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LA DIRETTIVA “MADRE – FIGLIA” NELL’AMBITO DELLA
DOPPIA IMPOSIZIONE
RELATORE:
CH.MO PROF. MAURO BEGHIN
LAUREANDO: MARCO PARISI
MATRICOLA N. 608771
ANNO ACCADEMICO 2011 – 2012
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INDICE ANALITICO
Capitolo 1
La Direttiva 90/435/CE (c.d. “madre-figlia”)5
1.1 le ragioni economiche e fiscali alla base dell’emanazione della Direttiva ............................... 5
1.2. L’individuazione dei requisiti soggettivi di applicazione.......................................................... 6
1.3. I presupposti oggettivi di applicazione ................................................................................... 11
1.4. Le novità introdotte dalla direttiva 2003/123/CE ................................................................... 14
Capitolo 2
Il recepimento della Direttiva nel T.U.I.R.
2.1. Le disposizioni di cui all’art. 96-bis........................................................................................ 18
2.2. Le novità introdotte dalla riforma IRES.................................................................................. 20
2.3. Il richiamo alla disciplina CFC e le disposizioni antielusive ................................................. 23
Capitolo 3
La disciplina dei dividendi erogati a società “madri” non residenti
3.1. L’introduzione dell’art. 27-bis e le successive modifiche ....................................................... 26
3.2. Il recepimento della Direttiva 2003/123/CE e le modifiche introdotte dal D. Lgs. 49/07 ...... 27
3.3. L’intervento della Corte di Giustizia e le modifiche al regime impositivo ............................. 28
3
4
Capitolo 1
La Direttiva 90/435/CE (c.d. “madre-figlia”)
SOMMARIO: 1.1. Le ragioni economiche e fiscali alla base dell’emanazione della Direttiva. - 1.2. L’individuazione
dei requisiti soggettivi di applicazione. - 1.3. I presupposti oggettivi di applicazione. 1.4. Le novità introdotte dalla
direttiva 2003/123/CE.
1.1 le ragioni economiche e fiscali alla base dell’emanazione della Direttiva
Le ragioni sottostanti all’adozione della Direttiva, emanata dal Consiglio delle Comunità Europee
il 23 luglio 1990
e pubblicata in G.U.C.E. in data 20 agosto 1990, hanno una natura
principalmente economica: le disposizioni in essa contenute rispondono infatti alla volontà di
creare le condizioni per lo sviluppo di un mercato unico che favorisca e intensifichi i rapporti
commerciali tra società di Stati membri diversi, rafforzando la posizione concorrenziale dell’intera
Comunità sul piano internazionale. L’azione sulla leva fiscale risulta pertanto strumentale al
conseguimento di tale obiettivo.
All’atto dell’emanazione della Direttiva il Consiglio evidenziava, tra le considerazioni
introduttive, l’elevata frammentazione degli ordinamenti nazionali, nonché l’esistenza di
disposizioni fiscali che generavano una disparità di trattamento tra flussi di reddito nazionali e
transfrontalieri: in tale contesto, la cooperazione tra società di uno stesso Stato risultava
fiscalmente più vantaggiosa rispetto alla cooperazione tra imprese di Stati membri diversi.
L’effetto finale era la nascita di fenomeni di doppia imposizione economica, che si verifica
qualora uno stesso reddito sia tassato in capo a due soggetti diversi.
Ricadrebbe in tale ipotesi, ad esempio, la situazione in cui una società italiana distribuisse ad una
società francese un dividendo (derivante da utili precedentemente sottoposti a imposizione) e
questo fosse nuovamente tassato in capo a tale ultima società nel suo Stato di residenza.
Ancora, si assuma il caso di una ritenuta alla fonte sui dividendi in uscita da uno Stato: questi,
come detto, hanno già scontato l’imposta sui redditi; sebbene cambi il presupposto del tributo (la
distribuzione dell’utile, non già il possesso di un reddito), il prelievo di una ritenuta
5
configurerebbe anch’esso una forma di doppia imposizione economica, in quanto effettuata in
capo a soggetti diversi (con la delibera di distribuzione, infatti, il dividendo diventa di proprietà
dei soci). Analogo ragionamento dovrebbe valere per le ritenute in entrata operate dallo Stato del
percipiente.
Ciò considerato, il Consiglio ha inteso rimuovere tali ostacoli disponendo che la Direttiva trovasse
applicazione, ai sensi dell’art. 1,
“- alla distribuzione degli utili percepiti da società di questo Stato membro e provenienti dalle
loro filiali di altri Stati membri;
- alla distribuzione degli utili effettuata da società di questo Stato a società di altri Stati membri di
cui esse sono filiali”, e predisponendo un regime, di seguito analizzato nei suoi snodi
fondamentali, volto ad eliminare tali ostacoli alla cooperazione tra imprese della Comunità. Gli
Stati membri erano pertanto tenuti a recepire la Direttiva entro il 1° gennaio 1992.
1.2. L’individuazione dei requisiti soggettivi di applicazione
Gli artt. 2 e 3 costituiscono l’ambito di applicazione c.d. rationae personae, individuando cioè i
requisiti (soggettivi) che una società deve possedere per beneficiare dell’applicazione della
Direttiva. Ai sensi dell’art. 2, “il termine «società di uno Stato membro» designa qualsiasi
società:
a)
che abbia una delle forme enumerate nell'allegato;
b)
che, secondo la legislazione fiscale di uno Stato membro, sia considerata come avente il
domicilio fiscale in tale Stato e, ai sensi di una convenzione in materia di doppia imposizione
conclusa con uno Stato terzo, non sia considerata come avente tale domicilio fuori della
Comunità;
c)
che, inoltre, sia assoggettata, senza possibilità di opzione e senza esserne esentata, a una
delle seguenti imposte:
- impôt des sociétés/vennootschapsbelasting in Belgio,
- selskabsskat in Danimarca,
- Koerperschaftsteuer in Germania,
6
- foros eisodimatos nomikon prosopon kerdoskopikoy charaktira in Grecia,
- impuesto sobre sociedades in Spagna,
- impôt sur les sociétés in Francia,
- corporation tax in Irlanda,
- imposta sul reddito delle persone giuridiche in Italia,
- impôt sur le revenu des collectivités nel Lussemburgo,
- vennootschapsbelasting nei Paesi Bassi,
- imposto sobre o rendimento das pessoas colectivas in Portogallo,
- corporation tax nel Regno Unito,
o a qualsiasi altra imposta che venga a sostituire una delle imposte sopraindicate”.
Il primo elemento che è opportuno evidenziare è la tipicità delle forme societarie di cui alla lettera
a), che circoscrive l’applicazione del regime agevolativo alle sole società di capitali tassativamente
indicate nell’Allegato alla Direttiva: questa non troverà pertanto applicazione con riferimento alle
società di persone e alle persone fisiche. La ratio di tale scelta è da ricondurre alla volontà del
Legislatore comunitario che, come precedentemente evidenziato, ha inteso rimuovere gli ostacoli
di natura fiscale alla creazione di raggruppamenti di società di Stati membri diversi, con l’intento
di rafforzarne la posizione concorrenziale sul piano internazionale e sostenere la formazione di un
mercato unico europeo. Obiettivo della Direttiva in esame non è, pertanto, l’eliminazione di ogni
forma di doppia imposizione economica, quanto piuttosto quello di assicurare un regime di
neutralità fiscale a quei tipi societari “empiricamente” ritenuti più idonei alla realizzazione del
mercato unico. Alla luce di tali considerazioni, è agevole comprendere le ragioni dell’esclusione
delle persone fisiche dal campo di applicazione della Direttiva. Ancora, l’esclusione delle società
di persone è giustificabile con la mancanza del requisito di assoggettamento all’imposta sui
redditi: tali società, per loro natura, sono infatti soggetti passivi di accertamento, ma non di
imposta; questa è infatti versata dai soci, ai quali il reddito è imputato per trasparenza.
Assoggettare le società di persone all’applicazione della Direttiva, pertanto, richiederebbe una
preventiva armonizzazione del regime impositivo per esse definito da ciascuno Stato membro.
Secondo quanto previsto dalla lettera b) del medesimo articolo, la Direttiva è applicabile alle
società aventi il domicilio fiscale in uno Stato membro, sulla base di quanto stabilito dalla
legislazione interna di tale Stato: in altre parole, la disposizione fa riferimento alla condizione
della società di soggetto passivo ai fini della locale imposta sui redditi, senza peraltro porre vincoli
7
alla definizione dei criteri di collegamento (sede legale della società, sede di direzione effettiva,
oggetto principale), i quali sono autonomamente individuati dalla legislazione nazionale. La
medesima lettera b) richiede il verificarsi di un’ulteriore condizione: la società non dev’essere
considerata, ai sensi di una Convenzione bilaterale contro la doppia imposizione, come avente il
domicilio fiscale al di fuori della Comunità. Qualora, ad esempio, una Convenzione stipulata da
uno Stato membro e uno Stato terzo extra-CEE disponga che la società debba essere considerata
residente esclusivamente in tale ultimo Stato, la Direttiva non troverà applicazione, a nulla
rilevando l’eventuale domicilio fiscale così come determinato dalla normativa interna dello Stato
membro. Ciò in ragione della prevalenza del regime convenzionale sulle disposizioni di diritto
interno. Al contrario, la Direttiva risulterà applicabile nel caso in cui la Convenzione non escluda
la residenza della società nello Stato membro1.
La lettera c) dispone invece che la società debba essere assoggettata ad una delle imposte sul
reddito indicate nel medesimo articolo, senza che benefici di un’esenzione. Al riguardo, è
importante rilevare che tale condizione è da intendersi come mera “assoggettabilità” all’imposta, e
quindi come soggettività passiva, la quale non viene meno nei casi di esenzione oggettiva: con tale
espressione ci si riferisce ad una fattispecie che, in deroga ad un principio generale, è sottratta
all’imposizione in virtù del perseguimento di un obiettivo che il Legislatore ritiene meritevole di
tutela. In tali casi, pertanto, non vengono meno le condizioni di applicabilità della Direttiva: se,
infatti, i dividendi distribuiti da una società figlia, la quale beneficiasse di un’esenzione volta ad
incentivare lo sviluppo di una particolare area geografica, non fossero assoggettati al regime
previsto dalla Direttiva stessa, ciò comporterebbe un concorso integrale alla formazione
dell’imponibile nello Stato della società madre, con un conseguente annullamento del beneficio
legato all’esenzione e, quindi, dello stesso valore incentivante di quest’ultima. Il quadro normativo
così delineato è perciò limitato alle esenzioni di tipo soggettivo, le quali sono previste in ragione
di una particolare condizione del soggetto passivo. Ancora, restano certamente estranee al campo
di applicazione della Direttiva le società che beneficiano di un’esclusione da imposizione, cioè di
una norma che delimita lo spettro di applicazione del tributo allo scopo di evitare l’imposizione di
fattispecie per loro natura incompatibili con la natura del tributo stesso.
Qualora una delle tre condizioni appena illustrate non risulti soddisfatta, una società non sarà
assoggettata al regime previsto dalla Direttiva. Peraltro, tali condizioni non devono essere
necessariamente soddisfatte con riferimento ad un unico Stato membro: rientrerebbe pertanto nel
1
Ad esempio, la Direttiva sarà applicabile ad una società costituita negli Stati Uniti ed avente la sede amministrativa o
l’oggetto principale in Italia, poiché la relativa Convenzione (art. 4 par. 3) dispone che, in tale circostanza, la società
sarà sempre considerata residente in entrambi gli Stati.
8
campo di applicazione della Direttiva una società per azioni italiana fiscalmente residente in
Francia e ivi assoggettata alla locale imposta sui redditi.
Il successivo art. 3, par. 1, individua un ulteriore requisito per l’applicazione della Direttiva: esso
dispone che
“a) la qualità di società madre è riconosciuta almeno ad ogni società di uno Stato membro che
soddisfi alle condizioni di cui all'articolo 2 e che detenga nel capitale di una società di un altro
Stato membro che soddisfi alle medesime condizioni una partecipazione minima del 25 %;
b) si intende per «società figlia» la società nel cui capitale è detenuta la partecipazione indicata
alla lettera a)”.
Dalla formulazione della norma emerge la volontà del Legislatore di fissare una soglia al di sotto
della quale un investimento è ritenuto “speculativo”, senza che, pertanto, la controllante possa
assumere la qualifica di società madre. Tale soglia è stata da più parti giudicata come
eccessivamente elevata2. Resta salva, in ogni caso, la possibilità da parte degli Stati membri di
fissare soglie di partecipazione inferiori al 25%, come desumibile dalla formulazione della norma
(“…è riconosciuta almeno…”). Ai sensi del successivo par. 2, agli Stati membri è inoltre
riconosciuta la facoltà di “sostituire, mediante accordo bilaterale, il criterio della partecipazione
al capitale con quello dei diritti di voto”: gli Stati membri resteranno pertanto vincolati al regime
impositivo di cui agli artt. 4 ss., poiché la Direttiva prevale in ogni caso sulla norma pattizia,
mentre potranno continuare ad applicare le disposizioni convenzionali limitatamente alla
condizione (titolarità dei diritti di voto) richiesta per qualificare la partecipazione e fruire
dell’aliquota ridotta sui dividendi.
Lo stesso paragrafo prevede l’ulteriore facoltà di “…non applicare la presente direttiva a quelle
società di questo Stato membro che non conservano, per un periodo ininterrotto di almeno due
anni, una partecipazione che dia diritto alla qualità di società madre o alle società nelle quali una
società di un altro Stato membro non conservi, per un periodo ininterrotto di almeno due anni,
siffatta partecipazione”. Si tratta di una disposizione anti-abuso finalizzata ad evitare operazioni
di trasferimento di partecipazioni effettuate da società che, pur non possedendo i requisiti
soggettivi precedentemente illustrati, intendono fruire dei benefici previsti dalla Direttiva.
2
A tal proposito, già nel 1992 la relazione finale della Commissione Ruding, comitato di studio sulla fiscalità
internazionale nominato due anni prima dalla Commissione Europea, aveva evidenziato la necessità di ampliare lo
spettro di applicazione della Direttiva riducendo le soglie di partecipazione minima. Ciò al fine di ridurre, in ambito
intracomunitario, le disparità di trattamento tra flussi di reddito nazionali e transfrontalieri non assoggettabili alla
Direttiva.
9
Ciascuno Stato membro, inoltre, può prevedere holding period differenti ai fini dell’imposta sul
reddito e dell’esenzione da ritenute alla fonte, come desumibile dalla formulazione disgiuntiva
della norma3.
Con riferimento al concetto di “detenzione”, è invece necessario interpretare il contenuto della
norma in relazione
-
al momento in cui una società deve detenere la partecipazione per fruire della tassazione
ridotta;
-
alla decorrenza dell’eventuale periodo di detenzione minima.
Nel primo caso, non è chiaro se la società madre debba detenere la partecipazione alla data della
delibera di distribuzione degli utili, ovvero al momento dell’effettiva distribuzione. Per quanto le
posizioni degli Stati membri siano piuttosto variegate, la seconda soluzione parrebbe più coerente
con le finalità della Direttiva, poiché (art. 1, par. 1) è fatto esplicito riferimento agli utili
distribuiti, e non a quelli di cui è stata deliberata la distribuzione, ed inoltre la nozione di “utile”,
ai sensi della Direttiva, ricomprende ulteriori componenti che non richiedono una previa delibera
di distribuzione4.
Nel secondo caso, ci si chiede invece se il periodo di detenzione debba essere anteriore, posteriore
o, ancora, parzialmente anteriore e parzialmente posteriore alla data di distribuzione del dividendo.
Con riferimento alle imposte sul reddito, la soluzione maggiormente condivisibile appare quella
che computa il periodo di detenzione a partire dalla data di acquisizione della partecipazione,
individuata come data di riferimento. Tale soluzione trova riscontro sia nell’interpretazione
letterale della norma (la quale dispone che le società conservino, e non che abbiano conservato la
partecipazione minima) sia da un punto di vista sostanziale: essa pare infatti maggiormente idonea
a realizzare gli obiettivi di consolidamento del mercato unico dichiaratamente perseguiti dalla
Direttiva. È evidente, infatti, che la condizione di un periodo minimo di detenzione successivo
all’acquisizione della partecipazione costituirebbe un forte deterrente alla creazione dei
raggruppamenti di società di diversi Stati membri5, poiché la Direttiva non troverebbe
applicazione fino alla decorrenza dell’holding period. Peraltro, la soluzione prospettata non
pregiudicherebbe gli interessi erariali di detti Stati: sarebbe infatti sufficiente che le
3
Nell’ordinamento italiano, l’art. 89 comma 2 del d. lgs. 917/86 non prevede alcun periodo minimo di detenzione,
diversamente da quanto previsto dal vecchio art. 96-bis, il quale fissava definiva un holding period di un anno. Tale
condizione è ancora richiesta ai fini del rimborso ritenuta alla fonte, secondo quanto disposto dall’art. 27-bis comma 3ter lett. d), D.P.R. 600/73.
4
Cfr. MAISTO G., Il regime tributario dei dividendi nei rapporti tra “società madri” e “società figlie”, Milano, 1996,
36.
5
Cfr. MAISTO G, op.cit., 40 s.
10
amministrazioni finanziarie ponessero l’obbligo, in capo alla società madre, di comunicare
eventuali interruzioni nel possesso della partecipazione (verificatesi, ad esempio, a seguito della
cessione della stessa) che intervengono prima della decorrenza del periodo minimo di detenzione;
ciò legittimerebbe la sottrazione di tale società al regime di applicazione della Direttiva e la
conseguente richiesta, inoltrata dall’Amministrazione Finanziaria, di pagamento delle eventuali
maggiori imposte dovute negli anni precedenti. Al contrario, sembra doversi dare rilevanza alla
tutela degli interessi erariali degli Stati membri in materia di ritenute alla fonte: significativo, in tal
senso, è l’orientamento della Corte di Giustizia che, nella sentenza Denkavit del 17 ottobre 1996,
proc. C-283/94, ha affermato che gli “… Stati non sono tenuti, in forza della direttiva, a concedere
l’agevolazione in modo immediato quando la società capogruppo s’impegna unilateralmente a
rispettare il periodo minimo di partecipazione…”6.
1.3. I presupposti oggettivi di applicazione
L’ambito di applicazione c.d. “rationae materiae” è disciplinato agli art. 4 e 5, i quali regolano il
regime di imposizione degli utili distribuiti da applicare rispettivamente nello Stato di residenza
della società madre e in quello della società figlia. In particolare ai sensi dell’art. 4, par. 1,
“Quando
una società madre, in veste di socio, riceve dalla società figlia utili distribuiti in
occasione diversa dalla liquidazione di quest'ultima, lo Stato della società madre:
- si astiene dal sottoporre tali utili a imposizione;
- o li sottopone a imposizione, autorizzando però detta società madre a dedurre dalla sua imposta
la frazione dell'imposta pagata dalla società figlia a fronte dei suddetti utili e, eventualmente,
l'importo della ritenuta alla fonte prelevata dallo Stato membro in cui è residente la società figlia
in applicazione delle disposizioni derogatorie dell'articolo 5, nel limite dell'importo dell'imposta”.
Con tale norma, dunque, sono definite le modalità che lo Stato della società madre può adottare
per eliminare la doppia imposizione ai fini dell’imposta sui redditi. Utilizzando il metodo
6
L’Agenzia delle Entrate ha successivamente ripreso tale orientamento con la Ris. n. 109 /E del 29 luglio 2005, nella
quale si afferma che “…qualora la non applicazione della ritenuta sui dividendi distribuiti venisse direttamente
riconosciuta dal sostituto d’imposta sulla base di una semplice dichiarazione di voler mantenere il requisito della
detenzione ininterrotta per almeno un anno della partecipazione qualificata, non sarebbe agevole vigilare a posteriori
sul mantenimento dell’“impegno” assunto dal socio che ha percepito i dividendi”, ed inoltre “la stessa
Amministrazione finanziaria incontrerebbe difficoltà nell’attivare controlli efficaci”.
11
dell’esenzione, i dividendi provenienti da una società estera qualificabile come società figlia ai
sensi agli art. 2 e 3 non concorreranno, nello Stato del percettore, alla formazione dell’imponibile
per il loro intero ammontare. Il successivo par. 2, peraltro, concede agli Stati membri la facoltà di
“stipulare che oneri relativi alla partecipazione e minusvalenze risultanti dalla distribuzione degli
utili della società figlia non siano deducibili dall'utile imponibile della società madre...”. A tali
Stati è cioè consentito operare in osservanza del c.d. principio della correlazione, tradizionalmente
applicato nella determinazione dell’imponibile, secondo cui un componente negativo è deducibile
solo se correlato ad un provento rilevante ai fini della tassazione. Così, è naturale concludere che,
sancita l’esclusione degli utili da partecipazione dalla formazione del reddito, debba parimenti
essere disposta l’indeducibilità di quelle voci classificabili come oneri relativi alla stessa
partecipazione. Essendo nota, tuttavia, la difficoltà di identificare analiticamente tali oneri, il par.
2 prosegue disponendo che “…qualora le spese di gestione relative alla partecipazione siano
fissate forfettariamente, l'importo forfettario non può essere superiore al 5 % degli utili distribuiti
dalla società figlia”. Come si vedrà in seguito7, tale disposizione è stata recepita dal Legislatore
italiano che, in aggiunta, ha previsto un’esclusione dall’imposizione per il 95% degli utili
distribuiti da società figlie, in osservanza della sopraccitata simmetria tra proventi tassabili e oneri
deducibili. Allo stesso principio di correlazione è legata la previsione di indeducibilità delle
minusvalenze risultanti dalla distribuzione di utili della società figlia: poiché tale distribuzione
riduce il valore del patrimonio netto di quest’ultima, una società madre che valorizzasse la
partecipazione secondo il metodo del patrimonio netto opererebbe una svalutazione registrando, in
ultima istanza, una minusvalenza che risulterebbe totalmente deducibile a fronte, al contrario,
della totale esenzione degli utili corrispondenti (c.d. “dividend washing”).
Qualora, invece, lo Stato della società madre opti per il concorso integrale degli utili percepiti alla
formazione dell’imponibile, dovrà essere previsto un credito di imposta (c.d. “indiretto”) in virtù
del quale la società madre è autorizzata a detrarre dalla propria imposta la frazione di imposta
pagata dalla società figlia sugli stessi utili, oltre alle eventuali ritenute in uscita applicate dallo
Stato della fonte. Pertanto, le sole imposte estere rilevanti ai fini della detrazione dovrebbero
essere quelle tassativamente indicate all’art. 2, a nulla rilevando le eventuali imposte locali sui
redditi. Il credito di imposta, inoltre, è limitato alla “frazione” dell’imposta pagata dalla società
figlia a fronte degli utili distribuiti: l’imposta detraibile è perciò calcolata secondo la percentuale
del dividendo incassato, anziché sulla quota di partecipazione. Tale precisazione è rilevante
7
Cfr. infra, par. 2.1.
12
qualora gli utili della società figlia siano ripartiti in misura non proporzionale alle quote di
partecipazione.
All’articolo 5, il quale dispone che “gli utili distribuiti da una società figlia alla sua società
madre, almeno quando quest'ultima detiene una partecipazione minima del 25 % nel capitale
della società figlia, sono esenti dalla ritenuta alla fonte”, è invece disciplinato il trattamento
impositivo del dividendo in uscita dallo Stato della società figlia: tale ultimo Stato, quindi, si
astiene dal prelevare una ritenuta alla fonte sull’utile che costituisce oggetto di distribuzione. A tal
proposito, la Direttiva non fornisce una definizione di “ritenuta alla fonte”, limitandosi a precisare,
all’art. 7 par. 1, che tale espressione “…non comprende il pagamento anticipato o preliminare
(ritenuta) dell'imposta sulle società allo Stato membro in cui ha sede la società figlia, effettuato in
concomitanza con la distribuzione degli utili alla società madre”, escludendo cioè dal campo di
applicazione della Direttiva quelle ritenute che abbiano come presupposto il pagamento
dell’imposta sui redditi nello Stato della fonte, siano queste effettuate a titolo di acconto ovvero a
titolo definitivo8.
Con riferimento, invece, alla nozione di “utili distribuiti” contenuta nella norma, il significato di
tale espressione sembrerebbe più ampio rispetto a quello di cui all’art. 4, par. 1, includendo anche
gli utili distribuiti in occasione della liquidazione della società e quelli non formalmente percepiti
“in veste di socio”9.
È utile rilevare, a tal proposito, la distorsione che verrebbe a crearsi qualora una società,
qualificata come società madre nello Stato di residenza, non vedesse riconosciuta tale qualifica
anche nello Stato della fonte (ad esempio, perché la legislazione interna di quest’ultimo adotta
criteri differenti in merito all’entità della partecipazione o al periodo minimo di detenzione): in
tale situazione, pertanto, lo Stato della fonte potrebbe applicare una ritenuta in uscita, senza che la
società madre, qualora gli utili percepiti siano sottoposti al regime dell’esenzione, possa
beneficiare del credito di imposta sulle ritenute subite nello Stato della fonte. Queste diverrebbero
pertanto un onere definitivo e non recuperabile.
8
La Corte di Giustizia, peraltro, ha precisato il contenuto della fattispecie in esame, affermando che “costituisce
ritenuta alla fonte sugli utili distribuiti, ai sensi dell’art. 5, n. 1, della Direttiva, ogni imposta sui redditi percepiti nello
Stato in cui i dividendi sono distribuiti, il cui fatto generatore è il versamento di dividendi o di ogni altro rendimento
dei titoli, quando la base imponibile di tale imposta è il rendimento dei detti titoli e il soggetto passivo è il detentore dei
medesimi titoli” (sentenza Ferrero del 24 giugno 2010, proc. C-338/08, § 26).
9
In tale categoria possono essere ricompresi, ad esempio, gli utili occulti e gli interessi che, in virtù di una disposizione
antielusiva, sono riqualificati come dividendi. Come rilevato da MAISTO G. (op.cit., 80), pertanto, “la portata
antielusiva delle singole disposizioni nazionali dovrebbe esaurirsi nel vietare la deducibilità fiscale delle componenti
negative di reddito riqualificate come dividendi, senza che possa essere ulteriormente invocata per derogare alle norme
della Direttiva”.
13
La previsione di cui all’art. 6 dispone invece il divieto, in capo allo Stato della società madre, di
applicare le c.d. ritenute in entrata, cioè quelle “ritenute alla fonte sugli utili che questa società
riceve dalla sua società figlia”. La norma in questione assicura una parità di trattamento tra gli
Stati di residenza delle due società: in caso contrario, infatti, la possibilità di effettuare un ulteriore
prelievo sugli utili distribuiti, preclusa allo Stato della fonte in forza dell’art. 5 par. 1, avrebbe
procurato allo Stato della società madre un indebito vantaggio in termini di maggior gettito. Ciò
avrebbe costituito un ostacolo al principio della libertà di circolazione dei capitali sancito dall’art.
56 del Trattato. Le ragioni della disposizione sono quindi da ricondurre alla volontà dichiarata
della Direttiva di eliminare tali vantaggi, assicurando la neutralità fiscale ai flussi di reddito
intracomunitari.
1.4. Le novità introdotte dalla direttiva 2003/123/CE
La Direttiva 123/2003/CE, emanata dal Consiglio in data 23 dicembre 2003 e pubblicata in
G.U.C.E. il 13 gennaio 2004, ha introdotto elementi di modifica nel testo originario della Direttiva
90/435/CE. Tali novità rispondono alla volontà di ampliare il campo di applicazione del regime
“madre – figlia”, tenendo conto dei punti di debolezza e dei dubbi interpretativi emersi con il
recepimento da parte degli Stati membri.
Una delle critiche avanzate al regime precedentemente in vigore riguardava l’incompletezza
dell’elenco delle forme societarie individuate nell’Allegato: in particolare, si affermava la
necessità di assoggettare all’applicazione della Direttiva tutte le forme societarie soggette
all’imposta sulle società in uno Stato membro, le quali svolgessero anche un’attività
transfrontaliera all’interno della Comunità. La natura tassativa dell’art. 2, che all’Allegato faceva
espresso richiamo, impediva infatti l’applicazione della Direttiva a quelle società che non fossero
comprese in tale documento. A tal proposito, la Direttiva 2003/123/CE interviene sulla
formulazione dell’Allegato, introducendo nuove categorie di soggetti che ora rientrano nel campo
di applicazione della Direttiva ai sensi dell’art. 2 lett. a). Le novità di maggior rilevanza
riguardano l’introduzione delle Società europee e delle Società cooperative europee, costituite
rispettivamente a norma dei regolamenti del Consiglio (CE) n. 2157/2001 dell’8 ottobre 2001 e
(CE) n. 1435/2003 del 22 luglio 2003 (lettera p) dell’Allegato). Con riferimento all’Italia, si
registra invece (lettera h) dell’Allegato) l’inclusione delle società cooperative e delle società di
mutua assicurazione, nonché la fissazione del requisito di un’attività “totalmente o principalmente
14
commerciale”, richiesto agli enti pubblici e privati, che appare maggiormente restrittivo rispetto
alla precedente formulazione (“attività industriali e commerciali”).
Un’altra importante modifica riguarda la riduzione della soglia minima di partecipazione ai fini
della qualifica di “società madre”: il nuovo art. 3 fissa una percentuale minima pari al 20% a
decorrere dal 1° gennaio 2005, progressivamente ridotta al 15% dal 1° gennaio 2007 e al 10% dal
1°gennaio 2009. Come già sottolineato nel paragrafo 1.1, la necessità di procedere a tale riduzione
era stata evidenziata nel 1992 dal Rapporto Ruding. Le ragioni del tardivo recepimento da parte
della Comunità Europea sarebbero pertanto da attribuire a esigenze di gettito degli Stati membri10
più che a difficoltà di carattere applicativo.
Il principale e più significativo elemento di novità riguarda però l’allargamento del campo di
applicazione della Direttiva alle partecipazioni in società figlie detenute tramite stabile
organizzazione. Le ragioni dell’inclusione di tale fattispecie, che il par. 2 del nuovo art. 2 definisce
come una “sede fissa di affari situata in uno Stato membro, attraverso la quale una società di un
altro Stato membro esercita in tutto o in parte la sua attività, per quanto gli utili di quella sede di
affari siano soggetti ad imposta nello Stato membro nel quale essa è situata ai sensi del pertinente
trattato fiscale bilaterale o, in assenza di un siffatto trattato, ai sensi del diritto interno”, sono da
ricondurre al consolidato orientamento della Corte di Giustizia, secondo cui l’esclusione delle
stabili organizzazioni dai benefici della Direttiva costituiva una discriminazione ed una causa
ostativa alla libera circolazione dei capitali e delle persone11. Seguendo la formulazione dell’art. 1
così come modificato dalla Direttiva 2003/123/CE, il regime “madre-figlia” troverà ulteriore
applicazione nei casi in cui:
a)
Gli utili siano “percepiti da stabili organizzazioni di società di altri Stati membri situate in
tale Stato membro e provenienti dalle loro società figlie di uno Stato membro diverso da quello in
cui è situata la stabile organizzazione”; è il caso in cui la società residente nello Stato A opera
nello Stato B tramite una stabile organizzazione che detiene una partecipazione in una società
residente nello Stato C, dalla quale percepisce dividendi;
b)
La distribuzione degli utili sia “effettuata da società di questo Stato a stabili organizzazioni
situate in un altro Stato membro di società del medesimo Stato membro di cui sono società figlie";
10
Così MAYR S., La Direttiva madre-figlia, Master di specializzazione in fiscalità internazionale, Milano, lezione del
17/9/2011.
11
A tal proposito, CERVINO G., Nuova direttiva comunitaria sul regime fiscale dei dividendi, La Settimana Fiscale,
2004, n. 6, p. 34, cita le sentenze C-270/83 del 28.1.1986, Commissione vs. Francia, e C-307/99, del 21.9.1999,
Compagnie de Saint-Gobain vs. Finanzamt Aachen-Innenstadt, della Corte di Giustizia.
15
nella fattispecie descritta, la stabile organizzazione in B, facente capo alla società residente in A,
detiene una partecipazione in una società anch’essa residente in A.
È appena il caso di precisare, peraltro, che il regime di favor previsto dalla Direttiva troverà
applicazione nello Stato in cui ha sede la stabile organizzazione: i proventi ricevuti da questa,
pertanto, dovranno essere esentati da imposizione al pari di una qualunque altra società di capitali
residente nel medesimo Stato. Non potrà invece beneficiare di tale regime una società residente in
A, la quale detenga, per il tramite di una filiale residente in B, una partecipazione in una società
anch’essa residente in B. Nelle considerazioni introduttive della Direttiva 2003/123/CE, infatti, il
Consiglio afferma che “le situazioni in cui una stabile organizzazione e una società figlia sono
situate nel medesimo Stato membro possono, salva l'applicazione dei principi del trattato, essere
trattate sulla base del diritto interno dello Stato membro interessato”. Condizione necessaria ai
fini dell'applicazione della Direttiva è dunque l’appartenenza della stabile organizzazione e della
società figlia a Stati membri differenti.
Con riferimento all’ambito rationae materiae, invece, la principale innovazione riguarda
l’eliminazione della doppia imposizione in relazione alle società partecipate dalle società figlie.
Tale previsione, in particolare, rileva laddove si utilizzi il credito di imposta come strumento di
attuazione della Direttiva. L’elemento di novità è costituito dal riconoscimento, in capo alla
società madre, di un credito (c.d. “a cascata”) a fronte delle imposte pagate dalla società figlia o
da una sua sub – affiliata, a condizione che i requisiti soggettivi di cui agli artt. 2 e 3 siano
rispettati a tutti i livelli della catena partecipativa. Ai sensi dell’art. 4 nella sua formulazione
originaria, infatti, l’imposta sui redditi assolta da una sub-affiliata non era qualificabile come
“effettivamente pagata” dalla società figlia, risultando pertanto indetraibile in capo alla società
madre. La disposizione risultava pertanto inidonea ad eliminare totalmente la doppia imposizione
economica sugli utili.
Infine, la Direttiva 2003/123/CE aggiunge all’art. 4 il par. 1-bis, il quale consente allo Stato della
società madre di “considerare una società figlia trasparente ai fini fiscali” e di “sottoporre
pertanto ad imposizione la quota della società madre degli utili della società figlia se e quando
tali utili sussistono. In questo caso lo Stato della società madre si astiene dal sottoporre ad
imposizione gli utili distribuiti della società figlia”. Come desumibile dal contenuto della norma,
la doppia imposizione è scongiurata poiché gli utili, i quali hanno già scontato un’imposizione
nello Stato della società madre, non sono nuovamente tassati al momento dell’effettiva
distribuzione. Prosegue pertanto l’articolo, individuando i tradizionali metodi dell’esenzione e del
16
credito di imposta indiretto come strumenti a disposizione del Legislatore nazionale a tale scopo.
A beneficio di esaustività, si segnala che la disposizione in esame non è stata recepita
nell’ordinamento italiano. A parere di chi scrive, infine, anche a fronte di tale previsione le società
di persone resterebbero escluse dall’applicazione della Direttiva, poiché, se da un lato potrebbero
essere considerate “trasparenti” sulla base di una valutazione delle loro caratteristiche giuridiche
effettuata dallo Stato della società madre, esse difettano dei requisiti soggettivi di cui all’art. 2,
par.1, lett. a), c), in quanto non espressamente menzionate nell’Allegato e non assoggettate ad una
delle imposte sui redditi elencate nello stesso articolo.
17
Capitolo 2
Il recepimento della Direttiva nel T.U.I.R.
SOMMARIO: 2.1. Le disposizioni di cui all’art. 96-bis. - 2.2. Le novità introdotte dalla riforma IRES. - 2.3.
Il richiamo alla disciplina CFC e le disposizioni antielusive.
2.1. Le disposizioni di cui all’art. 96-bis
Le disposizioni della Direttiva 90/435/CE in materia di imposte sui redditi sono state recepite dal
Legislatore italiano attraverso l’art. 1 del D. Lgs. n. 136 del 6 marzo 1993, il quale ha introdotto
nel D.P.R. n. 917 del 22 dicembre 1986 (Testo Unico delle Imposte sui Redditi) l’art. 96-bis così
formulato12:
“1. Gli utili distribuiti, in occasione diversa dalla liquidazione, da società non residenti aventi i
requisiti di cui al comma successivo, se la partecipazione diretta nel loro capitale è non inferiore
al 25% ed è detenuta ininterrottamente per almeno un anno, non concorrono alla formazione del
reddito della società o dell’ente ricevente per il 95% del loro ammontare e tuttavia detto importo
rileva agli effetti della determinazione dell’ammontare delle imposte di cui al comma 4 dell’art.
105, secondo i criteri previsti per i proventi di cui al numero 1 di tale comma.
2. La disposizione di cui al comma 1 si applica se la società non residente:
a) riveste una delle forme previste nell’allegato alla direttiva n. 435/90/Cee del Consiglio del 23
luglio 1990;
b) risiede ai fini fiscali in uno Stato membro della Comunità europea;
12
Il testo riportato, in vigore fino al 31.12.2003, tiene conto delle modifiche nel frattempo apportate da disposizioni
successive: in particolare, il comma 1 è stato integralmente sostituito dal’art. 2, comma 1, n. 8) del D.Lgs 18/12/1997, n.
467.
18
c) è soggetta nello Stato di residenza, senza possibilità di fruire di regimi di opzione o di esonero
che non siano territorialmente o temporalmente limitati, a una delle seguenti imposte:
(…)
o a qualsiasi altra imposta che venga a sostituire una delle imposte sopraindicate.
2-bis. A seguito dell’ingresso di nuovi Stati nella Comunità europea, con decreto del ministro
delle finanze, è integrato l’elenco delle imposte di cui alla lettera c) del comma 2.
2-ter. Le disposizioni del comma 1 possono essere applicate anche per le partecipazioni in
società, residenti in stati non appartenenti all’Unione europea, soggette a un regime di tassazione
non privilegiato in ragione dell'esistenza di un livello di tassazione analogo a quello applicato in
Italia nonché di un adeguato scambio di informazioni, da individuare con decreti del ministro
delle finanze da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale. Con i medesimi decreti possono essere
individuate modalità e condizioni per l’applicazione del presente comma. (…)”.
Dalla lettura della norma, è chiaramente desumibile come essa recepisse in modo piuttosto
“lineare” il contenuto della Direttiva. In particolare, è agevole rilevare che
-
i commi 1 e 2 individuavano le caratteristiche soggettive per poter fruire del regime di
esclusione: il primo fissava la soglia minima di partecipazione, il secondo i requisiti di forma,
residenza e assoggettamento all’imposta di uno Stato membro di cui all’art. 2 della Direttiva; il
Legislatore, pertanto, si era avvalso della facoltà, prevista dal medesimo art. 2, par. 2, di introdurre
un holding period minimo della durata di un anno;
-
ancora, il comma 1 delineava l’ambito di applicazione rationae materiae: il principio sancito
era quello dell’esenzione (rectius: “esclusione”), nella misura del 95%, dei dividendi percepiti da
tali soggetti dalla formazione dell’imponibile. Ciò in conformità all’art. 4, par. 1, della Direttiva.
Come già precedentemente sottolineato13, la scelta dell’esclusione non integrale rispondeva alla
volontà di consentire la deduzione degli oneri di gestione della partecipazione (determinati in
misura forfettaria), in osservanza del principio di correlazione tra proventi tassabili e oneri
deducibili, non già nella volontà di effettuare un doppio prelievo su parte degli utili percepiti.
13
Si veda retro, par. 1.3.
19
In aggiunta alle considerazioni effettuate, occorre inoltre rilevare che il comma 2-ter consentiva di
applicare le disposizioni di cui al comma 1 anche agli utili distribuiti da soggetti non residenti
nell’Unione Europea, a condizione che tali utili fossero assoggettati, nello Stato di residenza, ad
un regime di tassazione analogo a quello vigente in Italia e che tale Stato consentisse un adeguato
scambio di informazioni; lo stesso regime di esclusione, tuttavia, risultava inapplicabile a quei
soggetti che, pur risiedendo fiscalmente nell’Unione Europea ai sensi del comma 2, non
presentassero i requisiti quantitativi e temporali di possesso della partecipazione. Fino al
31.12.2003, inoltre, gli utili distribuiti da soggetti residenti nel territorio dello Stato erano tassati
secondo il c.d. “imputation system”: secondo tale principio, questi concorrevano integralmente alla
formazione del reddito del socio, salva l’attribuzione di un credito di imposta, al momento della
distribuzione, corrispondente all’imposta liquidata dalla società su tali utili; questo metodo
consentiva di eliminare integralmente la doppia imposizione economica, ma, come detto, si
rendeva applicabile ai soli utili distribuiti da soggetti residenti, ai sensi di quanto previsto dall’art.
14 del TUIR ante-riforma.
L’effetto combinato di tali norme rendeva dunque l’ordinamento inadeguato ad assicurare la
neutralità fiscale e l’integrazione tra imprese comunitarie: il perseguimento degli obiettivi della
Direttiva risultava infatti ostacolato dalla maggiore convenienza dei flussi di reddito nazionali
rispetto a quelli intracomunitari.
2.2. Le novità introdotte dalla riforma IRES
La disposizione precedentemente analizzata è stata sostituita dal D. Lgs. 12 dicembre 2003, n. 344
(c.d. “riforma IRES”), che ha introdotto rilevanti modifiche in materia di imposizione sui redditi
delle persone fisiche e giuridiche14. Il trattamento dei dividendi percepiti nell’ambito di un’attività
di impresa è regolato dall’art. 89 del TUIR così come modificato dal predetto Decreto. Esso
dispone che:
14
Non ultima, l’introduzione dell’Imposta sul Reddito delle Società, che dal 1.1.2004 sostituisce l’IRPEG ed è
disciplinata dagli artt. 73 ss. del Testo Unico così come modificato dalla Riforma.
20
“1. Per gli utili derivanti dalla partecipazione in società semplici, in nome collettivo e in
accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato si applicano le disposizioni dell'articolo
5.
2. Gli utili distribuiti, in qualsiasi forma e sotto qualsiasi denominazione, anche nei casi di cui
all'articolo 47, comma 7, dalle società ed enti di cui all'articolo 73, comma 1, lettere a), b) e c),
non concorrono a formare il reddito dell'esercizio in cui sono percepiti in quanto esclusi dalla
formazione del reddito della società o dell'ente ricevente per il 95 per cento del loro ammontare.
La stessa esclusione si applica alla remunerazione corrisposta relativamente ai contratti di cui
all'articolo 109, comma 9, lettera b), e alla remunerazione dei finanziamenti eccedenti di cui
all'articolo 98 direttamente erogati dal socio o dalle sue parti correlate, anche in sede di
accertamento.
(…)
3. Qualora si verifichi la condizione di cui all'articolo 44, comma 2, lettera a), ultimo periodo,
l'esclusione di cui al comma 2 si applica agli utili provenienti dai soggetti di cui all’articolo 73,
comma 1, lettera d), e alle remunerazioni derivanti da contratti di cui all’articolo 109, comma 9,
lettera b), stipulati con tali soggetti residenti negli Stati o territori di cui al decreto del Ministro
dell'economia e delle finanze emanato ai sensi dell'articolo 168-bis, o, se ivi residenti,
relativamente ai quali, a seguito dell'esercizio dell'interpello secondo le modalità del comma 5,
lettera b), dell'articolo 167, siano rispettate le condizioni di cui alla lettera c) del comma 1
dell'articolo 87. Concorrono in ogni caso alla formazione del reddito per il loro intero
ammontare gli utili relativi ai contratti di cui all'articolo 109, comma 9, lettera b), che non
soddisfano le condizioni di cui all'articolo 44, comma 2, lettera a), ultimo periodo.
4. Si applicano le disposizioni di cui agli articoli 46 e 47, ove compatibili”.
Il regime così delineato, che abbandona il sistema dell’imputazione in favore di quello
dell’esclusione, si caratterizza per la presenza di due importanti novità:
-
la mancata riproposizione dei requisiti quantitativi e temporali di detenzione della
partecipazione;
21
-
la totale equiparazione degli utili provenienti da soggetti residenti e non residenti di cui
all’art. 73 T.U.I.R., essendo pertanto irrilevante la residenza o meno nell’Unione Europea.
Tale ultima previsione è desumibile dal comma 3 della disposizione, che richiama esplicitamente
l’esclusione di cui al comma precedente e ne estende l’applicabilità anche agli utili provenienti da
società ed enti di ogni tipo, non residenti nel territorio dello Stato, elencati all’art. 73, comma 1,
lett. d) T.U.I.R.. L’ambito soggettivo di applicazione previsto dal Legislatore italiano risulta
pertanto più ampio rispetto a quello delineato dagli artt. 2 e 3 della Direttiva, nonché a quello di
cui al previgente art. 96-bis.
Tra le fattispecie assoggettabili al regime di esclusione, sono ricompresi gli utili derivanti dal
possesso di azioni, le partecipazioni al capitale o al patrimonio, gli strumenti finanziari la cui
remunerazione è totalmente costituita dalla partecipazione ai risultati economici della società
emittente, di una società appartenente al gruppo o dello specifico affare in relazione al quale tali
titoli sono stati emessi. È tuttavia richiesta, nel caso di emittente non residente, l’ulteriore
condizione che tali remunerazioni siano totalmente indeducibili nello Stato di provenienza e che
ciò risulti da elementi certi e precisi (art. 44, comma 2, lett. a), ultimo periodo): è evidente, infatti,
che la doppia imposizione economica presuppone una prima tassazione del provento in capo alla
società distributrice, fattispecie che non si verifica laddove questo sia fiscalmente deducibile nello
Stato della società erogante.
Qualora tale condizione risulti soddisfatta, potranno rientrare nel campo di applicazione della
norma, oltre alle fattispecie già citate:
-
Le remunerazioni relative ai contratti di associazione in partecipazione di cui all’art. 109,
comma 9, lett. b) TUIR, stipulati con soggetti non residenti, che prevedano l’apporto di capitale in
misura totale o parziale;
-
Le somme o il valore normale dei beni in natura che i soci ricevono in caso di recesso,
esclusione, riscatto ovvero liquidazione della quota, secondo il disposto dell’art. 47, comma 7,
esplicitamente richiamato all’art. 89 comma 2; costituirà utile, in particolare, la differenza tra il
valore complessivo corrisposto al socio e il prezzo da questi pagato per la sottoscrizione delle
quote annullate a seguito di tali operazioni.
L’esclusione degli utili da tassazione, inoltre, si applica anche nei casi in cui questi non abbiano
precedentemente scontato alcuna imposta sul reddito: ciò può avvenire, ad esempio, qualora la
società erogante abbia realizzato un utile civilistico, registrando al contempo una perdita fiscale.
22
2.3. Il richiamo alla disciplina CFC e le disposizioni antielusive
È utile ora fornire una breve panoramica sulle fattispecie antielusive disciplinate dal Legislatore,
le quali non costituiscono un recepimento della Direttiva, puntando piuttosto ad impedire un
utilizzo indebito di tale regime di favor. Quest’ultima, infatti, (art. 1, par. 2) “non pregiudica
l’applicazione di disposizioni nazionali o convenzionali necessarie per evitare le frodi e gli
abusi”.
In primo luogo, l’art. 89, comma 3, introduce la condizione della provenienza degli utili da uno
degli Stati di cui al Decreto del Ministero delle finanze emanato ai sensi dell’art. 168-bis15, il
quale individua la c.d. “white list” dei Paesi che consentono un adeguato scambio di informazioni
e nei quali il livello impositivo non è sensibilmente inferiore a quello praticato in Italia. Qualora
non si verifichi la predetta condizione, gli utili provenienti dai Paesi o territori a fiscalità
privilegiata potranno subire due diversi trattamenti:
a)
l’assoggettamento alla c.d. disciplina CFC (Controlled Foreign Companies) di cui agli artt.
167 ss. TUIR; in particolare, qualora ricorrano i requisiti del controllo di cui all’art. 2359 c.c., o la
partecipazione detenuta, anche indirettamente, nel soggetto paradisiaco sia almeno pari al 20%
(10% se la partecipata è quotata), gli utili della controllata (o, in particolari casi, un reddito
figurativo, forfettariamente determinato) saranno imputati per trasparenza al socio residente,
indipendentemente dalla loro effettiva percezione, e in capo a questo assoggettati a tassazione
separata; in caso di distribuzione, pertanto, tali utili non concorreranno alla formazione del reddito
della controllante fino a concorrenza degli importi precedentemente imputati per trasparenza; ciò
al fine di evitare l’insorgere di un fenomeno di doppia imposizione economica;
b)
la concorrenza integrale, per la sola parte distribuita, alla formazione del reddito del
residente, qualora gli utili non siano stati precedentemente imputati per trasparenza in capo a
questo; ciò potrebbe verificarsi, ad esempio, per la mancanza dei requisiti di controllo di cui al
punto precedente, o perché le somme distribuite sono relative a riserve formatesi in epoca
anteriore all’introduzione della disciplina16.
I due scenari sopra sintetizzati rientrano nelle disposizioni di contrasto ai c.d. “paradisi fiscali”.
Tali previsioni non sono pertanto incompatibili con l’azione di attenuazione della doppia
15
Le disposizioni contenute nel citato Decreto, ad oggi non ancora emanato, entreranno in vigore a decorrere dal
periodo di imposta successivo alla data di pubblicazione di tale decreto nella Gazzetta Ufficiale. Fino a quel momento,
si continuerà ad applicare, a contraris, la black list di cui al D.M. 21 novembre 2001.
16
Tale ultima fattispecie è stata esplicitamente individuata dalla Circ. 51/E/2010 dell’Agenzia delle Entrate (p. 52).
23
imposizione economica da parte del Legislatore: questa, infatti, si manifesta concretamente
laddove l’utile subisca, nello Stato di provenienza, una prima imposizione effettiva e “congrua”,
condizione che non si verifica in quei Paesi in cui il livello impositivo sia nullo o puramente
nominale.
Il comma 3, tuttavia, prevede la possibilità di fruire in ogni caso del regime di esclusione, a mezzo
della presentazione di un interpello disapplicativo ai sensi dell’art. 167, comma 5, lett. b) TUIR,
che dimostri il verificarsi della condizione di cui all’art. 87, comma 1, lett. c) TUIR, secondo cui
“…dalle partecipazioni non sia stato conseguito, fin dall’inizio del possesso, l’effetto di
localizzare i redditi in Stati o territori diversi da quelli individuati nel medesimo decreto di cui
all’art. 168-bis”. È necessario cioè dimostrare che, fin dall’inizio, la partecipazione non è stata
posseduta allo scopo di evitare in modo artificioso una tassazione “congrua” dei redditi. Solo in
questo caso sarà possibile beneficiare dell’esclusione del 95% del loro importo. Qualora infatti si
dimostri l’effettivo svolgimento di un’attività industriale (ai sensi della lettera a) dell’art. 167,
comma 5), ma non anche la sussistenza dei requisiti di cui alla lettera b), i dividendi corrisposti
alla controllante italiana non beneficeranno di tale esclusione, concorrendo pertanto integralmente
alla formazione del reddito.
Un’ulteriore disposizione anti-abuso è rilevabile, ancora al comma 3, nella nozione di “utili
provenienti”17 da uno Stato diverso da quelli individuati dal decreto di cui all’art. 168-bis:
l’espressione “utili distribuiti”, contenuta nella precedente formulazione, consentiva infatti di
frapporre una società “figlia” tra un soggetto residente ed uno paradisiaco (c.d. “triangolazione dei
dividendi”), al fine di evitare l’integrale concorso a imposizione degli utili da questo provenienti,
beneficiando del regime di esclusione al 95%. Alla società intermedia che detenga partecipazioni
in Paesi black list, pertanto, è ora richiesto di di documentare di volta in volta la provenienza degli
utili, allo scopo di predisporre trattamenti impositivi differenziati e assoggettare ai regimi
maggiormente onerosi i soli utili di provenienza paradisiaca.
Le disposizioni illustrate evidenziano tuttavia alcuni punti di debolezza18 che occorre qui
evidenziare:
a)
Risulterebbe violato l’art. 4 della Direttiva, poiché gli utili distribuiti dalla società “figlia”
sarebbero integralmente tassati o imputati per trasparenza in capo alla società madre, anziché
17
L’espressione in esame è stata introdotta dall’art. 36, comma 4-bis del D. L. 4 luglio 2006, n. 223 (c.d. “Correttivo
IRES”).
18
I rilievi in esame, qui riportati in estrema sintesi, sono stati formulati dalla ADC Milano, con il documento
“Illegittimità comunitaria della tassazione dei dividendi provenienti da paesi a fiscalità privilegiata” (Febbraio 2007).
24
essere esclusi dalla formazione del reddito; inoltre, tali utili subiscono una prima imposizione
nello Stato della società intermedia, prima di essere nuovamente distribuiti; non consentendo lo
Stato italiano di detrarre l’imposta versata dalla società figlia, essi subirebbero pertanto
un’ulteriore tassazione (per il loro intero ammontare) in Italia, configurandosi in tal caso un
fenomeno di doppia imposizione;
b)
Come precedentemente illustrato, l’art. 89, comma 3, considera irrilevante l’eventuale
attività economica svolta dalla società residente nel Paese black list; la sentenza C-196/04 (c.d.
“Cadbury - Schweppes”) della Corte di Giustizia, tuttavia, ha sancito che “una misura nazionale
che restringe la libertà di stabilimento è ammessa solo se concerne specificamente le costruzioni
di puro artificio finalizzate a sottrarre l’impresa alla legislazione dello Stato membro
interessato”. Condizione necessaria per l’ammissibilità di tali restrizioni parrebbe dunque
l’assenza di qualsivoglia attività economica svolta dalla società, a nulla rilevando il fatto che il
reddito da questa prodotto non sia assoggettato a tassazione nel suo Stato di residenza. Ciò,
dunque, porrebbe l’art.89, comma 3, in contrasto con il diritto comunitario, qualora la condizione
di cui all’art. 167, comma 5, lett. b) TUIR fosse, come appare dal tenore letterale della norma,
l’unica condizione ammessa per sottrarre dal regime CFC gli utili di provenienza paradisiaca.
25
Capitolo 3
La disciplina dei dividendi erogati a società “madri” non residenti
SOMMARIO: 3.1. L’introduzione dell’art. 27-bis e le successive modifiche. - 3.2. Il recepimento della Direttiva
2003/123/CE e le modifiche introdotte dal D. Lgs. 49/07. - 3.3. L’intervento della Corte di Giustizia e le modifiche al
regime impositivo.
3.1. L’introduzione dell’art. 27-bis e le successive modifiche
Il D. Lgs. 6 marzo 1993, n. 136, modificava il D.Lgs. 29 settembre 1973, n. 600, introducendo
l’art. 27-bis che recepiva il contenuto dell’art. 5 della Direttiva 90/435/CE e disciplinava il
trattamento dei dividendi distribuiti ai soggetti di cui all’art. 2 della medesima Direttiva: la norma
così inserita disponeva che “le società indicate al comma 2 dell'art. 96-bis del testo unico delle
imposte sui redditi, approvato con il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, che detengono una
partecipazione diretta non inferiore al 25 per cento del capitale della società che distribuisce gli
utili hanno diritto, a richiesta, al rimborso della ritenuta di cui al terzo comma dell'art. 2719, a
condizione che la partecipazione sia detenuta ininterrottamente da almeno un anno”. Ai fini della
presentazione dell’istanza di rimborso, l’art. 27-bis comma 2 richiedeva una certificazione,
prodotta dall’Amministrazione Finanziaria dello Stato di residenza del percipiente, che attestasse
il possesso dei requisiti di cui all’art. 96-bis. Era inoltre necessario attestare la sussistenza delle
condizioni di possesso diretto e ininterrotto della partecipazione, per almeno un anno e in misura
non inferiore al 25% del capitale della società partecipata. Il soggetto percipiente aveva, in
alternativa, la facoltà di richiedere la non applicazione della ritenuta, senza che la norma
richiedesse ulteriori adempimenti informativi.
Una prima modifica alla formulazione dell’articolo è stata apportata dalla riforma IRES del 2003,
che ha abrogato il vecchio art. 96-bis e reso omogenea l’imposizione dei dividendi provenienti da
soggetti residenti ed esteri: come precedentemente sottolineato, il regime attualmente vigente
considera irrilevanti, dell’ambito dell’imposta sui redditi, i requisiti soggettivi, quantitativi e
19
Disponeva tale comma che “la ritenuta è applicata a titolo di imposta e con l’aliquota del 27 per cento sugli utili
corrisposti a soggetti non residenti nel territorio dello Stato in relazione alle partecipazioni non relative a stabili
organizzazioni nel territorio dello Stato”. Il testo, qui riportato nella formulazione originaria, non tiene conto delle
modifiche successivamente apportate dall’art. 24, comma 1, della legge 7 luglio 2009, n. 88.
26
temporali ai fini dell’applicazione dell’esclusione (fissando, beninteso, la sola condizione di
appartenenza alla white list ex-art. 168-bis). Il Legislatore, tuttavia, ha inteso mantenere tali
requisiti ai fini dell’esenzione dalla ritenuta alla fonte. All’art. 27-bis, il rinvio al vecchio art. 96bis è stato perciò sostituito dall’introduzione delle lettere a), b), c) che individuano i requisiti di
forma societaria, residenza ed assoggettamento ad imposta di cui all’art. 2, par. 1 della Direttiva.
Resta immutata, infine, la condizione della detenzione della partecipazione da almeno un anno
(comma 1, lett. d)).
3.2. Il recepimento della Direttiva 2003/123/CE e le modifiche introdotte dal D. Lgs. 49/07
Il D. Lgs. 6 febbraio 2007, n. 49 è intervenuto sul contenuto dell’art. 27-bis, in conformità alle
disposizioni contenute nella Direttiva 2003/123/CE che modifica la preesistente “madre-figlia”. In
primo luogo, esso ha ridotto al 20% la soglia minima di partecipazione per poter richiedere il
rimborso della ritenuta. Tale percentuale è stata ulteriormente ridotta al 15% e al 10% per gli utili
distribuiti rispettivamente dal 1.1.2007 e dal 1.1.2009. Ciò in conformità all’art. 1, par. 3, lett. a)
della Direttiva 2003/123/CE. È importante evidenziare, peraltro, che le disposizioni in essa
contenute trovano applicazione, con effetto retroattivo, a partire dal 1 gennaio 2005, data ultima
fissata per il recepimento da parte degli Stati membri.
In secondo luogo, il decreto ha chiarito alcuni dubbi interpretativi che emergevano alla lettura
della norma nella formulazione originaria: in particolare, non era chiaro come dovesse essere
provata la condizione, di cui al comma 1, lett. d) (detenzione della partecipazione da almeno un
anno); il Legislatore è perciò intervenuto disponendo espressamente (comma 2) che tale
condizione debba risultare da una dichiarazione scritta della società, non già da una certificazione
prodotta dall’Amministrazione Finanziaria del Paese di residenza del percipiente. Rimane invece
prerogativa delle citate autorità fiscali la dimostrazione dei requisiti di cui alle lett. a), b), c) del
medesimo comma.
Lo stesso decreto ha poi modificato il comma 3 dell’articolo, subordinando la non applicazione
della ritenuta alla condizione che la documentazione di cui al comma 2 sia presentata entro la data
di pagamento dei dividendi. Ciò consente di risolvere ogni dubbio sull’applicabilità del regime
27
anche nel caso in cui, al momento del pagamento, non sia ancora decorso il periodo minimo di
detenzione della partecipazione20.
Un ulteriore elemento di novità è ravvisabile nel comma 1-bis introdotto dal Decreto: tale
disposizione ricomprende nel campo di applicazione dell’art. 27-bis anche gli utili derivanti dalla
stipula di contratti di associazione in partecipazione (esclusi i casi di apporto costituito
esclusivamente da prestazioni di lavoro) di cui all’art. 44, comma 1, lett. f) TUIR, e le
remunerazioni derivanti dagli strumenti finanziari similari alle azioni di cui all’art. 44, comma 2,
lett. a) del Testo Unico. L’inclusione di tali fattispecie è tuttavia subordinata alla condizione che la
società ricevente disponga dei requisiti di cui al comma 1 e detenga inoltre una partecipazione
minima del 10% (ai sensi dell’art. 2, comma 2, D. Lgs. 49/07): poiché, infatti, tali importi sono il
risultato di una partecipazione ai risultati, ma non al capitale, della società erogante, la mancanza
di tale previsione impedirebbe di assoggettare detti importi al regime madre-figlia, poiché la
società beneficiaria non potrebbe assumere la qualifica di “società madre”, mancando il requisito
di cui all’art. 3, par. 1, lett. a) della Direttiva.
Infine, il Decreto in esame modifica, in senso maggiormente restrittivo, la clausola antielusiva di
cui al comma 5 dell’art. 27-bis: la norma, in particolare, dispone che il regime di rimborso è
applicabile alle società di cui al comma 1 che siano direttamente o indirettamente controllate da
soggetti extracomunitari, a condizione che questi “dimostrino di non detenere la partecipazione
allo scopo esclusivo o principale di beneficiare del regime in esame”. Tale formulazione
sostituisce la precedente “dimostrino di non essere state costituite…”: non sarà più sufficiente,
pertanto, dimostrare che la società intermedia è stata costituita allo scopo di svolgere una qualche
attività sostanziale, ma sarà necessario provare l’ulteriore condizione che le ragioni che hanno
indotto la società madre extracomunitaria a detenere la partecipazione in tale ultima società
prescindono dagli aspetti fiscali. Ai fini dell’acquisizione di tali prove, è inoltre mantenuto il
rinvio alle modalità di cui all’art. 11, commi 12 e 13 della L. 30 dicembre 1991, n. 413.
3.3. L’intervento della Corte di Giustizia e le modifiche al regime impositivo
Complessivamente considerato, il sistema delle ritenute alla fonte risultava così articolato:
20
Nel precedente paragrafo 1.2, si è sottolineato come tale orientamento fosse stato adottato già nel 1996 dalla Corte di
Giustizia (sentenza Denkavit C-283/94) e ripreso dalla Circ. 109/E del 29 luglio 2005 dell’Agenzia delle Entrate.
28
-
Nessuna ritenuta alla fonte era applicata ai dividendi corrisposti da società italiane e
percepiti da altre società ivi residenti; questi erano soggetti alla sola esclusione del 95%, ai sensi
dell’art. 89, comma 2 TUIR; gli utili subivano pertanto un prelievo dell’1,375%, poiché l’aliquota
del 27,5% era applicata sul 5% del loro ammontare lordo;
-
Gli utili percepiti da società non residenti qualificabili come “società madri” ai sensi della
Direttiva erano assoggettati all’art. 27-bis: il soggetto percipiente poteva perciò beneficiare del
rimborso (o della non applicazione) della ritenuta di cui all’art. 27, comma 3, D. Lgs. 600/73; la
doppia imposizione era pertanto integralmente eliminata su tali utili;
-
Per tutti gli altri soggetti non residenti, trovava invece applicazione la ritenuta del 27%, a
titolo di imposta, di cui al medesimo art. 27, comma 3; tale ritenuta, peraltro, poteva essere
rimborsata non integralmente, bensì nella misura dei quattro noni, qualora la società percipiente
avesse dimostrato di aver versato, nello Stato di residenza, un’imposta sul reddito sugli stessi utili.
A tale ultimo regime, tuttavia, risultavano assoggettate anche quelle società che, pur risiedendo
nella Comunità Europea, non integravano i requisiti di cui agli art. 2 e 3 della Direttiva, richiamati
al comma 1 dell’art. 27-bis. Tale disparità ha costituito oggetto di indagine della Corte di Giustizia
(procedimento C-540/07) nell’ambito della procedura di infrazione aperta dalla Commissione a
seguito del ricorso di un’impresa norvegese, partecipante al capitale di una società italiana dalla
quale aveva ricevuto dividendi. In particolare, il procedimento in esame ha voluto accertare se tali
previsioni costituissero una violazione dei principi di libertà di stabilimento e di circolazione dei
capitali (di cui agli artt. 43 e 56 del Trattato, rispettivamente), risultando fiscalmente non
conveniente, per una società non residente e non qualificabile come “società madre”, detenere una
partecipazione o aprire uno stabilimento in Italia. La procedura, è bene evidenziarlo, non ha
riguardato un eventuale errato recepimento del regime “madre-figlia”, ma il trattamento delle
partecipazioni non soggette alla Direttiva: oggetto dell’analisi era cioè la capacità
dell’ordinamento nel suo complesso di prevenire od evitare la doppia imposizione economica sugli
utili distribuiti all’interno della Comunità. A tal proposito, occorre considerare che
a)
Ciascuno Stato membro può mitigare gli effetti della doppia imposizione attraverso norme
di diritto interno, ovvero ricorrendo a Convenzioni bilaterali stipulate con altri Stati membri;
b)
eventuali restrizioni alla libera circolazione dei capitali potrebbero essere previste, ai sensi
dell’art. 58 del Trattato, per quelle disposizioni “…in cui si opera una distinzione tra i
contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di
residenza o il luogo di collocamento del loro capitale”; rientrerebbe in tale fattispecie, ad
29
esempio, una norma che volesse impedire un utilizzo abusivo del regime di favore da parte di un
soggetto residente in un paradiso fiscale;
Nel primo caso, dunque, una Convenzione dovrebbe consentire un recupero integrale della
maggiore imposta attraverso la concessione, da parte dello Stato della società percipiente, di un
credito di imposta per un ammontare pari alla differenza di trattamento derivante dalla normativa
nazionale. È evidente, tuttavia, come l’eliminazione della doppia imposizione dipenda, in questo
caso, dalle caratteristiche proprie del sistema impositivo dello Stato della beneficiaria, non già da
una norma dell’ordinamento italiano. In assenza di tale previsione, inoltre, il percipiente avrebbe
potuto richiedere un rimborso solo parziale della ritenuta subita. Il recupero della maggiore
imposta italiana, dunque, risultava “del tutto eventuale, sul piano dell'an ed inefficace, sul piano
del quantum”21.
Ancora, la formulazione della norma estendeva tale regime maggiormente oneroso a tutte le
società non residenti, senza alcuna specificazione che risultasse alcuna volontà di colpire strutture
societarie artificiose o di puro comodo.
Ciò considerato, il Legislatore è intervenuto con l’art 1, comma 67, lett. a) della L. 24 dicembre
2007, n. 244, che ha introdotto il comma 3-ter all’art. 2722
23
: la norma prevede l’applicazione di
una ritenuta nella misura del 1,375% (cioè il 27,5% applicato al 5%) “sugli utili corrisposti alle
società e agli enti soggetti ad un’imposta sul reddito delle società negli Stati membri dell’Unione
Europea e negli Stati aderenti all’Accordo sullo spazio economico europeo che sono inclusi nella
lista di cui al decreto del Ministero delle finanze emanato ai sensi dell’articolo 168-bis del testo
unico delle imposte sui redditi”. Tale norma, attualmente in vigore, garantisce il medesimo
prelievo fiscale sui dividendi interni e transnazionali (intracomunitari) in uscita. Un ulteriore
punto di attrito riguardava tuttavia il trattamento degli utili formatisi prima dell’entrata in vigore
della norma, sui quali continuava ad applicarsi la ritenuta del 27%24. La Commissione aveva
pertanto presentato un ricorso alla Corte per inadempimento da parte dell’Italia, asserendo che tale
disparità di trattamento non fosse stata eliminata su detti utili. Nella sentenza del 19 novembre
2009, i giudici comunitari hanno confermato come tale norma costituisse una restrizione alla
libera circolazione dei capitali, e affermato che “l’interpretazione che la Corte (…) fornisce di
21
Cfr. D’ABRUZZO G., Tassazione dei dividendi transfrontalieri: censure della Corte di Giustizia UE, Guida ai
Controlli Fiscali, 1.1.2010, n. 1, p. 32.
22
La modifica normativa, come chiarito nella relazione di accompagnamento alla medesima legge, si è resa necessaria
“in attuazione del parere motivato della Commissione delle Comunità europee n. C(2006)2544 del 28 giugno 2006”.
23
L’art. 27-bis, comma 1, è stato opportunamente emendato, prevedendo l’ulteriore possibilità, per i soggetti che ne
beneficiano, di richiedere il rimborso (o la non applicazione) della ritenuta di cui all’art. 27, comma 3-ter.
24
Tale orientamento era stato confermato dall’Agenzia delle Entrate, con la C.M. 21 maggio 2009, n. 26/E.
30
una norma di diritto comunitario chiarisce e precisa il significato e la portata della norma stessa,
quale deve o avrebbe dovuto essere intesa ed applicata sin dal momento della sua entrata in
vigore”, sancendo, di fatto, la necessità di eliminare la discriminazione imposta dall’Italia sui tali
dividendi in uscita, anche se relativi a utili formatisi prima del 2008. Detta sentenza ha trovato
esecuzione con la C.M. 8 luglio 2011, n. 32/E, la quale ha esteso l’applicabilità della ritenuta
ridotta anche agli utili formatisi prima del 2008, definendo inoltre le modalità per il rimborso dei
maggiori importi prelevati in concomitanza con la distribuzione di tali utili.
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