Indice - ANPI Sezione Vittoria Milano
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Il libro di Claudio De Biaggi, “Storie resistenti. La memoria dei caduti per la Patria e per la Libertà, nelle lapidi e nei monumenti della zona 4 di Milano”, pubblicato nel 2008, è stato promosso dal coordinamento delle sezioni ANPI di zona 4, con il patrocinio di ANPI Comitato provinciale di Milano, del Consiglio di zona 4 di Milano, dell’Assessorato all’Istruzione ed edilizia scolastica della Provincia di Milano e dell’ANED-Fondazione Memoria della deportazione. Riportiamo qui la copertina, l’indice e le schede relative ai partigiani, resistenti e deportati del nostro quartiere. Il volume si può acquistare presso la sede della sezione. Indice Lapidi e monumenti ai caduti, tra retorica e falsi miti Monumenti e lapidi del primo dopoguerra La lapide dei Garibaldi Il monumento di Via Tiraboschi e le prime bombe su Milano La lapide alla Scuola Elementare di Rogoredo Il monumento di Chiaravalle Il monumento al Mercato Comunale di Via Lombroso Monumenti e lapidi del Secondo Dopoguerra Il monumento e la lapide dei caduti a Ponte Lambro La lapide al Centro Civico di Viale Ungheria 11 settembre del ’43: l’arrivo dei tedeschi e le fucilazioni dei civili I quattro di Via San Dionigi La lapide di Via Salomone Morire a diciotto anni sul Monte San Martino Luigi Lotti Elvezio Rossi Il monumento alle vittime del nazifascismo alla Caproni di Via Mecenate La lapide all’autorimessa A.T.M. di Viale Molise La lapide di Piazza Insubria La meglio gioventù I ragazzi del Campo Giuriati Renzo Botta Roberto Giardino e Luciano Rossi Roberto Ricotti Attilio Tessaro Luciano Patrini e Arturo Capecchi Piero Caremoli La Terza GAP al Campo Giuriati Il monumento di Via Rogoredo Le lapidi di Rogoredo Luigi Cristini Luigi Villa Luigi Roveda I lavoratori della Redaelli 1944: le vittime dei rastrellamenti sulle montagne Vittorio Cervelli Vinicio Nicocelli Antonio Maria Colombo Tommaso Pessina e Giuseppe Sormani Antonio Borella Giulio Tofani Angelo Caprioglio Benedetto Bocchiola Giorgio De Santi Fucilati per rappresaglia contro un muro Cesare Poli e l’eccidio della Cagnola Quelli del Forlanini Cesare Esposti e Angelo Cattaneo Alino Zanta e Giuseppe Zanta Alessandro Canciani Nicola Scaringi Giacinto Palma e Pasquale Sagaria Onofrio Porcelli e Nello Salvi Luigi Rinaldo Un triangolo rosso ai deportati politici Italo Aldomini Gaetano Baroni Giancarlo Serrani ed Enzo Besozzi Vincenzo De Silvestri Francesco Gatti Carlo Giovanetti Battista Liberatore e Camillo Zanfrognini Andrea Lorenzetti Giuseppe Malagodi Vittorio Soffientini Carlo Verri Non cessarono gli spari: i morti dopo il “25 aprile” Gian Luigi Arioli Enrico Aire e Luciano Sgarbesini Arduino Carelli Le lapidi più recenti In memoria di Emma Gessati Celant Morire di politica: la lapide di Giovanni Zibecchi Tre lapidi, due giudici e un vigile urbano: le vittime del terrorismo e della mafia Emilio Alessandrini Guido Galli Alessandro Ferrari Epilogo Appendice statistica Sigle Bibliografia Qui di seguito sono pubblicate le biografie e gli episodi legati ai resistenti della zona Vittoria-Monforte, con la localizzazione della lapide, di solito corrispondente alla loro abitazione. I testi sono tratti dal volume di C. De Biaggi, Storie resistenti, per gentile concessione dell’autore, che ringraziamo. 1. Morire a diciassette anni sul Monte San Martino L'8 settembre del 1943 venne firmato l'armistizio con gli anglo-americani, e di conseguenza dovevano cessare le ostilità contro di loro. Bisognava invece reagire agli attacchi provenienti da qualsiasi altra parte. L'esercito era disorientato, in attesa di ordini che non arrivarono mai. Alcuni militari lasciati allo sbando decisero di combattere l’invasore tedesco. Da Porto Valtravaglia una formazione di soldati si diresse verso Vallalta, sul monte San Martino sopra Varese, per opporsi ai tedeschi. A comandarla c’era il colonnello Carlo Croce. Di lui ha scritto Giorgio Bocca: "E' un ufficiale coraggioso e onesto che sente anche formalmente l'impegno morale della Resistenza, scegliendosi un nome di battaglia come Giustizia, dando al suo gruppo il motto "Non si è posto fango sul nostro volto". Su quelle montagne tutti i giorni arrivavano giovani intenzionati a far parte del gruppo. Molti erano di Milano, e più d’uno proveniva dai quartieri popolari e dalle fabbriche della nostra zona. La formazione si era man mano ingrandita e aveva assunto il nome di "Esercito Italiano Gruppo Cinque Giornate - Monte San Martino”, per sottolineare il carattere apolitico e risorgimentale. La popolazione e i parroci dei paesi sulle pendici della montagna diedero aiuto e sostegno ai giovani combattenti, mettendo a repentaglio anche la propria vita. Si unirono ai ribelli anche prigionieri di guerra, fuggiti dai campi di concentramento, e soldati di varie nazionalità. Accanto a uomini animati da grandi ideali c'era anche chi veniva a rifugiarsi per sfuggire alla cattura da parte dei tedeschi, ed anche costoro diedero con coraggio il proprio contributo durante la battaglia. L’intenzione del colonnello era di assestarsi su quei monti, utilizzare le fortificazioni esistenti fin dalla prima guerra mondiale, e da lì combattere i tedeschi. Il 13 novembre le truppe della Wehrmacht sferrarono un attacco decisivo, con notevole impiego di mezzi, aviazione compresa, costringendo Croce e i suoi uomini a ripiegare. L’esistenza di un sistema di gallerie consentì alla maggior parte dei combattenti di riparare in Svizzera, ma due di loro rimasero uccisi durante gli scontri, mentre altri 36 incapparono nei rastrellamenti tedeschi. Vennero tutti fucilati sul piazzale della ex Caserma Cadorna, e tra questi i nostri Lorenzo Alberti, Giovanni Vacca, Osvaldo Brioschi, Elvezio Rossi e Luigi Lotti. I poveri corpi vennero sepolti clandestinamente qualche giorno dopo, grazie all’intervento di don Antonio Gatti, parroco di Duno, poiché i tedeschi e i repubblichini ne avevano dato assoluto divieto. Le salme vennero in seguito traslate dai cimiteri di Cuvio e Mesenzana al cimitero Maggiore di Milano, con solenne cerimonia promossa dal C.L.N. e dall’A.N.P.I milanese, il 10 febbraio del 1946. Sul piano militare la battaglia del San Martino ebbe un esito fallimentare, ma non poteva essere diversamente in quel momento e con quella disparità di forze; certamente fu debole o inesistente la componente politica e la caratterizzazione ideologica di una formazione che si presentava come “Esercito Italiano”. E’ innegabile tuttavia, che i combattimenti del San Martino ebbero un forte impatto emozionale e un'importante carica suggestiva per quei giovani che, dopo lo sbandamento seguito all’Armistizio e l’occupazione tedesca, mutarono la scelta resistenziale. Tra i morti fucilati al San Martino ve ne sono altri due che abitavano nella zona: Luigi Lotti (lapide in via Guicciardini 3) Dopo aspri combattimenti contro i nazifascisti, venne catturato e fucilato il 15 novembre del 1943. Elvezio Rossi (lapide in viale Corsica 43) Nato l’11 giugno del 1926 a Milano, da Ambrogio e Santina Pavesi, abitava in Viale Corsica 43. A soli 17 anni venne catturato e fucilato il 15 novembre del 1943. 2. I deportati Italo Aldomini (lapide in viale Corsica 39) Nato a Castelnuovo Bocca d’Adda (Mi) il 24 febbraio 1925, operaio, abitava in Viale Corsica 39. Catturato il 7 febbraio 1944, venne deportato nel campo di concentramento di Bolzano, poi trasferito a Zwickau, sottocampo di Flossenburg, dove i deportati lavoravano nelle officine della “Auto Union”. Deceduto il 15 aprile del 1945. Gaetano Baroni (lapide in via Clusone 3) Nato a Ospedaletto Lodigiano (Lo) il 2 luglio 1896, di professione muratore, venne arrestato il 3 marzo 1944, deportato nel campo di concentramento di Fossoli e poi trasferito a Mauthausen. Deceduto a Ebensee il 17 maggio 1944. Francesco Gatti (lapide in via Archimede 41) Nato a Milano il 30 ottobre 1925, di professione disegnatore, venne arrestato il 22 dicembre 1944 e deportato nel campo di concentramento di Bolzano. Il 19 gennaio del 1945 venne trasferito nel lager di Flossenburg, poi nei sottocampi di Porschdorf e Holzen (nella lapide Oelsen), dove morì il 13 maggio 1945. Giuseppe Malagodi (lapide in via Marcona 24) Nato a Cento (Fe) il 17 ottobre 1894, di professione giornalista, venne arrestato il 10 dicembre 1943. Deportato a Fossoli e poi a Bolzano, il 5 agosto 1944 venne trasferito al campo di concentramento di Mauthausen. Deceduto nel sottocampo di Gusen il 29 marzo 1945. Carlo Verri (lapide in Via Fiamma 37) Giovane partigiano di 20 anni, venne deportato nel campo di concentramento di Mauthausen. Deceduto a Ebensee il 30 aprile 1945. 3. Un episodio finora quasi sconosciuto Giuseppe Trezzi (lapide in piazza Grandi, lato giardino) Morì il 27 agosto del 1944, ucciso da una raffica di mitra sparata dai fascisti della “Muti”: l’unica traccia rimasta è un foro di proiettile penetrato nel fianco della gigantesca statua in bronzo della fontana che esiste nella piazza e una piccola siepe, curata forse dai familiari. Sulla base dell’accertamento di Claudio De Biaggi, autore di Storie resistenti, si sono potute ricostruire solo queste sparse notizie in merito a un episodio quasi sconosciuto, sulla cui base la sezione ANPI Vittoria-Monforte ha posto nella primavera 2009 un cippo, per il quale è in preparazione la definitiva lapide in metallo; a partire dal 25 aprile 2009 e per gli anni a venire, la sezione s’impegna a completare questo nuovo cippo e a depositarvi la corona. 4. L’eccidio della Cagnola Cesare Poli (lapide in Piazza Grandi 18) Cesare Poli, nato a Milano l’11 novembre 1891, di Leonardo e Luigia Sticotti, dopo gli studi iniziò la professione di rappresentante di commercio. Nell’ottobre del 1943 compì le prime azioni, organizzando l’attività clandestina tra gli operai della periferia. Nella sua abitazione, al momento dell’arresto, gli fu trovata nascosta nel muro una radio clandestina, materiale esplosivo, armi e stampa. Venne catturato insieme a Gaetano Andreoli, Angelo Scotti e Arturo Capettini, tutti appartenenti alla Terza GAP. Condotti al carcere di San Vittore con l’accusa di “costituzione di banda armata”, vennero sottoposti a snervanti interrogatori e continue torture, ma nessuno dei tre parlò. Il Tribunale straordinario militare di guerra, riunito il 31 dicembre 1943, condannò alla pena capitale i tre partigiani e nella sentenza emessa si può leggere: “Cesare Poli, imputato dei reati previsti e puniti dagli articoli 241, 270, 272 e 284 del Codice penale comune, per aver diretto vaste organizzazioni comuniste e per aver in correità con il Capettini cooperato nella fabbricazione di ordigni esplosivi e nella detenzione degli stessi e di materiale di propaganda comunista, al fine di provocare un movimento insurrezionale armato contro i poteri dello stato”. Poli, Andreoli e Capettini vennero fucilati al poligono di tiro cittadino della Cagnola, il 31 dicembre del 1943. Ad Angelo Scotti, che aveva presentato domanda di grazia, la pena venne tramutata in ergastolo. Poco distante dal luogo dell’esecuzione, in Piazzale Accursio, venne eretto un cippo per ricordare l’eccidio. 5. Uno studente partigiano Piero Caremoli (lapide in viale Premuda 14) Nato il 20 agosto del 1922 a Lucerna, in Svizzera, di Cesare e Clara Olrist. Di spirito indipendente e con spiccato amore per la giustizia, il giovane ragioniere studente alla Bocconi, fu spesso incapace di tacere e sottomettersi alla volontà dei professori, quando vedeva offendere i suoi sentimenti di antifascista. Per essersi rifiutato di frequentare il corso premilitare venne picchiato dai fascisti. Col nome di battaglia Vela Piero iniziò l’attività nel Comitato di Agitazione clandestino dell’università. Durante la Resistenza, infatti, l’importante ateneo milanese si distinse come centro di assistenza ai perseguitati del regime, di aiuto ai partigiani e di appoggio ai giovani in difficoltà per la lontananza dalla sede universitaria. Sia il Governo Militare Alleato che il C.L.N. espressero alle autorità accademiche il loro compiacimento e la loro riconoscenza, per il contributo offerto nella lotta al nazifascismo. Caremoli era stato più volte arrestato, insieme ad altri studenti, ed il prefetto di Milano non tardò a denunciarne la pericolosità chiedendo interventi risolutivi al ministero dell’interno: “Telegramma - 12 dicembre 1941 - …altri studenti universitari, Luigi Borlè e Piero Caremoli della Bocconi, avvelenati dalle letture malsane, sono stati più volte arrestati per diffusione di manifestini sovversivi”. Sul finire del ’42, Caremoli ed altri giovani studenti antifascisti vennero deferiti al Tribunale Speciale, che li condannò a diversi anni di reclusione. Sentenza N. 431 del 27 dicembre 1942 Pres. Le Metre Rel. Presti Tra l’aprile e il dicembre 1941 operò a Milano e in altre località una associazione antifascista cui aderiscono prevalentemente studenti universitari iscritti al PNF o alla GUF. Funziona una tipografia clandestina dove si stampano ingenti quantità di volantini sovversivi. (Associazione sovversiva, istigazione alla insurrezione, propaganda). Si condanna anni mesi Ferrari Armando Canada 24/1/22 studente 15 4 Caremoli Pietro Svizzera 20/8/22 studente 10 4 Borlè Luigi Milano 24/9/22 studente 10 4 Vidossich Franco Cernobbio 22/2/23 studente 9 Gaggia Camillo Milano 13/10/23 studente 10 4 Silvestri Mirto Milano 19/2/24 studente 7 Ottone Marco Genova 5/12/18 impiegato 5 Piero Caremoli rifiutò di inoltrare la domanda di grazia e rimase in carcere fino al 31 di agosto del ’43 quando, a seguito della caduta del governo Mussolini, riacquistò la libertà. Il 13 settembre fu costretto a riparare in Svizzera, per il ritorno del fascismo e l’invasione tedesca. Fu una breve parentesi, giusto il tempo di riprendersi dalla carcerazione e ritornare nuovamente a combattere. Maturò nel frattempo la sua adesione sincera e meditata agli ideali del Partito d’Azione. Nella primavera del 1944 ritornò a Milano, dove strinse rapporti con Sergio Kasman, comandante delle formazioni partigiane di “Giustizia e Libertà”, e compì tra l’altro una fruttuosa missione tra i partigiani del Lecchese. Sebbene aderisse al Partito d’Azione collaborò con entusiasmo con tutti gli altri partiti nell’attività clandestina, dedicandosi soprattutto alla ricerca delle armi necessarie per alimentare la guerra di liberazione. Per questo motivo iniziò a frequentare i repubblichini, per guadagnarli alla sua causa ed avere armi. Il 18 ottobre si presentò ad un appuntamento con un milite della Decima MAS che gli aveva promesso delle armi, ma costui lo tradì facendolo arrestare. Il suo temperamento gli suggerì di non arrendersi e di tentare la fuga, ma fu gravemente ferito in Via Aldo Manuzio. Ricoverato all’ospedale di Niguarda morì il 23 ottobre del 1944, dopo cinque giorni di agonia lontano da ogni persona amata, senza confessare il suo vero nome per evitare pericoli ai genitori e agli amici. 6. Uno dei ragazzi fucilati al campo Giuriati L’impianto sportivo del Campo Giuriati, situato in Via Ponzio, non rientra nei confini della zona 4, tuttavia ha un profondo legame storico con questa parte del territorio cittadino, per i fatti accaduti nel gennaio del 1945. A ricordarcelo, con la sua presenza, è un cippo funebre eretto per iniziativa del Fronte della Gioventù - Sezione Vittoria, inaugurato domenica 13 gennaio 1946, in occasione del primo anniversario dell’eccidio avvenuto il 14 gennaio 1945. Quel giorno furono fucilati nove giovani partigiani: Roberto Giardino, Luciano Rossi, Renzo Botta, Giancarlo Serrani, Arturo Capecchi, Roberto Ricotti, Attilio Folli, Sergio Bazzoni e Giuseppe Rossato. Tranne gli ultimi due, abitavano tutti nei quartieri popolari tra Porta Vittoria, Calvairate e Piazzale Corvetto, di un età compresa tra i 18 e i 22 anni, quando lo spirito di ribellione si fa più sentire. Alcuni già militavano nelle formazioni partigiane delle Brigate Garibaldi S.A.P. Di certo è che tutti appartenevano al "Fronte della Gioventù", la più nota ed estesa organizzazione dei giovani impegnati nella lotta di liberazione in Italia. Venne costituita a Milano verso la fine del 1943 da Eugenio Curiel, che riunì nella sagrestia della chiesa di San Carlo al Corso giovani antifascisti di varie appartenenze politiche (Gillo Pontecorvo, Raffaele De Grada, Aldo Tortorella, Quinto Bonazzola, Grandi e Del Bo) per la costituzione di un organizzazione chiamata il "Fronte della gioventù per l'indipendenza nazionale e per la libertà", pensato per la formazione democratica delle nuove generazioni. Fu così che in forma unitaria iniziarono a svolgere attività nelle fila della Resistenza i giovani comunisti, socialisti, democratici cristiani, liberali, del Partito d’Azione, repubblicani, cattolici, le ragazze dei Gruppi di Difesa della Donna e i giovani del Comitato Contadini. La base ideale e programmatica era frutto dell’elaborazione di Eugenio Curiel, ma tra i fondatori ci furono anche padre Camillo De Piaz e padre David Maria Turoldo. Un embrione di organizzazione, non ancora su basi così larghe ed unitarie politicamente, esisteva a Milano fin dall’ottobre 1943, promossa da Giancarlo Paietta e da Luigi Longo, attorniati da un gruppo di studenti universitari, intellettuali e giovani operai. Cellule organizzate del Fronte erano presenti non solo nelle scuole superiori o nelle università, ma anche tra i giovani operai di alcune fabbriche come la Borletti o, per restare nel nostro territorio, la Caproni, la Geloso e il T.I.B.B. Il Fronte della Gioventù contribuì in maniera rilevante alla lotta di liberazione: centinaia furono i giovani aderenti al Fronte che caddero tra i partigiani, e non pochi furono decorati con medaglia d’oro e d’argento, svolgendo funzioni di comando nelle varie formazioni combattenti. Molti caddero con le armi in pugno, o torturati nelle carceri. L’organizzazione unitaria subì i colpi della repressione nazifascista, che si inasprì a seguito delle direttive del ministro dell’interno Guido Buffarini Guidi, del ministro della guerra Rodolfo Graziani e della presenza in città dei comandi tedeschi. A subire i colpi e le perdite maggiori fu la brigata del F.d.G. di Milano, con feriti arresti e deportazioni in Germania, in particolare la squadra più combattiva: la Stella Rossa. L’eccidio del Campo Giuriati era l’epilogo di una serie di avvenimenti iniziati verso la fine del 1944. Dopo numerose azioni di disarmo a danno di militari della R.S.I., culminate con quella dell’aviere Vavassori compiuta il 22 novembre da Giacinto Palma (episodio già citato), un reparto repubblichino denominato il Battaglione Azzurro, composto da ex avieri al comando dal capitano dell’Aeronautica Repubblicana Giovanni De Folchi, in accordo con i comandi germanici intensificò l’attività di repressione, con particolare accanimento nei confronti dei ragazzi del F.d.G.: alla fine del mese di dicembre risultavano arrestati e rinchiusi alla caserma “La Marmora” di Via Pace, circa 80 giovani, tra cui 4 ragazze, 20 dei quali catturati da pattuglie di SS. Riuscirono inoltre a individuare il deposito di armi in Via Pomposa, messo insieme da un gruppo di giovani del Fronte che, oltre a distribuire volantini, aveva iniziato a compiere disarmi di soldati e sabotaggi. Condotti nella caserma di Via Pace, furono sottoposti a interrogatori e torturati per giorni, come risulterà dal processo avviato dopo la liberazione nei confronti del maggiore Mario De Biase e del capitano Giovanni Folchi. Il 5 gennaio vennero arrestati altri quattro studenti: Orazio Maron matteottino di 16 anni, e tre giovani sappisti della 120a Brigata, Giuseppe Bodra di 18 anni e i sedicenni Giancarlo Tunissi e Tullio Di Parti. Torturati lungamente, vennero fucilati il giorno appresso in Via Botticelli. Pochi giorni dopo lo stesso Battaglione Azzurro sorprese altri giovani del gruppo di Via Pomposa, trascinandoli in carcere. Nessuno parlò, come del resto nulla avevano rivelato i quattro ragazzi arrestati in precedenza. Tra il giorno 11 e il 29 gennaio si tennero 12 processi del Tribunale Militare di guerra, durante i quali il presidente del tribunale Pasquale Spoleti, il giudice Giuseppe Libois e il pubblico ministero Francesco Centonze emisero 24 condanne a morte di giovani patrioti. Il 12 gennaio del 1945 venne istruito il processo contro 12 imputati accusati di partecipazione ad associazione sovversiva, di appartenenza a bande armate e attentato ad appartenenti alle Forze Armate. Nel rapporto del 9 gennaio, la Questura milanese li denunciò in quanto appartenenti a gruppi sovversivi distribuendo manifestini e tenendo delle armi delle quali si servivano per disarmare i militari. Nonostante la giovane età, tre furono condannati a 30 anni di carcere, mentre gli altri nove furono condannati alla pena capitale mediante fucilazione alla schiena. “Nove terroristi giustiziati”, titolava Il Corriere della Sera del 15 gennaio 1945, per “appartenenza a banda armata, associazione sovversiva, attentati alle Forze Armate, detenzione di armi, devastazioni e saccheggi. Il Ricotti, inoltre, doveva rispondere anche del reato di diserzione”. A nulla valsero le proposte di arruolamento tra i soldati repubblichini in cambio della vita – come ebbe modo di riferire il confessore a qualche familiare – sprezzantemente rifiutate dai nove valorosi ragazzi. Renzo Botta (lapide in viale Montenero 42) Fu fucilato a 21 anni da poco compiuti, essendo nato a Milano il 19 settembre del 1923 da Cesare e Alice Rabbiati. 7. Quando non cessarono gli spari: uccisi durante e dopo il 25 aprile Luigi Rinaldo (lapide in via Fratelli Bronzetti 33) Nato a Monza il 17 dicembre del 1921, era un comandante partigiano appartenente alle Brigate del Popolo, le formazioni di orientamento cattolico sorte nell’estate del 1944. Morì a Milano durante l’insurrezione il 25 aprile del 1945. In seguito la “Prima Brigata del Popolo” prese il suo nome. Gian Luigi Arioli (lapide in corso Ventidue Marzo 29) Al numero 29 di Corso XXII Marzo c’è una lapide di coloro rosso amaranto, con scritte in oro e una fotografia a colori in ricordo di Gian Luigi Arioli, morto il 26 aprile del 1945 all’età di 11 anni. “Vittima innocente di chi ancora negava libertà alla Patria”, è scritto. Venne colpito da una raffica di mitra proprio lì davanti, quando i cecchini in camicia nera sparavano appostati sui tetti, mentre le bande armate dei fascisti imperversavano per le vie cittadine rifiutando la resa. Arduino Carelli (lapide in via Anfossi 10) Nato a Milano il 17 novembre 1925, entrò a far parte della 174a Brigata Garibaldi “Oreste Garatti”, che operava nei paesi e nelle campagne del Lodigiano. Cadde in combattimento il 26 aprile del 1945, durante uno scontro a fuoco con i fascisti a Fontana di Lodi. L’insurrezione avviata nel Lodigiano la mattina del 26 aprile 1945, vide l’occupazione dei centri più importanti da parte delle forze partigiane, ed anche i giorni successivi 27 e 28 furono carichi di tensione e costellati di morti: un centinaio complessivamente le vittime tra i patrioti. Molti di loro caddero combattendo gli ultimi tentativi di resistenza da parte dei fascisti e nel tentativo di ottenere la resa dei contingenti tedeschi asserragliati nelle cascine, o mentre cercavano di aprire una trattativa con le colonne in ritirata sulle strade più importanti. 8. Morire di politica: la lapide di Giovanni Zibecchi Giovanni Zibecchi (lapide in corso Ventidue Marzo angolo via Cellini) Giannino, come lo chiamavano gli amici, morì il 17 aprile del 1975, mentre esercitava il diritto di manifestare le proprie idee. Aveva compiuto 27 anni il 18 febbraio e abitava in un appartamento di Via Bergamo 11, a Porta Vittoria. Era un ragazzo con tanti mestieri e una sola passione: la politica; diplomato ragioniere, aveva fatto alcuni lavori saltuari, anche il fattorino di una cooperativa libraria. Da anni frequentava l’ambiente universitario, conciliando i suoi lavori con l’impegno politico. Pur non essendo iscritto ad alcun partito, era stato tra i promotori e gli organizzatori del Comitato antifascista al quartiere Ticinese. “Caduto partigiano della nuova Resistenza” recita l’epigrafe sulla lapide che si trova in Corso XXII Marzo all’angolo con Via Cellini, nel luogo dove morì Zibecchi. Venne affissa dal Coordinamento dei Comitati Antifascisti di Milano, e risente del clima di quel periodo burrascoso degli anni Settanta, in cui avvennero una serie di episodi violenti che insanguinarono molte città. Il 1975 era l’anno delle elezioni amministrative e la campagna elettorale si annunciava tesa anche a Milano. La strategia della tensione, iniziata con la bomba alla Banca dell’Agricoltura in Piazza Fontana nel dicembre 1969, continuava a mietere le sue vittime con la strage alla Questura di Milano il 17 maggio 1973, quella di Piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio 1974, seguita da quella dell’Italicus, quando una bomba esplose sul treno Roma-Brennero il 4 agosto dello stesso anno, mentre il terrorismo delle Brigate Rosse consumava nel sangue di vittime innocenti le velleitarie idee di rivoluzione armata. E’ in questo quadro che si manifestarono una serie di violente aggressioni a studenti e giovani di destra e di sinistra. Il 17 aprile del 1975, in Corso XXII Marzo angolo Via Mancini, Gianni Zibecchi venne travolto e ucciso da un camion dei carabinieri, durante la manifestazione di protesta per l'omicidio di Claudio Varalli, giovane studente assassinato il giorno prima dal neofascista Antonio Braggion. Nel corso della manifestazione la città fu sconvolta da una serie di episodi di violenza. G1i incidenti più gravi si verificarono nella zona di Piazza 5 Giornate, tra Via Mancini, dove le forze dell’ordine erano schierate a protezione della Federazione provinciale del M.S.I., Corso XXII Marzo, Piazza S. Maria del Suffragio e Via Fiamma. Numerosi automezzi della polizia e dei carabinieri furono dati alle fiamme mediante il lancio di bottiglie incendiarie, mentre i reparti, pressoché esaurite le riserve di candelotti lacrimogeni, furono costretti ad arretrare sotto la pressione di consistenti gruppi di dimostranti. Alle ore 12,45 transitò una colonna di automezzi, inviata d’urgenza dalla caserma dei carabinieri di Via Lamarmora, che trasportava un contingente di uomini del III Battaglione Milano. L’autocolonna giunta da Viale Montenero imboccò ad alta velocità Corso XXII Marzo dove si trovavano quasi tutti i dimostranti, insieme ad una piccola folla di curiosi, sparsi in diversi gruppi tra l’incrocio di Via Mancini e Piazza Santa Maria del Suffragio. Giunti all’altezza di Piazza Santa Maria del Suffragio gli uomini balzarono a terra e iniziarono a sparare per disperdere la folla. I manifestanti si diressero correndo verso Piazza 5 Giornate e le vie laterali, ma il corpo di Gianni Zibecchi era già a terra, riverso in una pozza di sangue. Un automezzo imboccando Corso XXII Marzo aveva deviato sulla sinistra e un altro sulla destra, salendo entrambi con due ruote sui marciapiede, sgombrandoli dai dimostranti in una folle carica a settanta all’ora. Le prime versioni ufficiali dei carabinieri giunsero nel pomeriggio. Sostennero di aver sparato soltanto a salve, ma vennero smentiti dai bossoli ritrovati in diversi punti e raccolti dai giornalisti, e il ferimento di alcune persone colpite dai proiettili: Silvano Bazzone e Augusto Galli. In merito all’uccisione di Zibecchi, il Comando affermò che l’autista del gippone era stato colpito al volto da un oggetto di ferro ed aveva perso il controllo dell’automezzo investendo il giovane. Una versione che non spiegava come mai due camion, nello stesso momento, si erano proiettati su ambedue i marciapiedi. Nel corso della manifestazione i feriti accertati furono 27, tra civili e forze dell’ordine. Tutto ciò si sarebbe potuto evitare se le forze dell’ordine avessero attuato un’opera di prevenzione degli incidenti, mentre venne inviato allo sbaraglio un esiguo contingente di uomini nella difesa della sede del MSI di Via Mancini, contrariamente ad altre occasioni nelle quali non si era esitato a mettere la città sotto stato d’assedio. La tragedia di Corso XXII Marzo riproponeva con drammatica urgenza il problema della riorganizzazione democratica delle forze dell’ordine. La risposta all’efferato crimine fascista di Varalli e della morte di Zibecchi non si fece attendere. Il giorno dopo venne proclamato lo sciopero generale, indetto dalle confederazioni sindacali per martedì 22 aprile. Alla manifestazione di Milano parteciparono oltre duecentomila persone. Numerose furono le espressioni di condanna da parte della autorità, dal parlamento ai consigli comunali. Nei paesi, nelle fabbriche ovunque si tennero manifestazioni, per esprimere con sdegno la volontà politica di imporre un mutamento profondo di indirizzi nella gestione della cosa pubblica e nella lotta all’eversione nera, richiamandosi ai valori dell’antifascismo e della Costituzione Repubblicana. Il processo per l'omicidio di Giannino Zibecchi si svolse il 15 ottobre 1979, presso la IV sezione del Tribunale di Milano. Vennero rinviati a giudizio tre carabinieri, imputati “per aver, in concorso colposo fra loro, cagionato la morte di Zibecchi Giannino, per colpa aggravata dalla previsione dell'evento". Di tutta la vicenda si occupò il sostituto procuratore Emilio Alessandrini, con un avviso di reato al conducente dell’automezzo investitore. Dopo una lunga e complessa indagine, il 27 ottobre 1979 la Corte rinviò tutti gli atti del processo alla Procura per una nuova istruttoria, al fine di ridefinire le responsabilità degli imputati divenuti nel frattempo tre, e considerare la responsabilità di ufficiali superiori. Il 10 gennaio 1980 la Procura rimise gli atti alla Corte di Cassazione, che nella seduta del 14 aprile successivo accolse l'opposizione ritrasmettendo gli atti al Tribunale, affinché si procedesse nel giudizio. La prima udienza venne fissata per il 12 novembre 1980, e il giorno 27 successivo la Corte emise la sentenza assolvendo tutti gli imputati, mettendo praticamente fine al percorso giudiziario del "caso Zibecchi". A ricordo di Claudio Varalli e Giannino Zibecchi, il 30 aprile 1976 venne inaugurato in piazza Santo Stefano un monumento in bronzo. Tutti i 25 aprile la sezione ANPI Vittoria-Monforte depone una corona anche alla sua lapide.