione di politiche e progetti di gestione paesaggistica. GIORGIO MANGANI I CASI DELLA NECESSITÀ Résumé français : La perception générale du paysage du Lac de Côme semble être fondée sur ses caractéristiques spécifiques, déjà évoquées dans les écrits de Pline le Jeune (IIème siècle après Jésus-Christ) qui en exalte pour la première fois la beauté et la richesse, ou bien, pour citer un exemple plus récent, dans ceux de Gianfranco Miglio, un partisan du mouvement politique « Lega Lombarda » dans les années cinquante du XXème siècle. Ces représentations rappellent la philologie humaniste de certains cercles littéraires du XVIème siècle ayant pour thème de prédilection le Lac de Côme. Ces représentations se retrouvent également, et sans différences notoires, dans les expressions littéraires du culte populaire de San Lucio, protecteur des fromagers de la « Vallée Cavargna ». La perception du paysage du Lac de Côme semble donc être « déterminée » par des facteurs historiques et naturels qui exercent leur influence sur le comportement humain. A contrario, dans la région des Marches, la représentation du paysage semble être déterminée plus par la considération de son caractère « exemplaire » que par ses spécificités physiques ce qui se traduit par une célébration métaphysique du « paysage universel ». Il s’agit là probablement d’une conséquence du rôle important que revêtent dans cette région les jardins, les paysages et les forêts pour la méditation religieuse. Les nombreux monastères et les ordres mendiants se servaient en effet souvent des fleurs et des plantes glanés dans le paysage comme d’instruments mnémoniques pour la méditation et la prière, comme le démontre par exemple la place du rosaire qui devint la prière traditionnelle du Sanctuaire de Loreto, situé près d’Ancône. 315 Deutsche Zusammenfassung: Die allgemeine Wahrnehmung der Landschaft des Comer Sees scheint auf ihren spezifischen Charakteristika zu beruhen, die schon in den Schriften von Plinius dem Jüngeren (2. Jh. n. Chr.) genannt werden, der die Schönheit und den Reichtum dieser Landschaft bewunderte; auch bei Gianfranco Miglio, einem Verfechter der politischen Bewegung „Lega Lombarda“ in den 1950er Jahren findet sich diese Art der Wahrnehmung wieder. Dieses Landschaftsgefühl erinnert an die humanistische Philologie, die am Comer See in literarischen Zirkeln im 16. Jahrhundert praktiziert wurde, ist aber auch, in ganz ähnlicher Weise in der populären Verehrung für San Lucio, den Schutzpatron der Käser des Cavargna-Tals, wieder zu finden. Die Landschaftswahrnehmung am Comer See scheint also auf eine „deterministische“ Betrachtung der historischen und natürlichen Faktoren zurückzuführen zu sein, die das menschliche Verhalten beeinflussen. Im Gegensatz dazu scheint sich die Landschaftswahrnehmung in den Marken eher an der Betrachtung des „exemplarischen“ Charakters der Landschaft als an deren Besonderheiten zu orientieren, was sich in einer metaphysischen Verherrlichung der „universellen Landschaft“ widerspiegelt. Dies ist möglicherweise eine Folge der wichtigen Rolle, die in dieser Region den Gärten, Landschaften und Wäldern für meditative und religiöse Aktivitäten zukommt. Man denke etwa an die zahlreichen Klöster und Bettelorden, die häufig Blumen und Pflanzen als mnemonische Instrumente für Meditation und Gebet nutzten, oder an den Rosenkranz, der zum traditionellen Gebet des Wallfahrtsortes Loreto bei Ancona wurde. GABRIELLA ROVAGNATI VENEZIA: UNA LEGGENDA. DECLINAZIONI DI UN PAESAGGIO NELLA LETTERATURA TEDESCA Deutsche Zusammenfassung: Der Beitrag gibt einen Überblick über die Schilderung der (urbanen) Landschaft Venedigs in der deutschsprachigen Literatur: Von Heynse bis Arthur Schnitzler, von Goethe bis Rudolf Pannwitz, über E.T.A. Hoffmann, Grillparzer, Hofmannsthal und Nietzsche – um nur einige zu nennen – entwickelt sich das Bild einer Stadt, die seit der Grand Tour des 18. Jahrhunderts bis hin zur Spätromantik und darüber hinaus immer eine Sonderstellung in der Vorstellung deutschsprachiger Dichter und Schriftsteller eingenommen hat. Eindrucksvoll ist zum Beispiel die Ballade von Conrad Ferdinand Meyer, die Giorgione den Entstehungsmythos Venedigs aus einer Begegnung zwischen Liebe und Tod vortragen lässt. Rilke stellt dagegen im Venedig gewidmeten Gedicht aus Christus. Elf Visionen eine unmittelbare Verknüpfung zwischen der Dekadenz der Lagunenstadt und der Vision einer künftigen Dekadenz des Christentums her und bricht mit der thematischen Kontinuität, die Venedig oft mit Ausdrücken aus der Traum- oder auch Alptraumwelt beschreibt. Für letzteres liefert Sebald ein Beispiel, der ein Venedig in trüber und nebeliger Stimmung schildert. Vom Traum zum Alptraum entwickeln sich die Ereignisse hingegen in Thomas Manns Novelle Der Tod in Venedig, die einen Höhepunkt der literarischen Schilderung Venedigs darstellt und den Mythos der Lagunenstadt minutiös und allumfassend wahrnimmt, der, auch dank der Verfilmung durch Luchino Visconti, dauerhaft in das allgemeine Kollektivbewusstsein eingegangen ist. Résumé français : L’article fournit une vue d’ensemble de la description du paysage urbain de Venise dans la littérature allemande : de Heynse à Arthur Schnitzler, de Goethe à Rudolf Pannwitz, en passant par E.T.A. Hoffmann, Grillparzer, Hofmannsthal, Nietzsche et d’autres encore. Il en ressort l’image d’une ville qui, du Grand Tour au XVIIIème siècle jusqu’à la Spätromantik et bien au-delà, a toujours occupé une place particulière dans l’imaginaire des poètes et écrivains de langue allemande. La ballade de Conrad Ferdinand Meyer en est une bonne illustration. L’auteur fait réciter à Giorgione le mythe de l’origine de Venise, née de la rencontre de la mort et de l’amour. Rilke, en revanche, dans le poème dédié à Venise issu du cycle Christ. Onze visions, crée un lien dialectique entre la décadence de la ville lagunaire et la vision d’une future décadence du christianisme. Rilke rompt ainsi avec la continuité thématique d’une littérature qui voit Venise souvent décrite avec des expressions qui relèvent du rêve ou du cauchemar. Cette dernière dimension se retrouve chez Sebald qui évoque un jour de Toussaints passé à Venise dans une atmosphère brumeuse et lugubre. Dans La mort à Venise de Thomas Mann, le cours des événements passe, du songe au cauchemar. Cette 316 nouvelle marque l’apogée de la description, minutieuse et exhaustive à la fois, de la ville lagunaire ainsi que de son mythe, qui, entre autres grâce à l’adaptation cinématographique de Luchino Visconti, fait désormais partie intégrante de notre imaginaire collectif. MICHEL COLLOT LE VISIBLE ET L’INVISIBLE: LES PAYSAGES AVEC FIGURES ABSENTES DE PHILIPPE JACCOTTET Deutsche Zusammenfassung: Philippe Jaccottet wurde 1925 in der französischen Schweiz geboren, lebte jedoch seit 1953 in Grignan, Frankreich, wo er zum ersten Mal eine unwiderstehliche Anziehungskraft für Landschaften empfand. Diese Erfahrung ist für ihn poetisch, da sie sich auf die Beziehung zwischen der inneren und der äußeren Welt, zwischen dem Sichtbaren und dem Unsichtbaren, gründet. Diese versteckte Seite der Landschaft sollte nicht im religiösen oder metaphysischen Sinn verstanden werden: Sie weckt ein Gefühl für das Sakrale, ohne jedoch den Glauben an einen Gott zu implizieren. Daher müssen die modernen literarischen Landschaften Jaccottet zufolge frei sein von mythologischen und poetischen Figuren, wie etwa Bildern oder Metaphern. Riassunto italiano: Philippe Jaccottet nacque nel 1925 nella Svizzera francese, ma dal 1953 visse a Grignan, in Francia, dove per la prima volta subì il fascino irresistibile dei paesaggi. Questa esperienza fu per lui poetica, poiché fondata sulla relazione tra il mondo interiore e quello esteriore, tra il visibile e l’invisibile. Questo lato nascosto del paesaggio non deve essere interpretato in termini religiosi o metafisici: esso suscita un sentimento sacrale senza implicare la fede in un dio. Di conseguenza, secondo Jaccottet, i paesaggi letterari moderni devono essere privi di figure mitologiche e poetiche, quali immagini o metafore. RAFFAELE MILANI IL PAESAGGIO LETTERARIO COME PAESAGGIO REALE. SPUNTI DA GABRIELE D’ANNUNZIO Deutsche Zusammenfassung: Die Ästhetikforschung betrachtet die Landschaft aus dem Blickwinkel der Formenanalyse heraus. Aus dieser Perspektive wird die Landschaft zu einer Form von Kunst: Sie regt uns an zu einer mentalen Haltung, in der wir die Landschaft nicht in ihrer „objektiven“ Realität wahrnehmen, sondern in idealisierter Form. Die reale Landschaft wird so zu einer literarischen Landschaft, und beide erhalten eine mythologische Dimension, die sich Metaphern bedient und den Geist einer Landschaft in ein System aus Zeichen und Bildern übersetzt, das an das Sprachsystem erinnert. Die Wahrnehmung der natürlichen Landschaft ist eng mit der Wahrnehmung der architektonischen und urbanen Landschaft verbunden: Auch hier wird die Wahrnehmung des realen Ortes häufig durch Orte der Phantasie ersetzt, wie etwa das literarische Paris von Honoré de Balzac und Charles Baudelaire, das Prag von Franz Kafka oder das Rom von Gabriele D’Annunzio, der ein besonders eindrucksvolles Beispiel dafür liefert, wie man das poetische Wissen als Instrument zur Komposition und Transformation der Landschaft nutzen kann. In seiner Villa del Vittoriale in Gardone entwickelte D’Annunzio eine visionäre Architektur, die Realität und Artefakt, Erinnerung und Illusion, Garten und Landschaft miteinander verbindet zu einem „magischen“ Ort, geprägt von den Werten des Symbolismus und des Futurismus. Es handelt sich um eine Art „literarischer Garten“, in dem die Metapher allgegenwärtig ist und die reale Landschaft dem Reich der Phantasie weicht. 317 Résumé français : La recherche esthétique tend à décrypter le paysage par l’analyse de ses formes. Dans cette optique, le paysage devient une forme d’art : il nous incite à nous représenter le paysage mentalement, non pas dans son objectivité, mais sous une forme idéalisée. Le paysage réel se transforme donc en paysage littéraire. Tous deux se trouvent plongés dans une dimension mythologique reposant sur la métaphore qui ne se limite pas à reproduire, mais qui traduit l’esprit du paysage par un système de signes et d’images semblable à celui d’une langue. La perception du paysage naturel est fortement liée à celle du paysage architectural ou urbain où la perception du lieu réel cède souvent la place à celle des lieux fantastiques et imaginaires, comme par exemple dans le Paris littéraire d’Honoré de Balzac et de Charles Baudelaire, la Prague de Franz Kafka ou bien la cité de Rome vue par Gabriele D’Annunzio. Ce dernier a su transformer de manière exemplaire le savoir poétique en instrument de composition et de transformation du paysage. Dans sa Villa del Vittoriale à Gardone, D’Annunzio a inventé une architecture visionnaire capable de concilier réalité et artifice, mémoire et illusion, où jardin et paysage se mêlent pour devenir un lieu « magique », empreint des valeurs du symbolisme et du futurisme. Il s’agit ici d’une sorte de jardin littéraire où, grâce à la métaphore omniprésente, la fantaisie et l’imaginaire évincent le paysage réel. Terza parte – troisième partie – dritter Teil RITA COLANTONIO VENTURELLI ET AL. RIFLESSIONI METODOLOGICHE E APPLICATIVE SULLA GESTIONE INTEGRATA DEL PAESAGGIO IL TEMPO LIBERO SULL’ACQUA: IL “PAESAGGIO DELLE VILLE STORICHE” DEL LAGO DI COMO PER UN PAESAGGIO DELLA “PRODUZIONE MARCHE-ITALIAN STYLE”: IL CASO DI STUDIO DELL’AREA METROPOLITANA DI ANCONA Deutsche Zusammenfassung: Die multidisziplinäre Forschungsgruppe der „AGRUR“ (Area gestione risorse urbane e rurali, Forschungsbereich am Dipartimento di scienze applicate ai sistemi complessi (DISASC) der Universität Ancona) hat eine Methode zur Gebietsanalyse, -diagnose und -prognose entwickelt, die den Planungsprozess unterstützen und eine kontinuierliche Kontrolle des Gebiets ermöglichen soll. Diese Methode wird daher kurz beschrieben. In der Forschungsgruppe sind unterschiedliche Kompetenzen und Fachbereiche vertreten; diese betreffen zum Beispiel: Methoden und Instrumente zur Analyse und Verwaltung der ländlichen Landschaft (rural landscape planner: methodology and GIS solutions), Instrumente und Methoden zur Umweltbewertung (environmental evaluation), auf die Planung angewendete Landschaftsökologie (landscape ecology applied to planning) und historische Kartographie (historical cartography). Da die traditionelle interdisziplinäre Methode für Landschaftsanalysen wenig geeignet ist, wurde eine holistische Auffassung zugrunde gelegt, die dem komplexen Gesamtzusammenhang der Landschaft gerechter wird. Die erarbeitete Methode bildet die wissenschaftliche Grundlage für die Arbeit der Gruppe und liefert zudem einen Ansatzpunkt für den Dialog mit den Institutionen, die für die Planung und Verwaltung des Gebiets zuständig ist, so wie es in den hier vorgestellten Beispielen der Fall war. Unverzichtbare Grundlagen für das Gespräch mit den Institutionen sind folgende drei Feststellungen: a) Die Landschaft ist ein einheitliches, komplexes und dynamisches System, das sich durch die Einwirkung spontaner Kräfte verändert, also durch spontane Prozesse und Kräfte, die durch menschliche Aktivitäten ausgelöst werden. Landschaft ist somit ein komplexes Ökosystem, dessen integrativer Bestandteil der Mensch ist. b) Vor dem Hintergrund, dem Bedürfnis nach einer neuen Art der Landschaftsverwaltung Rechnung tragen zu wollen, stellt sich uns heute die Frage, welche aktuellen ethischen Funktionen die Landschaft ausüben soll. 318 c) Die Entwicklung einer neuen Landschaftsethik, die das Gleichgewicht zwischen den natürlichen Ressourcen und den Bedürfnissen der Bevölkerung anstrebt, muss mit neuen Strategien zur Lösung sozialer Konflikte gekoppelt sein. Diese Strategien sollten alle Akteure einschließen, die schöpferisch mit dem Gebiet arbeiten bzw. in ihm leben. Die entscheidende Verantwortung obliegt also der so genannten Governance. Damit ist nicht ein einziger öffentlicher Entscheidungsträger gemeint, sondern ein komplexes Netzwerk, das die höchsten Ebenen der Wirtschaft, Finanzwelt, Politik und öffentlichen Verwaltung umfasst. Oft sind diese Ebenen untereinander sehr gut vernetzt, haben aber leider zu wenig Kontakt zu den Operateuren auf weniger hoher Ebene, die im Kulturbereich effiziente Arbeit leisten. Aus den Kontakten mit den verschiedenen Institutionen und aus einigen in den letzten Jahren durchgeführten Forschungen haben sich zwei unterschiedliche, signifikante Gelegenheiten ergeben, die der Forschungsgruppe erlaubt haben, eine Vermittlerrolle zwischen wissenschaftlicher Aktivität und Beratung der Governance auszuüben. Diese beiden Gelegenheiten werden in Form von Fallstudien vorgestellt: Die erste Fallstudie beschäftigt sich mit der Beziehung zwischen dem Siedlungssystem und dem ländlichen und natürlichen Kultursystem (Neuordnung und Wiederherstellung des Gleichgewichts in der „Landschaft der Freizeit“ am Comer See); bei der zweiten Fallstudie handelt es sich um die Beziehungen zwischen den industriellen Produktionssystemen und dem zugehörigen Gebiet (die neue Landschaft der post-industriellen Produktion in der Region Marken). In beiden Fällen standen essentielle Fragestellungen im Mittelpunkt, auf die versucht wurde, eine Antwort zu finden. Die Analyse der ersten Fallstudie wurde durch den Kontakt zum Deutsch-Italienischen Zentrum Villa Vigoni, zur DBU (Deutsche Bundesstiftung für Umwelt) und zur Comunità Montana „Alpi Lepontine“ angeregt. Folgende Besonderheiten wurden festgestellt: • Stratifizierung und Koexistenz verschiedener Siedlungsmodelle und unterschiedlicher sozialer Interessen; • Notwendigkeit einer Neuorganisation dieser Modelle mit dem Ziel, ein neu zusammengesetztes, neues Landschaftsmodell zu erreichen. Vor dem Hintergrund dieser Bestandsaufnahme rief die Phase der Diagnostik folgende Fragestellungen hervor: • Muss es gerade die „Unordnung“ sein, die die Entwicklung dieser „interurbanen“ Gebiete bestimmt? • Wie kann man ein „infraurbanes“ Siedlungsmodell erreichen, das sich vom „interurbanen“ Modell unterscheidet? • Welche Rolle können die unterschiedlichen sozialen Gruppen bei der Neuorganisation dieser Landschaft spielen? Die im Verlauf der weiteren Forschungen gefundenen Antworten auf diese Fragen können als Prognosen und Empfehlungen an die Institutionen weitergegeben werden. Dazu gehören folgende Vorschläge: • Für die drei herausgearbeiteten Gebietsuntergliederungen (Seebereich / Bereich am Fuß des Berges / Bergbereich) sollte ein kontinuierlicher Austausch an Informationen aktiviert werden. Auch Kooperationsprojekte und gemeinsame Absichten sollten erarbeitet werden. • Die Harmonisierung der unterschiedlichen Landschaftssegmente zu einem einzigen, multifunktionalen Gebiet sollte gefördert werden. • Es sollte ein Prozess der Raumorganisation zugunsten eines neuen, kohärenten Kulturmodells angeregt werden, das – wie auch aus der Umfrage zu den Wünschen der Bevölkerung hervorgeht – an die langlebigen und robusten Strukturen der „Landschaft der historischen Villen“ anknüpft. Die zweite Fallstudie wurde von der CNA Ancona (Confederazione nazionale della piccola e media impresa e dell’artigianato) in Auftrag gegeben; sie orientierte sich an folgenden grundsätzlichen Fragestellungen, die die integrierte Analyse ergeben hatte: • Ist es richtig, weiterhin so zu arbeiten, dass Produktivität und Produktion in Industrie und Agrikultur in einem unausgewogenen, widersprüchlichen Verhältnis stehen? • Welches Gesamtentwicklungsmodell kann von einer Veränderung der Beziehung zwischen Produktivität und Produktion abgeleitet werden? • Welches Siedlungsmodell kann daraus entspringen und anschließend den lokalen Behörden zur Integration in das Planungsinstrumentarium vorgeschlagen werden? 319 Die Besonderheiten, die während der Phase der Diagnostik herausgearbeitet wurden, legen es nahe, auch geistesund wirtschaftswissenschaftliche Kompetenzen in die Untersuchung miteinzubeziehen. Auch die Beteiligung der Bevölkerung erscheint unabdingbar. Die Phase der Prognose hat folgende Notwendigkeiten herausgestellt: • Die Produktionsaktivitäten im Küstenbereich müssen sich von denen im Landesinneren unterscheiden, entsprechend den Kriterien der örtlichen Angemessenheit, der verfügbaren Strukturen und dem sozialen und kulturellen Modell. • Jedes Produktionsgebiet sollte sich durch einen spezifischen und wieder erkennbaren Charakter auszeichnen. • Einige Fixpunkte sollten beachtet werden, die mit den spezifischen Variabeln in Verbindung gebracht werden sollten: a) im Umweltbereich: zum Beispiel die Beziehung mit dem Umland; b) im Wirtschaftsbereich: zum Beispiel Bindung eines spezifischen Produktes oder einer Marke an einen bestimmten Ort (wie es etwa im ländlichen Bereich mit der Aufwertung der Terroirs geschieht); c) im sozialen Bereich: zum Beispiel die Beziehung zum sozialen Umfeld (zu vertiefen durch die an Unternehmen und Bevölkerung verteilten Umfragebögen). In beiden Fallstudien war es möglich, das neue Kulturmodell in groben Zügen bereits zu skizzieren, das die Grundlage des angestrebten neuen Siedlungsmodells bilden soll. Vor diesem Hintergrund wird der Wert der erarbeiteten wissenschaftlichen Arbeitsmethode deutlich: Durch die Kombination der Prinzipien der Landschaftsökologie mit den sozialen und wirtschaftlichen Instanzen wird es möglich, eine integrierte Bewertung zu formulieren und die spezifischen Merkmale eines Landschaftstyps zueinander in Beziehung zu setzen; hierbei geht man von den physiographischen Merkmalen aus und bezieht nach und nach alle anderen Merkmale mit ein, um schließlich Planungs- und Verwaltungsvorschläge zu geben. Résumé français : Le groupe de recherche multidisciplinaire de l’AGRUR – (Area gestione risorse urbane e rurali, unité de recherche du Dipartimento di scienze applicate ai sistemi complessi (DISASC) de l’Université d’Ancône) a développé une méthodologie permettant d’établir des diagnostiques et pronostiques en vue de soutenir la planification et le contrôle continu du territoire. L’article décrit brièvement cette méthodologie adoptée par le groupe de recherche au sein duquel sont représentés différentes compétences et courants de recherche, tels que les méthodes et instruments d’analyse et de gestion du paysage rural (rural landscape planner: methodology and GIS solutions) ; les instruments et méthodes relatifs à l’évaluation de l’environnement (environmental evaluation) ; l’écologie du paysage appliquée à la planification (landscape ecology applied to planning) et la cartographie historique (historical cartography). Etant donné que la méthode interdisciplinaire traditionnelle employée pour l’étude du paysage ne semble pas adaptée, on a adopté une approche holistique, convenant mieux à la description du paysage comme étant le résultat de l’action systématique de différents processus. La méthodologie ainsi élaborée sert de fondement scientifique au travail du groupe. Elle fournit également une base de discussion pour engager le dialogue avec les institutions responsables de la planification et de la gestion du territoire, comme c’était le cas pour les exemples présentés dans cet article. La communication avec les institutions repose sur trois constatations préalables : a) Le paysage est un système homogène, complexe et dynamique, qui se transforme sous l’action de processus et forces spontanés déclenchés par les activités humaines. Le paysage est donc un écosystème complexe dont l’homme fait partie intégrante. b) Le problème qui se pose aujourd’hui afin de trouver un nécessaire nouveau mode de gestion du paysage est de définir les actuelles fonctions éthiques du paysage. c) Le développement d’une nouvelle éthique du paysage qui vise à atteindre un équilibre entre ressources naturelles et besoins de la population doit être lié à de nouvelles stratégies de gestion de conflits sociaux. Ces stratégies doivent reposer sur la collaboration de tous les acteurs qui façonnent le territoire et y vivent. En ce sens, la responsabilité revient à la gouvernance, et donc à une pluralité d’acteurs agissant aux plus hauts niveaux décisionnels de l’économie, de la finance, de la politique et de l’administration publique. Souvent, ces 320 décideurs sont en étroite relation au sein de réseaux, mais n’ont malheureusement pas de contacts assez étroits avec les acteurs se trouvant à des niveaux moins élevés et travaillant efficacement dans le domaine culturel. Suite à des rencontres avec les diverses institutions concernées et aux recherches effectuées ces dernières années, le groupe de recherche a eu deux occasions, certes différentes mais toutes deux significatives, de jouer son rôle de médiateur entre développement scientifique et conseil de la gouvernance. Ces deux occasions prennent la forme de deux cas d’étude qui représentent des exemples d’application de la méthodologie proposée. La première étude s’est penchée sur le paysage du Lac de Côme et la relation entre occupation du sol et systèmes culturels, naturel et rural (réorganisation et rétablissement de l’équilibre du « paysage récréatif » sur les rives du Lac de Côme). La deuxième étude se concentre sur la région des Marches et cherche à analyser les rapports entre systèmes productifs industriels et territoire concerné (un nouveau paysage de la production post-industrielle dans la région des Marches). La première étude a été inspirée par une prise de contact des chercheurs avec le Centre Italo-Allemand Villa Vigoni, la DBU (Deutsche Bundesstiftung für Umwelt) et la Communauté de Montagne « Alpi Lepontine ». Les chercheurs ont fait les observations suivantes : • Stratification et coexistence de divers modèles d’occupation du sol et de divers intérêts sociaux ; • Nécessité de réorganiser ces modèles avec pour objectif d’obtenir un nouveau modèle de paysage « recomposé ». Au vu de ce premier état des lieux, la phase de diagnostique a suscité les interrogations suivantes : • Est-ce que le « désordre » doit nécessairement guider le développement dans ces zones « interurbaines » ? • Comment arriver à un modèle d’occupation du sol « infraurbain » qui se démarque du modèle « interurbain » ? • Quel rôle les divers groupes sociaux peuvent-ils jouer dans la recomposition du paysage ? Les réponses apportées aux questions énoncées ci-dessus au cours de l’étude revêtent un caractère de pronostique et recommandations et ont été, par la suite, soumises aux institutions : • Activation d’un échange d’informations entre les trois zones territoriales mises en lumière : zone au pied de la montage, zone de montagne et zone lacustre. Des projets conjoints et des intentions communes doivent être développés. • Harmonisation des diverses zones du territoire pour arriver à un territoire certes homogène, mais multifonctionnel ; • Programmation d’un processus d’organisation spatiale afin de créer un modèle culturel nouveau, mais s’orientant vers les structures bien établies et anciennes du « paysage des villas historiques », comme la population en a exprimé le souhait dans une enquête. La deuxième étude a été commissionnée par la CNA (Confederazione nazionale della piccola e media impresa e dell’artigianato, Province d’Ancône) et pose les questions issues de l’analyse intégrée : • Est-il sensé de continuer à travailler de manière à produire un déséquilibre entre productivité et production dans les systèmes industriels et agricoles ? • Quel modèle de développement global peut-on faire émerger d’un changement de rapport entre productivité et production ? • Quel modèle d’occupation du sol peut-on proposer aux administrations locales afin qu’elles l’intègrent dans leurs instruments de planification ? Les particularités mises en évidence par la phase de diagnostique mettent en exergue l’utilité de la participation du public ainsi que d’une coopération avec les sciences humaines et économiques. La phase de pronostique a souligné la nécessité de : • Parvenir à une différenciation des activités productives suivant la zone territoriale considérée : activités différentes sur la côte et dans l’arrière-pays, adaptées aux lieux, aux structures en place et au modèle social et culturel ; • Donner à chaque zone de production un caractère spécifique et bien identifiable ; • Identifier et fixer des constantes qui devraient être liées aux variables spécifiques des cas observés : a) environnement : par exemple le rapport avec le paysage des alentours ; 321 b) économie : par exemple souligner le caractère typique d’une région en développant des produits spécifiques ou une marque de type « appellation contrôlée » (comme c’est le cas dans les territoires ruraux par la valorisation des « terroirs ») ; c) contexte social : par exemple le rapport avec le contexte social et le respect des principes de tutelle et de développement du paysage dans toutes ses dimensions culturelles et productives. Il faudrait approfondir ce point grâce à des questionnaires distribués aux entreprises et à la population. Les deux études ont permis d’esquisser un nouveau modèle culturel qui pourra être à la base d’un nouveau modèle d’occupation du sol. La validité de la méthode de travail élaborée par le groupe de recherche semble être ainsi confirmée par la pratique. En combinant les principes de l’écologie du paysage avec les nécessités sociales et économiques, on parvient à formuler une évaluation intégrée et à articuler les caractéristiques spécifiques du paysage analysé (en commençant par sa physiographie). Enfin, cette évaluation et le décryptage des relations existant entre les différentes caractéristiques du paysage permettent de formuler des conseils et recommandations en vue de la planification et de la gestion. PIERRE DONADIEU LE PAYSAGE, IDENTITES PAYSAGERES ET LE DEVELOPPEMENT DURABLE URBAIN Deutsche Zusammenfassung: Der Begriff der Landschaftsidentität, der sich auf die vorwiegend visuelle Erfahrung des erlebten Raums bezieht, gehört zu den sozialen und kulturellen Werten, die in der Europäischen Landschaftskonvention von Florenz in den Vordergrund gestellt wurden. Landschaftsidentitäten sind historische Konstruktionen mit einem Beginn und einem Ende. In diesem Artikel wird die Art und Weise analysiert, in der die Identitäten auftreten, erhalten werden, in eine Krise geraten und schließlich verschwinden. Einige von ihnen sind aus einer territorialen Governance aus öffentlichen und privaten Akteuren hervorgegangen und sind Beispiele für aktuelle soziale Projekte zur Konstruktion einer multifunktionellen Raumnutzung, die der Ethik einer nachhaltigen Stadtentwicklung entspricht. Riassunto italiano: La nozione di identità paesaggistica, che si riferisce soprattutto all’esperienza visuale dello spazio vissuto, fa parte dei valori sociali e culturali messi in evidenza dalla Convenzione Europea del Paesaggio di Firenze. Le identità paesaggistiche sono costruzioni storiche con un inizio e una fine. L’articolo analizza le modalità secondo cui tali identità si manifestano, vengono conservate, entrano in crisi e poi scompaiono. Alcune di esse derivano da una governance territoriale che riunisce attori pubblici e privati e sono esemplificative di progetti sociali recenti per la costruzione di un uso multifunzionale dello spazio che corrisponde all’etica dello sviluppo urbano sostenibile. GIOVANNI BUZZI LA DIMENSIONE ECONOMICA E SOCIALE DEL PAESAGGIO CULTURALE EXTRAURBANO Deutsche Zusammenfassung: Der geographische Raum von den Alpen bis zum Po beinhaltet vier verschiedene Kulturlandschaftsarten: die alpine Acker- und Weidelandschaft, die immer häufiger aufgegeben wird; die urbane Landschaft, die sich mit ihrer Infrastruktur immer weiter ausbreitet; die von Getreide- und Futteranbau geprägte moderne Agrarlandschaft sowie die Parklandschaft (insbesondere der Parco del Ticino), in der ein Modell für nachhaltige Entwicklung angewendet wird, das in der Lage ist, die natürliche Biodiversität und die kulturellen Traditionen zu erhalten. Ein Großteil der extraurbanen Kulturlandschaften ist das Produkt der landwirtschaftlichen Verfahren und Techniken, die seit 322 Jahrhunderten auf das Gebiet einwirken und eine Landschaftsvielfalt geschaffen haben, die einen wichtigen Bestandteil des europäischen Kulturerbes darstellt. Die moderne Agrarlandschaft ist durch einen globalen Entwicklungsprozess entstanden, der seit Ende des 19. Jahrhunderts den Import von Lebensmitteln begünstigt hat. So hat der Import großer Getreidemengen aus Osteuropa die Schweizerische Hochebene von einem Getreideanbaugebiet zu einem Viehzuchtgebiet werden lassen, während der Import chinesischer Seide in wenigen Jahrzehnten zum Verschwinden der Maulbeerhainlandschaften in der Lombardei beitrug. Nach dem Zweiten Weltkrieg wurde durch die Beschleunigung der Transportmittel und durch neue Konservierungstechniken eine wachsende Entkoppelung der Produktion vom Ursprungsstandort möglich, die jedoch mit einer höheren wirtschaftlichen Abhängigkeit von den Exportländern der wichtigsten Landwirtschaftsprodukte einherging. Heutzutage sind landschaftliche Veränderungen also mehr denn je das Produkt der internationalen Handelswege. Andreas Muhar, Professor für Ökologie an der Universität Wien, entwarf zwei verschiedene Szenarien für die künftige Entwicklung: 1. Die systematische Anwendung der GATT-Tarifabkommen (General Agreement on Trade and Tarifs) wird zu einer zusätzlichen Rationalisierung und Konzentrierung der Agrarproduktion führen. Dies wird notwendigerweise einen Verzicht auf Mischkulturen zugunsten von einer intensiven und immer spezialisierteren Monokulturnutzung nach sich ziehen. Die meisten traditionellen Kulturlandschaften werden verschwinden, nur einige „Museumslandschaften“ werden zu touristischen Zwecken erhalten bleiben. 2. Die Landwirtschaftszuschüsse werden in Öko-Prämien umgewandelt, um eine Mindestzahl an landwirtschaftlicher Bevölkerung zu erhalten und damit den Schutz der Kulturlandschaften zu ermöglichen. Der Naturschutz wird zu einem wichtigen Bestandteil der Agrarpolitik; eine wachsende Anzahl an Flächen wird unter Schutz gestellt in einer ansonsten von modernen Landwirtschaftsbetrieben mit intensiver Produktion dominierten Landschaft. Mit Blick auf den hohen Verbrauch an nicht erneuerbarer Energie und auf die sinkende Qualität des Wassers, der Luft und des Bodens, die die moderne Landwirtschaft verursacht, beschloss Muhar seine Analyse mit dem Wunsch nach einem landwirtschaftlichen Produktionssystem, das die Beziehung zwischen Arbeit und Produkt optimiert und dabei die Umwelt so wenig wie möglich belastet. Unter den Ländern, die nationale Forschungsprojekte zur Kulturlandschaft entwickelt haben, verdienen Österreich und die Schweiz besondere Erwähnung, denn sie haben eine holistische Sicht auf die Landschaftsprobleme erarbeitet und eine harmonische Verknüpfung zwischen den ästhetisch-formalen und den ethisch-funktionalen Zielen geschaffen. Résumé français : Le territoire géographique qui s’étend des Alpes jusqu’au fleuve Pô est caractérisé par la succession de quatre types de paysage culturel : le paysage agro-pastoral alpin qui est progressivement abandonné ; le paysage urbain avec ses infrastructures en expansion qui englobent villages et villes préexistantes ; le paysage agraire moderne dominé en grande partie par les monocultures fourragères et céréalières ; le paysage du parc naturel (plus précisément du Parco del Ticino) où l’on pratique un modèle de développement durable en vue de protéger la biodiversité naturelle et les traditions culturelles. La majeure partie des paysages culturels extra-urbains est le résultat des pratiques et techniques de l’agriculture qui modèlent le territoire depuis des siècles. Il en a découlé la grande variété de paysages qui représente une des principales richesses du patrimoine culturel de l’Europe. Le paysage agricole moderne a été forgé par un développement global qui a commencé à partir de la fin du XIXème siècle et qui a favorisé l’importation de certaines denrées alimentaires. Ainsi, l’importation de grandes quantités de céréales de l’Est de l’Europe a transformé le plateau suisse, qui jadis produisait des céréales, en terre d’élevage. De même, l’importation de la soie chinoise a contribué à la disparition, en quelques décennies, du paysage des mûriers en Lombardie. Après la deuxième guerre mondiale, l’augmentation de la vitesse dans les transports et les nouvelles techniques de conservation ont contribué à une délocalisation galopante des productions. Parallèlement, la dépendance économique par rapport aux pays exportateurs des principaux produits agricoles s’est considérablement accrue. Plus que jamais, les transformations du paysage sont donc aujourd’hui le produit des flux commerciaux internationaux. Andreas Muhar, Professeur d’Ecologie à l’Université de Vienne, a proposé deux scénarios pour un développement à venir : 323 1° : L’application systématique des accords du GATT (General Agreement on Trade and Tarifs) conduira à une rationalisation et une concentration renforcées de la production agricole. Cela entrainera nécessairement un abandon des cultures mixtes au profit de monocultures intensives toujours plus spécialisées. La majeure partie des paysages culturels traditionnels disparaîtra, à l’exception de quelques « paysages-musée » conservés à des fins touristiques. 2° : Les actuelles subventions allouées à l’agriculture seront converties en bonus écologiques afin de maintenir une population rurale ayant pour mission de conserver les paysages culturels. La protection de la nature deviendra une des clés de la politique agricole et verra s’accroître la surface des territoires protégés qui s’inséreront dans un paysage dominé par des entreprises agricoles à production intensive. Face à la consommation élevée d’énergies non renouvelables et à la dégradation progressive de la qualité de l’eau, de l’air et du sol causée par l’agriculture moderne, Muhar conclue son analyse en appelant de ses vœux un système de production agricole qui optimise la relation entre le travail et le produit tout en minimisant au maximum l’impact sur l’environnement. Parmi les pays qui ont développé des projets nationaux de recherche sur les paysages culturels, l’Autriche et la Suisse méritent une attention particulière : elles ont su élaborer une vision holistique des problèmes du paysage, en harmonisant les objectifs à caractère esthétique et formel avec ceux de nature éthique et fonctionnelle. PIERRE DONADIEU LE LANDSCAPE URBANISM EST-IL UN NOUVEAU MODELE DE PRATIQUES PAYSAGISTES ? Deutsche Zusammenfassung: Der Artikel analysiert den Begriff „landscape urbanism“ im europäischen und insbesondere im französischen Kontext. Dieser vor kurzem entstandene Begriff amerikanischer Herkunft bezieht sich auf den Wendepunkt, den für die Landschaftsarchitekten Bernard Tschumis siegreiches Projekt beim Wettbewerb für den Parc de la Villette (Paris) im Jahr 1982 verkörpert. Ab diesem Zeitpunkt veränderten sich die Praktiken der Landschaftsarchitekten dahingehend, dass die zuvor wenig evolutionären Arbeiten zunehmend abgelöst wurden durch Projekte zur „räumlichen Begleitung“ bekannter oder unbekannter ökonomischer, ökologischer und sozialer Entwicklungen, die als „zu gestaltende Räume“ aufgefasst wurden. Angestrebt wurde insbesondere die szenographische Aufwertung der postindustriellen Erinnerung und der örtlichen Geographie. Bei dieser Entwicklung spielten die öffentlichen Mächte in Frankreich eine besondere Rolle; auch die Berücksichtigung des Begriffs „nachhaltige Stadtentwicklung“ ist in diesen Zusammenhang einzuordnen. Riassunto italiano: L’articolo analizza la nozione di landscape urbanism nel contesto europeo, e soprattutto in quello francese. Tale nozione molto recente, di origine americana, si riferisce alla svolta rappresentata, per gli architetti del paesaggio, dal progetto vincente di Bernard Tschumi, in occasione del concorso del Parc de la Villette a Parigi, nel 1982. A partire da tale data, i lavori degli architetti del paesaggio, caratterizzati fino ad allora da opere scarsamente “evolutive”, hanno cominciato a svilupparsi sempre di più verso progetti di accompagnamento spaziale agli sviluppi economici, ecologici e sociali, conosciuti o sconosciuti, considerati come “spazi da pianificare”. Tali progetti si sono concentrati soprattutto sulla valorizzazione scenografica della memoria post-industriale e della geografia dei luoghi. Sono stati di particolare rilievo in questo contesto il ruolo delle forze pubbliche francesi, nonché la considerazione recente della nozione di sviluppo urbano sostenibile. 324 PAOLA BRANDUINI LA GESTIONE DELLE TRASFORMAZIONI NEL PAESAGGIO AGRICOLO PERIURBANO. PERMANENZE STORICHE E PAESAGGI FUTURI Deutsche Zusammenfassung: Die ländliche Landschaft am Stadtrand ist ein komplexes System, das in schnellem Wandel begriffen ist. Sie besteht aus unterschiedlichen Komponenten und Beziehungen, die ihrerseits wiederum von verschiedenen Akteuren abhängen, die auf sie einwirken. Sie beinhaltet die physischen Zeichen vergangener Generationen ebenso wie die Bedeutungen, die ihr in den verschiedenen Epochen zugeschrieben wurden. Um die laufenden Veränderungen in dieser Landschaft verstehen zu können, muss man die Permanenzen der historischen Landschaftssysteme erkennen und untersuchen, wie die Bevölkerung diese Landschaften interpretiert und in ihnen lebt. Der öffentlichen Verwaltung obliegt es, diese Landschaft und die Wandlungsprozesse zu regulieren und Entscheidungen über ihr Schicksal zu treffen. Was ist hierbei zu beachten? Um besser verstehen zu können, wie sich eine ländliche Landschaft am Stadtrand im Lauf der nächsten Jahre verändern könnte und wie man den Wandlungsprozess lenken kann, ist es hilfreich, zunächst die aktuellen Tendenzen, den derzeitigen Entwicklungsstand und die Änderungsabsichten zu untersuchen, um dann angemessene Maßnahmen zum Schutz und zum Erhalt sowie zur Aufwertung der Landschaft einzuleiten. Résumé français : Le paysage agricole périurbain est un système complexe se transformant rapidement. Il est constitué d’éléments et d’interactions qui dépendent de différents acteurs exerçant à leur tour une influence sur les premiers. Le paysage présente les signes physiques qui y ont été inscrits par les générations précédentes ainsi que les valeurs qui lui ont été attribuées dans les diverses époques. Afin de pouvoir comprendre les changements en cours dans ce paysage, il est important de reconnaître les permanences des systèmes historiques présents dans les paysages et de cerner comment la population les interprète et vit dans ces lieux. L’administration publique est appelée à gérer le territoire et les transformations qui lui sont inhérentes, à prendre des décisions sur le sort du paysage : que lui faut-il prendre en considération ? Pour mieux comprendre comment un paysage agricole périurbain pourrait changer au cours des années à venir et comment en guider la transformation, il faut d’abord analyser les tendances actuelles, faire un état des lieux et déterminer quelles sont les intentions des divers acteurs en matière de changements. Ensuite, on pourra adopter des mesures adéquates de protection, de conservation et de valorisation du paysage. PIERRE DONADIEU LES PROFESSIONNELS DU PAYSAGE ET LA CONSTRUCTION DES BIENS COMMUNS PAYSAGERS. LE CAS DE L’AGRICULTURE URBAINE Deutsche Zusammenfassung: Seit mindestens fünfzig Jahren haben der französische Staat und die öffentlichen Stadtverwaltungen die Berufe im landschaftlichen Sektor neu organisiert, um der sozialen Nachfrage nach Lebensqualität in Stadt und Land (z.B. landschaftliche Identität, Wohlbefinden, Schönheit oder Gedächtnis) Rechnung zu tragen. Die Landschaftsexperten intervenieren auf pragmatische Weise: durch den Schutz oder die Erneuerung des Landschaftserbes oder durch Planung und Schaffung neuer Landschaften. Handelt es sich um agriurbane Projekte, so bezeichnen die Landschaftsexperten die ländlichen Gebiete am Stadtrand als „städtische Gemeingüter“, da es sich um Werte von allgemeinem Interesse handelt (man denke etwa an die Nahrungsabsicherung in den Städten, die zivile Sicherheit, die Freizeitgestaltung oder an die 325 Vermeidung der weitschweifigen Stadtentwicklung). Im Namen der Befriedigung der öffentlichen Nachfrage nach Lebensqualität und sozialem Wohlstand geht diese Einordnung einher mit einer Einteilung der Akteure in Gewinner und Verlierer. Riassunto italiano: Da almeno cinquant’anni lo Stato francese e i poteri pubblici urbani hanno riorganizzato le competenze del settore paesaggistico al fine di rispondere alla domanda sociale di garantire un’elevata qualità della vita urbana e rurale (si pensi all’identità paesaggistica, al benessere, alla bellezza, alla memoria ecc.). Gli esperti di paesaggio intervengono in maniera pragmatica, sia proteggendo o restaurando l’eredità paesaggistica, sia pianificando e creando paesaggi nuovi. Nel caso di progetti agri-urbani, gli operatori paesaggistici definiscono i paesaggi agricoli periferici come “beni comuni urbani”, trattandosi di valori d’interesse generale (la garanzia alimentare nelle città, la sicurezza civile, il tempo libero, la lotta contro la città allargata ecc.). In nome della necessità di soddisfare la domanda pubblica di qualità della vita e benessere sociale, tale denominazione paesaggistica finisce per dividere gli attori in vincenti e perdenti. 326 GLI AUTORI – LES AUTEURS – DIE AUTOREN MONICA BOCCI Università Politecnica delle Marche, Dipartimento di Scienze Applicate ai Sistemi complessi, Area Gestione Risorse Urbane e Rurali, Facoltà di Ingegneria, Ancona. E-Mail: [email protected] PAOLA BRANDUINI Politecnico di Milano, Laboratorio di documentazione e ricerca per il paesaggio, Dipartimento di Progettazione dell’Architettura. E-mail: [email protected] GIOVANNI BUZZI Architetto e geografo, Studi Associati SA, Lugano; attività didattica e di ricerca presso il Politecnico di Milano, l’Università di Bologna e la Scuola universitaria professionale dei due Semicantoni di Basilea. E-mail: [email protected] RITA COLANTONIO VENTURELLI Università Politecnica delle Marche, Dipartimento di Scienze Applicate ai Sistemi complessi, Area Gestione Risorse Urbane e Rurali, Facoltà di Ingegneria, Ancona. E-Mail: [email protected] MICHEL COLLOT Université de Paris III, Littérature française, Directeur de l’Unité mixte de recherche « Écritures de la modernité », UMR 7171 associée au CNRS. E-Mail : [email protected] PIERRE DONADIEU Ecole nationale supérieure du paysage de Versailles, E.N.S.P. E-Mail : [email protected] FRANÇOISE DUBOST Directrice de recherche au CNRS, rattachée au Centre de sociologie des arts à l’EHESS (Ecole des hautes études en sciences sociales, Paris). E-Mail : [email protected] ALFONS DWORSKI Universität Hannover, Institut für regionale Architektur und Siedlungsplanung. E-Mail: [email protected] MARIA EMILIA FARACO Dirigente Servizio Arredo urbano, Comune di Ancona. E-Mail: [email protected] ANDREA GALLI Università Politecnica delle Marche, Dipartimento di Scienze Applicate ai Sistemi complessi, Area Gestione Risorse Urbane e Rurali, Facoltà di Agraria, Ancona. E-Mail: [email protected] 327 HANSJÖRG KÜSTER Universität Hannover, Institut für Geobotanik. E-Mail: [email protected] YVES LUGINBÜHL Université de Paris 1 – La Sorbonne, UFR Géographie ; directeur de recherche au CNRS, UMR LADYSS ; consultant auprès du Conseil de l’Europe ; co-rédacteur de la Convention Européenne du Paysage et de la Charte du Paysage Méditerranéen ; président du Comité Scientifique du programme « Paysage et développement durable » du ministère de l’écologie et du développement durable (France). E-Mail : [email protected] GIORGIO MANGANI Direttore del Sistema Museale della Provincia di Ancona e della casa editrice “Il Lavoro Editoriale”. www.giorgiomangani.it ERNESTO MARCHEGGIANI Università Politecnica delle Marche, Facoltà di Agraria. E-Mail: [email protected] RAFFAELE MILANI Università degli Studi di Bologna, Dipartimento di Filosofia. E-Mail: [email protected] GIOVANNA PACI Università Politecnica delle Marche, Facoltà di Agraria. E-Mail: [email protected] GIULIO PETTI Università Politecnica delle Marche, Facoltà di Ingegneria. E-Mail: [email protected] GABRIELLA ROVAGNATI Università degli Studi di Milano, Facoltà di Lingue e Letterature straniere. E-mail: [email protected] 328