Recensione a: S - Università degli Studi di Bergamo

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Recensione a: S - Università degli Studi di Bergamo
Recensione a: S. Toussaint, Humanismes/antihumanismes de Ficin à Heidegger,
I, Humanitas et Rentabilité, Les Belles Lettres, Paris 2008, € 27.
Stéphane Toussaint, filosofo e italianista, ancien élève dell'Ecole Normale Supérieure di Parigi e
ancien membre dell'Ecole Française di Roma, ha pubblicato, recentemente, un volume dal titolo
Humanismes/antihumanismes de Ficin à Heidegger, I, Humanitas et Rentabilité. Si tratta di uno
studio sul concetto di humanitas, che, partendo dal pensiero di Marsilio Ficino, giunge sino
all’antiumanismo di Martin Heidegger e alle sue conseguenze, per poi discutere l’odierna minaccia
rappresentata dalla rentabilité. L’humanitas, come sottolinea Toussaint nell’avant-propos del suo
testo, rappresenta un’idea costruita in maniera fragile nel corso dei sei secoli che ci separano dal
Rinascimento. In particolare, sembra ormai che ci si sia avviati ad una crisi dell’humanitas stessa e
degli studi umanistici, messi in causa nei loro fondamenti pratici dal predominio della rentabilité,
dopo essere stati già minati nelle loro radici spirituali dalle varie forme di antiumanismo filosofico e
dai totalitarismi del ‘900.
L’ipotesi principale che ha sostenuto il lavoro di Toussaint è rinvenibile in queste sue affermazioni:
«l’humanisme européen soutient depuis toujours que sa culture humanise l’homme;
l’antihumanisme entend prouver le contraire; la rentabilité se charge d’éradiquer les derniers
principes de l’humanisme en Europe» (p. 11). Quello che accomuna l’antiumanismo e la rentabilité
è l’utilizzazione dell’uomo, nel primo caso funzionale al totalitarismo, nel secondo
all’economicismo.
Fin dalle prime pagine, viene ricordato come la querelle retorica sul termine humanitas si sia
ripetuta ciclicamente nel corso dei secoli ; infatti, «le grammairien Aulu-Gelle observait déjà
comment les Latins appellaient facilement humanitas ce qui n’avait plus grand rapport avec l’idéal
culturel des Grecs. Pour rester plus moderne, depuis l’invention du mot Humanismus en Allemagne,
vers 1800, on ne compte plus les fois où l’humanisme s’est transformé et parfois même contredit
pour survivre. Mais la situation présente n’a rien de comparable» (p. 13).
Partendo da tali constatazioni, Toussaint sviluppa all’interno del suo testo una «histoire
philosophique de l’humanisme», allo scopo di mettere in luce il percorso intrapreso dal concetto di
humanitas, che molti letterati, critici della modernità, hanno esemplificato con la metafora del
naufragio. A questo tipo di ricostruzione storico-filosofica è dedicata la prima parte del volume,
intitolata Humanitas, cui segue una seconda parte, dedicata alla Rentabilité. L’ordine di
presentazione delle questioni all’interno del testo risponde, secondo Toussaint, ad esigenze di
ordine logico, e non solo cronologico. Esse sono rinvenibili a partire dal seguente interrogativo di
fondo: «depuis fort longtemps, tout le monde se dit humaniste. Un humanisme omniprésent, tombé
au rang d’une mode littéraire, dans une société convaincue d’être la plus humaine de toutes,
marque-t-il l’oubli de l’humanitas au sens profond du terme?» (p. 14). «Il est pourtant paradoxal
[...]», continua Toussaint, «qu’une société et que ses intellectuels, politiciens, maîtres d’école,
fassent de l’humanisme une raison d’exister sans s’interroger sur l’idée directrice de leur propre
existence» (p. 15). Ne deriva la necessità di intraprendere un’analisi comparativa, sottoforma di
«histoire philosophique de l’humanisme», che vada a recuperare la genesi della coppia di idee
humanus/humanitas, vero e proprio principio fondatore nel periodo storico compreso fra il
Rinascimento e l’età moderna. Tale accoppiata, ribadisce più volte Toussaint, non va confusa con il
binomio anthropinos/anthropos, come si è fatto spesso, riducendo la renovatio umanistica a mero
antropocentrismo.
Per evitare questo rischio, Toussaint ribadisce, in varie occasioni, che la specificità del
Rinascimento italiano sta nel suo fondarsi sul dialogo storico fra Antichi e Moderni, fra tempi e
pensieri differenti, tanto da poter parlare di una sorta di ‘sincretismo’. Questo rilievo è tanto più
evidente, se si considera la renovatio umanistica italiana non come un’imitazione pura e semplice di
dottrine classiche, quali potrebbero essere, per esempio, la philanthropia e la paideia greche.
Inoltre, precisa Toussaint, la stessa humanitas rinascimentale non risponde nemmeno
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all’epistemologica delle scienze dell’uomo, poiché essa precede tutta l’antropologia occidentale.
Ciò è dimostrato dal fatto che «l’homme associé à la raison naturelle des Lumière et à l’idéal
classique des Anciens, cet homme moral dont la Bildung serait révélatrice chez les individus et la
Kultur révélatrice chez les nations, s’affirme pour la première fois chez les néohumanistes, lecteurs
de Herder, de Kant et de Goethe» (p. 39). L’aspetto peculiare che contraddistingue gli umanisti
italiani del XV secolo è, invece, la centralità attribuita all’humanitas, cui viene riconosciuta una
propria autonomia storica e filologica, spesso confusa con l’antropocentrismo da parte degli
esponenti dell’antiumanismo.
Per poter studiare al meglio tale humanitas, Toussaint recupera, all’interno del suo testo, alcune
istanze della ricerca filologica di Kristeller e le coniuga con quelle di tipo filosofico di Garin,
giungendo così ad una duplice prospettiva, semantica e genealogica al tempo stesso. Sul piano
prettamente teoretico, Toussaint riprende i tre significati di humanitas elaborati da Marsilio Ficino
in alcune sue opere, come le Lettere e la Teologia platonica. Si tratta del savoir, della douceur e
dell’unité, che costituiscono l’humanitas nella sua totalità culturale, psicologica e filosofica, ovvero
la «humanité gracieuse». Quest’ultima, in quanto prodotto di qualità eterogenee, si radica in un
concetto di ratio (=misura) che non ha nulla a che vedere con il razionalismo moderno. Per questo
motivo, Toussaint insiste sul fatto che «le Quattrocento, est la fusion entre l’eruditio, la
philanthropia et l’unitas de l’espèce humaine dans le creuset de l’universalisme philosophique» (p.
49). In altre parole, la concezione dell’uomo secondo una triplice dimensione (forma, cuore e
intelletto) fa riferimento ad una molteplicità di fonti, riconducibili sia al mondo classico sia al
mondo preclassico, rappresentato, quest’ultimo, dalla cultura persiana, da quella caldea, da quella
ebraica, da quella egizia, come per esempio l’ermetismo.
La perdita di questo ‘universalismo filosofico’ o ‘sincretismo’ nell’Humanismus del XIX secolo e
nel troisième humanisme del XX secolo, viene collegata, da Toussaint, al fenomeno della
costituzione del soggetto antropologico all’interno dell’umanismo, a scapito della triple humanité
esaltata da Marsilio Ficino. Egli osserva, sulla falsariga di Proctor, che «[…] une des plus fâcheuses
tendances de la Modernité» sarebbe «d’avoir transformé l’éducation de soi antique en un mal de
l’âme égoïste, cette prison du moi». Così «l’inflation de la subjectivité aurait précipité la fin de
l’humanisme, pour ainsi dire victime de son succès. Ainsi aurait été perdue la vénérable tradition
antique du ‘shaping of the self’ » (p. 64). Per i critici del mondo moderno la paideia e il suo ideale
di uomo universale hanno lasciato il posto alla crisi dell’identità e ad un «égocentrisme tapageur»,
ma, corregge Toussaint, «la crise de l’humanisme n’est pas réductible à la crise anthropologique du
sujet moderne […] mais [c’est] une crise du projet néoclassique, qui fermente après l’émergence du
sujet rationnel dans l’idéalisme allemand» (p. 66). Del resto, l’erudizione, la compassione e l’unità
umana avevano già varie volte divorziato dall’antichità ad oggi; quello che però caratterizza i
neoumanisti come Niethammer, Humboldt e Liard sta nella «combinaison du rationalisme kantien
et du philhellénisme néoclassique, où il serait un truisme de voir la marque de Humboldt et de
Hegel [qui] restructure évidemment en profondeur le champ de connaissance de l’humanitas
ancienne» (pp. 74-75). E ancora: «[…] voilà ce que signifie l’humanisme de 1800, humanisme
anxieux de rendre les nations disciplinées, instruites et libres, aussi différent de l’humanisme de
1400 que de celui de l’an 2000 […] l’Humanismus fonde un nouveau concept d’éducation
véhiculant le paradoxe d’une discipline antique de la liberté moderne» (p. 75). In questo modo, la
Bildung viene avvolta da una dualità di ordine generale; come evidenzia il caso del Niethammer, si
è aperto «[…] depuis la fin de l’Aufklärung, un contentieux [...] entre l’éducation pratique, vouée au
monde concret, et l’éducation formelle, vouée au monde abstrait» (p. 75).
L’istanza della rinascita del popolo tedesco è stata, successivamente, ripresa dal troisième
humanisme di inizio ‘900, con cui, a dire di Toussaint, « […] la résistance au matérialisme d’une
mécanisation brutale, responsabile de la bestialisation des peuples et de la massification des
cultures, exaltait l’essence de la mission civilisatrice» e « le devoir fondamentalement supranational
[…] de l’humanisme allemand, consistait donc à armer intellectuellement la vieille Europe contre
une capitulation spiritelle pure et simple» (p. 110). Sempre secondo Toussaint, sulla riforma morale
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del troisième humanisme ha pesato, ciò nonostante, il declino dell’idealismo, come dimostrato da
Jaeger, uno degli esponenti della nuova corrente umanistica tedesca. Nella sua Bildung ‘inquieta’,
Toussaint spiega che per Jaeger «l’areté, ou vertu grecque, semblait partout menacée par une
collectivité qui n’avait plus rien de la communauté rationnelle de Niethammer. Et les
néohumanistes du XIX, dans leur candeur idéaliste, s’avéraient en partie responsables de ce déclin.
Leur exemple devait céder la place à une autre aristocratie culturelle [...] contre la montée des
masses» (p. 111). In questo modo, l’umanismo viene ridotto a pedagogia elitista, che inizia ad avere
le ore contate con la dichiarazione fatta da Alfred Rosenberg nella sua opera, Il mito del XX secolo,
in cui viene proclamata, in nome del popolo tedesco, la morte di tutto l’ideale umano.
La crisi umanistica degli anni Trenta si aggrava con l’avvento del nazismo, che, secondo Philippe
Lacoue-Labarthe, non sarebbe altro che un umanismo larvato; di riflesso, anche l’umanismo non
sarebbe altro che un pregiudizio etnocentrico che porta direttamente al nazismo. Secondo Toussaint,
tale posizione rappresenta una semplificazione ideologica, che non tiene conto di letture come
quelle di Kristeller, Garin e Baron, che hanno portato avanti una forma di resistenza intellettuale
polarizzata attorno al concetto di Rinascimento, recuperando il concetto di umanismo civico, sulla
falsariga di Leonardo Bruni. Nella medesima direzione si colloca il recupero dell’appello al sapere
liberatore di Vergerio, nonché delle istanze educative che hanno animato l’operato di Vittorino da
Feltre. «Envisager sérieusement l’influence des Grecs et des Romains dans l’anéantissement des
victimes du Führer, revient à prêter crédit à la démence hitlérienne, secondée par un Hans
Oppermann […]» (p. 129). In realtà, sottolinea Toussaint, le forme della cultura greca e romana
sono state utilizzate dai nazisti semplicemente come un magazzino, ma non è ragionevole accusare
gli studi umanistici di aver provocato genocidi.
Alla crisi dell’umanismo dal 1933 va ascritta anche la disintegrazione del concetto stesso di
Humanitas: «cette déshumanisation […] débuta par une déstructuration de l’humanité grecque,
favorisée par l’action conjointe du biologisme, de l’antihistoricisme et de l’irrationalisme que la
plupart des opposants à la ‘corruption’ démocratique de la République de Weimar cultivaient depuis
la défaite allemande» (p. 147). In questo contesto, ha giocato un ruolo importante l’antiumanismo di
Heidegger, che Toussaint rilegge a partire dall’opera heideggeriana Lettre sur l’humanisme, in cui il
filosofo tedesco mette in luce i limiti del soggetto razionale e la necessità di abolire il concetto
stesso di humanitas, che ha origini romane e razionaliste. Toussaint commenta così tali
affermazioni: «La plus haute humanitas libérée de l’anthropologie et de la métaphysique, qui
laissait espérer un superhumanisme au service de l’être, se teinte de colorations nationalistes et se
résout en un formule ambiguë» (p. 141). Egli ricorda che è sempre Heidegger ad aver concepito
l’umanismo alla stregua di una discriminazione, e l’uomo dell’umanismo come il prodotto di una
somma di illusioni dispotiche dell’Occidente.
La crisi irreversibile del 1933 e la successiva hitlérisation hanno dimostrato che l’humanitas
rinascimentale non ha trovato la sua verità nell’antropologia moderna. In anni più recenti,
l’antiumanismo propugnato da Heidegger, Foucault e Derrida è stato sostituito da un antiumanismo
economico, promosso dalla rentabilité. Quest’ultima, accusa Toussaint, ha pauperizzato
l’intelligenza, ma le sue radici non vanno rinvenute né fra i mercanti fiorentini del Rinascimento, né
fra i borghesi dell’Humanismus tedesco. Gli squilibri che si sono creati fra sapere e mercato, il
declino sociale delle humanités, la rottura degli equilibri scientifici e il deterioramento della
mentalità commerciale si situano, a dire di Toussaint, nei confini dello spazio filosofico dove è stato
messo in discussione il concetto di humanitas. Nel 1999, data fatidica perché si colloca esattamente
a cinquecento anni dalla morte di Ficino, «la rentabilité s’impose politiquement et officiellement,
non plus seulement sociologiquement ou économiquement, à l’éducation européenne» (p. 169). Con
gli accordi della Sorbona (1998) e il Processo di Bologna (1999), i documenti internazionali hanno
fatto propria la concezione secondo cui la riforma dell’istruzione può avvenire per mezzo
dell’economia, senza riconoscere che «l’admission d’une valeur au nom de laquelle l’éducation
humaine est guidée par la ‘reussite’ est un leurre» (p. 169). Da questo momento in avanti, per
Toussaint, bisognerebbe parlare di «rentabilitè des êtres», che presenta, fra i suoi ‘costi umani’, la
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cosiddetta flessibilità. Quest’ultima, da fenomeno sociologico, è stata assunta a verità intangibile e
si è strettamente legata al concetto di occupabilità, che Toussaint considera la chiave di volta
dell’intera questione della rentabilité des êtres. L’occupabilità, infatti, andrebbe intesa nei termini
di utilizzabilità e, come si evince dalla Riforma europea dell’educazione per mezzo dell’economia
(Sorbona 1998), essa «[…] enlève délibérément aux studia humanitatis la fonction fondatrice et
formatrice qui pouvait leur rester» (pp. 174-175). A questi fenomeni, va aggiunta la rinuncia alla
trasmissione essenziale di insegnamenti dal maestro all’allievo, fatta propria dalla società della
conoscenza, che dichiara di mettere al centro la promozione delle competenze. Toussaint lamenta
che «plus rien ne reste ou ne résiste de la pédagogie des humanistes. Les éducateurs italiens,
Vittorino da Feltre et Guarino da Verona, les pédagogues nordiques, Erasme et Melanchthon, les
fondateurs de l’éducation néohumaniste, Niethammer et Humboldt: cinq siècles de réflexions sont
tenus à l’écart» (p. 176). Anche l’Italia, con la riforma Moratti del 2003, si è incamminata, secondo
Toussaint, sulla strada della rentabilité in campo scolastico. In particolare, egli ritiene che «un
laboratoire d’antihumanisme s’affaira autour de la ‘professionnalisation’ des jeunes et de leurs
études. Nulle surprise d’entendre alors ses promoteurs, Silvio Berlusconi en tête, déclarer que
‘l’obligation égualitaire de l’école’ publique met un frein à la liberté des jeunes [...] Constamment,
la ‘philosophie du management éducatif’ triche sur l’équivalence entre libéralisme commercial et
libération morale. Elle procède ainsi délibérément à l’aggravation de ce qu’Antonio Gramsci
nommait les ‘formes chinoises’ de l’inégalité» (pp. 177-178).
Va rilevato come queste ultime considerazioni, riportate da Toussaint, non sono state supportate da
riferimenti precisi ai documenti della riforma o a testi pedagogici, ma, come esplicitato nelle note al
testo, si basano su articoli comparsi in quotidiani italiani o su dibattiti televisivi. L’utilizzo di fonti
conoscitive di terza o quarta mano ha fatto in qualche modo perdere a Toussaint, nella discussione
di tali questioni, quel rigore filologico che l’ha accompagnato in tutta la prima parte del volume e
anche nei capitoli conclusivi. Anche le sue critiche al ‘mito moderno’ del long life learning, della
riuscita scolastica e dell’eccellenza si basano più su dichiarazioni di uomini politici o articoli di
rivista che sulla discussione della letteratura pedagogica contemporanea, e verte principalmente
sull’analisi filosofica delle decisioni europee in materia (p. 181-267). Da tutto ciò, Toussaint ha
ricavato che «ni éducation, ni science (ou pour le dire en allemand, ni Bildung, ni Wissenschaft), le
learning est un entraînement au travail, dénué de vie intellectuelle» (p. 184). I vocational programs
sono diventati, come hanno già dimostrato il groupe Abélard, Christopher Lasch, Jean-Claude
Michéa, Derek Bok, Bill Readings, Anthony Smith, Salvatore Settis e molti altri, l’equivalente di
‘programmi utilitari’, mentre «l’emprise de la rentabilité provoque un double étranglement moral,
dans la tête de l’enseigné, anxieux de réussite, et dans la tête de l’enseignant, tourmenté de
remords» (p. 203). E ancora: «la
formule multiple d’une éducation ‘pour tous’ dans
‘l’apprentissage tout au long de la vie’ rencontre une certaine faveur chez les déçus de
l’humanisme. Mais comme l’on s’en doutait, pour tous vaut exactement ce que vaut un choix
adapté au marché, où les anciennes connaissances sont balayées» (p. 238).
Nelle conclusioni al volume, però, Toussaint recupera alcuni capisaldi della sezione dedicata
all’humanitas, sottolineando che, nonostante la perdita di senso degli studi umanistici provocata dal
predominio della rentabilité, «la recherche d’humanité est, plus qu’une profession exclusive
d’humanista, une vocation qui n’admet pas le masque puisqu’elle cherche l’essence» (p. 300). In
questo modo, Toussaint conclude che «les trois composantes fondamentales de l’eruditio, de la
philanthropia et de l’unitas n’ont cessé de coexister dans des équilibres fragiles» (p. 301). Ne
consegue che giova battersi ancora per rendere possibile l'humanitas.
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