la funzione della letteratura nella recherche di proust e la sua

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la funzione della letteratura nella recherche di proust e la sua
LA FUNZIONE DELLA LETTERATURA NELLA
RECHERCHE DI PROUST E
LA SUA FORTUNA NEL NOVECENTO FRANCESE*
Il personaggio che nella Recherche dice je mette in luce, nel Temps retrouvé, di aver tardato, di aver tardato molto, a scoprire la sua vocazione di
scrittore, nella misura in cui ha coltivato a lungo una concezione improduttiva della letteratura, maturata nel corso della sua giovinezza. Durante quel
periodo (la cosa viene, com’è noto, narrata in significative pagine di Du côté
de chez Swann)1 egli nutriva infatti la convinzione che per produrre un’opera letteraria fosse necessario prendere le mosse da una verità astratta, da
una verità elaborata dall’intelletto. Poiché tuttavia, con una simile premessa, la sua mente finiva col girare a vuoto (in quanto le veniva a mancare
l’apporto del mondo sensibile, della realtà concreta), egli lentamente si convinse di non avere alcuna vocazione per la scrittura. Eppure, nonostante
questa sua teoria sulla genesi dell’arte, il protagonista del romanzo aveva
istituito un intenso rapporto con la realtà circostante, visto che si sentiva
fortemente coinvolto dalla vasta gamma di sensazioni che ogni giorno provava, sia che fossero impressioni oppure reminiscenze. Ma queste sensazioni non gli sembravano degne di diventare, diciamo, il perno di un’opera letteraria, in quanto erano generalmente causate da oggetti privi di valore intellettuale (come, ad esempio, la forma di un tetto, il sapore di un dolce, il
riverbero del sole su una pietra, l’odore di un sentiero) e che non avevano
quindi nulla a che vedere con delle verità astratte. Dovranno passare molti
anni prima che l’eroe comprenda che la creazione di un’opera letteraria
(nella fattispecie di un romanzo) era da lui realizzabile se l’oggetto di quell’opera era costituito dall’approfondimento, dal chiarimento senza residui,
con l’ausilio del pensiero astratto, del complesso e oscuro mondo della sua
sensibilità. Le due realtà che aveva tenuto a lungo caparbiamente separate
(il mondo dei sensi, da un lato, quello dei concetti, dall’altro) dovevano insomma venir congiunte nel modo più stretto. Leggiamo infatti nel Temps
retrouvé:
* Le ricerche bibliografiche che hanno reso possibile la stesura del presente lavoro sono
state condotte da Elisa Biancardi, Margherita Botto, Alberto Capatti, Dario Gibelli e dal sottoscritto.
1. M. Proust, À la Recherche du temps perdu. Du côté de chez Swann, édition publiée
sous la direction de J-Y. Tadié, t. I, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», 1987,
pp. 170-177.
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[…] les vérités que l’intelligence saisit directement à claire-voie dans le monde de
la pleine lumière ont quelque chose de moins profond, de moins nécessaire que celles que la vie nous a malgré nous communiquées en une impression, matérielle parce
qu’elle est entrée par nos sens, mais dont nous pouvons dégager l’esprit. En somme
[…], qu’il s’agît d’impressions […] ou de réminiscences […], il fallait tâcher d’interpréter les sensations […] en essayant de penser, c’est-à-dire de faire sortir de la pénombre ce que j’avais senti, de le convertir en un équivalent spirituel. Or, ce moyen
qui me paraissait le seul, qu’était-ce autre chose que faire une œuvre d’art?2
L’eroe della Recherche, ormai in possesso della sua vocazione di scrittore,
ci dice quindi (e l’affermazione era già ricorrente nel Contre Sainte-Beuve)3
che la sensibilità lasciata a se stessa, che l’intelligenza lasciata a se stessa, sono del tutto improduttive, il che significa che nel corso del processo creativo
l’intelligenza deve essere continuamente sorretta, fecondata dalla sensibilità.
Ma ci dice anche, ci dice soprattutto, che lo scrittore deve prendere le mosse
dalla sensibilità, e solo in un secondo tempo fare intervenire l’intelligenza
per decodificarne i più o meno oscuri messaggi. Come ha ben visto G. Deleuze in un fondamentale saggio, per l’eroe della Recherche giunto al termine
del suo itinerario, l’intelligenza «vient après au lieu de venir avant, forcée par
la contrainte du signe»4, vale a dire dell’impressione da decifrare.
L’opera, l’opera narrativa, che l’eroe, dopo aver preso coscienza della sua
vocazione, si accinge a elaborare, non sarà tuttavia unicamente costituita – è
importante sottolinearlo – dalla descrizione e interpretazione del ricco mondo della sua sensibilità, ma conterrà altresì una nutrita serie di osservazioni
intorno alle passioni, ai caratteri, ai costumi, accuratamente raccolte nel corso di un’intera esistenza. Dopo aver notato, nel Temps retrouvé, che le sue
sensazioni più significative sono «trop rares pour que l’oeuvre d’art puisse
être composée seulement avec elles»5, il personaggio che dice je dichiara infatti subito dopo che non mancherà di dar spazio, nel suo romanzo, a «une
foule de vérités relatives aux passions, aux caractères, aux moeurs»6. Appare
pertanto evidente che l’opera che egli ha in animo di realizzare (la quale ha
ovviamente le stesse caratteristiche della Recherche) si muoverà in una duplice direzione: quella della soggettività e quella dell’intersoggettività.
Quali sono le principali implicazioni di una simile concezione della lette-
2. M. Proust, À la Recherche du temps perdu. Le Temps retrouvé, ed. cit., t. IV, 1989, p.
457. Sull’estetica di Proust, si veda il bel lavoro di A. Henry, Marcel Proust. Théories pour une
esthétique, Paris, Klincksieck, 1983.
3. M. Proust, Contre Sainte-Beuve, précédé de Pastiches et Mélanges et suivi de Essais et
articles, édition établie par P. Clarac avec la collaboration d’Y. Sandre, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», 1971. Si vedano in particolare le pp. 213-216.
4. G. Deleuze, Proust et les signes, Paris, Presses Universitaires de France, 19713, p. 163.
Il corsivo è nel testo.
5. M. Proust, À la Recherche du temps perdu. Le Temps retrouvé, ed. cit., p. 477.
6. M. Proust, ibid.
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ratura, o per valerci di una parola che Proust preferisce nettamente usare,
perché più comprensiva, di una simile concezione dell’arte? Va in primo
luogo detto che lo scrittore, proprio nella misura in cui deve, a giudizio di
Proust, prefiggersi come primario obiettivo la rappresentazione e delucidazione delle proprie impressioni, ci fa con ogni evidenza penetrare in un universo squisitamente soggettivo. Per giunta, questo universo soggettivo, afferma Proust, in questo caso seguace di Bergson, solo l’arte è in grado di farcelo conoscere sino in fondo, in quanto il linguaggio della comunicazione quotidiana, contrariamente a quello artistico, è soprattutto costituito da termini
generici, che si adattano a situazioni e a contesti diversi, e si lascia quindi del
tutto sfuggire la specificità di un modo di vedere e di sentire, il suo carattere
irriducibilmente individuale. Come osserva Proust in un importante passo
della Prisonnière, è soltanto grazie all’arte che la differenza qualitativa che
corre tra una visione della realtà e un’altra riesce insomma a giungere a piena espressione:
[…] cet ineffable qui différencie qualitativement ce que chacun a senti et qu’il est
obligé de laisser au seuil des phrases où il ne peut communiquer avec autrui qu’en se
limitant à des points extérieurs communs à tous et sans intérêt, l’art […] le fait apparaître, extériorisant dans les couleurs du spectre la composition intime de ces
mondes que nous appelons les individus, et que sans l’art nous ne connaîtrions jamais […]7.
Ora, se il fine della letteratura, dell’arte, è di consentirci di penetrare in
tanti universi, qualitativamente dissimili l’uno dall’altro, in quanto ognuno
di essi è espressione della soggettività di un particolare artista, non ci stupiremo che il principale bersaglio di una simile concezione estetica sia rappresentato dalla letteratura realista. E con letteratura realista non si deve ovviamente intendere quella illustrata da certi grandi autori dell’Ottocento, bensì
quella che si compiace nella descrizione del mondo esterno, visto come se
esistesse in sé, indipendentemente dalla mente, dalla soggettività che lo intenziona. «[…] la littérature qui se contente de ‘décrire les choses’, d’en
donner seulement un misérable relevé de lignes et de surfaces, est celle qui,
7. M. Proust, À la Recherche du temps perdu. La Prisonnière, ed. cit., t. III, 1988, p. 762.
Quel tema è ripreso nel Temps retrouvé, in cui si può leggere: «Par l’art seulement nous pouvons sortir de nous, savoir ce que voit un autre de cet univers qui n’est pas le même que le
nôtre, et dont les paysages nous seraient restés aussi inconnus que ceux qu’il peut y avoir
dans la lune. Grâce à l’art, au lieu de voir un seul monde, le nôtre, nous le voyons se multiplier, et, autant qu’il y a d’artistes originaux, autant nous avons de mondes à notre disposition, plus différents les uns des autres que ceux qui roulent dans l’infini et, bien des siècles
après qu’est éteint le foyer dont il émanait, qu’il s’appelât Rembrandt ou Ver Meer, nous
envoient encore leur rayon spécial». (M. Proust, À la Recherche du temps perdu. Le Temps
retrouvé, ed. cit., p. 474).
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tout en s’appelant réaliste, est la plus éloignée de la réalité»8, afferma infatti
Proust, per il quale non esiste una realtà oggettiva, ma soltanto una realtà filtrata, e quindi deformata, dalla coscienza, anche se spetta unicamente all’artista, come s’è appena detto, il privilegio di riuscire a farci cogliere la specificità di quella deformazione.
Ma questa concezione dell’arte ha un secondo, rilevante bersaglio, non
meno significativo del primo: la letteratura impegnata, la quale conobbe una
notevolissima fortuna all’epoca in cui si svolse l’«Affaire Dreyfus» e, in seguito, il primo conflitto mondiale. Proust, all’opposto di molti suoi contemporanei, come ad esempio, su opposti versanti, Maurice Barrès e Anatole
France, ritiene invece che lo scrittore non debba per nessuna ragione, per
quanto nobile possa essere, rinunciare alla propria autonomia e farsi quindi
portavoce nella sua opera di una qualsiasi tesi di ordine politico-sociale, e lo
afferma in modo estremamente esplicito e polemico nel Temps retrouvé:
Je sentais que je n’aurais pas à m’embarrasser des diverses théories littéraires qui
m’avaient un moment troublé – notamment celles que la critique avait developpées
au moment de l’affaire Dreyfus et avait reprises pendant la guerre, et qui tendaient
à «faire sortir l’artiste de sa tour d’ivoire», et à traiter des sujets non frivoles, ni sentimentaux, mais peignant de grands mouvements ouvriers, et, à défaut de foules, à
tout le moins non plus d’insignifiants oisifs […], mais de nobles intellectuels, ou
des héros […]. L’art véritable n’a que faire de tant de proclamations et s’accomplit
dans le silence9.
Lo scrittore, agli occhi di Proust, non ha insomma nessun altro compito
da anteporre a quello di analizzare e di decifrare le proprie impressioni. E
vien fatto qui di pensare a un illuminante passo del Temps retrouvé in cui
l’autore della Recherche, dopo aver contrapposto allo Chateaubriand intimista, pittore squisito del suo universo interiore, lo Chateaubriand che descrive gli avvenimenti politici del proprio tempo, non esita a manifestare la sua
netta preferenza per il primo:
[…] un chant d’oiseau dans le parc de Montboissier, ou une brise chargée de l’odeur de réséda, sont évidemment des événements de moindre conséquence que les
plus grandes dates de la Révolution et de l’Empire. Ils ont cependant inspiré à Chateaubriand dans les Mémoires d’outre-tombe des pages d’une valeur infiniment plus
grande10.
Osserveremo infine, per coglier meglio la specificità della poetica prou8. M. Proust, À la Recherche du temps perdu. Le Temps retrouvé, ed. cit., p. 463. Sulle critiche di Proust alla letteratura realista, si veda il lavoro di L. Fraisse, L’esthétique de Marcel
Proust, Paris, SEDES, 1995, pp. 40 e sgg.
9. M. Proust, Op. cit., p. 460.
10. M. Proust, Op. cit., p. 306.
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stiana, che una simile concezione della letteratura va certamente nella direzione di un superamento dell’estetica del simbolismo. Mentre infatti per gli
scrittori simbolisti il mondo della sensibilità deve essere soltanto evocato,
suggerito, vale a dire in ultima analisi lasciato nell’indeterminatezza e nel
«flou», per Proust deve invece essere pensato e investigato, vale a dire chiarito nelle sue più riposte pieghe. E Proust (è importante notarlo) nutriva già
quella convinzione alla fine dell’Ottocento, visto che in un significativo articolo pubblicato sulla «Revue Blanche» nel 1896 e intitolato Contre l’obscurité affermava in evidente polemica con i simbolisti:
[…] Il est trop évident que si les sensations obscures sont plus intéressantes pour
le poète, c’est à condition de les rendre claires. S’il parcourt la nuit, que ce soit comme l’Ange des ténèbres, en y portant la lumière11.
D’altronde, il carattere antisimbolista o postsimbolista dell’opera proustiana è stato ben visto dal principale animatore della «Nouvelle Revue
Française» all’inizio del Novecento, Jacques Rivière, il quale condivideva la
posizione di Proust e scrisse a questo proposito due articoli di grande rilievo
e interesse come Le Roman d’aventure, nel 1913, e Marcel Proust et la tradition classique, nel 1920. Certo, l’articolo del 1913 vide la luce poco prima
che uscisse Du côté de chez Swann, e Proust non vi è citato, ma quando Rivière invita in quelle pagine i romanzieri ad analizzare e a decifrare degli stati d’animo, anziché limitarsi, come facevano appunto i simbolisti, a suggerirli, egli enuncia senza possibile dubbio dei principi che saranno pienamente
realizzati nel romanzo di Proust. Scrive appunto Rivière:
Mais il est temps de revenir au roman. […] En quoi consistera son épanouissement? – En ceci que tous les états, toutes les impressions, tous les moments musicaux y seront résolus en faits, en actes, en paroles. – Les rares oeuvres de forme romanesque que le symbolisme nous a laissées sont pleines de passages tout poétiques,
pareils à la vibration des cloches et au bourdonnement, après qu’elles se sont tues,
de l’air ébranlé. De temps en temps, l’auteur suspend son récit et s’installe dans une
sorte d’émotion, dans un milieu d’ondes et de frémissements; on ne sait plus ce qui
se passe pendant ce temps; ce n’est qu’un bruit à nos oreilles; objets, événements,
sentiments, tout est confondu à nouveau et forme une vague et tournante symphonie; le lecteur se sent placé au coeur d’une foule de choses invisibles dont il ne
perçoit que l’agitation.
Mais c’est ce que nous ne pouvons plus accepter12.
11. M. Proust, Contre l’obscurité, in «La Revue Blanche», 15 luglio 1896, ora in M. Proust, Contre Sainte-Beuve […], ed. cit., p. 393.
12. J. Rivière, Le Roman d’aventure, in «La Nouvelle Revue Française» nn. 53, 54, 55,
maggio-luglio 1913, ora in: J. Rivière, Études. L’oeuvre critique de Jacques Rivière à «La Nouvelle Revue Française» (1909-1924), textes réunis et annotés par A. Rivière, Préface par A.
Tubman-Mary, Paris, Gallimard, 1999, p. 332. Il corsivo è nel testo.
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E l’articolo del 1920 appare come il proseguimento e la conclusione di
quello del 1913. Dopo aver affermato che Proust, per i motivi appena ricordati, è andato oltre il movimento simbolista, Rivière mette infatti in luce che
quel romanziere si inserisce a pieno titolo nel filone della letteratura di analisi, di analisi psicologica, riccamente illustrato oltralpe (nonostante alcuni periodi di stasi, come ad esempio quello rappresentato dal simbolismo) da
un’importante serie di opere:
A la Recherche du temps perdu: ce titre dit tout; il implique une certaine peine, de
l’application, de la méthode, de l’entreprise; il signifie une certaine distance entre
l’auteur et son objet, une distance qu’il aura sans cesse à franchir par la mémoire,
par la réflexion, par l’intelligence; il sous-entend un besoin de connaissance; il annonce une conquête discursive de la réalité poursuivie.
Et en effet, Proust laisse tomber dès l’abord tous les moyens littéraires qui participent le moins du monde de l’enchantement. Il se prive, avec quelque sévérité même, de la musique; on voit qu’il ne veut pas suggérer, mais retrouver. […].
Le grand et modeste cheminement à travers le coeur humain que les classiques
avaient amorcé, recommence. «L’étude des sentiments» fait de nouveaux progrès.
Nos yeux se rouvrent à la vérité intérieure. Notre littérature, un moment suffoquée
par l’ineffable, redevient ouvertement ce qu’elle a toujours été, dans son essence: un
«discours sur les passions»13.
Cose non diverse, è interessante osservarlo, dice Valéry nel breve ma acuto articolo riguardante Proust che pubblicò nell’importante numero della
«Nouvelle Revue Française» dedicato al romanziere poco dopo la sua scomparsa. Valéry vi dichiara infatti che l’autore della Recherche appartiene «sans
conteste à notre tradition la plus admirable»14, tradizione evidentemente costituita dalla letteratura di tipo analitico, nella quale il mondo della sensibilità è scandagliato e rischiarato dall’intelligenza, e le cui fondamentali tappe
(per rimanere in ambito narrativo) vanno dalla Princesse de Clèves a
Adolphe, da Dominique al Grand Meaulnes.
Furono i surrealisti (eredi, per certi versi, del simbolismo) a confrontarsi e
a scontrarsi per primi con una simile concezione della letteratura. Nel volumetto del marzo 1921 della rivista «Littérature» (diretta, a quell’epoca, da
13. J. Rivière, Marcel Proust et la tradition classique, in «La Nouvelle Revue Française», n.
77, 1° febbraio 1920, ora in: J. Rivière, Op. cit., pp. 589-592. Il corsivo è nel testo. Va altresì
notato che Rivière è stato uno dei primi critici ad accostare il nome di Proust a quello di Freud
e a sottolineare che l’autore della Recherche ha spesso messo in luce, nelle sue analisi psicologiche, le cause involontarie delle nostre determinazioni. Si veda a questo proposito: J. Rivière,
Quelques progrès dans l’étude du coeur humain (Freud et Proust), [Paris, Librairie de France,
Les Cahiers d’Occident, n. 4, 1926], ora in: J. Rivière, Quelques progrès dans l’étude du coeur
humain, «Cahiers Marcel Proust», n. 13, textes établis et présentés par T. Laget, Paris, Gallimard, 1985, pp. 86-189.
14. P. Valéry, Hommage, in «La Nouvelle Revue Française», Hommage à Marcel Proust.
1871-1922, n. 112, 1° gennaio 1923, p. 122, ripreso in Variété, Paris, Gallimard, 1924, p. 175.
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Aragon, Breton e Soupault) venne dato, in termini numerici, una negativa
valutazione dell’opera di Proust, o meglio di quanto era stato pubblicato sino a quel momento della Recherche: poiché secondo la scala di valori stabilita dal gruppo di «Littérature», meno venticinque corrispondeva alla massima avversione, venti al massimo consenso e zero all’indifferenza assoluta,
Proust finì infatti coll’ottenere zero, se si faceva la media dei voti che gli avevano assegnato, oltre ai condirettori della rivista, scrittori come, ad esempio,
Eluard, Péret, Ribemont-Dessaignes, Rigaut e Tzara15. La motivazione di
questo poco lusinghiero giudizio è fornita, a dir vero di sfuggita, nel primo
Manifeste du surréalisme, in cui Breton muove due critiche (due critiche di
peso) all’autore della Recherche: aver voluto rischiarare sino in fondo l’oscuro mondo della sua sensibilità, mobilitando tutte le energie del pensiero vigile, dell’intelletto; aver cercato di penetrare sin nell’ultimo recesso dell’animo
dei suoi personaggi, conducendo minuziose e articolate analisi. Due critiche
che in sostanza si riducono a una. Proust prende infatti sempre le mosse dall’oscurità che si annida in lui, oppure dall’opacità che spesso caratterizza gli
altri, e lentamente le supera e quindi le annulla attraverso l’analisi. È quello
che accade nella Recherche allorché l’eroe si interroga sul significato di alcune sue sensazioni (come, ad esempio, quelle che finiscono col suscitare reminiscenze), oppure sull’enigmatico, sconcertante comportamento di alcuni dei
suoi personaggi (come, ad esempio, Charlus e Albertine). Ma si tratta di un
percorso, di un itinerario, che è ovviamente agli antipodi rispetto a quello
auspicato dai surrealisti, i quali vogliono invece, grazie alla scrittura automatica, grazie ai prodotti dei sonni ipnotici, grazie alle trascrizioni di sogni,
sfuggire radicalmente al pensiero sorvegliato, nella misura in cui un tale pensiero porta inevitabilmente la luce là dove vi è l’oscurità, e trasforma quindi
lo sconosciuto in conosciuto, l’ignoto in noto. L’obiettivo dell’avanguardia
surrealista è insomma di lasciare all’ignoto tutto il suo spazio, facendo tacere
il pensiero sorvegliato, mentre per Proust l’ignoto è solo un punto di partenza, mai un punto di arrivo, un approdo. Questo ci sembra il senso delle
stringate considerazioni intorno a Proust fatte da Breton nel suo Manifeste
del 1924, considerazioni che si riducono alle due seguenti frasi in nota alle
quali è posto il nome dell’autore della Recherche: «L’intraitable manie qui
consiste à ramener l’inconnu au connu, au classable, berce les cerveaux. Le
désir d’analyse l’emporte sur les sentiments»16.
Giunti a questo punto ci pare utile prendere in considerazione le osservazioni condotte intorno a Proust da un pensatore rigidamente razionalista
(agli antipodi, quindi, del simbolismo e del surrealismo) come Julien Benda,
il quale, pur essendosi prevalentemente occupato di filosofia della politica,
15. «Littérature» n. 18, marzo 1921, pp. 1-7.
16. A. Breton, Manifeste du surréalisme [1924], in: A. Breton, Œuvres complètes, édition
établie par M. Bonnet avec, pour ce volume, la collaboration de Ph. Bernier, E.-A. Hubert et
J. Pierre, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», t. I, 1988, p. 315.
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ha affrontato altresì questioni di teoria della letteratura in due stimolanti
saggi come Belphégor. Essai sur l’esthétique de la présente société française,
del 1918, e La France Byzantine ou le triomphe de la littérature pure, del
1945. Questo pensatore di stampo illuministico vede, come è noto, assai negativamente gran parte della letteratura, in quanto gli pare un’attività dello
spirito non tanto rivolta a esprimere verità impersonali e oggettive, bensì
piuttosto stati d’animo, emozioni, punti di vista individuali. E un simile antiintellettualismo, a suo giudizio, ha subìto una notevole accentuazione alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, grazie appunto a movimenti
come il simbolismo e il surrealismo, che hanno pesantemente rimosso le idee
«chiare e distinte» di cartesiana memoria. Certo, Benda è del tutto consapevole del fatto che esiste anche, che è sempre esistita, una letteratura di tipo
intellettualistico, vale a dire una letteratura che ha per oggetto verità di ordine generale, ma egli è fermamente convinto che un simile tipo di scrittura
appartenga, in ultima analisi, più all’ambito saggistico o trattatistico che a
quello specificamente letterario. Scrive infatti nella France Byzantine:
Quant à l’humanité qui se plaît à des oeuvres littéraires vraiment intellectuelles
comme celles de Thucydide, de Xénophon, de Démosthène, de Varron, de Quintilien, de La Boétie, de Montesquieu, de Rousseau (dans Le Contrat social), de Michelet, de Taine, de Renan, on peut se demander si cette humanité, en ce mouvement,
est vraiment sensible à la littérature; si elle n’est pas en vérité intéressée par l’histoire, par la politique, par l’économie domestique, par l’érudition, par la rhétorique,
par l’étude des constitutions, par la psychologie, par les questions religieuses. […].
De même peut-on se demander s’ils sont vraiment épris de littérature, mais non
plutôt de vérité, ceux qui, parmi les ouvrages littéraires, s’attachent surtout à la
comédie, à la satire, au moralisme, au drame social, au roman d’analyse et autres
genres qui instruisent17.
Comunque sia, il fatto di aver ravvisato due diversi filoni, due ben distinte tradizioni (quella intellettualistica e quella anti-intellettualistica) nell’ambito della letteratura, consente a Benda di condurre un’interessante anche se
discutibile disamina della Recherche, vale a dire di affermare che nel capolavoro proustiano confluiscono le due tradizioni cui abbiamo appena accennato. Vi sarebbe così, da un lato, un Proust attento osservatore di ambienti,
di costumi, di mentalità, di comportamenti, e che da queste sue osservazioni
trae sempre princìpi di carattere generale, un Proust intellettualista insomma, al quale va ovviamente tutta la simpatia di Benda. Ma vi sarebbe altresì
un Proust che si muove nell’universo irriducibilmente soggettivo delle sue
sensazioni, un Proust intimista e anti-intellettualista, quindi, e per il quale
Benda manifesta un’avversione notevole. Dice appunto Benda, sempre nella
France Byzantine:
17. J. Benda, La France byzantine ou le triomphe de la littérature pure, Paris, Gallimard,
1945, pp. 175-176.
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L’œuvre de Proust comprend deux parties fort distinctes, que ses admirateurs me
semblent constamment confondre: une partie d’observation – des moeurs, des sentiments, de certains mécanismes psychologiques – partie quasi scientifique […], et
par laquelle Proust relève, avec une subtilité spéciale, de la conception traditionnelle
du roman français, voire du moralisme français, depuis Mme de Lafayette jusqu’à
Stendhal en passant par La Bruyère et Chamfort; puis une partie […] par laquelle il
se sépare radicalement de la tradition française, et ressortit en droiture au romantisme allemand. On peut assurer que le grand public goûte l’oeuvre pour la première
partie, surtout pour l’observation des moeurs, et se moque totalement (sauf par snobisme) de la seconde. Au contraire, c’est principalement pour la seconde que l’embrassent les littérateurs18.
Senonché l’anti-intellettualismo che Benda ravvisa in Proust è soltanto,
nella Recherche, un punto di partenza. Proust, come s’è già detto, prende sì
le mosse dalle sue sensazioni e dalle sue emozioni, ma non si abbandona mai
passivamente ad esse, giacché il suo intento è quello di pensarle e di analizzarle sino in fondo. Contrariamente a quanto sostiene Benda (il cui rigido
razionalismo si lascia sfuggire la peculiarità dell’intellettualismo proustiano),
vi è in ultima analisi un solo Proust, come, d’altronde, hanno rilevato con
acutezza estrema i surrealisti: quello che fa leva sul pensiero analitico.
A Julien Benda va comunque riconosciuto il merito di essere stato fra i
primi a sottolineare che non vi è soltanto un Proust intimista, cultore della
propria soggettività, ma altresì un Proust attento, anzi attentissimo, alla dimensione intersoggettiva, sociale: il Proust creatore, cioè, di una lunga serie
di inconfondibili personaggi e che rappresenta per giunta con grande efficacia i vari comportamenti assunti all’interno di due ceti della società francese
(la borghesia media e alta nonché l’aristocrazia) in momenti di grave crisi
come quelli in cui si svolse l’«Affaire» Dreyfus e il primo conflitto mondiale.
Ma bisogna subito rilevare che non sono tanto i personaggi in sé, oppure gli
avvenimenti storici in sé, ad interessare l’autore della Recherche, quanto
piuttosto le verità di ordine generale che egli riesce a mettere in luce grazie
alla caratterizzazione di quei personaggi e alla descrizione di quegli avvenimenti. Così, ad esempio, dopo aver dedicato molte pagine del suo romanzo
ad analizzare le profonde lacerazioni causate nella società francese dall’«Affaire» Dreyfus, lacerazioni che parevano, a quell’epoca, veramente insanabili, egli osserva, in un significativo passo del Temps retrouvé, che dei termini
come «dreyfusard» e «antidreyfusard» erano diventati del tutto obsoleti durante la prima guerra mondiale, e conclude sottolineando che un cambiamento così radicale di mentalità avrebbe dovuto agevolare (anche se, purtroppo, non accadde) una presa di coscienza del carattere effimero, transeunte, delle varie ideologie socio-politiche che si erano e si sarebbero succedute nel corso della storia:
18. J. Benda, op. cit., p. 205. Il corsivo è nel testo.
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Les mots de dreyfusard et d’antidreyfusard n’avaient plus de sens, disaient les
mêmes gens qui eussent été stupéfaits et révoltés si on leur avait dit que probablement dans quelques siècles, et peut-être moins, celui de boche n’aurait plus que la
valeur de curiosité des mots sans-culotte ou chouan ou bleu19.
Questa costante ricerca, da parte del romanziere, di verità di ordine generale, di ordine metastorico, sia in ambito psicologico sia in ambito sociale,
rappresenta un’ulteriore spiegazione (rispetto a quella precedentemente fornita) del suo totale rifiuto della letteratura impegnata, a suo giudizio destinata a rimanere prigioniera dell’effimero. Ed è interessante notare che vi è, a
questo proposito, una consonanza di idee tra Proust e Gide, il quale nel
Journal del 19 gennaio 1948, afferma di aver sempre accuratamente evitato,
nelle sue opere letterarie, come l’autore della Recherche, di lasciarsi per così
dire catturare e imbrigliare dall’attualità:
[…] Proust […] et moi-même, si différents que nous fussions l’un de l’autre, si
je cherche par quoi l’on nous reconnaîtra pourtant du même âge, et j’allais dire: de
la même équipe, je crois que c’est le grand mépris où nous tenions l’actualité. Et
c’est en quoi se marquait en nous l’influence plus ou moins secrète de Mallarmé.
Oui, même Proust dans sa peinture de ce que nous appelions «les contingences»
[…] [avait] le sentiment très net que l’art opère dans l’éternel et s’avilit en cherchant à servir, fût-ce les plus nobles causes20.
Non ci stupiremo quindi se una delle critiche ricorrenti rivolte a Proust
(nel lungo periodo che si stende dal primo conflitto mondiale sino al termine della guerra fredda) riguarda la sua polemica contro la letteratura impegnata. E ci par difficile, a questo proposito, immaginare un punto di vista
più antiproustiano di quello espresso da Sartre nella sua presentazione, del
1945, della rivista «Les Temps Modernes», in cui afferma con forza che gli
scrittori perdono indubbiamente una grande occasione se rinunciano a
prendere posizione in modo esplicito, nelle loro opere, nei riguardi dei cruciali avvenimenti socio-politici del loro tempo:
Puisque l’écrivain n’a aucun moyen de s’évader – scrive Sartre –, nous voulons
qu’il embrasse étroitement son époque; elle est sa chance unique: elle s’est faite
pour lui et il est fait pour elle. On regrette l’indifférence de Balzac devant les
journées de 48, l’incompréhension apeurée de Flaubert en face de la Commune; on
le regrette pour eux: il y a là quelque chose qu’ils ont manqué pour toujours. Nous
ne voulons rien manquer de notre temps: peut-être en est-il de plus beaux, mais c’est le nôtre; nous n’avons que cette vie à vivre, au milieu de cette guerre, de cette révolution peut-être21.
19. M. Proust, À la Recherche du temps perdu. Le Temps retrouvé, ed. cit., p. 306.
20. A. Gide, Journal 1926-1950, édition établie, présentée et annotée par M. Sagaert, t. II,
Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», 1997, p. 1057.
21. J.-P. Sartre, Présentation des Temps Modernes, ora in: J.-P. Sartre, Situations II, Paris,
Gallimard, 1948, pp. 12-13. I corsivi sono nel testo.
237
Per giunta Sartre, sempre nel saggio appena ricordato, muove una critica
specifica all’autore della Recherche, accusandolo di manifestare una sostanziale indifferenza nei riguardi della storia, il che, tra l’altro, non stupisce più
di tanto da parte di uno scrittore come Proust che ha vivamente combattuto
la letteratura impegnata22. A giudizio di Sartre, infatti, Proust crede nell’esistenza di una «natura umana», le cui caratteristiche essenziali non subirebbero rilevantissime variazioni con il mutar delle epoche, delle aree geografiche, delle condizioni sociali, ed è una simile credenza che lo porta a condurre delle analisi psicologiche per così dire destoricizzate, come dimostra assai
bene – sempre a parere di Sartre – la sua rappresentazione della passione
d’amore. Proust, nel primo tomo della Recherche, non ci presenta forse come un prototipo dell’amore-passione il sentimento che un ricco, colto e
ozioso borghese di fine Ottocento come Charles Swann nutre per una «cocotte» come Odette de Crécy? Così facendo, egli dimentica tuttavia, per valerci di una parola dalla connotazione tipicamente sartriana, che ogni uomo
è «situato» e che i suoi sentimenti, le sue passioni, non possono non rispecchiare questa «situazione». Osserva appunto Sartre:
Nous ne croyons plus à la psychologie […] de Proust, et nous la tenons pour
néfaste. […] Nous nions que l’origine, la classe, le milieu, la nation de l’individu
soient de simples concomitants de sa vie sentimentale. Nous estimons au contraire
que chaque affection, comme d’ailleurs toute autre forme de sa vie psychique, manifeste sa situation sociale. Cet ouvrier, qui touche un salaire, qui ne possède pas les instruments de son métier, que son travail isole en face de la matière et qui se défend
contre l’oppression en prenant conscience de sa classe, ne saurait en aucune circonstance sentir comme ce bourgeois […], que sa profession met en relation de politesse avec d’autres bourgeois23.
Ma la letteratura impegnata, dopo avere esercitato, come si diceva, una
lunga egemonia, incominciò a mostrare la corda verso la fine degli anni Cinquanta del Novecento. Con il cosiddetto «nouveau roman» (illustrato da romanzieri profondamente diversi fra di loro come N. Sarraute, C. Simon, A.
Robbe-Grillet e M. Butor, ma tuttavia accomunati dal fatto di condividere,
come fra poco vederemo, determinati princìpi) riprese infatti quota la teoria
dell’autonomia della letteratura. E fra i numerosi scritti teorici elaborati da
quei romanzieri in difesa dell’arte per l’arte, ci pare che uno dei più significativi sia dovuto a Robbe-Grillet, il quale, nella sua raccolta di saggi intitolata Pour un nouveau roman, riprende, radicalizzandole, certe idee espresse da
22. G. Bataille ha giustamente osservato che Proust, convinto «dreyfusard», nel rappresentare l’«Affaire» Dreyfus in Jean Santeuil ha dato prova di una «naïveté agressive» di cui
non è rimasta traccia nella rappresentazione dell’ «Affaire» contenuta nella Recherche (G. Bataille, Proust, in La littérature et le mal [1957], in: G. Bataille, Oeuvres complètes t. IX, Paris,
Gallimard. 1979, p. 260).
23. J.-P. Sartre, op. cit., pp. 20-22. Il corsivo è nel testo.
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Proust nel Temps retrouvé:
[…] L’art – osserva Robbe-Grillet – ne peut être réduit à l’état de moyen au service d’une cause qui le dépasserait, celle-ci fût-elle la plus juste, la plus exaltante;
l’artiste ne met rien au-dessus de son travail, et il s’aperçoit vite qu’il ne peut créer
que pour rien; la moindre directive extérieure le paralyse, le moindre souci de didactisme, ou seulement de signification, lui est une insupportable gêne; quel que soit
son attachement au parti ou aux idées généreuses, l’instant de la création ne peut
que le ramener aux seuls problèmes de son art24.
A Proust i «nouveaux romanciers» riconoscono inoltre due importanti
meriti: aver contribuito a fare entrare in crisi non solo il personaggio di tipo
tradizionale, ma altresì la «fabula» di tipo tradizionale, prefigurando in tal
modo, almeno entro certi limiti, le loro opere, non più imperniate (come lo
erano invece, per limitarci a un significativo esempio, i romanzi di Balzac)
sulla rappresentazione di caratteri ben definiti e sulla narrazione di complesse e articolate vicende25. Non v’è dubbio, ad esempio, che Proust attui una
sorta di decostruzione, di dissoluzione del personaggio allorché afferma che
l’io di ognuno di noi è privo di qualsiasi omogeneità, in quanto è in realtà
costituito da una molteplicità di io profondamente diversi, i quali si succedono nel tempo, e sono separati gli uni dagli altri da zone di oblio. La mutazione, la mutazione a volte radicale dei personaggi (e, in particolare, di quello che dice je) è infatti uno dei temi ricorrenti della Recherche26. Nello stesso
modo, è indubbio che nel romanzo proustiano gli accadimenti esterni, riassumibili in pochissime parole, abbiano una notevole esilità, mentre grande
rilievo assume invece l’odissea spirituale del suo protagonista, come è stato
finemente messo in luce, ancora una volta, da Robbe-Grillet:
[…] il suffit de lire les grands romans du début de notre siècle pour constater
que, si la désagrégation de l’intrigue n’a fait que se préciser au cours des dernières
années, elle avait déjà cessé depuis longtemps de constituer l’armature du récit. Les
24. A. Robbe-Grillet, Pour un nouveau roman, Paris, Les Éditions de Minuit, 1963, p. 35.
Il corsivo è nel testo.
25. Cfr. Ibid., pp. 26-32.
26. S. Beckett, nel suo interessante libro su Proust del 1931, uno dei primi ad essere stato
elaborato sulla Recherche, ha insistito molto sulla grande importanza data dall’autore di quel
romanzo ai cambiamenti subiti dai suoi personaggi, e questa insistenza non stupisce da parte
di uno scrittore che farà della dissoluzione dell’io uno dei suoi temi prediletti. (Cfr. S. Beckett,
Proust [1931], traduit de l’anglais et présenté par E. Fournier, Paris, Les Éditions de Minuit,
1990, pp. 21-26). Anche J. Gracq nei suoi Carnets du grand chemin, del 1992, ha sottolineato il
notevole rilievo che assume quel tema nella Recherche, osservando: «Les mutations continuelles des êtres au long des années […] me paraissent – en reprenant de bout en bout comme je
l’ai fait la lecture du Temps perdu – le véritable et presque obsédant sujet du livre». (J. Gracq,
Carnets du grand chemin, in: J. Gracq, Œuvres complètes, édition établie par B. Boie, avec
pour ce volume, la collaboration de C. Dourguin, t. II, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la
Pléiade», 1995, p. 1089).
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exigences de l’anecdote sont sans aucun doute moins contraignantes pour Proust que
pour Flaubert, pour Faulkner que pour Proust, pour Beckett que pour Faulkner27.
Ma le affinità che abbiamo appena messo in luce non possono certo nascondere le numerose e importanti differenze che corrono tra i «nouveaux
romanciers» e l’autore della Recherche, differenze che riguardano proprio il
modo di intendere la funzione della letteratura. N. Sarraute, ad esempio, dopo aver sottolineato, nella sua raccolta di saggi intitolata L’Ère du soupçon, il
considerevole e positivo ruolo svolto da Proust nel decostruire il personaggio e la «fabula» di tipo ottocentesco, osserva tuttavia di aver inteso fare una
cosa assai diversa rispetto a Proust: esplorare, senza però portarvi la luce,
come avrebbe invece fatto l’autore del Temps perdu, la dimensione sotterranea delle relazioni interpersonali, da lei suggestivamente definita come mondo della «sous-conversation», vale a dire del pre-dialogo. La Sarraute, infatti, a partire da Tropismes, la cui prima edizione risale al 1939, sino a Ici, che
è del 1995, ha sempre voluto descrivere degli stati psichici nel preciso momento in cui si formano nel profondo della coscienza sotto la spinta di determinati stimoli, e danno vita a parole e a frasi embrionali rivolte agli altri
che recano ancora la fresca traccia dell’oscurità, della «notte» dalla quale sono appena uscite e sono quindi suscettibili di molteplici, divergenti interpretazioni. Non vi è certamente nulla di simile nell’opera di Proust. Non appena il discorso di un personaggio della Recherche presenta infatti una qualche
polisemia, o si configura addirittura come un vero e proprio crittogramma,
come accade spesso, ad esempio, nel caso dei discorsi di Charlus, subito il
narratore interviene per fornire circostanziate informazioni sulla mimica di
chi parla, sull’espressione dei suoi sguardi, sull’intonazione e sull’inflessione
della sua voce, consentendo in tal modo di pervenire senza eccessive difficoltà a un’esatta decriptazione dell’ambiguo messaggio. Leggiamo appunto
nell’Ère du soupçon:
Pour ce qui est, en particulier, du dialogue, Proust […] dont il n’est pas exagéré
de dire qu’il a plus qu’aucun autre romancier excellé dans les descriptions très minutieuses, précises, subtiles, au plus haut degré évocatrices, des jeux de physionomie, des regards, des moindres intonations et inflexions de voix de ses personnages,
renseignant le lecteur, presque aussi bien que pourrait le faire le jeu des acteurs, sur
la signification secrète de leurs paroles, Proust […] n’abandonne que rarement le
dialogue à la libre interprétation des lecteurs. Il ne le fait que lorsque le sens apparent de leurs paroles recouvre exactement leur sens caché. Qu’il y ait entre la con-
27. A. Robbe-Grillet, Pour un nouveau roman, ed. cit., p. 31. A. Robbe-Grillet, nell’interessante intervista che ha rilasciato a J.-J. Brochier, ha fatto inoltre osservare che vi è un’indubbia affinità tra una sua opera come Le Miroir qui revient, del 1985, e il Contre Sainte-Beuve di
Proust, in quanto: «Contre Sainte-Beuve mélange, comme Le Miroir qui revient, la théorie de la
littérature, l’autobiographie et la fiction, puique l’histoire des Guermantes y est déjà». (Cfr. J.J. Brochier, Alain Robbe-Grillet. Qui suis-je?, Paris, La Manufacture, 1985, p. 146).
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versation et la sous-conversation le plus léger décalage, qu’elles ne se recouvrent pas
tout à fait, et aussitôt il intervient, tantôt avant que le personnage parle, tantôt dès
qu’il a parlé, pour montrer tout ce qu’il voit, expliquer tout ce qu’il sait, et il ne laisse au lecteur d’autre incertitude que celle qu’il est forcé d’avoir lui-même, malgré
tous ses efforts, sa situation privilégiée, les puissants instruments d’investigation
qu’il a créés […].
Mais en faisant appel à l’attention volontaire du lecteur, à sa mémoire, en s’adressant sans cesse à ses facultés de compréhension et de raisonnement, cette
méthode renonce du même coup à […] cette part de liberté, d’inexprimable, de
mystère, [à] ce contact direct et purement sensible avec les choses, qui doivent faire
se déployer les forces instinctives du lecteur, les ressources de son inconscient et ses
pouvoirs de divination28.
La critica che la Sarraute muove all’autore della Recherche – ci pare interessante notarlo – non è insomma molto dissimile da quella che Breton gli
aveva rivolto all’inizio del Novecento nel primo Manifeste del surrealismo:
aver voluto ridurre, grazie all’analisi, lo sconosciuto al conosciuto, l’ignoto al
noto, obliterando in tal modo l’opacità e i risvolti misteriosi del nostro universo interiore.
Del tutto diversa, ma certamente non meno antiproustiana, è la prospettiva che ci offre A. Robbe-Grillet nei suoi primi lavori narrativi come, ad
esempio, Les Gommes, Le Voyeur e La Jalousie. Uno dei principali obiettivi
che il romanziere si prefigge infatti di raggiungere in quelle opere è di mettere in luce la distanza, lo iato incolmabile, che a suo giudizio separa il mondo
della coscienza dal mondo delle cose, e per farlo egli si vale con sapienza di
una scrittura per così dire «bianca», assolutamente priva cioè di immagini,
giacché una figura retorica come la metafora – sottolinea lo scrittore in Pour
un nouveau roman – finisce sempre con l’instaurare una connivenza, una comunicazione tra l’io e la realtà circostante:
La méthaphore […] n’est jamais une figure innocente. Dire que le temps est «capricieux» ou la montagne «majestueuse», parler du «coeur» de la forêt, d’un soleil
impitoyable, d’un village «blotti» au creux du vallon, c’est, dans une certaine mesure, fournir des indications sur les choses elles-mêmes: forme, dimensions, situations,
etc. Mais le choix d’un vocabulaire analogique, pourtant simple, fait déjà autre chose que rendre compte de données physiques pures, et ce qui se trouve en plus ne
peut guère être porté au seul crédit des belles-lettres. La hauteur de la montagne
prend, qu’on le veuille ou non, une valeur morale; la chaleur du soleil devient le résultat d’une volonté… Dans la quasi-totalité de notre littérature contemporaine, ces
analogies anthropomorphistes se répètent avec trop d’insistance, trop de cohérence,
pour ne pas révéler tout un système métaphysique.
Plus ou moins consciemment, il ne peut s’agir, pour les écrivains qui usent d’une
28. N. Sarraute, L’Ère du soupçon [1956], in: N. Sarraute, Œuvres complètes, édition publiée sous la direction de J-Y. Tadié, avec la collaboration de V. Forrester, A. Jefferson, V. Minogue et A. Rykner, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», 1996, pp. 1602-1603.
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semblable terminologie, que d’établir un rapport constant entre l’univers et l’être
qui l’habite. Ainsi les sentiments de l’homme sembleront tour à tour naître de ses
contacts avec le monde et trouver en celui-ci leur correspondance naturelle, si ce
n’est leur épanouissement29.
Affermazioni di quel tenore ci portano, non v’è dubbio, lontanissimo da
Proust. Nella Recherche il personaggio che dice je non scopre forse la sua
vocazione di scrittore nel preciso momento in cui comprende che l’arte, la
letteratura, gli consentirà di superare l’alterità, l’opacità delle sue sensazioni, trasformandole in immagini, vale a dire in altrettante cose mentali? È
questo, in ultima analisi, il significato del famoso episodio di Du côté de
chez Swann riguardante i due campanili di Martinville e quello di Vieuxvicq: il segreto che essi sembrano celare è in realtà semplicemente costituito
dalla loro alterità rispetto alla coscienza, alterità che viene del tutto cancellata allorché il narratore li descrive mentre sta calando la sera, assomigliandoli «aux trois jeunes filles d’une légende, abandonnées dans une solitude
où tombait déjà l’obscurité»30.
Jacqueline Risset, in un articolo breve ma acuto, ha giustamente osservato
che la concezione proustiana della letteratura ha avuto scarsissima fortuna
nel Novecento francese, per cui non le è parso eccessivo affermare che per
molti scrittori d’oltralpe di quel secolo l’autore del Temps perdu si configura
senza possibile dubbio come una sorta di antimodello:
Proust – nota infatti J. Risset – è stato, certo, riconosciuto assai presto «grande
scrittore». Ma rimane senza discepoli. Nessun autore contemporaneo lo reclama come modello o maestro; nessuno lo rivendica come il suo Bergotte. I critici esaltano la
sua «modernità», l’arditezza della Recherche […] Ma gli scrittori rimangono stranamente silenziosi, o, quando parlano, appaiono stranamente ambigui31.
Forse, una delle principali ragioni di quella disaffezione (di cui abbiamo
passato rapidamente in rassegna le più significative tappe) è dovuta al fatto
che Proust ha coniugato nella sua opera due dimensioni radicalmente eterogenee, quella opaca e «involuta» della sensibilità e quella luminosa e trasparente dell’intelligenza, e ha affidato alla seconda il compito di scandagliare e
di rischiarare la prima32. Così facendo, egli si è rivelato tuttavia sostanzial29. A. Robbe-Grillet, Pour un nouveau roman, ed. cit., pp. 48-49.
30. M. Proust, À la Recherche du temps perdu. Du côté de chez Swann, ed. cit., p. 179.
31. J. Risset, Proust e la letteratura francese contemporanea, o l’antimodello, in: J. Risset,
L’invenzione e il modello. L’orizzonte della scrittura dal Petrarchismo all’avanguardia, Roma,
Bulzoni, 1972, p. 190.
32. L’importanza assunta dall’analisi nell’opera di Proust è stata sottolineata anche da Ph.
Sollers, il quale scrive: «Le premier [Proust], il trace consciemment, […] avec une lucidité et
un courage absolus […], les voies d’une investigation combinatoire qui ne fait peut-être que
commencer». («Le Figaro Littéraire», 21 novembre 1963, p. 7).
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mente estraneo all’universo di discorso di numerosi e importanti scrittori
francesi del primo e del secondo Novecento (come, ad esempio, i tardo-simbolisti, i surrealisti e alcuni «nouveaux romanciers»), i quali hanno invece visto nella letteratura uno strumento che consente di far emergere quanto di
irriducibilmente oscuro vi è nell’io e nel suo rapporto con il mondo.
Giorgetto Giorgi

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