Sodome et Gomorrhe

Transcription

Sodome et Gomorrhe
Marcel Proust
Sodome et Gomorrhe
Sodoma e Gomorra
Il cappotto di Marcel Proust, conservato ma non esposto al
Musée Carnavalet di Parigi. Per gentile concessione della
Direzione del Museo. Fotografia di Roberto Maggiani.
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eBook n. 151
Pubblicato da LaRecherche.it
[ Romanzo in lingua francese ]
Traduzione dell’incipit in italiano a cura di
Alessandra Ponticelli Conti
Introduzione a cura di
Valentina Corbani
Proposto nel centenario della pubblicazione di
Du côté de chez Swann, Grasset, 1913
§
Leggi anche, su www.ebook-larecherche.it:
Du côté de chez Swann, [ eBook n. 144 ]
À l’ombre des jeunes filles en fleurs, [ eBook n. 146 ]
Le Côté de Guermantes, [ eBook n. 149 ]
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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SOMMARIO
INTRODUZIONE
di Valentina Corbani
Incipit di SODOME ET GOMORRHE
traduzione di Alessandra Ponticelli Conti
SODOME ET GOMORRHE
Première partie
Deuxième partie
Chapitre premier
Chapitre deuxième
Chapitre troisième
Chapitre quatrième
L’AUTORE
INDICE
COLLANA LIBRI LIBERI [ eBook ]
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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INTRODUZIONE
di Valentina Corbani
“Per me si va nella città dolente, per me si va nell’eterno dolore, per me
si va tra la perduta gente”
[Dante, C. Inferno, Canto III, p. 56]
Casto poeta che l’Italia adora,
vegliardo in sante visioni assorto,
tu puoi morir! … Degli Antecristi è l’ora!
Cristo è rimorto!
O nemico lettor, canto la Noia,
l’eredità del dubbio e dell’ignoto,
il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boia,
il tuo cielo, e il tuo loto!
Canto litane di martire e d’empio;
canto gli amori dei sette peccati
che mi stanno nel cor, come in un tempio,
inginocchiati.
Canto l’ebbrezze dei bagni d’azzurro,
e l’Ideale che annega nel fango…
Non irreder, fratello, al mio sussurro,
se qualche volta piango:
giacché più del mio pallido demone,
odio il minio e la maschera al pensiero,
giacché canto una misera canzone,
ma canto il vero!
[E. Praga, Preludio, Mondadori, Milano 1987, pp. 44-45]
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Sodoma e Gomorra apre realmente la Recherche. Se c’è un tema
verso cui tende tutta l’opera, prima e dopo il libro di Sodoma e
Gomorra, questo è presentato realmente, francamente,
schiettamente in questo libro: centrale nell’intera costruzione
proustiana.
C’è una tensione interna che si sente palpabile convergere
in SG e, da lì, sfociare appieno. Quell’Io di cui Proust scrisse:
“Leggerete in questo romanzo qualcuno che dice “Io”
[Proust, Alla ricerca del tempo perduto, p. 34], lì lo si incontra
davvero. Ed è quello stesso “Io” che, però, non può mai
esser pronunciato, perché “si può parlare di tutto”, aveva
saggiamente detto André Gide, “a patto di non dire “Io”
[Gide, Lettere, p.88]. E allora quell’Io che non si pronuncia,
ma c’è, prende tutta la sua forza e il suo vigore proprio in
questa parte centrale e importantissima dell’intera Recherche
proustiana. E lo fa in modo talmente visibile e palese che
alcuni critici hanno potuto senz’altro affermare che “Sodoma
e Gomorra” è la presa di coscienza del proprio destino di
uomo da parte di Proust” [G. Marchi, Introduzione a Sodoma e
Gomorra, p. 1197 in M. Proust Alla ricerca del tempo perduto,
Newton Compton Ed. Roma 2009]. Da parte nostra
possiamo aggiungere che questo destino – di uomo e di
scrittore – si manifesta pienamente e completamente, in un
modo che talvolta destabilizza. Tutte le cose fondamentali –
nella vita così come nell’opera – si palesano a Proust in
modo così schietto da non poter essere ignorate. Per questo
sia Proust che Marcel nell’opera non possono scappare al
loro destino: Marcel non potrebbe essere null’altro che uno
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scrittore, alla fine, anche se dura tempo e fatica e impiega
quasi tremila pagine per rendersene pienamente conto. Qui,
invece, siamo noi a doverci rendere conto di diverse cose
che vengono spiegate apertamente, una dopo l’altra, in
Sodoma e Gomorra.
Innanzitutto il libro si apre con la dichiarazione – per
quanto velata – dell’omosessualità di Charlus. E
omosessualità e sadismo occuperanno gran parte del volume.
Sodoma e Gomorra è, infatti, il libro in cui maggiormente
questo fatto dell’omosessualità è messo in luce. Ad apertura
del libro, il pezzo famoso delle leggi di fecondazione dei fiori
dichiara – anche se non apertamente – l’omosessualità di
Charlus. È un pezzo di un elevato lirismo e, in parte,
risponde a quel saggio suggerimento di Gide (parlare di tutto
senza dire “Io”): Marcel nella Recherche, lo vediamo per la
prima volta in questo atteggiamento e poi molte altre volte
all’interno del volume, è semplice spettatore: vede tutto
senza essere mai visto. Proust, che come giustamente
sostiene Mario Lavagetto, “è assolutamente convinto che
l’omosessualità vada rappresentata” [intervista dell’Ottobre
2012], mette in scena tutto un sofisticato sistema di
rappresentazione per poterne parlare. L’abbiamo detto: crea
un personaggio, Marcel, che è rigorosamente eterosessuale, e
che agisce – nel caso di Charlus e Jupien come in molti altri
casi – in uno “spazio neutro” (Proust parla addirittura di
“proprietà di essere invisibili” [Ricerca, p. 1208]), dove riesce
a vedere tutto tenendosi distaccato da tutto e senza mai esser
visto. “Cercai di guardarla senza farmi vedere” [M. Proust,
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Ricerca, p.1349]: in questo caso è innocentemente attribuito
alla principessa di Parma, ma in generale, in tutta la Recherche
e soprattutto in Sodoma e Gomorra, è un continuo “gioco” in
cui Marcel guarda senza essere visto. C’è comunque, ed è
facilmente riscontrabile nell’intera opera proustiana, un
errore che viene commesso. Ci ritorneremo.
Prima è il caso di leggere l’intero pezzo che dichiara
l’omosessualità di Charlus:
Le leggi del mondo vegetale sono governate a loro volta da
leggi sempre più alte. Se la visita di un insetto, cioè l’apporto
della semenza di un altro fiore, è abitualmente necessaria per
fecondare un fiore, questo vuol dire che l’autofecondazione,
[…] al pari dei matrimoni ripetuti in una stessa famiglia,
produce la degenerazione e la sterilità […]. Tuttavia questo
slancio può essere eccessivo, la specie svilupparsi
smisuratamente; […] allora un atto eccezionale di
autofecondazione giunge al punto giusto per dare il suo giro
di vite, la sua frenata, fa rientrare nella norma il fiore che ne
era esageratamente uscito. Le mie riflessioni avevano seguito
una china che descriverò più tardi ed avevo già tratto dalla
furberia apparente dei fiori una conseguenza su tutta una
parte incosciente dell’opera letteraria, quando vidi il signor di
Charlus uscire dalla casa della marchesa. [M. Proust, Ricerca,
(trad. it.), pp. 1204-5]
Si potrebbe continuare, ma c’è una cosa importantissima
che va rilevata. Dopo la descrizione lirica e poetica, quasi
estraniata dall’intero contesto, dei fiori e della loro
fecondazione, c’è uno scarto diretto, schietto sul barone di
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Charlus. Proust riflette dapprima sulla fecondazione,
sull’autofecondazione dei fiori, su come la prima sia naturale
e la seconda no; dichiara che, però, non sempre è buono
seguire il naturale corso delle cose (“Questo slancio può
essere eccessivo”), e allora quella a-normalità che mai si
sarebbe detto potesse fruttare qualcosa può invece e a
ragione intervenire per, addirittura, sistemare, “far rientrare
nella norma il fiore che ne era esageratamente uscito”. D’un
tratto, appena separato da un punto, il discorso scatta su
Charlus, a indicare appunto che è di lui che si vuol parlare.
L’omosessualità, come viene descritta da Proust, dunque
con un personaggio principale (Marcel) rigorosamente
esterno ai fatti, non assume caratterizzazioni solamente
negative. La metafora dei fiori e della fecondazione che
abbiamo letto prima ne è un esempio. Proust, per definire
persone come Charlus e Jupien, utilizza spesso metafore
come questa o frasi del tipo: “Il barone e Jupien, per
esempio, sono persone dello stesso genere” [M. Proust,
Ricerca, p. 1227]. Certo, si deve essere prudenti nel fare
affermazioni di questo tipo: bisogna, da un lato, tenere in
conto il periodo storico del quale si parla e, dall’altro,
considerare che, se il personaggio Marcel è eterosessuale, lo
scrittore Proust non lo è. E questo è un fatto di grande
importanza.
Abbiamo detto prima che Proust commette un errore; ed
ora possiamo senz’altro aggiungere che quest’errore è dettato
unicamente dal fatto a cui abbiamo fatto riferimento ora:
l’effettiva omosessualità di Proust. E l’errore è la gelosia.
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Gelosia così presente in tutta l’opera, tanto che Giacomo
Debenedetti, eccellente critico di Proust, ha potuto
senz’altro dire che “l’intera Recherche è l’immensa istruttoria di
un geloso” [G. Debenedetti, Scritti proustiani, p. 77], e alla
fine, infatti, tutta l’opera deve necessariamente essere riletta
all’interno del quadro che è la gelosia.
Gelosia che, in Proust, si indirizza, però, non già verso le
possibili relazioni eterosessuali dei personaggi che popolano
la Recherche, ma verso quelle omosessuali. In genere, infatti,
un eterosessuale è geloso dei possibili rapporti eterosessuali
del compagno. Invece, nella Recherche, vediamo Swann geloso
delle eventuali relazioni omosessuali di Odette, e così Marcel
con Albertine. Insomma, anche se la rappresentazione
dell’omosessualità è rigorosa e strettissima nel suo apparire,
la natura di Proust, in qualche modo, lo tradisce.
Proprio come avviene, in parte, nella Recherche. Leggiamo
infatti: “Il signor di Charlus aveva un bell’assumere un aria
distaccata, abbassare distrattamente le palpebre, ogni tanto le
sollevava e gettava allora uno sguardo attento su Jupien” [M.
Proust, Ricerca, p.1206]. Possiamo dunque dire, senza
spendere troppe parole, che è assolutamente indicato il
richiamo iniziale alla natura: è la natura, infatti, sia di Proust
scrittore che dei personaggi fittizi nell’opera ad avere sempre
la meglio. L’attrazione omosessuale, infatti, in cui il sesso
evidente è in contrasto con la natura profonda degli
individui, svela anche negli atteggiamenti esteriori questa
contraddittoria condizione.
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“È umano cercare il dolore e subito liberarsene”; “se c’è
qualcosa di rumoroso quanto la sofferenza è il piacere” [M.
Proust, Ricerca, pp.1384 e 1209]: altro tema presente in
Sodoma e Gomorra e di cui è pressoché impossibile non parlare
senza tralasciare qualcosa: il sadismo.
Il sadismo consiste nel procurarsi un piacere attraverso atti
crudeli e umilianti. Nella Recherche, e in SG soprattutto, c’è la
componente sadica, ed anzi, noi possiamo senz’altro vedere
atti di sadomasochismo perpetrati nell’opera, ma prima di
parlarne è opportuno fare una distinzione riferendosi anche
a un testo in cui il sadismo è rappresentato nelle sue forme
più crudeli: Le 120 giornate di Sodoma, del Marchese de Sade.
Una brevissima introduzione all’opera: in un castello
vengono rinchiusi giovani di entrambi i sessi, sottoposti a
trattamenti
crudeli
e
umilianti
fisicamente
e
psicologicamente. Tutto avviene seguendo uno schema di
regole fissato all’inizio e a cui i giovani dovranno sottostare,
pena torture e punizioni finali. Questa davvero in breve la
trama.
Per non dilungarci troppo, torniamo a Proust. Qual è la
differenza lampante, che subito salta agli occhi se teniamo in
conto Le 120 giornate e Sodoma e Gomorra? Entrambi i testi,
possiamo azzardare, partono dal principio che abbiamo letto
prima: che “è umano cercare il dolore e subito liberarsene”.
Infatti entrambi sono testi schiettamente, prettamente
“umani”: scritti da uomini, fatti di uomini, dunque di
passioni d’uomini, di patologie, di crudeltà e bassezze che, in
un modo o nell’altro, sono umane.
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Non c’è nulla che non sia umano, infatti, in De Sade, e
sovente viene rappresentata la parte peggiore dell’essere
umano, quella più nascosta, quella che meno volentieri viene
descritta, anche in letteratura. C’è da rilevare una cosa
importante: non si parla dell’umanità, intesa come gruppo,
come agglomerato di tanti individui, ma dell’essere umano,
dell’uomo in sé, come entità singola che crea e distrugge, che
può fare il bene e fa il male. Tutte le colpe e il castigo,
quando c’è [in De Sade non c’è], poi ricadono sull’essere
umano precisamente individuabile, non su un’umanità
generica.
La differenza che possiamo trovare tra i due testi è
senz’altro questa: in De Sade, e specialmente nelle 120
giornate, vengono presentati in maniera programmatica una
serie di atti crudeli e umilianti (il più famoso è sicuramente il
“pranzo” di escrementi e urina) fini a se stessi: non per nulla
il sottotitolo del libro è “Scuola di libertinaggio”. In Proust,
invece, tutti questi atti sadici, che pur ci sono, fanno parte di
una rappresentazione di più ampio respiro, vengono
inglobati nella Recherche tutta. Insomma, anche la crudeltà, la
patologia, l’amore cruento e doloroso hanno un senso, in
Proust. Tutto ha un senso. O, comunque, ogni cosa acquista
il suo posto all’interno dell’opera.
Di più, possiamo dire che il vero “sadismo”, in Proust, è
proprio quel “guardare senza essere visti” di cui prima: il
costringersi a guardare, il voler sapere a tutti i costi, il dover
conoscere, l’andare continuamente a fondo: questo è il
sadismo di Proust.
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Un sadismo non fine a se stesso, ma che implica
sofferenza e porta alla conoscenza. In fondo, nella
Recherche, la regola è che si conosce solo soffrendo. Lo
dicevamo: perché Swann non diventa uno scrittore? Perché
non sa soffrire. E si conosce, solo nella maniera in cui si
soffre o si è disposti a farlo. “Un’opera come la Recherche”,
“sostiene Mario Lavagetto, la si apprezza solo se si è votati al
fallimento” [M. Lavagetto, Intervista Ottobre 2012].
E, allora, da parte nostra, possiamo senz’altro dire che il
fallimento, la sofferenza, il dolore non sono vani: acquistano
significato proprio nella loro stessa essenza. “Avvicinano a”:
il dolore avvicina ai personaggi “difficili” e, a volte, poco
comprensibili di Sodoma e Gomorra; solo se non si ha paura di
soffrire si può diventare qualcuno. È la sofferenza che rende
liberi, rende belli: il dolore trasformato in bellezza. E questa
è una peculiarità della letteratura tutta e dell’opera di Proust
in particolare: trasformare il dolore in bellezza.
La Recherche è per i coraggiosi: chi non ha paura di soffrire,
chi non teme avventurarsi in tremila pagine, chi sa che, da
subito, non alla fine, ne vale la pena; perché si è letto,
quando lo si finisce si ha la certezza, il libro più bello del
mondo.
V. C.
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Incipit di SODOME ET GOMORRHE
traduzione di Alessandra Ponticelli Conti
Si sa che quel giorno (il giorno nel quale aveva luogo la
serata dalla principessa di Guermantes) ben prima di far
visita al duca e alla duchessa, visita che ho appena
raccontato, avevo spiato il loro ritorno e fatto, durante tutto
il tempo che li avevo controllati, una scoperta, che
riguardava in particolare il signor di Charlus, tanto
importante da indurmi a rimandare fino a oggi di riferirla, in
attesa del momento giusto per poterle trovare la collocazione
e lo spazio che merita. Avevo, come ho già detto,
abbandonato il mio magnifico punto d’osservazione, così
ben confortevolmente allestito nella parte superiore della
casa, da dove è possibile con lo sguardo abbracciare i pendii
ripidi che salgono fino al palazzo Bréquigny, decorati
allegramente all’italiana con il rosa campanile della rimessa di
proprietà del marchese di Frécourt. Avevo trovato più
pratico, nel momento in cui pensai che il duca e la duchessa
si apprestassero a fare ritorno, di sistemarmi sulle scale.
Rimpiangevo un po’ il mio appostamento dall’alto. Ma a
quell’ora, l’ora del dopo pranzo, avevo meno motivo di
rammaricarmi, dato che non sarebbe stato più possibile
vedere, come al mattino, i minuscoli personaggi tanto
somiglianti a quelli dei quadri, che divenivano da lontano i
domestici del palazzo Bréquigny e Trasmes, venire su
lentamente dall’ erta costa, con un piumino in mano, tra le
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grandi foglie di mica trasparenti che campeggiavano così
piacevoli sulla varietà di rossi dei contrafforti. In mancanza
della contemplazione del geologo, avevo comunque quella
del botanico e osservavo attraverso le imposte delle scale il
piccolo arbusto della duchessa e la pianta preziosa esposti
con quella insistenza che si è soliti adoperare quando si è
decisi a fare uscire di casa le ragazze da marito, e mi
chiedevo se l’improbabile insetto sarebbe venuto, per un
caso provvidenziale, a far visita al pistillo offerto e
trascurato. Avendomi reso la curiosità a poco a poco sempre
più ardito, scesi fino alla finestra del pianterreno, anch’essa
aperta e con le persiane socchiuse. Sentivo distintamente,
mentre si preparava a uscire, Jupien, il quale non poteva
scoprirmi nascosto dietro la tenda dove restai immobile fino
al momento in cui non mi scansai bruscamente di lato dal
timore di essere visto dal signor di Charlus che, panciuto,
invecchiato dalla luce del pieno giorno, brizzolato, andando
dalla signora di Villeparisis, attraversava lentamente il cortile.
C’era voluta un’indisposizione della signora di Villeparisis
(conseguenza della malattia del marchese de Fierbois con il
quale aveva personalmente litigato a morte) per far sì che il
signor di Charlus facesse una visita, forse per la prima volta
nella sua esistenza, a quell’ora. Perché con la singolarità dei
Guermantes che, invece di adeguarsi alla vita mondana, la
modificavano in base alle loro abitudini personali ( non
mondane, essi credevano, e di conseguenza degne che si
prostrasse davanti a loro quella cosa senza valore, la
mondanità - ed è per questo che la signora de Marsantes non
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aveva un giorno stabilito, ma riceveva tutte le mattine le sue
amiche dalle dieci a mezzogiorno) - il barone, occupato in
quelle ore nella lettura, nella ricerca di vecchi ninnoli, ecc., si
recava a far visita a qualcuno solo tra le quattro e le sei del
pomeriggio. Alle sei andava al Jockey o faceva una
passeggiata al Bois. Un istante dopo arretrai per non essere
visto da Jupien; era il momento in cui usciva per andare in
ufficio, dal quale non tornava fino all’ora di cena, e
nemmeno sempre, dopo una settimana che sua nipote era
andata, insieme alle sue apprendiste, in campagna da una
cliente per finire un vestito. Poi, resomi conto che nessuno
poteva vedermi, decisi di non spostarmi più per paura che
mi sfuggisse, se il miracolo si fosse avverato, l’arrivo quasi
impossibile da sperare (attraverso tanti ostacoli, distanze,
contrarietà, pericoli) dell’insetto mandato da così lontano in
veste di ambasciatore alla vergine che da tanto tempo
prolungava l’attesa. Sapevo che questa attesa non era più
passiva di quella del fiore maschio, i cui stami si erano
spontaneamente girati per far sì che l’insetto potesse più
facilmente riceverlo: allo stesso modo il fiore femmina che si
trovava qui, se l’insetto fosse venuto, avrebbe arcuato con
grazia i suoi “stili” e per essere meglio penetrato da esso
avrebbe fatto impercettibilmente, come una giovincella
ipocrita ma ardente, la metà del cammino. Le leggi del
mondo vegetale sono governate anch’esse da leggi sempre
più alte. Se la visita di un insetto, cioè l’apporto della
semenza di un altro fiore, è normalmente necessaria per
fecondare un fiore, ciò significa che l’autofecondazione, la
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fecondazione del fiore di se stesso, come i matrimoni che si
ripetono in una stessa famiglia, porta alla degenerazione e
alla sterilità, mentre l’incrocio operato dagli insetti trasferisce
alle generazioni seguenti della stessa specie un vigore
sconosciuto alle precedenti. Questo slancio tuttavia può
essere eccessivo, la specie svilupparsi a dismisura; allora
come un’antitossina preserva dalle malattie, come la
ghiandola tiroidea regola la nostra grassezza, come la
sconfitta giunge per punire l’orgoglio, la fatica il piacere, e
come il sonno riposa a sua volta dalla fatica, così un atto
eccezionale di autofecondazione arriva al momento giusto
per dare il suo giro di vite, il suo colpo di freno, fa rientrare
nella norma il fiore che ne era esageratamente uscito. Le mie
riflessioni avevano seguito una china che descriverò
successivamente e avevo già tratto dall’astuzia apparente dei
fiori una conclusione riguardo a tutta una parte inconscia
dell’opera letteraria, mentre vidi il signor di Charlus che
usciva da casa della marchesa. Erano passati solo alcuni
minuti da quando era entrato. Forse aveva saputo dalla sua
stessa anziana parente, o soltanto da un domestico, del
grande miglioramento o addirittura della guarigione
completa di quello che per la signora di Villeparisis altro non
era stato se non un semplice malessere. In quel momento,
ignaro di essere osservato, le palpebre abbassate per il sole, il
signor di Charlus aveva allentato sul suo volto quella
tensione, smorzato quella vitalità fittizia, che tenevano vive
in lui l’impeto della conversazione e la forza di volontà.
Pallido da sembrare di marmo, il naso importante, i suoi
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lineamenti fini non ricevevano più da uno sguardo volitivo
un significato diverso che alterasse la bellezza della loro
forma; nient’altro che un Guermantes, pareva già scolpito,
lui, Palamède XV, nella cappella di Combray. Ma quei tratti
che accomunavano un’intera famiglia assumevano tuttavia,
nel viso del signor di Charlus, una finezza più spirituale,
soprattutto più dolce. Mi rammaricavo per lui che si fosse
abituato ad alterare con tanta violenza, sgradevoli stranezze,
pettegolezzi, durezza, suscettibilità e arroganza, e a celare
sotto una apparente brutalità, l’affabilità, la bontà che vedevo
spalmarsi così ingenuamente sul suo viso mentre usciva dalla
casa della signora di Villeparisis. Gli occhi socchiusi per il
sole, pareva quasi sorridere, e scorsi sul suo volto, visto così,
a riposo e come al naturale, un non so che di affettuoso, di
così disarmato, che non potei fare a meno di pensare a
quanto il signor di Charlus si sarebbe potuto arrabbiare se
avesse scoperto di essere spiato; quell’uomo, completamente
innamorato di se stesso, che si vantava di essere tanto virile,
al quale tutti sembravano odiosamente effeminati,
quell’uomo mi faceva pensare di colpo, tanto ne aveva
assunto temporaneamente i tratti, l’espressione, il sorriso, a
una donna.
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“Marcel watching Jupien and Charlus”. Disegno tratto dal libro “The Illustrated PROUST”
di Patrick Alexander & David Richardson. Consultabile in preview e acquistabile al
seguente link:
www.blurb.com/books/2068180-the-illustrated-proust
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Première partie
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Première apparition des hommes-femmes, descendants de ceux des
habitants de Sodome qui furent épargnés par le feu du ciel.
« La femme aura Gomorrhe
et l’homme aura Sodome. »
ALFRED DE VIGNY.
On sait que bien avant d’aller ce jour-là (le jour où avait lieu
la soirée de la princesse de Guermantes) rendre au duc et à la
duchesse la visite que je viens de raconter, j’avais épié leur
retour et fait, pendant la durée de mon guet, une découverte,
concernant particulièrement M. de Charlus, mais si
importante en elle-même que j’ai jusqu’ici, jusqu’au moment
de pouvoir lui donner la place et l’étendue voulues, différé
de la rapporter. J’avais, comme je l’ai dit, délaissé le point de
vue merveilleux, si confortablement aménagé au haut de la
maison, d’où l’on embrasse les pentes accidentées par où
l’on monte jusqu’à l’hôtel de Bréquigny, et qui sont gaiement
décorées à l’italienne par le rose campanile de la remise
appartenant au marquis de Frécourt. J’avais trouvé plus
pratique, quand j’avais pensé que le duc et la duchesse
étaient sur le point de revenir, de me poster sur l’escalier. Je
regrettais un peu mon séjour d’altitude. Mais à cette heure-là,
qui était celle d’après le déjeuner, j’avais moins à regretter,
car je n’aurais pas vu, comme le matin, les minuscules
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personnages de tableaux, que devenaient à distance les valets
de pied de l’hôtel de Bréquigny et de Tresmes, faire la lente
ascension de la côte abrupte, un plumeau à la main, entre les
larges feuilles de mica transparentes qui se détachaient si
plaisamment sur les contreforts rouges. À défaut de la
contemplation du géologue, j’avais du moins celle du
botaniste et regardais par les volets de l’escalier le petit
arbuste de la duchesse et la plante précieuse exposés dans la
cour avec cette insistance qu’on met à faire sortir les jeunes
gens à marier, et je me demandais si l’insecte improbable
viendrait, par un hasard providentiel, visiter le pistil offert et
délaissé. La curiosité m’enhardissant peu à peu, je descendis
jusqu’à la fenêtre du rez-de-chaussée, ouverte elle aussi, et
dont les volets n’étaient qu’à moitié clos. J’entendais
distinctement, se préparant à partir, Jupien qui ne pouvait
me découvrir derrière mon store où je restai immobile
jusqu’au moment où je me rejetai brusquement de côté par
peur d’être vu de M. de Charlus, lequel, allant chez Mme de
Villeparisis, traversait lentement la cour, bedonnant, vieilli
par le plein jour, grisonnant. Il avait fallu une indisposition
de Mme de Villeparisis (conséquence de la maladie du
marquis de Fierbois avec lequel il était personnellement
brouillé à mort) pour que M. de Charlus fît une visite, peutêtre la première fois de son existence, à cette heure-là. Car
avec cette singularité des Guermantes qui, au lieu de se
conformer à la vie mondaine, la modifiaient d’après leurs
habitudes personnelles (non mondaines, croyaient-ils, et
dignes par conséquent qu’on humiliât devant elles cette
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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chose sans valeur, la mondanité – c’est ainsi que Mme de
Marsantes n’avait pas de jour, mais recevait tous les matins
ses amies, de 10 heures à midi) – le baron, gardant ce temps
pour la lecture, la recherche des vieux bibelots, etc... ne
faisait jamais une visite qu’entre 4 et 6 heures du soir. À 6
heures il allait au Jockey ou se promener au Bois. Au bout
d’un instant je fis un nouveau mouvement de recul pour ne
pas être vu par Jupien ; c’était bientôt son heure de partir au
bureau, d’où il ne revenait que pour le dîner, et même pas
toujours depuis une semaine que sa nièce était allée avec ses
apprenties à la campagne chez une cliente finir une robe.
Puis me rendant compte que personne ne pouvait me voir, je
résolus de ne plus me déranger de peur de manquer, si le
miracle devait se produire, l’arrivée presque impossible à
espérer (à travers tant d’obstacles, de distance, de risques
contraires, de dangers) de l’insecte envoyé de si loin en
ambassadeur à la vierge qui depuis longtemps prolongeait
son attente. Je savais que cette attente n’était pas plus passive
que chez la fleur mâle, dont les étamines s’étaient
spontanément tournées pour que l’insecte pût plus
facilement la recevoir ; de même la fleur-femme qui était ici,
si l’insecte venait, arquerait coquettement ses « styles », et
pour être mieux pénétrée par lui ferait imperceptiblement,
comme une jouvencelle hypocrite mais ardente, la moitié du
chemin. Les lois du monde végétal sont gouvernées ellesmêmes par des lois de plus en plus hautes. Si la visite d’un
insecte, c’est-à-dire l’apport de la semence d’une autre fleur,
est habituellement nécessaire pour féconder une fleur, c’est
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que l’autofécondation, la fécondation de la fleur par ellemême, comme les mariages répétés dans une même famille,
amènerait la dégénérescence et la stérilité, tandis que le
croisement opéré par les insectes donne aux générations
suivantes de la même espèce une vigueur inconnue de leurs
aînées. Cependant cet essor peut être excessif, l’espèce se
développer démesurément ; alors, comme une antitoxine
défend contre la maladie, comme le corps thyroïde règle
notre embonpoint, comme la défaite vient punir l’orgueil, la
fatigue le plaisir, et comme le sommeil repose à son tour de
la fatigue, ainsi un acte exceptionnel d’autofécondation vient
à point nommé donner son tour de vis, son coup de frein,
fait rentrer dans la norme la fleur qui en était exagérément
sortie. Mes réflexions avaient suivi une pente que je décrirai
plus tard et j’avais déjà tiré de la ruse apparente des fleurs
une conséquence sur toute une partie inconsciente de
l’œuvre littéraire, quand je vis M. de Charlus qui ressortait de
chez la marquise. Il ne s’était passé que quelques minutes
depuis son entrée. Peut-être avait-il appris de sa vieille
parente elle-même, ou seulement par un domestique, le
grand mieux ou plutôt la guérison complète de ce qui n’avait
été chez Mme de Villeparisis qu’un malaise. À ce moment,
où il ne se croyait regardé par personne, les paupières
baissées contre le soleil, M. de Charlus avait relâché dans son
visage cette tension, amorti cette vitalité factice,
qu’entretenaient chez lui l’animation de la causerie et la force
de la volonté. Pâle comme un marbre, il avait le nez fort, ses
traits fins ne recevaient plus d’un regard volontaire une
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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signification différente qui altérât la beauté de leur modelé ;
plus rien qu’un Guermantes, il semblait déjà sculpté, lui
Palamède XV, dans la chapelle de Combray. Mais ces traits
généraux de toute une famille prenaient pourtant, dans le
visage de M. de Charlus, une finesse plus spiritualisée, plus
douce surtout. Je regrettais pour lui qu’il adultérât
habituellement de tant de violences, d’étrangetés
déplaisantes, de potinages, de dureté, de susceptibilité et
d’arrogance, qu’il cachât sous une brutalité postiche
l’aménité, la bonté qu’au moment où il sortait de chez Mme
de Villeparisis, je voyais s’étaler si naïvement sur son visage.
Clignant des yeux contre le soleil, il semblait presque sourire,
je trouvai à sa figure vue ainsi au repos et comme au naturel
quelque chose de si affectueux, de si désarmé, que je ne pus
m’empêcher de penser combien M. de Charlus eût été fâché
s’il avait pu se savoir regardé ; car ce à quoi me faisait penser
cet homme, qui était si épris, qui se piquait si fort de virilité,
à qui tout le monde semblait odieusement efféminé, ce à
quoi il me faisait penser tout d’un coup, tant il en avait
passagèrement les traits, l’expression, le sourire, c’était à une
femme.
J’allais me déranger de nouveau pour qu’il ne pût
m’apercevoir ; je n’en eus ni le temps, ni le besoin. Que vis-je
! Face à face, dans cette cour où ils ne s’étaient certainement
jamais rencontrés (M. de Charlus ne venant à l’hôtel
Guermantes que dans l’après-midi, aux heures où Jupien
était à son bureau), le baron, ayant soudain largement ouvert
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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ses yeux mi-clos, regardait avec une attention extraordinaire
l’ancien giletier sur le seuil de sa boutique, cependant que
celui-ci, cloué subitement sur place devant M. de Charlus,
enraciné comme une plante, contemplait d’un air émerveillé
l’embonpoint du baron vieillissant. Mais, chose plus
étonnante encore, l’attitude de M. de Charlus ayant changé,
celle de Jupien se mit aussitôt, comme selon les lois d’un art
secret, en harmonie avec elle. Le baron, qui cherchait
maintenant à dissimuler l’impression qu’il avait ressentie,
mais qui, malgré son indifférence affectée, semblait ne
s’éloigner qu’à regret, allait, venait, regardait dans le vague de
la façon qu’il pensait mettre le plus en valeur la beauté de ses
prunelles, prenait un air fat, négligent, ridicule. Or Jupien,
perdant aussitôt l’air humble et bon que je lui avais toujours
connu, avait – en symétrie parfaite avec le baron – redressé
la tête, donnait à sa taille un port avantageux, posait avec une
impertinence grotesque son poing sur la hanche, faisait saillir
son derrière, prenait des poses avec la coquetterie qu’aurait
pu avoir l’orchidée pour le bourdon providentiellement
survenu. Je ne savais pas qu’il pût avoir l’air si antipathique.
Mais j’ignorais aussi qu’il fût capable de tenir à l’improviste
sa partie dans cette sorte de scène des deux muets, qui (bien
qu’il se trouvât pour la première fois en présence de M. de
Charlus) semblait avoir été longuement répétée ; – on
n’arrive spontanément à cette perfection que quand on
rencontre à l’étranger un compatriote, avec lequel alors
l’entente se fait d’elle-même, le truchement étant identique,
et sans qu’on se soit pourtant jamais vu.
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Cette scène n’était, du reste, pas positivement comique, elle
était empreinte d’une étrangeté, ou si l’on veut d’un naturel,
dont la beauté allait croissant. M. de Charlus avait beau
prendre un air détaché, baisser distraitement les paupières,
par moments il les relevait et jetait alors sur Jupien un regard
attentif. Mais (sans doute parce qu’il pensait qu’une pareille
scène ne pouvait se prolonger indéfiniment dans cet endroit,
soit pour des raisons qu’on comprendra plus tard, soit enfin
par ce sentiment de la brièveté de toutes choses qui fait
qu’on veut que chaque coup porte juste, et qui rend si
émouvant le spectacle de tout amour), chaque fois que M. de
Charlus regardait Jupien, il s’arrangeait pour que son regard
fût accompagné d’une parole, ce qui le rendait infiniment
dissemblable des regards habituellement dirigés sur une
personne qu’on connaît ou qu’on ne connaît pas ; il regardait
Jupien avec la fixité particulière de quelqu’un qui va vous
dire : « Pardonnez-moi mon indiscrétion, mais vous avez un
long fil blanc qui pend dans votre dos », ou bien : « Je ne
dois pas me tromper, vous devez être aussi de Zurich, il me
semble bien vous avoir rencontré souvent chez le marchand
d’antiquités. » Telle, toutes les deux minutes, la même
question semblait intensément posée à Jupien dans l’œillade
de M. de Charlus, comme ces phrases interrogatives de
Beethoven, répétées indéfiniment, à intervalles égaux, et
destinées – avec un luxe exagéré de préparations – à amener
un nouveau motif, un changement de ton, une « rentrée ».
Mais justement la beauté des regards de M. de Charlus et de
Jupien venait, au contraire, de ce que, provisoirement du
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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moins, ces regards ne semblaient pas avoir pour but de
conduire à quelque chose. Cette beauté, c’était la première
fois que je voyais le baron et Jupien la manifester. Dans les
yeux de l’un et de l’autre, c’était le ciel, non pas de Zurich,
mais de quelque cité orientale dont je n’avais pas encore
deviné le nom, qui venait de se lever. Quel que fût le point
qui pût retenir M. de Charlus et le giletier, leur accord
semblait conclu et ces inutiles regards n’être que des
préludes rituels, pareils aux fêtes qu’on donne avant un
mariage décidé. Plus près de la nature encore – et la
multiplicité de ces comparaisons est elle-même d’autant plus
naturelle qu’un même homme, si on l’examine pendant
quelques minutes, semble successivement un homme, un
homme-oiseau ou un homme-insecte, etc. – on eût dit deux
oiseaux, le mâle et la femelle, le mâle cherchant à s’avancer,
la femelle – Jupien – ne répondant plus par aucun signe à ce
manège, mais regardant son nouvel ami sans étonnement,
avec une fixité inattentive, jugée sans doute plus troublante
et seule utile, du moment que le mâle avait fait les premiers
pas, et se contentant de lisser ses plumes. Enfin
l’indifférence de Jupien ne parut plus lui suffire ; de cette
certitude d’avoir conquis à se faire poursuivre et désirer, il
n’y avait qu’un pas et Jupien, se décidant à partir pour son
travail, sortit par la porte cochère. Ce ne fut pourtant
qu’après avoir retourné deux ou trois fois la tête, qu’il
s’échappa dans la rue où le baron, tremblant de perdre sa
piste (sifflotant d’un air fanfaron, non sans crier un « au
revoir » au concierge qui, à demi saoul et traitant des invités
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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dans son arrière-cuisine, ne l’entendit même pas), s’élança
vivement pour le rattraper. Au même instant où M. de
Charlus avait passé la porte en sifflant comme un gros
bourdon, un autre, un vrai celui-là, entrait dans la cour. Qui
sait si ce n’était pas celui attendu depuis si longtemps par
l’orchidée, et qui venait lui apporter le pollen si rare sans
lequel elle resterait vierge ? Mais je fus distrait de suivre les
ébats de l’insecte, car au bout de quelques minutes, sollicitant
davantage mon attention, Jupien (peut-être afin de prendre
un paquet qu’il emporta plus tard et que, dans l’émotion que
lui avait causée l’apparition de M. de Charlus, il avait oublié,
peut-être tout simplement pour une raison plus naturelle),
Jupien revint, suivi par le baron. Celui-ci, décidé à brusquer
les choses, demanda du feu au giletier, mais observa aussitôt
: « Je vous demande du feu, mais je vois que j’ai oublié mes
cigares. » Les lois de l’hospitalité l’emportèrent sur les règles
de la coquetterie : « Entrez, on vous donnera tout ce que
vous voudrez », dit le giletier, sur la figure de qui le dédain fit
place à la joie. La porte de la boutique se referma sur eux et
je ne pus plus rien entendre. J’avais perdu de vue le bourdon,
je ne savais pas s’il était l’insecte qu’il fallait à l’orchidée, mais
je ne doutais plus, pour un insecte très rare et une fleur
captive, de la possibilité miraculeuse de se conjoindre, alors
que M. de Charlus (simple comparaison pour les
providentiels hasards, quels qu’ils soient, et sans la moindre
prétention scientifique de rapprocher certaines lois de la
botanique et ce qu’on appelle parfois fort mal
l’homosexualité), qui, depuis des années, ne venait dans cette
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maison qu’aux heures où Jupien n’y était pas, par le hasard
d’une indisposition de Mme de Villeparisis, avait rencontré le
giletier et avec lui la bonne fortune réservée aux hommes du
genre du baron par un de ces êtres qui peuvent même être,
on le verra, infiniment plus jeunes que Jupien et plus beaux,
l’homme prédestiné pour que ceux-ci aient leur part de
volupté sur cette terre : l’homme qui n’aime que les vieux
messieurs.
Ce que je viens de dire d’ailleurs ici est ce que je ne devais
comprendre que quelques minutes plus tard, tant adhèrent à
la réalité ces propriétés d’être invisible, jusqu’à ce qu’une
circonstance l’ait dépouillée d’elles. En tout cas, pour le
moment j’étais fort ennuyé de ne plus entendre la
conversation de l’ancien giletier et du baron. J’avisai alors la
boutique à louer, séparée seulement de celle de Jupien par
une cloison extrêmement mince. Je n’avais pour m’y rendre
qu’à remonter à notre appartement, aller à la cuisine,
descendre l’escalier de service jusqu’aux caves, les suivre
intérieurement pendant toute la largeur de la cour, et, arrivé
à l’endroit du sous-sol où l’ébéniste, il y a quelques mois
encore, serrait ses boiseries, où Jupien comptait mettre son
charbon, monter les quelques marches qui accédaient à
l’intérieur de la boutique. Ainsi toute ma route se ferait à
couvert, je ne serais vu de personne. C’était le moyen le plus
prudent. Ce ne fut pas celui que j’adoptai, mais, longeant les
murs, je contournai à l’air libre la cour en tâchant de ne pas
être vu. Si je ne le fus pas, je pense que je le dois plus au
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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hasard qu’à ma sagesse. Et au fait que j’aie pris un parti si
imprudent, quand le cheminement dans la cave était si sûr, je
vois trois raisons possibles, à supposer qu’il y en ait une.
Mon impatience d’abord. Puis peut-être un obscur
ressouvenir de la scène de Montjouvain, caché devant la
fenêtre de Mlle Vinteuil. De fait, les choses de ce genre
auxquelles j’assistai eurent toujours, dans la mise en scène, le
caractère le plus imprudent et le moins vraisemblable,
comme si de telles révélations ne devaient être la
récompense que d’un acte plein de risques, quoique en partie
clandestin. Enfin j’ose à peine, à cause de son caractère
d’enfantillage, avouer la troisième raison, qui fut, je crois
bien, inconsciemment déterminante. Depuis que pour suivre
– et voir se démentir – les principes militaires de Saint-Loup,
j’avais suivi avec grand détail la guerre des Boërs, j’avais été
conduit à relire d’anciens récits d’explorations, de voyages.
Ces récits m’avaient passionné et j’en faisais l’application
dans la vie courante pour me donner plus de courage.
Quand des crises m’avaient forcé à rester plusieurs jours et
plusieurs nuits de suite non seulement sans dormir, mais
sans m’étendre, sans boire et sans manger, au moment où
l’épuisement et la souffrance devenaient tels que je pensais
n’en sortir jamais, je pensais à tel voyageur jeté sur la grève,
empoisonné par des herbes malsaines, grelottant de fièvre
dans ses vêtements trempés par l’eau de la mer, et qui
pourtant se sentait mieux au bout de deux jours, reprenait au
hasard sa route, à la recherche d’habitants quelconques, qui
seraient peut-être des anthropophages. Leur exemple me
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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tonifiait, me rendait l’espoir, et j’avais honte d’avoir eu un
moment de découragement. Pensant aux Boërs qui, ayant en
face d’eux des armées anglaises, ne craignaient pas de
s’exposer au moment où il fallait traverser, avant de
retrouver un fourré, des parties de rase campagne : « Il ferait
beau voir, pensai-je, que je fusse plus pusillanime, quand le
théâtre d’opérations est simplement notre propre cour, et
quand, moi qui me suis battu plusieurs fois en duel sans
aucune crainte, au moment de l’affaire Dreyfus, le seul fer
que j’aie à craindre est celui du regard des voisins qui ont
autre chose à faire qu’à regarder dans la cour. »
Mais quand je fus dans la boutique, évitant de faire craquer
le moins du monde le plancher, en me rendant compte que
le moindre craquement dans la boutique de Jupien
s’entendait de la mienne, je songeai combien Jupien et M. de
Charlus avaient été imprudents et combien la chance les
avait servis.
Je n’osais bouger. Le palefrenier des Guermantes, profitant
sans doute de leur absence, avait bien transféré dans la
boutique où je me trouvais une échelle serrée jusque-là dans
la remise. Et si j’y étais monté j’aurais pu ouvrir le vasistas et
entendre comme si j’avais été chez Jupien même. Mais je
craignais de faire du bruit. Du reste c’était inutile. Je n’eus
même pas à regretter de n’être arrivé qu’au bout de quelques
minutes dans ma boutique. Car d’après ce que j’entendis les
premiers temps dans celle de Jupien et qui ne furent que des
sons inarticulés, je suppose que peu de paroles furent
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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prononcées. Il est vrai que ces sons étaient si violents que,
s’ils n’avaient pas été toujours repris un octave plus haut par
une plainte parallèle, j’aurais pu croire qu’une personne en
égorgeait une autre à côté de moi et qu’ensuite le meurtrier
et sa victime ressuscitée prenaient un bain pour effacer les
traces du crime. J’en conclus plus tard qu’il y a une chose
aussi bruyante que la souffrance, c’est le plaisir, surtout
quand s’y ajoutent – à défaut de la peur d’avoir des enfants,
ce qui ne pouvait être le cas ici, malgré l’exemple peu
probant de la Légende dorée – des soucis immédiats de
propreté. Enfin au bout d’une demi-heure environ (pendant
laquelle je m’étais hissé à pas de loup sur mon échelle afin de
voir par le vasistas que je n’ouvris pas), une conversation
s’engagea. Jupien refusait avec force l’argent que M. de
Charlus voulait lui donner.
Au bout d’une demi-heure, M. de Charlus ressortit. «
Pourquoi avez-vous votre menton rasé comme cela, dit-il au
baron d’un ton de câlinerie. C’est si beau une belle barbe. –
Fi ! c’est dégoûtant », répondit le baron.
Cependant il s’attardait encore sur le pas de la porte et
demandait à Jupien des renseignements sur le quartier. «
Vous ne savez rien sur le marchand de marrons du coin, pas
à gauche, c’est une horreur, mais du côté pair, un grand
gaillard tout noir ? Et le pharmacien d’en face, il a un cycliste
très gentil qui porte ses médicaments. » Ces questions
froissèrent sans doute Jupien car, se redressant avec le dépit
d’une grande coquette trahie, il répondit : « Je vois que vous
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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avez un cœur d’artichaut. » Proféré d’un ton douloureux,
glacial et maniéré, ce reproche fut sans doute sensible à M.
de Charlus qui, pour effacer la mauvaise impression que sa
curiosité avait produite, adressa à Jupien, trop bas pour que
je distinguasse bien les mots, une prière qui nécessiterait sans
doute qu’ils prolongeassent leur séjour dans la boutique et
qui toucha assez le giletier pour effacer sa souffrance, car il
considéra la figure du baron, grasse et congestionnée sous les
cheveux gris, de l’air noyé de bonheur de quelqu’un dont on
vient de flatter profondément l’amour-propre, et, se décidant
à accorder à M. de Charlus ce que celui-ci venait de lui
demander, Jupien, après des remarques dépourvues de
distinction telles que : « Vous en avez un gros pétard ! », dit
au baron d’un air souriant, ému, supérieur et reconnaissant :
« Oui, va, grand gosse ! »
« Si je reviens sur la question du conducteur de tramway,
reprit M. de Charlus avec ténacité, c’est qu’en dehors de
tout, cela pourrait présenter quelque intérêt pour le retour. Il
m’arrive en effet, comme le calife qui parcourait Bagdad pris
pour un simple marchand, de condescendre à suivre quelque
curieuse petite personne dont la silhouette m’aura amusé. »
Je fis ici la même remarque que j’avais faite sur Bergotte. S’il
avait jamais à répondre devant un tribunal, il userait non de
phrases propres à convaincre les juges, mais de ces phrases
bergottesques que son tempérament littéraire particulier lui
suggérait naturellement et lui faisait trouver plaisir à
employer. Pareillement M. de Charlus se servait, avec le
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giletier, du même langage qu’il eût fait avec des gens du
monde de sa coterie, exagérant même ses tics, soit que la
timidité contre laquelle il s’efforçait de lutter le poussât à un
excessif orgueil, soit que, l’empêchant de se dominer (car on
est plus troublé devant quelqu’un qui n’est pas de votre
milieu), elle le forçât de dévoiler, de mettre à nu sa nature,
laquelle était en effet orgueilleuse et un peu folle, comme
disait Mme de Guermantes. « Pour ne pas perdre sa piste,
continua-t-il, je saute comme un petit professeur, comme un
jeune et beau médecin, dans le même tramway que la petite
personne, dont nous ne parlons au féminin que pour suivre
la règle (comme on dit en parlant d’un prince : Est-ce que
Son Altesse est bien portante). Si elle change de tramway, je
prends, avec peut-être les microbes de la peste, la chose
incroyable appelée « correspondance », un numéro, et qui,
bien qu’on le remette à moi, n’est pas toujours le n° 1 ! Je
change ainsi jusqu’à trois, quatre fois de « voiture ». Je
m’échoue parfois à onze heures du soir à la gare d’Orléans,
et il faut revenir ! Si encore ce n’était que de la gare
d’Orléans ! Mais une fois, par exemple, n’ayant pu entamer la
conversation avant, je suis allé jusqu’à Orléans même, dans
un de ces affreux wagons où on a comme vue, entre des
triangles d’ouvrages dits de « filet », la photographie des
principaux chefs-d’œuvre d’architecture du réseau. Il n’y
avait qu’une place de libre, j’avais en face de moi, comme
monument historique, une « vue » de la cathédrale d’Orléans,
qui est la plus laide de France, et aussi fatigante à regarder
ainsi malgré moi que si on m’avait forcé d’en fixer les tours
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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dans la boule de verre de ces porte-plume optiques qui
donnent des ophtalmies. Je descendis aux Aubrais en même
temps que ma jeune personne qu’hélas, sa famille (alors que
je lui supposais tous les défauts excepté celui d’avoir une
famille) attendait sur le quai ! Je n’eus pour consolation, en
attendant le train qui me ramènerait à Paris, que la maison de
Diane de Poitiers. Elle a eu beau charmer un de mes
ancêtres royaux, j’eusse préféré une beauté plus vivante.
C’est pour cela, pour remédier à l’ennui de ces retours seul,
que j’aimerais assez connaître un garçon des wagons-lits, un
conducteur d’omnibus. Du reste ne soyez pas choqué,
conclut le baron, tout cela est une question de genre. Pour
les jeunes gens du monde par exemple, je ne désire aucune
possession physique, mais je ne suis tranquille qu’une fois
que je les ai touchés, je ne veux pas dire matériellement, mais
touché leur corde sensible. Une fois qu’au lieu de laisser mes
lettres sans réponse, un jeune homme ne cesse plus de
m’écrire, qu’il est à ma disposition morale, je suis apaisé, ou
du moins je le serais, si je n’étais bientôt saisi par le souci
d’un autre. C’est assez curieux, n’est-ce pas ? À propos de
jeunes gens du monde, parmi ceux qui viennent ici, vous
n’en connaissez pas ? – Non, mon bébé. Ah ! si, un brun,
très grand, à monocle, qui rit toujours et se retourne. – Je ne
vois pas qui vous voulez dire. » Jupien compléta le portrait,
M. de Charlus ne pouvait arriver à trouver de qui il s’agissait,
parce qu’il ignorait que l’ancien giletier était une de ces
personnes, plus nombreuses qu’on ne croit, qui ne se
rappellent pas la couleur des cheveux des gens qu’ils
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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connaissent peu. Mais pour moi, qui savais cette infirmité de
Jupien et qui remplaçais brun par blond, le portrait me parut
se rapporter exactement au duc de Châtellerault. « Pour
revenir aux jeunes gens qui ne sont pas du peuple, reprit le
baron, en ce moment j’ai la tête tournée par un étrange petit
bonhomme, un intelligent petit bourgeois, qui montre à mon
égard une incivilité prodigieuse. Il n’a aucunement la notion
du prodigieux personnage que je suis et du microscopique
vibrion qu’il figure. Après tout qu’importe, ce petit âne peut
braire autant qu’il lui plaît devant ma robe auguste d’évêque.
– Évêque ! s’écria Jupien qui n’avait rien compris des
dernières phrases que venait de prononcer M. de Charlus,
mais que le mot d’évêque stupéfia. Mais cela ne va guère
avec la religion, dit-il. – J’ai trois papes dans ma famille,
répondit M. de Charlus, et le droit de draper en rouge à
cause d’un titre cardinalice, la nièce du cardinal mon grandoncle ayant apporté à mon grand-père le titre de duc qui fut
substitué. Je vois que les métaphores vous laissent sourd et
l’histoire de France indifférent. Du reste, ajouta-t-il, peutêtre moins en manière de conclusion que d’avertissement,
cet attrait qu’exercent sur moi les jeunes personnes qui me
fuient, par crainte, bien entendu, car seul le respect leur
ferme la bouche pour me crier qu’elles m’aiment, requiert-il
d’elles un rang social éminent. Encore leur feinte
indifférence peut-elle produire malgré cela l’effet
directement contraire. Sottement prolongée elle m’écœure.
Pour prendre un exemple dans une classe qui vous sera plus
familière, quand on répara mon hôtel, pour ne pas faire de
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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jalouses entre toutes les duchesses qui se disputaient
l’honneur de pouvoir me dire qu’elles m’avaient logé, j’allai
passer quelques jours à l’« hôtel », comme on dit. Un des
garçons d’étage m’était connu, je lui désignai un curieux petit
« chasseur » qui fermait les portières et qui resta réfractaire à
mes propositions. À la fin exaspéré, pour lui prouver que
mes intentions étaient pures, je lui fis offrir une somme
ridiculement élevée pour monter seulement me parler cinq
minutes dans ma chambre. Je l’attendis inutilement. Je le pris
alors en un tel dégoût que je sortais par la porte de service
pour ne pas apercevoir la frimousse de ce vilain petit drôle.
J’ai su depuis qu’il n’avait jamais eu aucune de mes lettres,
qui avaient été interceptées, la première par le garçon d’étage
qui était envieux, la seconde par le concierge de jour qui était
vertueux, la troisième par le concierge de nuit qui aimait le
jeune chasseur et couchait avec lui à l’heure où Diane se
levait. Mais mon dégoût n’en a pas moins persisté, et
m’apporterait-on le chasseur comme un simple gibier de
chasse sur un plat d’argent, je le repousserais avec un
vomissement. Mais voilà le malheur, nous avons parlé de
choses sérieuses et maintenant c’est fini entre nous pour ce
que j’espérais. Mais vous pourriez me rendre de grands
services, vous entremettre ; et puis non, rien que cette idée
me rend quelque gaillardise et je sens que rien n’est fini. »
Dès le début de cette scène, une révolution, pour mes yeux
dessillés, s’était opérée en M. de Charlus, aussi complète,
aussi immédiate que s’il avait été touché par une baguette
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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magique. Jusque-là, parce que je n’avais pas compris, je
n’avais pas vu. Le vice (on parle ainsi pour la commodité du
langage), le vice de chacun l’accompagne à la façon de ce
génie qui était invisible pour les hommes tant qu’ils
ignoraient sa présence. La bonté, la fourberie, le nom, les
relations mondaines, ne se laissent pas découvrir, et on les
porte cachés. Ulysse lui-même ne reconnaissait pas d’abord
Athéné. Mais les dieux sont immédiatement perceptibles aux
dieux, le semblable aussi vite au semblable, ainsi encore
l’avait été M. de Charlus à Jupien. Jusqu’ici je m’étais trouvé,
en face de M. de Charlus, de la même façon qu’un homme
distrait, lequel, devant une femme enceinte dont il n’a pas
remarqué la taille alourdie, s’obstine, tandis qu’elle lui répète
en souriant : « Oui, je suis un peu fatiguée en ce moment », à
lui demander indiscrètement : « Qu’avez-vous donc ? » Mais
que quelqu’un lui dise : « Elle est grosse », soudain il aperçoit
le ventre et ne verra plus que lui. C’est la raison qui ouvre les
yeux ; une erreur dissipée nous donne un sens de plus.
Les personnes qui n’aiment pas se reporter comme exemples
de cette loi aux messieurs de Charlus de leur connaissance,
que pendant bien longtemps elles n’avaient pas soupçonnés,
jusqu’au jour où, sur la surface unie de l’individu pareil aux
autres, sont venus apparaître, tracés en une encre jusque-là
invisible, les caractères qui composent le mot cher aux
anciens Grecs, n’ont, pour se persuader que le monde qui les
entoure leur apparaît d’abord nu, dépouillé de mille
ornements qu’il offre à de plus instruits, qu’à se souvenir
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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combien de fois, dans la vie, il leur est arrivé d’être sur le
point de commettre une gaffe. Rien, sur le visage privé de
caractères de tel ou tel homme, ne pouvait leur faire
supposer qu’il était précisément le frère, ou le fiancé, ou
l’amant d’une femme dont elles allaient dire : « Quel
chameau ! » Mais alors, par bonheur, un mot que leur
chuchote un voisin arrête sur leurs lèvres le terme fatal.
Aussitôt apparaissent, comme un Mane, Thecel, Phares, ces
mots : il est le fiancé, ou : il est le frère, ou : il est l’amant de
la femme qu’il ne convient pas d’appeler devant lui : «
chameau ». Et cette seule notion nouvelle entraînera tout un
regroupement, le retrait ou l’avance de la fraction des
notions, désormais complétées, qu’on possédait sur le reste
de la famille. En M. de Charlus un autre être avait beau
s’accoupler, qui le différenciait des autres hommes, comme
dans le centaure le cheval, cet être avait beau faire corps avec
le baron, je ne l’avais jamais aperçu. Maintenant l’abstrait
s’était matérialisé, l’être enfin compris avait aussitôt perdu
son pouvoir de rester invisible, et la transmutation de M. de
Charlus en une personne nouvelle était si complète, que non
seulement les contrastes de son visage, de sa voix, mais
rétrospectivement les hauts et les bas eux-mêmes de ses
relations avec moi, tout ce qui avait paru jusque-là
incohérent à mon esprit, devenaient intelligibles, se
montraient évidents, comme une phrase, n’offrant aucun
sens tant qu’elle reste décomposée en lettres disposées au
hasard, exprime, si les caractères se trouvent replacés dans
l’ordre qu’il faut, une pensée que l’on ne pourra plus oublier.
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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De plus je comprenais maintenant pourquoi tout à l’heure,
quand je l’avais vu sortir de chez Mme de Villeparisis, j’avais
pu trouver que M. de Charlus avait l’air d’une femme : c’en
était une ! Il appartenait à la race de ces êtres, moins
contradictoires qu’ils n’en ont l’air, dont l’idéal est viril,
justement parce que leur tempérament est féminin, et qui
sont dans la vie pareils, en apparence seulement, aux autres
hommes ; là où chacun porte, inscrite en ces yeux à travers
lesquels il voit toutes choses dans l’univers, une silhouette
installée dans la facette de la prunelle, pour eux ce n’est pas
celle d’une nymphe, mais d’un éphèbe. Race sur qui pèse une
malédiction et qui doit vivre dans le mensonge et le parjure,
puisqu’elle sait tenu pour punissable et honteux, pour
inavouable, son désir, ce qui fait pour toute créature la plus
grande douceur de vivre ; qui doit renier son Dieu, puisque,
même chrétiens, quand à la barre du tribunal ils
comparaissent comme accusés, il leur faut, devant le Christ
et en son nom, se défendre comme d’une calomnie de ce qui
est leur vie même ; fils sans mère, à laquelle ils sont obligés
de mentir toute la vie et même à l’heure de lui fermer les
yeux ; amis sans amitiés, malgré toutes celles que leur charme
fréquemment reconnu inspire et que leur cœur souvent bon
ressentirait ; mais peut-on appeler amitiés ces relations qui ne
végètent qu’à la faveur d’un mensonge et d’où le premier
élan de confiance et de sincérité qu’ils seraient tentés d’avoir
les ferait rejeter avec dégoût, à moins qu’ils n’aient à faire à
un esprit impartial, voire sympathique, mais qui alors, égaré à
leur endroit par une psychologie de convention, fera
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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découler du vice confessé l’affection même qui lui est la plus
étrangère, de même que certains juges supposent et excusent
plus facilement l’assassinat chez les invertis et la trahison
chez les Juifs pour des raisons tirées du péché originel et de
la fatalité de la race. Enfin – du moins selon la première
théorie que j’en esquissais alors, qu’on verra se modifier par
la suite, et en laquelle cela les eût par-dessus tout fâchés si
cette contradiction n’avait été dérobée à leurs yeux par
l’illusion même que les faisait voir et vivre – amants à qui est
presque fermée la possibilité de cet amour dont l’espérance
leur donne la force de supporter tant de risques et de
solitudes, puisqu’ils sont justement épris d’un homme qui
n’aurait rien d’une femme, d’un homme qui ne serait pas
inverti et qui, par conséquent, ne peut les aimer ; de sorte
que leur désir serait à jamais inassouvissable si l’argent ne
leur livrait de vrais hommes, et si l’imagination ne finissait
par leur faire prendre pour de vrais hommes les invertis à qui
ils se sont prostitués. Sans honneur que précaire, sans liberté
que provisoire, jusqu’à la découverte du crime ; sans
situation qu’instable, comme pour le poète la veille fêté dans
tous les salons, applaudi dans tous les théâtres de Londres,
chassé le lendemain de tous les garnis sans pouvoir trouver
un oreiller où reposer sa tête, tournant la meule comme
Samson et disant comme lui : « Les deux sexes mourront
chacun de son côté » ; exclus même, hors les jours de grande
infortune où le plus grand nombre se rallie autour de la
victime, comme les Juifs autour de Dreyfus, de la sympathie
– parfois de la société – de leurs semblables, auxquels ils
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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donnent le dégoût de voir ce qu’ils sont, dépeint dans un
miroir qui, ne les flattant plus, accuse toutes les tares qu’ils
n’avaient pas voulu remarquer chez eux-mêmes et qui leur
fait comprendre que ce qu’ils appelaient leur amour (et à
quoi, en jouant sur le mot, ils avaient, par sens social, annexé
tout ce que la poésie, la peinture, la musique, la chevalerie,
l’ascétisme, ont pu ajouter à l’amour) découle non d’un idéal
de beauté qu’ils ont élu, mais d’une maladie inguérissable ;
comme les Juifs encore (sauf quelques-uns qui ne veulent
fréquenter que ceux de leur race, ont toujours à la bouche les
mots rituels et les plaisanteries consacrées) se fuyant les uns
les autres, recherchant ceux qui leur sont le plus opposés, qui
ne veulent pas d’eux, pardonnant leurs rebuffades, s’enivrant
de leurs complaisances ; mais aussi rassemblés à leurs pareils
par l’ostracisme qui les frappe, l’opprobre où ils sont
tombés, ayant fini par prendre, par une persécution
semblable à celle d’Israël, les caractères physiques et moraux
d’une race, parfois beaux, souvent affreux, trouvant (malgré
toutes les moqueries dont celui qui, plus mêlé, mieux
assimilé à la race adverse, est relativement, en apparence, le
moins inverti, accable qui l’est demeuré davantage) une
détente dans la fréquentation de leurs semblables, et même
un appui dans leur existence, si bien que, tout en niant qu’ils
soient une race (dont le nom est la plus grande injure), ceux
qui parviennent à cacher qu’ils en sont, ils les démasquent
volontiers, moins pour leur nuire, ce qu’ils ne détestent pas,
que pour s’excuser, et allant chercher, comme un médecin
l’appendicite, l’inversion jusque dans l’histoire, ayant plaisir à
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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rappeler que Socrate était l’un d’eux, comme les Israélites
disent de Jésus, sans songer qu’il n’y avait pas d’anormaux
quand l’homosexualité était la norme, pas d’antichrétiens
avant le Christ, que l’opprobre seul fait le crime, parce qu’il
n’a laissé subsister que ceux qui étaient réfractaires à toute
prédication, à tout exemple, à tout châtiment, en vertu d’une
disposition innée tellement spéciale qu’elle répugne plus aux
autres hommes (encore qu’elle puisse s’accompagner de
hautes qualités morales) que de certains vices qui y
contredisent, comme le vol, la cruauté, la mauvaise foi,
mieux compris, donc plus excusés du commun des hommes
; formant une franc-maçonnerie bien plus étendue, plus
efficace et moins soupçonnée que celle des loges, car elle
repose sur une identité de goûts, de besoins, d’habitudes, de
dangers, d’apprentissage, de savoir, de trafic, de glossaire, et
dans laquelle les membres mêmes qui souhaitent de ne pas
se connaître aussitôt se reconnaissent à des signes naturels
ou de convention, involontaires ou voulus, qui signalent un
de ses semblables au mendiant dans le grand seigneur à qui il
ferme la portière de sa voiture, au père dans le fiancé de sa
fille, à celui qui avait voulu se guérir, se confesser, qui avait à
se défendre, dans le médecin, dans le prêtre, dans l’avocat
qu’il est allé trouver ; tous obligés à protéger leur secret, mais
ayant leur part d’un secret des autres que le reste de
l’humanité ne soupçonne pas et qui fait qu’à eux les romans
d’aventure les plus invraisemblables semblent vrais, car dans
cette vie romanesque, anachronique, l’ambassadeur est ami
du forçat ; le prince, avec une certaine liberté d’allures que
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donne l’éducation aristocratique et qu’un petit bourgeois
tremblant n’aurait pas, en sortant de chez la duchesse s’en va
conférer avec l’apache ; partie réprouvée de la collectivité
humaine, mais partie importante, soupçonnée là où elle n’est
pas étalée, insolente, impunie là où elle n’est pas devinée ;
comptant des adhérents partout, dans le peuple, dans
l’armée, dans le temple, au bagne, sur le trône ; vivant enfin,
du moins un grand nombre, dans l’intimité caressante et
dangereuse avec les hommes de l’autre race, les provoquant,
jouant avec eux à parler de son vice comme s’il n’était pas
sien, jeu qui est rendu facile par l’aveuglement ou la fausseté
des autres, jeu qui peut se prolonger des années jusqu’au jour
du scandale où ces dompteurs sont dévorés ; jusque-là
obligés de cacher leur vie, de détourner leurs regards d’où ils
voudraient se fixer, de les fixer sur ce dont ils voudraient se
détourner, de changer le genre de bien des adjectifs dans leur
vocabulaire, contrainte sociale légère auprès de la contrainte
intérieure que leur vice, ou ce qu’on nomme improprement
ainsi, leur impose non plus à l’égard des autres mais d’euxmêmes, et de façon qu’à eux-mêmes il ne leur paraisse pas
un vice. Mais certains, plus pratiques, plus pressés, qui n’ont
pas le temps d’aller faire leur marché et de renoncer à la
simplification de la vie et à ce gain de temps qui peut résulter
de la coopération, se sont fait deux sociétés dont la seconde
est composée exclusivement d’êtres pareils à eux.
Cela frappe chez ceux qui sont pauvres et venus de la
province, sans relations, sans rien que l’ambition d’être un
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jour médecin ou avocat célèbre, ayant un esprit encore vide
d’opinions, un corps dénué de manières et qu’ils comptent
rapidement orner, comme ils achèteraient pour leur petite
chambre du quartier latin des meubles d’après ce qu’ils
remarqueraient et calqueraient chez ceux qui sont déjà «
arrivés » dans la profession utile et sérieuse où ils souhaitent
de s’encadrer et de devenir illustres ; chez ceux-là, leur goût
spécial, hérité à leur insu, comme des dispositions pour le
dessin, pour la musique, est peut-être, à la vérité, la seule
originalité vivace, despotique – et qui tels soirs les force à
manquer telle réunion utile à leur carrière avec des gens
dont, pour le reste, ils adoptent les façons de parler, de
penser, de s’habiller, de se coiffer. Dans leur quartier, où ils
ne fréquentent sans cela que des condisciples, des maîtres ou
quelque compatriote arrivé et protecteur, ils ont vite
découvert d’autres jeunes gens que le même goût particulier
rapproche d’eux, comme dans une petite ville se lient le
professeur de seconde et le notaire qui aiment tous les deux
la musique de chambre, les ivoires du moyen âge ; appliquant
à l’objet de leur distraction le même instinct utilitaire, le
même esprit professionnel qui les guide dans leur carrière, ils
les retrouvent à des séances où nul profane n’est admis, pas
plus qu’à celles qui réunissent des amateurs de vieilles
tabatières, d’estampes japonaises, de fleurs rares, et où, à
cause du plaisir de s’instruire, de l’utilité des échanges et de la
crainte des compétitions, règne à la fois, comme dans une
bourse aux timbres, l’entente étroite des spécialistes et les
féroces rivalités des collectionneurs. Personne d’ailleurs,
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dans le café où ils ont leur table, ne sait quelle est cette
réunion, si c’est celle d’une société de pêche, des secrétaires
de rédaction, ou des enfants de l’Indre, tant leur tenue est
correcte, leur air réservé et froid, et tant ils n’osent regarder
qu’à la dérobée les jeunes gens à la mode, les jeunes « lions »
qui, à quelques mètres plus loin, font grand bruit de leurs
maîtresses, et parmi lesquels ceux qui les admirent sans oser
lever les yeux apprendront seulement vingt ans plus tard,
quand les uns seront à la veille d’entrer dans une académie et
les autres de vieux hommes de cercle, que le plus séduisant,
maintenant un gros et grisonnant Charlus, était en réalité
pareil à eux, mais ailleurs, dans un autre monde, sous
d’autres symboles extérieurs, avec des signes étrangers, dont
la différence les a induits en erreur. Mais les groupements
sont plus ou moins avancés ; et comme l’« Union des
gauches » diffère de la « Fédération socialiste » et telle société
de musique Mendelssohnienne de la Schola Cantorum,
certains soirs, à une autre table, il y a des extrémistes qui
laissent passer un bracelet sous leur manchette, parfois un
collier dans l’évasement de leur col, forcent par leurs regards
insistants, leurs gloussements, leurs rires, leurs caresses entre
eux, une bande de collégiens à s’enfuir au plus vite, et sont
servis, avec une politesse sous laquelle couve l’indignation,
par un garçon qui, comme les soirs où il sert les dreyfusards,
aurait plaisir à aller chercher la police s’il n’avait avantage à
empocher les pourboires.
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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C’est à ces organisations professionnelles que l’esprit oppose
le goût des solitaires, et sans trop d’artifices d’une part,
puisqu’il ne fait en cela qu’imiter les solitaires eux-mêmes qui
croient que rien ne diffère plus du vice organisé que ce qui
leur paraît à eux un amour incompris, avec quelque artifice
toutefois, car ces différentes classes répondent, tout autant
qu’à des types physiologiques divers, à des moments
successifs d’une évolution pathologique ou seulement
sociale. Et il est bien rare en effet qu’un jour ou l’autre, ce ne
soit pas dans de telles organisations que les solitaires
viennent se fondre, quelquefois par simple lassitude, par
commodité (comme finissent ceux qui en ont été le plus
adversaires par faire poser chez eux le téléphone, par
recevoir les Iéna, ou par acheter chez Potin). Ils y sont
d’ailleurs généralement assez mal reçus, car, dans leur vie
relativement pure, le défaut d’expérience, la saturation par la
rêverie où ils sont réduits, ont marqué plus fortement en eux
ces caractères particuliers d’efféminement que les
professionnels ont cherché à effacer. Et il faut avouer que
chez certains de ces nouveaux venus, la femme n’est pas
seulement intérieurement unie à l’homme, mais hideusement
visible, agités qu’ils sont dans un spasme d’hystérique, par un
rire aigu qui convulse leurs genoux et leurs mains, ne
ressemblant pas plus au commun des hommes que ces
singes à l’œil mélancolique et cerné, aux pieds prenants, qui
revêtent le smoking et portent une cravate noire ; de sorte
que ces nouvelles recrues sont jugées, par de moins chastes
pourtant, d’une fréquentation compromettante, et leur
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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admission difficile ; on les accepte cependant et ils
bénéficient alors de ces facilités par lesquelles le commerce,
les grandes entreprises, ont transformé la vie des individus,
leur ont rendu accessibles des denrées jusque-là trop
dispendieuses à acquérir et même difficiles à trouver, et qui
maintenant les submergent par la pléthore de ce que seuls ils
n’avaient pu arriver à découvrir dans les plus grandes foules.
Mais, même avec ces exutoires innombrables, la contrainte
sociale est trop lourde encore pour certains, qui se recrutent
surtout parmi ceux chez qui la contrainte mentale ne s’est
pas exercée et qui tiennent encore pour plus rare qu’il n’est
leur genre d’amour. Laissons pour le moment de côté ceux
qui, le caractère exceptionnel de leur penchant les faisant se
croire supérieurs à elles, méprisent les femmes, font de
l’homosexualité le privilège des grands génies et des époques
glorieuses, et quand ils cherchent à faire partager leur goût, le
font moins à ceux qui leur semblent y être prédisposés,
comme le morphinomane fait pour la morphine, qu’à ceux
qui leur en semblent dignes, par zèle d’apostolat, comme
d’autres prêchent le sionisme, le refus du service militaire, le
saint-simonisme, le végétarisme et l’anarchie. Quelques-uns,
si on les surprend le matin encore couchés, montrent une
admirable tête de femme, tant l’expression est générale et
symbolise tout le sexe ; les cheveux eux-mêmes l’affirment,
leur inflexion est si féminine, déroulés, ils tombent si
naturellement en tresses sur la joue, qu’on s’émerveille que la
jeune femme, la jeune fille, Galathée qui s’éveille à peine
dans l’inconscient de ce corps d’homme où elle est
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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enfermée, ait su si ingénieusement, de soi-même, sans l’avoir
appris de personne, profiter des moindres issues de sa
prison, trouver ce qui était nécessaire à sa vie. Sans doute le
jeune homme qui a cette tête délicieuse ne dit pas : « Je suis
une femme. » Même si – pour tant de raisons possibles – il
vit avec une femme, il peut lui nier que lui en soit une, lui
jurer qu’il n’a jamais eu de relations avec des hommes.
Qu’elle le regarde comme nous venons de le montrer,
couché dans un lit, en pyjama, les bras nus, le cou nu sous
les cheveux noirs. Le pyjama est devenu une camisole de
femme, la tête celle d’une jolie Espagnole. La maîtresse
s’épouvante de ces confidences faites à ses regards, plus
vraies que ne pourraient être des paroles, des actes mêmes,
et que les actes mêmes, s’ils ne l’ont déjà fait, ne pourront
manquer de confirmer, car tout être suit son plaisir, et si cet
être n’est pas trop vicieux, il le cherche dans un sexe opposé
au sien. Et pour l’inverti le vice commence, non pas quand il
noue des relations (car trop de raisons peuvent les
commander), mais quand il prend son plaisir avec des
femmes. Le jeune homme que nous venons d’essayer de
peindre était si évidemment une femme, que les femmes qui
le regardaient avec désir étaient vouées (à moins d’un goût
particulier) au même désappointement que celles qui, dans
les comédies de Shakespeare, sont déçues par une jeune fille
déguisée qui se fait passer pour un adolescent. La tromperie
est égale, l’inverti même le sait, il devine la désillusion que, le
travestissement ôté, la femme éprouvera, et sent combien
cette erreur sur le sexe est une source de fantaisiste poésie.
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Du reste, même à son exigeante maîtresse, il a beau ne pas
avouer (si elle n’est pas gomorrhéenne) : « Je suis une femme
», pourtant en lui, avec quelles ruses, quelle agilité, quelle
obstination de plante grimpante, la femme inconsciente et
visible cherche-t-elle l’organe masculin. On n’a qu’à regarder
cette chevelure bouclée sur l’oreiller blanc pour comprendre
que le soir, si ce jeune homme glisse hors des doigts de ses
parents, malgré eux, malgré lui ce ne sera par pour aller
retrouver des femmes. Sa maîtresse peut le châtier,
l’enfermer, le lendemain l’homme-femme aura trouvé le
moyen de s’attacher à un homme, comme le volubilis jette
ses vrilles là où se trouve une pioche ou un râteau. Pourquoi,
admirant dans le visage de cet homme des délicatesses qui
nous touchent, une grâce, un naturel dans l’amabilité comme
les hommes n’en ont point, serions-nous désolés
d’apprendre que ce jeune homme recherche les boxeurs ? Ce
sont des aspects différents d’une même réalité. Et même,
celui qui nous répugne est le plus touchant, plus touchant
que toutes les délicatesses, car il représente un admirable
effort inconscient de la nature : la reconnaissance du sexe
par lui-même ; malgré les duperies du sexe, apparaît la
tentative inavouée pour s’évader vers ce qu’une erreur
initiale de la société a placé loin de lui. Pour les uns, ceux qui
ont eu l’enfance la plus timide sans doute, ils ne se
préoccupent guère de la sorte matérielle de plaisir qu’ils
reçoivent, pourvu qu’ils puissent le rapporter à un visage
masculin. Tandis que d’autres, ayant des sens plus violents
sans doute, donnent à leur plaisir matériel d’impérieuses
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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localisations. Ceux-là choqueraient peut-être par leurs aveux
la moyenne du monde. Ils vivent peut-être moins
exclusivement sous le satellite de Saturne, car pour eux les
femmes ne sont pas entièrement exclues comme pour les
premiers, à l’égard desquels elles n’existeraient pas sans la
conversation, la coquetterie, les amours de tête. Mais les
seconds recherchent celles qui aiment les femmes, elles
peuvent leur procurer un jeune homme, accroître le plaisir
qu’ils ont à se trouver avec lui ; bien plus, ils peuvent, de la
même manière, prendre avec elles le même plaisir qu’avec un
homme. De là vient que la jalousie n’est excitée, pour ceux
qui aiment les premiers, que par le plaisir qu’ils pourraient
prendre avec un homme et qui seul leur semble une trahison,
puisqu’ils ne participent pas à l’amour des femmes, ne l’ont
pratiqué que comme habitude et pour se réserver la
possibilité du mariage, se représentant si peu le plaisir qu’il
peut donner, qu’ils ne peuvent souffrir que celui qu’ils
aiment le goûte ; tandis que les seconds inspirent souvent de
la jalousie par leurs amours avec des femmes. Car dans les
rapports qu’ils ont avec elles, ils jouent pour la femme qui
aime les femmes le rôle d’une autre femme, et la femme leur
offre en même temps à peu près ce qu’ils trouvent chez
l’homme, si bien que l’ami jaloux souffre de sentir celui qu’il
aime rivé à celle qui est pour lui presque un homme, en
même temps qu’il le sent presque lui échapper, parce que,
pour ces femmes, il est quelque chose qu’il ne connaît pas,
une espèce de femme. Ne parlons pas non plus de ces jeunes
fous qui, par une sorte d’enfantillage, pour taquiner leurs
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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amis, choquer leurs parents, mettent une sorte
d’acharnement à choisir des vêtements qui ressemblent à des
robes, à rougir leurs lèvres et noircir leurs yeux ; laissons-les
de côté, car ce sont eux qu’on retrouvera, quand ils auront
trop cruellement porté la peine de leur affectation, passant
toute une vie à essayer vainement de réparer, par une tenue
sévère, protestante, le tort qu’ils se sont fait quand ils étaient
emportés par le même démon qui pousse des jeunes femmes
du faubourg Saint-Germain à vivre d’une façon scandaleuse,
à rompre avec tous les usages, à bafouer leur famille,
jusqu’au jour où elles se mettent avec persévérance et sans
succès à remonter la pente qu’il leur avait paru si amusant de
descendre, qu’elles avaient trouvé si amusant, ou plutôt
qu’elles n’avaient pas pu s’empêcher de descendre. Laissons
enfin pour plus tard ceux qui ont conclu un pacte avec
Gomorrhe. Nous en parlerons quand M. de Charlus les
connaîtra. Laissons tous ceux, d’une variété ou d’une autre,
qui apparaîtront à leur tour, et pour finir ce premier exposé,
ne disons un mot que de ceux dont nous avions commencé
de parler tout à l’heure, des solitaires. Tenant leur vice pour
plus exceptionnel qu’il n’est, ils sont allés vivre seuls du jour
qu’ils l’ont découvert, après l’avoir porté longtemps sans le
connaître, plus longtemps seulement que d’autres. Car
personne ne sait tout d’abord qu’il est inverti, ou poète, ou
snob, ou méchant. Tel collégien qui apprenait des vers
d’amour ou regardait des images obscènes, s’il se serrait alors
contre un camarade, s’imaginait seulement communier avec
lui dans un même désir de la femme. Comment croirait-il
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n’être pas pareil à tous, quand ce qu’il éprouve il en
reconnaît la substance en lisant Mme de Lafayette, Racine,
Baudelaire, Walter Scott, alors qu’il est encore trop peu
capable de s’observer soi-même pour se rendre compte de ce
qu’il ajoute de son cru, et que si le sentiment est le même,
l’objet diffère, que ce qu’il désire c’est Rob Roy et non Diana
Vernon ? Chez beaucoup, par une prudence défensive de
l’instinct qui précède la vue plus claire de l’intelligence, la
glace et les murs de leur chambre disparaissaient sous des
chromos représentant des actrices ; ils font des vers tels que :
« Je n’aime que Chloé au monde, elle est divine, elle est
blonde, et d’amour mon cœur s’inonde. » Faut-il pour cela
mettre au commencement de ces vies un goût qu’on ne
devait point retrouver chez elles dans la suite, comme ces
boucles blondes des enfants qui doivent ensuite devenir les
plus bruns ? Qui sait si les photographies de femmes ne sont
pas un commencement d’hypocrisie, un commencement
aussi d’horreur pour les autres invertis ? Mais les solitaires
sont précisément ceux à qui l’hypocrisie est douloureuse.
Peut-être l’exemple des Juifs, d’une colonie différente, n’estil même pas assez fort pour expliquer combien l’éducation a
peu de prise sur eux, et avec quel art ils arrivent à revenir,
peut-être pas à quelque chose d’aussi simplement atroce que
le suicide où les fous, quelque précaution qu’on prenne,
reviennent et, sauvés de la rivière où ils se sont jetés,
s’empoisonnent, se procurent un revolver, etc., mais à une
vie dont les hommes de l’autre race non seulement ne
comprennent pas, n’imaginent pas, haïssent les plaisirs
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nécessaires, mais encore dont le danger fréquent et la honte
permanente leur feraient horreur. Peut-être, pour les peindre,
faut-il penser sinon aux animaux qui ne se domestiquent pas,
aux lionceaux prétendus apprivoisés mais restés lions, du
moins aux noirs, que l’existence confortable des blancs
désespère et qui préfèrent les risques de la vie sauvage et ses
incompréhensibles joies. Quand le jour est venu où ils se
sont découverts incapables à la fois de mentir aux autres et
de se mentir à soi-même, ils partent vivre à la campagne,
fuyant leurs pareils (qu’ils croient peu nombreux) par
horreur de la monstruosité ou crainte de la tentation, et le
reste de l’humanité par honte. N’étant jamais parvenus à la
véritable maturité, tombés dans la mélancolie, de temps à
autre, un dimanche sans lune, ils vont faire une promenade
sur un chemin jusqu’à un carrefour, où, sans qu’ils se soient
dit un mot, est venu les attendre un de leurs amis d’enfance
qui habite un château voisin. Et ils recommencent les jeux
d’autrefois, sur l’herbe, dans la nuit, sans échanger une
parole. En semaine, ils se voient l’un chez l’autre, causent de
n’importe quoi, sans une allusion à ce qui s’est passé,
exactement comme s’ils n’avaient rien fait et ne devaient rien
refaire, sauf, dans leurs rapports, un peu de froideur,
d’ironie, d’irritabilité et de rancune, parfois de la haine. Puis
le voisin part pour un dur voyage à cheval, et, à mulet,
ascensionne des pics, couche dans la neige ; son ami, qui
identifie son propre vice avec une faiblesse de tempérament,
la vie casanière et timide, comprend que le vice ne pourra
plus vivre en son ami émancipé, à tant de milliers de mètres
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au-dessus du niveau de la mer. Et en effet, l’autre se marie.
Le délaissé pourtant ne guérit pas (malgré les cas où l’on
verra que l’inversion est guérissable). Il exige de recevoir luimême le matin, dans sa cuisine, la crème fraîche des mains
du garçon laitier et, les soirs où des désirs l’agitent trop, il
s’égare jusqu’à remettre dans son chemin un ivrogne, jusqu’à
arranger la blouse de l’aveugle. Sans doute la vie de certains
invertis paraît quelquefois changer, leur vice (comme on dit)
n’apparaît plus dans leurs habitudes ; mais rien ne se perd :
un bijou caché se retrouve ; quand la quantité des urines
d’un malade diminue, c’est bien qu’il transpire davantage,
mais il faut toujours que l’excrétion se fasse. Un jour cet
homosexuel perd un jeune cousin et, à son inconsolable
douleur, vous comprenez que c’était dans cet amour, chaste
peut-être et qui tenait plus à garder l’estime qu’à obtenir la
possession, que les désirs avaient passé par virement, comme
dans un budget, sans rien changer au total, certaines
dépenses sont portées à un autre exercice. Comme il en est
pour ces malades chez qui une crise d’urticaire fait
disparaître pour un temps leurs indispositions habituelles,
l’amour pur à l’égard d’un jeune parent semble, chez l’inverti,
avoir momentanément remplacé, par métastase, des
habitudes qui reprendront un jour ou l’autre la place du mal
vicariant et guéri.
Cependant le voisin marié du solitaire est revenu ; devant la
beauté de la jeune épouse et la tendresse que son mari lui
témoigne, le jour où l’ami est forcé de les inviter à dîner, il a
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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honte du passé. Déjà dans une position intéressante, elle doit
rentrer de bonne heure, laissant son mari ; celui-ci, quand
l’heure est venue de rentrer, demande un bout de conduite à
son ami, que d’abord aucune suspicion n’effleure, mais qui,
au carrefour, se voit renversé sur l’herbe, sans une parole,
par l’alpiniste bientôt père. Et les rencontres recommencent
jusqu’au jour où vient s’installer non loin de là un cousin de
la jeune femme, avec qui se promène maintenant toujours le
mari. Et celui-ci, si le délaissé vient le voir et cherche à
s’approcher de lui, furibond, le repousse avec l’indignation
que l’autre n’ait pas eu le tact de pressentir le dégoût qu’il
inspire désormais. Une fois pourtant se présente un inconnu
envoyé par le voisin infidèle ; mais, trop affairé, le délaissé ne
peut le recevoir et ne comprend que plus tard dans quel but
l’étranger était venu.
Alors le solitaire languit seul. Il n’a d’autre plaisir que d’aller
à la station de bain de mer voisine demander un
renseignement à un certain employé de chemin de fer. Mais
celui-ci a reçu de l’avancement, est nommé à l’autre bout de
la France ; le solitaire ne pourra plus aller lui demander
l’heure des trains, le prix des premières, et avant de rentrer
rêver dans sa tour, comme Grisélidis, il s’attarde sur la plage,
telle une étrange Andromède qu’aucun Argonaute ne viendra
délivrer, comme une méduse stérile qui périra sur le sable, ou
bien il reste paresseusement, avant le départ du train, sur le
quai, à jeter sur la foule des voyageurs un regard qui
semblera indifférent, dédaigneux ou distrait, à ceux d’une
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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autre race, mais qui, comme l’éclat lumineux dont se parent
certains insectes pour attirer ceux de la même espèce, ou
comme le nectar qu’offrent certaines fleurs pour attirer les
insectes qui les féconderont, ne tromperait pas l’amateur
presque introuvable d’un plaisir trop singulier, trop difficile à
placer, qui lui est offert, le confrère avec qui notre spécialiste
pourrait parler la langue insolite ; tout au plus, à celle-ci
quelque loqueteux du quai fera-t-il semblant de s’intéresser,
mais pour un bénéfice matériel seulement, comme ceux qui
au Collège de France, dans la salle où le professeur de
sanscrit parle sans auditeur, vont suivre le cours, mais
seulement pour se chauffer. Méduse ! Orchidée ! quand je ne
suivais que mon instinct, la méduse me répugnait à Balbec ;
mais si je savais la regarder, comme Michelet, du point de
vue de l’histoire naturelle et de l’esthétique, je voyais une
délicieuse girandole d’azur. Ne sont-elles pas, avec le velours
transparent de leurs pétales, comme les mauves orchidées de
la mer ? Comme tant de créatures du règne animal et du
règne végétal, comme la plante qui produirait la vanille, mais
qui, parce que, chez elle, l’organe mâle est séparé par une
cloison de l’organe femelle, demeure stérile si les oiseauxmouches ou certaines petites abeilles ne transportent le
pollen des unes aux autres ou si l’homme ne les féconde
artificiellement, M. de Charlus (et ici le mot fécondation doit
être pris au sens moral, puisqu’au sens physique l’union du
mâle avec le mâle est stérile, mais il n’est pas indifférent
qu’un individu puisse rencontrer le seul plaisir qu’il est
susceptible de goûter, et « qu’ici-bas tout être » puisse
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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donner à quelqu’un « sa musique, sa flamme ou son parfum
»), M. de Charlus était de ces hommes qui peuvent être
appelés exceptionnels, parce que, si nombreux soient-ils, la
satisfaction, si facile chez d’autres de leurs besoins sexuels,
dépend de la coïncidence de trop de conditions, et trop
difficiles à rencontrer. Pour des hommes comme M. de
Charlus, et sous la réserve des accommodements qui
paraîtront peu à peu et qu’on a pu déjà pressentir, exigés par
le besoin de plaisir, qui se résignent à de demiconsentements, l’amour mutuel, en dehors des difficultés si
grandes, parfois insurmontables, qu’il rencontre chez le
commun des êtres, leur en ajoute de si spéciales, que ce qui
est toujours très rare pour tout le monde devient à leur égard
à peu près impossible, et que, si se produit pour eux une
rencontre vraiment heureuse ou que la nature leur fait
paraître telle, leur bonheur, bien plus encore que celui de
l’amoureux normal, a quelque chose d’extraordinaire, de
sélectionné, de profondément nécessaire. La haine des
Capulet et des Montaigu n’était rien auprès des
empêchements de tout genre qui ont été vaincus, des
éliminations spéciales que la nature a dû faire subir aux
hasards déjà peu communs qui amènent l’amour, avant
qu’un ancien giletier, qui comptait partir sagement pour son
bureau, titube, ébloui, devant un quinquagénaire bedonnant ;
ce Roméo et cette Juliette peuvent croire à bon droit que
leur amour n’est pas le caprice d’un instant, mais une
véritable prédestination préparée par les harmonies de leur
tempérament, non pas seulement par leur tempérament
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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propre, mais par celui de leurs ascendants, par leur plus
lointaine hérédité, si bien que l’être qui se conjoint à eux leur
appartient avant la naissance, les a attirés par une force
comparable à celle qui dirige les mondes où nous avons
passé nos vies antérieures. M. de Charlus m’avait distrait de
regarder si le bourdon apportait à l’orchidée le pollen qu’elle
attendait depuis si longtemps, qu’elle n’avait chance de
recevoir que grâce à un hasard si improbable qu’on le
pouvait appeler une espèce de miracle. Mais c’était un
miracle aussi auquel je venais d’assister, presque du même
genre, et non moins merveilleux. Dès que j’eus considéré
cette rencontre de ce point de vue, tout m’y sembla empreint
de beauté. Les ruses les plus extraordinaires que la nature a
inventées pour forcer les insectes à assurer la fécondation
des fleurs, qui, sans eux, ne pourraient pas l’être parce que la
fleur mâle y est trop éloignée de la fleur femelle, ou qui, si
c’est le vent qui doit assurer le transport du pollen, le rend
bien plus facile à détacher de la fleur mâle, bien plus aisé à
attraper au passage de la fleur femelle, en supprimant la
sécrétion du nectar, qui n’est plus utile puisqu’il n’y a pas
d’insectes à attirer, et même l’éclat des corolles qui les
attirent, et, pour que la fleur soit réservée au pollen qu’il faut,
qui ne peut fructifier qu’en elle, lui fait sécréter une liqueur
qui l’immunise contre les autres pollens – ne me semblaient
pas plus merveilleuses que l’existence de la sous-variété
d’invertis destinée à assurer les plaisirs de l’amour à l’inverti
devenant vieux : les hommes qui sont attirés non par tous les
hommes, mais – par un phénomène de correspondance et
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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d’harmonie comparable à ceux qui règlent la fécondation des
fleurs hétérostylées trimorphes, comme le Lythrum salicoria
– seulement par les hommes beaucoup plus âgés qu’eux. De
cette sous-variété, Jupien venait de m’offrir un exemple,
moins saisissant pourtant que d’autres que tout herborisateur
humain, tout botaniste moral, pourra observer, malgré leur
rareté, et qui leur présentera un frêle jeune homme qui
attendait les avances d’un robuste et bedonnant
quinquagénaire, restant aussi indifférent aux avances des
autres jeunes gens que restent stériles les fleurs
hermaphrodites à court style de la Primula veris tant qu’elles
ne sont fécondées que par d’autres Primula veris à court
style aussi, tandis qu’elles accueillent avec joie le pollen des
Primula veris à long style. Quant à ce qui était de M. de
Charlus, du reste, je me rendis compte dans la suite qu’il y
avait pour lui divers genres de conjonctions et desquelles
certaines, par leur multiplicité, leur instantanéité à peine
visible, et surtout le manque de contact entre les deux
acteurs, rappelaient plus encore ces fleurs qui dans un jardin
sont fécondées par le pollen d’une fleur voisine qu’elles ne
toucheront jamais. Il y avait en effet certains êtres qu’il lui
suffisait de faire venir chez lui, de tenir pendant quelques
heures sous la domination de sa parole, pour que son désir,
allumé dans quelque rencontre, fût apaisé. Par simples
paroles la conjonction était faite aussi simplement qu’elle
peut se produire chez les infusoires. Parfois, ainsi que cela lui
était sans doute arrivé pour moi le soir où j’avais été mandé
par lui après le dîner Guermantes, l’assouvissement avait lieu
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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grâce à une violente semonce que le baron jetait à la figure
du visiteur, comme certaines fleurs, grâce à un ressort,
aspergent à distance l’insecte inconsciemment complice et
décontenancé. M. de Charlus, de dominé devenu
dominateur, se sentait purgé de son inquiétude et calmé,
renvoyait le visiteur, qui avait aussitôt cessé de lui paraître
désirable. Enfin, l’inversion elle-même, venant de ce que
l’inverti se rapproche trop de la femme pour pouvoir avoir
des rapports utiles avec elle, se rattache par là à une loi plus
haute qui fait que tant de fleurs hermaphrodites restent
infécondes, c’est-à-dire à la stérilité de l’auto-fécondation. Il
est vrai que les invertis à la recherche d’un mâle se
contentent souvent d’un inverti aussi efféminé qu’eux. Mais
il suffit qu’ils n’appartiennent pas au sexe féminin, dont ils
ont en eux un embryon dont ils ne peuvent se servir, ce qui
arrive à tant de fleurs hermaphrodites et même à certains
animaux hermaphrodites, comme l’escargot, qui ne peuvent
être fécondés par eux-mêmes, mais peuvent l’être par
d’autres hermaphrodites. Par là les invertis, qui se rattachent
volontiers à l’antique Orient ou à l’âge d’or de la Grèce,
remonteraient plus haut encore, à ces époques d’essai où
n’existaient ni les fleurs dioïques, ni les animaux unisexués, à
cet hermaphrodisme initial dont quelques rudiments
d’organes mâles dans l’anatomie de la femme et d’organes
femelles dans l’anatomie de l’homme semblent conserver la
trace. Je trouvais la mimique, d’abord incompréhensible
pour moi, de Jupien et de M. de Charlus aussi curieuse que
ces gestes tentateurs adressés aux insectes, selon Darwin,
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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non seulement par les fleurs dites composées, haussant les
demi-fleurons de leurs capitules pour être vues de plus loin,
comme certaine hétérostylée qui retourne ses étamines et les
courbe pour frayer le chemin aux insectes, ou qui leur offre
une ablution, et tout simplement même aux parfums de
nectar, à l’éclat des corolles qui attiraient en ce moment des
insectes dans la cour. À partir de ce jour, M. de Charlus
devait changer l’heure de ses visites à Mme de Villeparisis,
non qu’il ne pût voir Jupien ailleurs et plus commodément,
mais parce qu’aussi bien qu’ils l’étaient pour moi, le soleil de
l’après-midi et les fleurs de l’arbuste étaient sans doute liés à
son souvenir. D’ailleurs, il ne se contenta pas de
recommander les Jupien à Mme de Villeparisis, à la duchesse
de Guermantes, à toute une brillante clientèle, qui fut
d’autant plus assidue auprès de la jeune brodeuse que les
quelques dames qui avaient résisté ou seulement tardé furent
de la part du baron l’objet de terribles représailles, soit afin
qu’elles servissent d’exemple, soit parce qu’elles avaient
éveillé sa fureur et s’étaient dressées contre ses entreprises de
domination ; il rendit la place de Jupien de plus en plus
lucrative jusqu’à ce qu’il le prît définitivement comme
secrétaire et l’établît dans les conditions que nous verrons
plus tard. « Ah ! en voilà un homme heureux que ce Jupien »,
disait Françoise qui avait une tendance à diminuer ou à
exagérer les bontés selon qu’on les avait pour elle ou pour
les autres. D’ailleurs là, elle n’avait pas besoin d’exagération
ni n’éprouvait d’ailleurs d’envie, aimant sincèrement Jupien.
« Ah ! c’est un si bon homme que le baron, ajoutait-elle, si
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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bien, si dévot, si comme il faut ! Si j’avais une fille à marier et
que j’étais du monde riche, je la donnerais au baron les yeux
fermés. – Mais, Françoise, disait doucement ma mère, elle
aurait bien des maris cette fille. Rappelez-vous que vous
l’avez déjà promise à Jupien. – Ah ! dame, répondait
Françoise, c’est que c’est encore quelqu’un qui rendrait une
femme bien heureuse. Il y a beau avoir des riches et des
pauvres misérables, ça ne fait rien pour la nature. Le baron et
Jupien, c’est bien le même genre de personnes. »
Au reste j’exagérais beaucoup alors, devant cette révélation
première, le caractère électif d’une conjonction si
sélectionnée. Certes, chacun des hommes pareils à M. de
Charlus est une créature extraordinaire, puisque, s’il ne fait
pas de concessions aux possibilités de la vie, il recherche
essentiellement l’amour d’un homme de l’autre race, c’est-àdire d’un homme aimant les femmes (et qui par conséquent
ne pourra pas l’aimer) ; contrairement à ce que je croyais
dans la cour, où je venais de voir Jupien tourner autour de
M. de Charlus comme l’orchidée faire des avances au
bourdon, ces êtres d’exception que l’on plaint sont une
foule, ainsi qu’on le verra au cours de cet ouvrage, pour une
raison qui ne sera dévoilée qu’à la fin, et se plaignent euxmêmes d’être plutôt trop nombreux que trop peu. Car les
deux anges qui avaient été placés aux portes de Sodome
pour savoir si ses habitants, dit la Genèse, avaient
entièrement fait toutes ces choses dont le cri était monté
jusqu’à l’Éternel, avaient été, on ne peut que s’en réjouir, très
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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mal choisis par le Seigneur, lequel n’eût dû confier la tâche
qu’à un Sodomiste. Celui-là, les excuses : « Père de six
enfants, j’ai deux maîtresses, etc. » ne lui eussent pas fait
abaisser bénévolement l’épée flamboyante et adoucir les
sanctions ; il aurait répondu : « Oui, et ta femme souffre les
tortures de la jalousie. Mais même quand ces femmes n’ont
pas été choisies par toi à Gomorrhe, tu passes tes nuits avec
un gardeur de troupeaux de l’Hébron. » Et il l’aurait
immédiatement fait rebrousser chemin vers la ville qu’allait
détruire la pluie de feu et de soufre. Au contraire, on laissa
s’enfuir tous les Sodomistes honteux, même si, apercevant
un jeune garçon, ils détournaient la tête, comme la femme de
Loth, sans être pour cela changés comme elle en statues de
sel. De sorte qu’ils eurent une nombreuse postérité chez qui
ce geste est resté habituel, pareil à celui des femmes
débauchées qui, en ayant l’air de regarder un étalage de
chaussures placées derrière une vitrine, retournent la tête
vers un étudiant. Ces descendants des Sodomistes, si
nombreux qu’on peut leur appliquer l’autre verset de la
Genèse : « Si quelqu’un peut compter la poussière de la terre,
il pourra aussi compter cette postérité », se sont fixés sur
toute la terre, ils ont eu accès à toutes les professions, et
entrent si bien dans les clubs les plus fermés que, quand un
sodomiste n’y est pas admis, les boules noires y sont en
majorité celles de sodomistes, mais qui ont soin d’incriminer
la sodomie, ayant hérité le mensonge qui permit à leurs
ancêtres de quitter la ville maudite. Il est possible qu’ils y
retournent un jour. Certes ils forment dans tous les pays une
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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colonie orientale, cultivée, musicienne, médisante, qui a des
qualités charmantes et d’insupportables défauts. On les verra
d’une façon plus approfondie au cours des pages qui
suivront ; mais on a voulu provisoirement prévenir l’erreur
funeste qui consisterait, de même qu’on a encouragé un
mouvement sioniste, à créer un mouvement sodomiste et à
rebâtir Sodome. Or, à peine arrivés, les sodomistes
quitteraient la ville pour ne pas avoir l’air d’en être,
prendraient femme, entretiendraient des maîtresses dans
d’autres cités, où ils trouveraient d’ailleurs toutes les
distractions convenables. Ils n’iraient à Sodome que les jours
de suprême nécessité, quand leur ville serait vide, par ces
temps où la faim fait sortir le loup du bois, c’est-à-dire que
tout se passerait en somme comme à Londres, à Berlin, à
Rome, à Pétrograd ou à Paris.
En tout cas, ce jour-là, avant ma visite à la duchesse, je ne
songeais pas si loin et j’étais désolé d’avoir, par attention à la
conjonction Jupien-Charlus, manqué peut-être de voir la
fécondation de la fleur par le bourdon.
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Deuxième partie
Chapitre premier
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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M. de Charlus dans le monde. – Un médecin. – Face
caractéristique de Mme de Vaugoubert. – Mme d’Arpajon, le
jet d’eau d’Hubert Robert et la gaieté du grand-duc
Wladimir. – Mme d’Amoncourt de Citri, Mme de SaintEuverte, etc. – Curieuse conversation entre Swann et le
prince de Guermantes. – Albertine au téléphone. – Visites en
attendant mon dernier et deuxième séjour à Balbec. –
Arrivée à Balbec. – Les intermittences du cœur.
Comme je n’étais pas pressé d’arriver à cette soirée des
Guermantes où je n’étais pas certain d’être invité, je restais
oisif dehors ; mais le jour d’été ne semblait pas avoir plus de
hâte que moi à bouger. Bien qu’il fût plus de neuf heures,
c’était lui encore qui sur la place de la Concorde donnait à
l’obélisque de Louqsor un air de nougat rose. Puis il en
modifia la teinte et le changea en une matière métallique, de
sorte que l’obélisque ne devint pas seulement plus précieux,
mais sembla aminci et presque flexible. On s’imaginait qu’on
aurait pu tordre, qu’on avait peut-être déjà légèrement faussé
ce bijou. La lune était maintenant dans le ciel comme un
quartier d’orange pelé délicatement quoique un peu entamé.
Mais elle devait plus tard être faite de l’or le plus résistant.
Blottie toute seule derrière elle, une pauvre petite étoile allait
servir d’unique compagne à la lune solitaire, tandis que celleci, tout en protégeant son amie, mais plus hardie et allant de
l’avant, brandirait comme une arme irrésistible, comme un
symbole oriental, son ample et merveilleux croissant d’or.
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Devant l’hôtel de la princesse de Guermantes, je rencontrai
le duc de Châtellerault ; je ne me rappelais plus qu’une demiheure auparavant me persécutait encore la crainte – laquelle
allait du reste bientôt me ressaisir – de venir sans avoir été
invité. On s’inquiète, et c’est parfois longtemps après l’heure
du danger, oubliée grâce à la distraction, que l’on se souvient
de son inquiétude. Je dis bonjour au jeune duc et pénétrai
dans l’hôtel. Mais ici il faut d’abord que je note une
circonstance minime, laquelle permettra de comprendre un
fait qui suivra bientôt.
Il y avait quelqu’un qui, ce soir-là comme les précédents,
pensait beaucoup au duc de Châtellerault, sans soupçonner
du reste qui il était : c’était l’huissier (qu’on appelait dans ce
temps-là « l’aboyeur ») de Mme de Guermantes. M. de
Châtellerault, bien loin d’être un des intimes – comme il était
l’un des cousins – de la princesse, était reçu dans son salon
pour la première fois. Ses parents, brouillés avec elle depuis
dix ans, s’étaient réconciliés depuis quinze jours et, forcés
d’être ce soir absents de Paris, avaient chargé leur fils de les
représenter. Or, quelques jours auparavant, l’huissier de la
princesse avait rencontré dans les Champs-Élysées un jeune
homme qu’il avait trouvé charmant mais dont il n’avait pu
arriver à établir l’identité. Non que le jeune homme ne se fût
montré aussi aimable que généreux. Toutes les faveurs que
l’huissier s’était figuré avoir à accorder à un monsieur si
jeune, il les avait au contraire reçues. Mais M. de
Châtellerault était aussi froussard qu’imprudent ; il était
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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d’autant plus décidé à ne pas dévoiler son incognito qu’il
ignorait à qui il avait affaire ; il aurait eu une peur bien plus
grande – quoique mal fondée – s’il l’avait su. Il s’était borné
à se faire passer pour un Anglais, et à toutes les questions
passionnées de l’huissier, désireux de retrouver quelqu’un à
qui il devait tant de plaisir et de largesses, le duc s’était borné
à répondre, tout le long de l’avenue Gabriel : « I do not
speak french. »
Bien que, malgré tout – à cause de l’origine maternelle de
son cousin – le duc de Guermantes affectât de trouver un
rien de Courvoisier dans le salon de la princesse de
Guermantes-Bavière, on jugeait généralement l’esprit
d’initiative et la supériorité intellectuelle de cette dame
d’après une innovation qu’on ne rencontrait nulle part
ailleurs dans ce milieu. Après le dîner, et quelle que fût
l’importance du raout qui devait suivre, les sièges, chez la
princesse de Guermantes, se trouvaient disposés de telle
façon qu’on formait de petits groupes, qui, au besoin, se
tournaient le dos. La princesse marquait alors son sens social
en allant s’asseoir, comme par préférence, dans l’un d’eux.
Elle ne craignait pas du reste d’élire et d’attirer le membre
d’un autre groupe. Si, par exemple, elle avait fait remarquer à
M. Detaille, lequel avait naturellement acquiescé, combien
Mme de Villemur, que sa place dans un autre groupe faisait
voir de dos, possédait un joli cou, la princesse n’hésitait pas à
élever la voix : « Madame de Villemur, M. Detaille, en grand
peintre qu’il est, est en train d’admirer votre cou. » Mme de
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Villemur sentait là une invite directe à la conversation ; avec
l’adresse que donne l’habitude du cheval, elle faisait
lentement pivoter sa chaise selon un arc de trois quarts de
cercle et, sans déranger en rien ses voisins, faisait presque
face à la princesse. « Vous ne connaissez pas M. Detaille ?
demandait la maîtresse de maison, à qui l’habile et pudique
conversion de son invitée ne suffisait pas. – Je ne le connais
pas, mais je connais ses œuvres », répondait Mme de
Villemur, d’un air respectueux, engageant, et avec un àpropos que beaucoup enviaient, tout en adressant au célèbre
peintre, que l’interpellation n’avait pas suffi à lui présenter
d’une manière formelle, un imperceptible salut. « Venez,
monsieur Detaille, disait la princesse, je vais vous présenter à
Mme de Villemur. » Celle-ci mettait alors autant d’ingéniosité
à faire une place à l’auteur du Rêve que tout à l’heure à se
tourner vers lui. Et la princesse s’avançait une chaise pour
elle-même ; elle n’avait en effet interpellé Mme de Villemur
que pour avoir un prétexte de quitter le premier groupe où
elle avait passé les dix minutes de règle, et d’accorder une
durée égale de présence au second. En trois quarts d’heure,
tous les groupes avaient reçu sa visite, laquelle semblait
n’avoir été guidée chaque fois que par l’improviste et les
prédilections, mais avait surtout pour but de mettre en relief
avec quel naturel « une grande dame sait recevoir ». Mais
maintenant les invités de la soirée commençaient d’arriver et
la maîtresse de maison s’était assise non loin de l’entrée –
droite et fière, dans sa majesté quasi royale, les yeux flambant
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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par leur incandescence propre – entre deux Altesses sans
beauté et l’ambassadrice d’Espagne.
Je faisais la queue derrière quelques invités arrivés plus tôt
que moi. J’avais en face de moi la princesse, de laquelle la
beauté ne me fait pas seule sans doute, entre tant d’autres,
souvenir de cette fête-là. Mais ce visage de la maîtresse de
maison était si parfait, était frappé comme une si belle
médaille, qu’il a gardé pour moi une vertu commémorative.
La princesse avait l’habitude de dire à ses invités, quand elle
les rencontrait quelques jours avant une de ses soirées : «
Vous viendrez, n’est-ce pas ? » comme si elle avait un grand
désir de causer avec eux. Mais comme, au contraire, elle
n’avait à leur parler de rien, dès qu’ils arrivaient devant elle,
elle se contentait, sans se lever, d’interrompre un instant sa
vaine conversation avec les deux Altesses et l’ambassadrice
et de remercier en disant : « C’est gentil d’être venu », non
qu’elle trouvât que l’invité eût fait preuve de gentillesse en
venant, mais pour accroître encore la sienne ; puis aussitôt le
rejetant à la rivière, elle ajoutait : « Vous trouverez M. de
Guermantes à l’entrée des jardins », de sorte qu’on partait
visiter et qu’on la laissait tranquille. À certains même elle ne
disait rien, se contentant de leur montrer ses admirables yeux
d’onyx, comme si on était venu seulement à une exposition
de pierres précieuses.
La première personne à passer avant moi était le duc de
Châtellerault.
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Ayant à répondre à tous les sourires, à tous les bonjours de
la main qui lui venaient du salon, il n’avait pas aperçu
l’huissier. Mais dès le premier instant l’huissier l’avait
reconnu. Cette identité qu’il avait tant désiré d’apprendre,
dans un instant il allait la connaître. En demandant à son «
Anglais » de l’avant-veille quel nom il devait annoncer,
l’huissier n’était pas seulement ému, il se jugeait indiscret,
indélicat. Il lui semblait qu’il allait révéler à tout le monde
(qui pourtant ne se douterait de rien) un secret qu’il était
coupable de surprendre de la sorte et d’étaler publiquement.
En entendant la réponse de l’invité : « Le duc de
Châtellerault », il se sentit troublé d’un tel orgueil qu’il resta
un instant muet. Le duc le regarda, le reconnut, se vit perdu,
cependant que le domestique, qui s’était ressaisi et
connaissait assez son armorial pour compléter de lui-même
une appellation trop modeste, hurlait avec l’énergie
professionnelle qui se veloutait d’une tendresse intime : «
Son Altesse Monseigneur le duc de Châtellerault ! » Mais
c’était maintenant mon tour d’être annoncé. Absorbé dans la
contemplation de la maîtresse de maison, qui ne m’avait pas
encore vu, je n’avais pas songé aux fonctions, terribles pour
moi – quoique d’une autre façon que pour M. de
Châtellerault – de cet huissier habillé de noir comme un
bourreau, entouré d’une troupe de valets aux livrées les plus
riantes, solides gaillards prêts à s’emparer d’un intrus et à le
mettre à la porte. L’huissier me demanda mon nom, je le lui
dis aussi machinalement que le condamné à mort se laisse
attacher au billot. Il leva aussitôt majestueusement la tête et,
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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avant que j’eusse pu le prier de m’annoncer à mi-voix pour
ménager mon amour-propre si je n’étais pas invité, et celui
de la princesse de Guermantes si je l’étais, il hurla les syllabes
inquiétantes avec une force capable d’ébranler la voûte de
l’hôtel.
L’illustre Huxley (celui dont le neveu occupe actuellement
une place prépondérante dans le monde de la littérature
anglaise) raconte qu’une de ses malades n’osait plus aller
dans le monde parce que souvent, dans le fauteuil même
qu’on lui indiquait d’un geste courtois, elle voyait assis un
vieux monsieur. Elle était bien certaine que, soit le geste
inviteur, soit la présence du vieux monsieur, était une
hallucination, car on ne lui aurait pas ainsi désigné un
fauteuil déjà occupé. Et quand Huxley, pour la guérir, la
força à retourner en soirée, elle eut un instant de pénible
hésitation en se demandant si le signe aimable qu’on lui
faisait était la chose réelle, ou si, pour obéir à une vision
inexistante, elle allait en public s’asseoir sur les genoux d’un
monsieur en chair et en os. Sa brève incertitude fut cruelle.
Moins peut-être que la mienne. À partir du moment où
j’avais perçu le grondement de mon nom, comme le bruit
préalable d’un cataclysme possible, je dus, pour plaider en
tout cas ma bonne foi et comme si je n’étais tourmenté
d’aucun doute, m’avancer vers la princesse d’un air résolu.
Elle m’aperçut comme j’étais à quelques pas d’elle et, ce qui
ne me laissa plus douter que j’avais été victime d’une
machination, au lieu de rester assise comme pour les autres
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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invités, elle se leva, vint à moi. Une seconde après, je pus
pousser le soupir de soulagement de la malade d’Huxley
quand, ayant pris le parti de s’asseoir dans le fauteuil, elle le
trouva libre et comprit que c’était le vieux monsieur qui était
une hallucination. La princesse venait de me tendre la main
en souriant. Elle resta quelques instants debout, avec le
genre de grâce particulier à la stance de Malherbe qui finit
ainsi :
Et pour leur faire honneur les Anges se lever.
Elle s’excusa de ce que la duchesse ne fût pas encore arrivée,
comme si je devais m’ennuyer sans elle. Pour me dire ce
bonjour, elle exécuta autour de moi, en me tenant la main,
un tournoiement plein de grâce, dans le tourbillon duquel je
me sentais emporté. Je m’attendais presque à ce qu’elle me
remît alors, telle une conductrice de cotillon, une canne à bec
d’ivoire, ou une montre-bracelet. Elle ne me donna à vrai
dire rien de tout cela, et comme si au lieu de danser le
boston elle avait plutôt écouté un sacro-saint quatuor de
Beethoven dont elle eût craint de troubler les sublimes
accents, elle arrêta là la conversation, ou plutôt ne la
commença pas et, radieuse encore de m’avoir vu entrer, me
fit part seulement de l’endroit où se trouvait le prince.
Je m’éloignai d’elle et n’osai plus m’en rapprocher, sentant
qu’elle n’avait absolument rien à me dire et que, dans son
immense bonne volonté, cette femme merveilleusement
haute et belle, noble comme l’étaient tant de grandes dames
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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qui montèrent si fièrement à l’échafaud, n’aurait pu, faute
d’oser m’offrir de l’eau de mélisse, que me répéter ce qu’elle
m’avait déjà dit deux fois : « Vous trouverez le prince dans le
jardin. » Or, aller auprès du prince, c’était sentir renaître sous
une autre forme mes doutes.
En tout cas fallait-il trouver quelqu’un qui me présentât. On
entendait, dominant toutes les conversations, l’intarissable
jacassement de M. de Charlus, lequel causait avec Son
Excellence le duc de Sidonia, dont il venait de faire la
connaissance. De profession à profession, on se devine, et
de vice à vice aussi. M. de Charlus et M. de Sidonia avaient
chacun immédiatement flairé celui de l’autre, et qui, pour
tous les deux, était, dans le monde, d’être monologuistes, au
point de ne pouvoir souffrir aucune interruption. Ayant jugé
tout de suite que le mal était sans remède, comme dit un
célèbre sonnet, ils avaient pris la détermination, non de se
taire, mais de parler chacun sans s’occuper de ce que dirait
l’autre. Cela avait réalisé ce bruit confus, produit dans les
comédies de Molière par plusieurs personnes qui disent
ensemble des choses différentes. Le baron, avec sa voix
éclatante, était du reste certain d’avoir le dessus, de couvrir la
voix faible de M. de Sidonia ; sans décourager ce dernier
pourtant car, lorsque M. de Charlus reprenait un instant
haleine, l’intervalle était rempli par le susurrement du grand
d’Espagne qui avait continué imperturbablement son
discours. J’aurais bien demandé à M. de Charlus de me
présenter au prince de Guermantes, mais je craignais (avec
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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trop de raison) qu’il ne fût fâché contre moi. J’avais agi
envers lui de la façon la plus ingrate en laissant pour la
seconde fois tomber ses offres et en ne lui donnant pas signe
de vie depuis le soir où il m’avait si affectueusement
reconduit à la maison. Et pourtant je n’avais nullement
comme excuse anticipée la scène que je venais de voir, cet
après-midi même, se passer entre Jupien et lui. Je ne
soupçonnais rien de pareil. Il est vrai que peu de temps
auparavant, comme mes parents me reprochaient ma paresse
et de n’avoir pas encore pris la peine d’écrire un mot à M. de
Charlus, je leur avais violemment reproché de vouloir me
faire accepter des propositions déshonnêtes. Mais seuls la
colère, le désir de trouver la phrase qui pouvait leur être le
plus désagréable m’avaient dicté cette réponse mensongère.
En réalité, je n’avais rien imaginé de sensuel, ni même de
sentimental, sous les offres du baron. J’avais dit cela à mes
parents comme une folie pure. Mais quelquefois l’avenir
habite en nous sans que nous le sachions, et nos paroles qui
croient mentir dessinent une réalité prochaine.
M. de Charlus m’eût sans doute pardonné mon manque de
reconnaissance. Mais ce qui le rendait furieux, c’est que ma
présence ce soir chez la princesse de Guermantes, comme
depuis quelque temps chez sa cousine, paraissait narguer la
déclaration solennelle : « On n’entre dans ces salons-là que
par moi. » Faute grave, crime peut-être inexpiable, je n’avais
pas suivi la voie hiérarchique. M. de Charlus savait bien que
les tonnerres qu’il brandissait contre ceux qui ne se pliaient
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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pas à ses ordres, ou qu’il avait pris en haine, commençaient à
passer, selon beaucoup de gens, quelque rage qu’il y mît,
pour des tonnerres en carton, et n’avaient plus la force de
chasser n’importe qui de n’importe où. Mais peut-être
croyait-il que son pouvoir amoindri, grand encore, restait
intact aux yeux des novices tels que moi. Aussi ne le jugeai-je
pas très bien choisi pour lui demander un service dans une
fête où ma présence seule semblait un ironique démenti à ses
prétentions.
Je fus à ce moment arrêté par un homme assez vulgaire, le
professeur E... Il avait été surpris de m’apercevoir chez les
Guermantes. Je ne l’étais pas moins de l’y trouver, car jamais
on n’avait vu, et on ne vit dans la suite, chez la princesse, un
personnage de sa sorte. Il venait de guérir le prince, déjà
administré, d’une pneumonie infectieuse, et la
reconnaissance toute particulière qu’en avait pour lui Mme
de Guermantes était cause qu’on avait rompu avec les usages
et qu’on l’avait invité. Comme il ne connaissait absolument
personne dans ces salons et ne pouvait y rôder indéfiniment
seul, comme un ministre de la mort, m’ayant reconnu, il
s’était senti, pour la première fois de sa vie, une infinité de
choses à me dire, ce qui lui permettait de prendre une
contenance, et c’était une des raisons pour lesquelles il s’était
avancé vers moi. Il y en avait une autre. Il attachait beaucoup
d’importance à ne jamais faire d’erreur de diagnostic. Or son
courrier était si nombreux qu’il ne se rappelait pas toujours
très bien, quand il n’avait vu qu’une fois un malade, si la
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maladie avait bien suivi le cours qu’il lui avait assigné. On n’a
peut-être pas oublié qu’au moment de l’attaque de ma
grand’mère, je l’avais conduite chez lui le soir où il se faisait
coudre tant de décorations. Depuis le temps écoulé, il ne se
rappelait plus le faire-part qu’on lui avait envoyé à l’époque. «
Madame votre grand’mère est bien morte, n’est-ce pas ? me
dit-il d’une voix où une quasi-certitude calmait une légère
appréhension. Ah ! En effet ! Du reste dès la première
minute où je l’ai vue, mon pronostic avait été tout à fait
sombre, je me souviens très bien. »
C’est ainsi que le professeur E... apprit ou rapprit la mort de
ma grand’mère, et, je dois le dire à sa louange, qui est celle
du corps médical tout entier, sans manifester, sans éprouver
peut-être de satisfaction. Les erreurs des médecins sont
innombrables. Ils pèchent d’habitude par optimisme quant
au régime, par pessimisme quant au dénouement. « Du vin ?
en quantité modérée cela ne peut vous faire du mal, c’est en
somme un tonifiant... Le plaisir physique ? après tout c’est
une fonction. Je vous le permets sans abus, vous m’entendez
bien. L’excès en tout est un défaut. » Du coup, quelle
tentation pour le malade de renoncer à ces deux
résurrecteurs, l’eau et la chasteté. En revanche, si l’on a
quelque chose au cœur, de l’albumine, etc., on n’en a pas
pour longtemps. Volontiers, des troubles graves, mais
fonctionnels, sont attribués à un cancer imaginé. Il est inutile
de continuer des visites qui ne sauraient enrayer un mal
inéluctable. Que le malade, livré à lui-même, s’impose alors
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un régime implacable, et ensuite guérisse ou tout au moins
survive, le médecin, salué par lui avenue de l’Opéra quand il
le croyait depuis longtemps au Père-Lachaise, verra dans ce
coup de chapeau un geste de narquoise insolence. Une
innocente promenade effectuée à son nez et à sa barbe ne
causerait pas plus de colère au président d’assises qui, deux
ans auparavant, a prononcé contre le badaud, qui semble
sans crainte, une condamnation à mort. Les médecins (il ne
s’agit pas de tous, bien entendu, et nous n’omettons pas,
mentalement, d’admirables exceptions) sont en général plus
mécontents, plus irrités de l’infirmation de leur verdict que
joyeux de son exécution. C’est ce qui explique que le
professeur E..., quelque satisfaction intellectuelle qu’il
ressentît sans doute à voir qu’il ne s’était pas trompé, sut ne
me parler que tristement du malheur qui nous avait frappés.
Il ne tenait pas à abréger la conversation, qui lui fournissait
une contenance et une raison de rester. Il me parla de la
grande chaleur qu’il faisait ces jours-ci, mais, bien qu’il fût
lettré et eût pu s’exprimer en bon français, il me dit : « Vous
ne souffrez pas de cette hyperthermie ? » C’est que la
médecine a fait quelques petits progrès dans ses
connaissances depuis Molière, mais aucun dans son
vocabulaire. Mon interlocuteur ajouta : « Ce qu’il faut, c’est
éviter les sudations que cause, surtout dans les salons
surchauffés, un temps pareil. Vous pouvez y remédier,
quand vous rentrez et avez envie de boire, par la chaleur »
(ce qui signifie évidemment des boissons chaudes).
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À cause de la façon dont était morte ma grand’mère, le sujet
m’intéressait et j’avais lu récemment dans un livre d’un grand
savant que la transpiration était nuisible aux reins en faisant
passer par la peau ce dont l’issue est ailleurs. Je déplorais ces
temps de canicule par lesquels ma grand’mère était morte et
n’étais pas loin de les incriminer. Je n’en parlai pas au
docteur E..., mais de lui-même il me dit : « L’avantage de ces
temps très chauds, où la transpiration est très abondante,
c’est que le rein en est soulagé d’autant. » La médecine n’est
pas une science exacte.
Accroché à moi, le professeur E... ne demandait qu’à ne pas
me quitter. Mais je venais d’apercevoir, faisant à la princesse
de Guermantes de grandes révérences de droite et de
gauche, après avoir reculé d’un pas, le marquis de
Vaugoubert. M. de Norpois m’avait dernièrement fait faire
sa connaissance et j’espérais que je trouverais en lui
quelqu’un qui fût capable de me présenter au maître de
maison. Les proportions de cet ouvrage ne me permettent
pas d’expliquer ici à la suite de quels incidents de jeunesse M.
de Vaugoubert était un des seuls hommes du monde (peutêtre le seul) qui se trouvât ce qu’on appelle à Sodome être «
en confidences » avec M. de Charlus. Mais si notre ministre
auprès du roi Théodose avait quelques-uns des mêmes
défauts que le baron, ce n’était qu’à l’état de bien pâle reflet.
C’était seulement sous une forme infiniment adoucie,
sentimentale et niaise qu’il présentait ces alternances de
sympathie et de haine par où le désir de charmer, et ensuite
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la crainte – également imaginaire – d’être, sinon méprisé, du
moins découvert, faisait passer le baron. Rendues ridicules
par une chasteté, un « platonisme » (auxquels en grand
ambitieux il avait, dès l’âge du concours, sacrifié tout plaisir),
par sa nullité intellectuelle surtout, ces alternances, M. de
Vaugoubert les présentait pourtant. Mais tandis que chez M.
de Charlus les louanges immodérées étaient clamées avec un
véritable éclat d’éloquence, et assaisonnées des plus fines,
des plus mordantes railleries et qui marquaient un homme à
jamais, chez M. de Vaugoubert, au contraire, la sympathie
était exprimée avec la banalité d’un homme de dernier ordre,
d’un homme du grand monde, et d’un fonctionnaire, les
griefs (forgés généralement de toutes pièces comme chez le
baron) par une malveillance sans trêve mais sans esprit et qui
choquait d’autant plus qu’elle était d’habitude en
contradiction avec les propos que le ministre avait tenus six
mois avant et tiendrait peut-être à nouveau dans quelque
temps : régularité dans le changement qui donnait une poésie
presque astronomique aux diverses phases de la vie de M. de
Vaugoubert, bien que sans cela personne moins que lui ne fît
penser à un astre.
Le bonsoir qu’il me rendit n’avait rien de celui qu’aurait eu
M. de Charlus. À ce bonsoir M. de Vaugoubert, outre les
mille façons qu’il croyait celles du monde et de la diplomatie,
donnait un air cavalier, fringant, souriant, pour sembler,
d’une part, ravi de l’existence – alors qu’il remâchait
intérieurement les déboires d’une carrière sans avancement
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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et menacée d’une mise à la retraite – d’autre part, jeune, viril
et charmant, alors qu’il voyait et n’osait même plus aller
regarder dans sa glace les rides se figer aux entours d’un
visage qu’il eût voulu garder plein de séductions. Ce n’est pas
qu’il eût souhaité des conquêtes effectives, dont la seule
pensée lui faisait peur à cause du qu’en-dira-t-on, des éclats,
des chantages. Ayant passé d’une débauche presque infantile
à la continence absolue datant du jour où il avait pensé au
quai d’Orsay et voulu faire une grande carrière, il avait l’air
d’une bête en cage, jetant dans tous les sens des regards qui
exprimaient la peur, l’appétence et la stupidité. La sienne
était telle qu’il ne réfléchissait pas que les voyous de son
adolescence n’étaient plus des gamins et que, quand un
marchand de journaux lui criait en plein nez : La Presse !
plus encore que de désir il frémissait d’épouvante, se croyant
reconnu et dépisté.
Mais à défaut des plaisirs sacrifiés à l’ingratitude du quai
d’Orsay, M. de Vaugoubert – et c’est pour cela qu’il aurait
voulu plaire encore – avait de brusques élans de cœur. Dieu
sait de combien de lettres il assommait le ministère (quelles
ruses personnelles il déployait, combien de prélèvements il
opérait sur le crédit de Mme de Vaugoubert qu’à cause de sa
corpulence, de sa haute naissance, de son air masculin, et
surtout à cause de la médiocrité du mari, on croyait douée de
capacités éminentes et remplissant les vraies fonctions de
ministre) pour faire entrer sans aucune raison valable un
jeune homme dénué de tout mérite dans le personnel de la
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légation. Il est vrai que quelques mois, quelques années
après, pour peu que l’insignifiant attaché parût, sans l’ombre
d’une mauvaise intention, avoir donné des marques de
froideur à son chef, celui-ci se croyant méprisé ou trahi
mettait la même ardeur hystérique à le punir que jadis à le
combler. Il remuait ciel et terre pour qu’on le rappelât, et le
directeur des Affaires politiques recevait journellement une
lettre : « Qu’attendez-vous pour me débarrasser de ce lascarlà. Dressez-le un peu, dans son intérêt. Ce dont il a besoin
c’est de manger un peu de vache enragée. » Le poste
d’attaché auprès du roi Théodose était à cause de cela peu
agréable. Mais pour tout le reste, grâce à son parfait bon sens
d’homme du monde, M. de Vaugoubert était un des
meilleurs agents du Gouvernement français à l’étranger.
Quand un homme prétendu supérieur, jacobin, qui était
savant en toutes choses, le remplaça plus tard, la guerre ne
tarda pas à éclater entre la France et le pays dans lequel
régnait le roi.
M. de Vaugoubert comme M. de Charlus n’aimait pas dire
bonjour le premier. L’un et l’autre préféraient « répondre »,
craignant toujours les potins que celui auquel ils eussent sans
cela tendu la main avait pu entendre sur leur compte depuis
qu’ils ne l’avaient vu. Pour moi, M. de Vaugoubert n’eut pas
à se poser la question, j’étais en effet allé le saluer le premier,
ne fût-ce qu’à cause de la différence d’âge. Il me répondit
d’un air émerveillé et ravi, ses deux yeux continuant à s’agiter
comme s’il y avait eu de la luzerne défendue à brouter de
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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chaque côté. Je pensai qu’il était convenable de solliciter de
lui ma présentation à Mme de Vaugoubert avant celle au
prince, dont je comptais ne lui parler qu’ensuite. L’idée de
me mettre en rapports avec sa femme parut le remplir de joie
pour lui comme pour elle et il me mena d’un pas délibéré
vers la marquise. Arrivé devant elle et me désignant de la
main et des yeux, avec toutes les marques de considération
possibles, il resta néanmoins muet et se retira au bout de
quelques secondes, d’un air frétillant, pour me laisser seul
avec sa femme. Celle-ci m’avait aussitôt tendu la main, mais
sans savoir à qui cette marque d’amabilité s’adressait, car je
compris que M. de Vaugoubert avait oublié comment je
m’appelais, peut-être même ne m’avait pas reconnu et,
n’ayant pas voulu, par politesse, me l’avouer, avait fait
consister la présentation en une simple pantomime. Aussi je
n’étais pas plus avancé ; comment me faire présenter au
maître de la maison par une femme qui ne savait pas mon
nom ? De plus, je me voyais forcé de causer quelques
instants avec Mme de Vaugoubert. Et cela m’ennuyait à deux
points de vue. Je ne tenais pas à m’éterniser dans cette fête
car j’avais convenu avec Albertine (je lui avais donné une
loge pour Phèdre) qu’elle viendrait me voir un peu avant
minuit. Certes je n’étais nullement épris d’elle ; j’obéissais en
la faisant venir ce soir à un désir tout sensuel, bien qu’on fût
à cette époque torride de l’année où la sensualité libérée
visite plus volontiers les organes du goût, recherche surtout
la fraîcheur. Plus que du baiser d’une jeune fille elle a soif
d’une orangeade, d’un bain, voire de contempler cette lune
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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épluchée et juteuse qui désaltérait le ciel. Mais pourtant je
comptais me débarrasser, aux côtés d’Albertine – laquelle du
reste me rappelait la fraîcheur du flot – des regrets que ne
manqueraient pas de me laisser bien des visages charmants
(car c’était aussi bien une soirée de jeunes filles que de dames
que donnait la princesse). D’autre part, celui de l’imposante
Mme de Vaugoubert, bourbonien et morose, n’avait rien
d’attrayant.
On disait au ministère, sans y mettre ombre de malice, que,
dans le ménage, c’était le mari qui portait les jupes et la
femme les culottes. Or il y avait plus de vérité là dedans
qu’on ne le croyait. Mme de Vaugoubert, c’était un homme.
Avait-elle toujours été ainsi, ou était-elle devenue ce que je la
voyais, peu importe, car dans l’un et l’autre cas on a affaire à
l’un des plus touchants miracles de la nature et qui, le second
surtout, font ressembler le règne humain au règne des fleurs.
Dans la première hypothèse : – si la future Mme de
Vaugoubert avait toujours été aussi lourdement hommasse –
la nature, par une ruse diabolique et bienfaisante, donne à la
jeune fille l’aspect trompeur d’un homme. Et l’adolescent qui
n’aime pas les femmes et veut guérir trouve avec joie ce
subterfuge de découvrir une fiancée qui lui représente un
fort aux halles. Dans le cas contraire, si la femme n’a d’abord
pas les caractères masculins, elle les prend peu à peu, pour
plaire à son mari, même inconsciemment, par cette sorte de
mimétisme qui fait que certaines fleurs se donnent
l’apparence des insectes qu’elles veulent attirer. Le regret de
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ne pas être aimée, de ne pas être homme la virilise. Même en
dehors du cas qui nous occupe, qui n’a remarqué combien
les couples les plus normaux finissent par se ressembler,
quelquefois même par interchanger leurs qualités ? Un
ancien chancelier allemand, le prince de Bulow, avait épousé
une Italienne. À la longue, sur le Pincio, on remarqua
combien l’époux germanique avait pris de finesse italienne,
et la princesse italienne de rudesse allemande. Pour sortir
jusqu’à un point excentrique des lois que nous traçons,
chacun connaît un éminent diplomate français dont l’origine
n’était rappelée que par son nom, un des plus illustres de
l’Orient. En mûrissant, en vieillissant, s’est révélé en lui
l’Oriental qu’on n’avait jamais soupçonné, et en le voyant on
regrette l’absence du fez qui le compléterait.
Pour en revenir à des mœurs fort ignorées de l’ambassadeur
dont nous venons d’évoquer la silhouette ancestralement
épaissie, Mme de Vaugoubert réalisait le type, acquis ou
prédestiné, dont l’image immortelle est la princesse Palatine,
toujours en habit de cheval et ayant pris de son mari plus
que la virilité, épousant les défauts des hommes qui n’aiment
pas les femmes, dénonçant dans ses lettres de commère les
relations qu’ont entre eux tous les grands seigneurs de la
cour de Louis XIV. Une des causes qui ajoutent encore à
l’air masculin des femmes telles que Mme de Vaugoubert est
que l’abandon où elles sont laissées par leur mari, la honte
qu’elles en éprouvent, flétrissent peu à peu chez elles tout ce
qui est de la femme. Elles finissent par prendre les qualités et
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les défauts que le mari n’a pas. Au fur et à mesure qu’il est
plus frivole, plus efféminé, plus indiscret, elles deviennent
comme l’effigie sans charme des vertus que l’époux devrait
pratiquer.
Des traces d’opprobre, d’ennui, d’indignation, ternissaient le
visage régulier de Mme de Vaugoubert. Hélas, je sentais
qu’elle me considérait avec intérêt et curiosité comme un de
ces jeunes hommes qui plaisaient à M. de Vaugoubert, et
qu’elle aurait tant voulu être maintenant que son mari
vieillissant préférait la jeunesse. Elle me regardait avec
l’attention de ces personnes de province qui, dans un
catalogue de magasin de nouveautés, copient la robe tailleur
si seyante à la jolie personne dessinée (en réalité la même à
toutes les pages, mais multipliée illusoirement en créatures
différentes grâce à la différence des poses et à la variété des
toilettes.) L’attrait végétal qui poussait vers moi Mme de
Vaugoubert était si fort qu’elle alla jusqu’à m’empoigner le
bras pour que je la conduisisse boire un verre d’orangeade.
Mais je me dégageai en alléguant que moi, qui allais bientôt
partir, je ne m’étais pas fait présenter encore au maître de la
maison.
La distance qui me séparait de l’entrée des jardins où il
causait avec quelques personnes n’était pas bien grande. Mais
elle me faisait plus peur que si pour la franchir il eût fallu
s’exposer à un feu continu. Beaucoup de femmes par qui il
me semblait que j’eusse pu me faire présenter étaient dans le
jardin où, tout en feignant une admiration exaltée, elles ne
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savaient pas trop que faire. Les fêtes de ce genre sont en
général anticipées. Elles n’ont guère de réalité que le
lendemain, où elles occupent l’attention des personnes qui
n’ont pas été invitées. Un véritable écrivain, dépourvu du sot
amour-propre de tant de gens de lettres, si, lisant l’article
d’un critique qui lui a toujours témoigné la plus grande
admiration, il voit cités les noms d’auteurs médiocres mais
pas le sien, n’a pas le loisir de s’arrêter à ce qui pourrait être
pour lui un sujet d’étonnement, ses livres le réclament. Mais
une femme du monde n’a rien à faire, et en voyant dans le
Figaro : « Hier le prince et la princesse de Guermantes ont
donné une grande soirée, etc. », elle s’exclame : « Comment !
j’ai, il y a trois jours, causé une heure avec Marie Gilbert sans
qu’elle m’en dise rien ! » et elle se casse la tête pour savoir ce
qu’elle a pu faire aux Guermantes. Il faut dire qu’en ce qui
concernait les fêtes de la princesse, l’étonnement était
quelquefois aussi grand chez les invités que chez ceux qui ne
l’étaient pas. Car elles explosaient au moment où on les
attendait le moins, et faisaient appel à des gens que Mme de
Guermantes avait oubliés pendant des années. Et presque
tous les gens du monde sont si insignifiants que chacun de
leurs pareils ne prend, pour les juger, que la mesure de leur
amabilité, invité les chérit, exclu les déteste. Pour ces
derniers, si, en effet, souvent la princesse, même s’ils étaient
de ses amis, ne les conviait pas, cela tenait souvent à sa
crainte de mécontenter « Palamède » qui les avait
excommuniés. Aussi pouvais-je être certain qu’elle n’avait
pas parlé de moi à M. de Charlus, sans quoi je ne me fusse
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pas trouvé là. Il s’était maintenant accoudé devant le jardin, à
côté de l’ambassadeur d’Allemagne, à la rampe du grand
escalier qui ramenait dans l’hôtel, de sorte que les invités,
malgré les trois ou quatre admiratrices qui s’étaient groupées
autour du baron et le masquaient presque, étaient forcés de
venir lui dire bonsoir. Il y répondait en nommant les gens
par leur nom. Et on entendait successivement : « Bonsoir,
monsieur du Hazay, bonsoir madame de La Tour du PinVerclause, bonsoir madame de La Tour du Pin-Gouvernet,
bonsoir Philibert, bonsoir ma chère Ambassadrice, etc. »
Cela faisait un glapissement continu qu’interrompaient des
recommandations bénévoles ou des questions (desquelles il
n’écoutait pas la réponse), et que M. de Charlus adressait
d’un ton radouci, factice afin de témoigner l’indifférence, et
bénin : « Prenez garde que la petite n’ait pas froid, les jardins
c’est toujours un peu humide. Bonsoir madame de Brantes.
Bonsoir madame de Mecklembourg. Est-ce que la jeune fille
est venue ? A-t-elle mis la ravissante robe rose ? Bonsoir
Saint-Géran. » Certes il y avait de l’orgueil dans cette
attitude. M. de Charlus savait qu’il était un Guermantes
occupant une place prépondérante dans cette fête. Mais il n’y
avait pas que de l’orgueil, et ce mot même de fête évoquait,
pour l’homme aux dons esthétiques, le sens luxueux, curieux,
qu’il peut avoir si cette fête est donnée non chez des gens du
monde, mais dans un tableau de Carpaccio ou de Véronèse.
Il est même plus probable que le prince allemand qu’était M.
de Charlus devait plutôt se représenter la fête qui se déroule
dans Tannhäuser, et lui-même comme le Margrave, ayant, à
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l’entrée de la Warburg, une bonne parole condescendante
pour chacun des invités, tandis que leur écoulement dans le
château ou le parc est salué par la longue phrase, cent fois
reprise, de la fameuse « Marche ».
Il fallait pourtant me décider. Je reconnaissais bien sous les
arbres des femmes avec qui j’étais plus ou moins lié, mais
elles semblaient transformées parce qu’elles étaient chez la
princesse et non chez sa cousine, et que je les voyais assises
non devant une assiette de Saxe mais sous les branches d’un
marronnier. L’élégance du milieu n’y faisait rien. Eût-elle été
infiniment moindre que chez « Oriane », le même trouble eût
existé en moi. Que l’électricité vienne à s’éteindre dans notre
salon et qu’on doive la remplacer par des lampes à huile, tout
nous paraît changé. Je fus tiré de mon incertitude par Mme
de Souvré. « Bonsoir, me dit-elle en venant à moi. Y a-t-il
longtemps que vous n’avez vu la duchesse de Guermantes ?
» Elle excellait à donner à ce genre de phrases une intonation
qui prouvait qu’elle ne les débitait pas par bêtise pure
comme les gens qui, ne sachant pas de quoi parler, vous
abordent mille fois en citant une relation commune, souvent
très vague. Elle eut au contraire un fin fil conducteur du
regard qui signifiait : « Ne croyez pas que je ne vous aie pas
reconnu. Vous êtes le jeune homme que j’ai vu chez la
duchesse de Guermantes. Je me rappelle très bien. »
Malheureusement cette protection qu’étendait sur moi cette
phrase d’apparence stupide et d’intention délicate était
extrêmement fragile et s’évanouit aussitôt que je voulus en
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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user. Madame de Souvré avait l’art, s’il s’agissait d’appuyer
une sollicitation auprès de quelqu’un de puissant, de paraître
à la fois aux yeux du solliciteur le recommander, et aux yeux
du haut personnage ne pas recommander ce solliciteur, de
manière que ce geste à double sens lui ouvrait un crédit de
reconnaissance envers ce dernier sans lui créer aucun débit
vis-à-vis de l’autre. Encouragé par la bonne grâce de cette
dame à lui demander de me présenter à M. de Guermantes,
elle profita d’un moment où les regards du maître de maison
n’étaient pas tournés vers nous, me prit maternellement par
les épaules et, souriant à la figure détournée du prince qui ne
pouvait pas la voir, elle me poussa vers lui d’un mouvement
prétendu protecteur et volontairement inefficace qui me
laissa en panne presque à mon point de départ. Telle est la
lâcheté des gens du monde.
Celle d’une dame qui vint me dire bonjour en m’appelant par
mon nom fut plus grande encore. Je cherchais à retrouver le
sien tout en lui parlant ; je me rappelais très bien avoir dîné
avec elle, je me rappelais des mots qu’elle avait dits. Mais
mon attention, tendue vers la région intérieure où il y avait
ces souvenirs d’elle, ne pouvait y découvrir ce nom. Il était là
pourtant. Ma pensée avait engagé comme une espèce de jeu
avec lui pour saisir ses contours, la lettre par laquelle il
commençait, et l’éclairer enfin tout entier. C’était peine
perdue, je sentais à peu près sa masse, son poids, mais pour
ses formes, les confrontant au ténébreux captif blotti dans la
nuit intérieure, je me disais : « Ce n’est pas cela. » Certes mon
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esprit aurait pu créer les noms les plus difficiles. Par malheur
il n’avait pas à créer mais à reproduire. Toute action de
l’esprit est aisée si elle n’est pas soumise au réel. Là, j’étais
forcé de m’y soumettre. Enfin d’un coup le nom vint tout
entier : « Madame d’Arpajon. » J’ai tort de dire qu’il vint, car
il ne m’apparut pas, je crois, dans une propulsion de luimême. Je ne pense pas non plus que les légers et nombreux
souvenirs qui se rapportaient à cette dame, et auxquels je ne
cessais de demander de m’aider (par des exhortations
comme celle-ci : « Voyons, c’est cette dame qui est amie de
Mme de Souvré, qui éprouve à l’endroit de Victor Hugo une
admiration si naïve, mêlée de tant d’effroi et d’horreur »), je
ne crois pas que tous ces souvenirs, voletant entre moi et
son nom, aient servi en quoi que ce soit à le renflouer. Dans
ce grand « cache-cache » qui se joue dans la mémoire quand
on veut retrouver un nom, il n’y a pas une série
d’approximations graduées. On ne voit rien, puis tout d’un
coup apparaît le nom exact et fort différent de ce qu’on
croyait deviner. Ce n’est pas lui qui est venu à nous. Non, je
crois plutôt qu’au fur et à mesure que nous vivons, nous
passons notre temps à nous éloigner de la zone où un nom
est distinct, et c’est par un exercice de ma volonté et de mon
attention, qui augmentait l’acuité de mon regard intérieur,
que tout d’un coup j’avais percé la demi-obscurité et vu clair.
En tout cas, s’il y a des transitions entre l’oubli et le souvenir,
alors ces transitions sont inconscientes. Car les noms d’étape
par lesquels nous passons, avant de trouver le nom vrai,
sont, eux, faux, et ne nous rapprochent en rien de lui. Ce ne
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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sont même pas à proprement parler des noms, mais souvent
de simples consonnes et qui ne se retrouvent pas dans le
nom retrouvé. D’ailleurs ce travail de l’esprit passant du
néant à la réalité est si mystérieux, qu’il est possible, après
tout, que ces consonnes fausses soient des perches
préalables, maladroitement tendues pour nous aider à nous
accrocher au nom exact. « Tout ceci, dira le lecteur, ne nous
apprend rien sur le manque de complaisance de cette dame ;
mais puisque vous vous êtes si longtemps arrêté, laissez-moi,
monsieur l’auteur, vous faire perdre une minute de plus pour
vous dire qu’il est fâcheux que, jeune comme vous l’étiez (ou
comme était votre héros s’il n’est pas vous), vous eussiez
déjà si peu de mémoire, que de ne pouvoir vous rappeler le
nom d’une dame que vous connaissiez fort bien. » C’est très
fâcheux en effet, monsieur le lecteur. Et plus triste que vous
croyez quand on y sent l’annonce du temps où les noms et
les mots disparaîtront de la zone claire de la pensée, et où il
faudra, pour jamais, renoncer à se nommer à soi-même ceux
qu’on a le mieux connus. C’est fâcheux en effet qu’il faille ce
labeur dès la jeunesse pour retrouver des noms qu’on
connaît bien. Mais si cette infirmité ne se produisait que
pour des noms à peine connus, très naturellement oubliés, et
dont on ne voulût pas prendre la fatigue de se souvenir, cette
infirmité-là ne serait pas sans avantages. « Et lesquels, je vous
prie ? » Hé, monsieur, c’est que le mal seul fait remarquer et
apprendre et permet de décomposer les mécanismes que
sans cela on ne connaîtrait pas. Un homme qui chaque soir
tombe comme une masse dans son lit et ne vit plus jusqu’au
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moment de s’éveiller et de se lever, cet homme-là songera-til jamais à faire, sinon de grandes découvertes, au moins de
petites remarques sur le sommeil ? À peine sait-il s’il dort.
Un peu d’insomnie n’est pas inutile pour apprécier le
sommeil, projeter quelque lumière dans cette nuit. Une
mémoire sans défaillance n’est pas un très puissant excitateur
à étudier les phénomènes de mémoire. « Enfin, Mme
d’Arpajon vous présenta-t-elle au prince ? » Non, mais
taisez-vous et laissez-moi reprendre mon récit.
Mme d’Arpajon fut plus lâche encore que Mme de Souvré,
mais sa lâcheté avait plus d’excuses. Elle savait qu’elle avait
toujours eu peu de pouvoir dans la société. Ce pouvoir avait
été encore affaibli par la liaison qu’elle avait eue avec le duc
de Guermantes ; l’abandon de celui-ci y porta le dernier
coup. La mauvaise humeur que lui causa ma demande de me
présenter au Prince détermina chez elle un silence qu’elle eut
la naïveté de croire un semblant de n’avoir pas entendu ce
que j’avais dit. Elle ne s’aperçut même pas que la colère lui
faisait froncer les sourcils. Peut-être au contraire s’en
aperçut-elle, ne se soucia pas de la contradiction, et s’en
servit pour la leçon de discrétion qu’elle pouvait me donner
sans trop de grossièreté, je veux dire une leçon muette et qui
n’était pas pour cela moins éloquente.
D’ailleurs, Mme d’Arpajon était fort contrariée ; beaucoup
de regards s’étant levés vers un balcon Renaissance à l’angle
duquel, au lieu des statues monumentales qu’on y avait
appliquées si souvent à cette époque, se penchait, non moins
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sculpturale qu’elles, la magnifique duchesse de Surgis-le-Duc,
celle qui venait de succéder à Mme d’Arpajon dans le cœur
de Basin de Guermantes. Sous le léger tulle blanc qui la
protégeait de la fraîcheur nocturne on voyait, souple, son
corps envolé de Victoire.
Je n’avais plus recours qu’auprès de M. de Charlus, rentré
dans une pièce du bas, laquelle accédait au jardin. J’eus tout
le loisir (comme il feignait d’être absorbé dans une partie de
whist simulée qui lui permettait de ne pas avoir l’air de voir
les gens) d’admirer la volontaire et artiste simplicité de son
frac qui, par des riens qu’un couturier seul eût discernés,
avait l’air d’une « Harmonie » noir et blanc de Whistler ; noir,
blanc et rouge plutôt, car M. de Charlus portait, suspendue à
un large cordon au jabot de l’habit, la croix en émail blanc,
noir et rouge de Chevalier de l’Ordre religieux de Malte. À ce
moment la partie du baron fut interrompue par Mme de
Gallardon, conduisant son neveu, le vicomte de Courvoisier,
jeune homme d’une jolie figure et d’un air impertinent : «
Mon cousin, dit Mme de Gallardon, permettez-moi de vous
présenter mon neveu Adalbert. Adalbert, tu sais, le fameux
oncle Palamède dont tu entends toujours parler. – Bonsoir,
madame de Gallardon », répondit M. de Charlus. Et il ajouta
sans même regarder le jeune homme : « Bonsoir, Monsieur »,
d’un air bourru et d’une voix si violemment impolie, que
tout le monde en fut stupéfait. Peut-être M. de Charlus,
sachant que Mme de Gallardon avait des doutes sur ses
mœurs et n’avait pu résister une fois au plaisir d’y faire une
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allusion, tenait-il à couper court à tout ce qu’elle aurait pu
broder sur un accueil aimable fait à son neveu, en même
temps qu’à faire une retentissante profession d’indifférence à
l’égard des jeunes gens ; peut-être n’avait-il pas trouvé que
ledit Adalbert eût répondu aux paroles de sa tante par un air
suffisamment respectueux ; peut-être, désireux de pousser
plus tard sa pointe avec un aussi agréable cousin, voulait-il se
donner les avantages d’une agression préalable, comme les
souverains qui, avant d’engager une action diplomatique,
l’appuient d’une action militaire.
Il n’était pas aussi difficile que je le croyais que M. de
Charlus accédât à ma demande de me présenter. D’une part,
au cours de ces vingt dernières années, ce Don Quichotte
s’était battu contre tant de moulins à vent (souvent des
parents qu’il prétendait s’être mal conduits à son égard), il
avait avec tant de fréquence interdit « comme une personne
impossible à recevoir » d’être invité chez tels ou telles
Guermantes, que ceux-ci commençaient à avoir peur de se
brouiller avec tous les gens qu’ils aimaient, de se priver,
jusqu’à leur mort, de la fréquentation de certains nouveaux
venus dont ils étaient curieux, pour épouser les rancunes
tonnantes mais inexpliquées d’un beau-frère ou cousin qui
aurait voulu qu’on abandonnât pour lui femme, frère,
enfants. Plus intelligent que les autres Guermantes, M. de
Charlus s’apercevait qu’on ne tenait plus compte de ses
exclusives qu’une fois sur deux, et, anticipant l’avenir,
craignant qu’un jour ce fût de lui qu’on se privât, il avait
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commencé à faire la part du feu, à baisser, comme on dit, ses
prix. De plus, s’il avait la faculté de donner pour des mois,
des années, une vie identique à un être détesté – à celui-là il
n’eût pas toléré qu’on adressât une invitation, et se serait
plutôt battu comme un portefaix avec une reine, la qualité de
ce qui lui faisait obstacle ne comptant plus pour lui – en
revanche il avait de trop fréquentes explosions de colère
pour qu’elles ne fussent pas assez fragmentaires. «
L’imbécile, le méchant drôle ! on va vous remettre cela à sa
place, le balayer dans l’égout où malheureusement il ne sera
pas inoffensif pour la salubrité de la ville », hurlait-il, même
seul chez lui, à la lecture d’une lettre qu’il jugeait irrévérente,
ou en se rappelant un propos qu’on lui avait redit. Mais une
nouvelle colère contre un second imbécile dissipait l’autre, et
pour peu que le premier se montrât déférent, la crise
occasionnée par lui était oubliée, n’ayant pas assez duré pour
faire un fond de haine où construire. Aussi, peut-être eusseje – malgré sa mauvaise humeur contre moi – réussi auprès
de lui quand je lui demandai de me présenter au Prince, si je
n’avais pas eu la malheureuse idée d’ajouter par scrupule, et
pour qu’il ne pût pas me supposer l’indélicatesse d’être entré
à tout hasard en comptant sur lui pour me faire rester : «
Vous savez que je les connais très bien, la Princesse a été très
gentille pour moi. – Hé bien, si vous les connaissez, en quoi
avez-vous besoin de moi pour vous présenter », me
répondit-il d’un ton claquant, et, me tournant le dos, il reprit
sa partie feinte avec le Nonce, l’ambassadeur d’Allemagne et
un personnage que je ne connaissais pas.
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Alors, du fond de ces jardins où jadis le duc d’Aiguillon
faisait élever les animaux rares, vint jusqu’à moi, par les
portes grandes ouvertes, le bruit d’un reniflement qui humait
tant d’élégances et n’en voulait rien laisser perdre. Le bruit se
rapprocha, je me dirigeai à tout hasard dans sa direction, si
bien que le mot « bonsoir » fut susurré à mon oreille par M.
de Bréauté, non comme le son ferrailleux et ébréché d’un
couteau qu’on repasse pour l’aiguiser, encore moins comme
le cri du marcassin dévastateur des terres cultivées, mais
comme la voix d’un sauveur possible. Moins puissant que
Mme de Souvré, mais moins foncièrement atteint qu’elle
d’inserviabilité, beaucoup plus à l’aise avec le Prince que ne
l’était Mme d’Arpajon, se faisant peut-être des illusions sur
ma situation dans le milieu des Guermantes, ou peut-être la
connaissant mieux que moi, j’eus pourtant, les premières
secondes, quelque peine à capter son attention, car, les
papilles du nez frétillantes, les narines dilatées, il faisait face
de tous côtés, écarquillant curieusement son monocle
comme s’il s’était trouvé devant cinq cents chefs-d’œuvre.
Mais ayant entendu ma demande, il l’accueillit avec
satisfaction, me conduisit vers le Prince et me présenta à lui
d’un air friand, cérémonieux et vulgaire, comme s’il lui avait
passé, en les recommandant, une assiette de petits fours.
Autant l’accueil du duc de Guermantes était, quand il le
voulait, aimable, empreint de camaraderie, cordial et familier,
autant je trouvai celui du Prince compassé, solennel, hautain.
Il me sourit à peine, m’appela gravement : « Monsieur ».
J’avais souvent entendu le duc se moquer de la morgue de
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son cousin. Mais aux premiers mots qu’il me dit et qui, par
leur froideur et leur sérieux faisaient le plus entier contraste
avec le langage de Basin, je compris tout de suite que
l’homme foncièrement dédaigneux était le duc qui vous
parlait dès la première visite de « pair à compagnon », et que
des deux cousins celui qui était vraiment simple c’était le
Prince. Je trouvai dans sa réserve un sentiment plus grand, je
ne dirai pas d’égalité, car ce n’eût pas été concevable pour
lui, au moins de la considération qu’on peut accorder à un
inférieur, comme il arrive dans tous les milieux fortement
hiérarchisés, au Palais par exemple, dans une Faculté, où un
procureur général ou un « doyen » conscients de leur haute
charge cachent peut-être plus de simplicité réelle et, quand
on les connaît davantage, plus de bonté, de simplicité vraie,
de cordialité, dans leur hauteur traditionnelle que de plus
modernes dans l’affectation de la camaraderie badine. « Estce que vous comptez suivre la carrière de monsieur votre
père », me dit-il d’un air distant, mais d’intérêt. Je répondis
sommairement à sa question, comprenant qu’il ne l’avait
posée que par bonne grâce, et je m’éloignai pour le laisser
accueillir les nouveaux arrivants.
J’aperçus Swann, voulus lui parler, mais à ce moment je vis
que le prince de Guermantes, au lieu de recevoir sur place le
bonsoir du mari d’Odette, l’avait aussitôt, avec la puissance
d’une pompe aspirante, entraîné avec lui au fond du jardin,
même, dirent certaines personnes, « afin de le mettre à la
porte ».
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Tellement distrait dans le monde que je n’appris que le
surlendemain, par les journaux, qu’un orchestre tchèque
avait joué toute la soirée et que, de minute en minute,
s’étaient succédé les feux de Bengale, je retrouvai quelque
faculté d’attention à la pensée d’aller voir le célèbre jet d’eau
d’Hubert Robert.
Dans une clairière réservée par de beaux arbres dont
plusieurs étaient aussi anciens que lui, planté à l’écart, on le
voyait de loin, svelte, immobile, durci, ne laissant agiter par
la brise que la retombée plus légère de son panache pâle et
frémissant. Le XVIIIe siècle avait épuré l’élégance de ses
lignes, mais, fixant le style du jet, semblait en avoir arrêté la
vie ; à cette distance on avait l’impression de l’art plutôt que
la sensation de l’eau. Le nuage humide lui-même qui
s’amoncelait perpétuellement à son faîte gardait le caractère
de l’époque comme ceux qui dans le ciel s’assemblent autour
des palais de Versailles. Mais de près on se rendait compte
que, tout en respectant, comme les pierres d’un palais
antique, le dessin préalablement tracé, c’était des eaux
toujours nouvelles qui, s’élançant et voulant obéir aux ordres
anciens de l’architecte, ne les accomplissaient exactement
qu’en paraissant les violer, leurs mille bonds épars pouvant
seuls donner à distance l’impression d’un unique élan. Celuici était en réalité aussi souvent interrompu que
l’éparpillement de la chute, alors que, de loin, il m’avait paru
infléchissable, dense, d’une continuité sans lacune. D’un peu
près, on voyait que cette continuité, en apparence toute
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linéaire, était assurée à tous les points de l’ascension du jet,
partout où il aurait dû se briser, par l’entrée en ligne, par la
reprise latérale d’un jet parallèle qui montait plus haut que le
premier et était lui-même, à une plus grande hauteur, mais
déjà fatigante pour lui, relevé par un troisième. De près, des
gouttes sans force retombaient de la colonne d’eau en
croisant au passage leurs sœurs montantes, et, parfois
déchirées, saisies dans un remous de l’air troublé par ce
jaillissement sans trêve, flottaient avant d’être chavirées dans
le bassin. Elles contrariaient de leurs hésitations, de leur
trajet en sens inverse, et estompaient de leur molle vapeur la
rectitude et la tension de cette tige, portant au-dessus de soi
un nuage oblong fait de mille gouttelettes, mais en apparence
peint en brun doré et immuable, qui montait, infrangible,
immobile, élancé et rapide, s’ajouter aux nuages du ciel.
Malheureusement un coup de vent suffisait à l’envoyer
obliquement sur la terre ; parfois même un simple jet
désobéissant divergeait et, si elle ne s’était pas tenue à une
distance respectueuse, aurait mouillé jusqu’aux moelles la
foule imprudente et contemplative.
Un de ces petits accidents, qui ne se produisaient guère qu’au
moment où la brise s’élevait, fut assez désagréable. On avait
fait croire à Mme d’Arpajon que le duc de Guermantes – en
réalité non encore arrivé – était avec Mme de Surgis dans les
galeries de marbre rose où on accédait par la double
colonnade, creusée à l’intérieur, qui s’élevait de la margelle
du bassin. Or, au moment où Mme d’Arpajon allait s’engager
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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dans l’une des colonnades, un fort coup de chaude brise
tordit le jet d’eau et inonda si complètement la belle dame
que, l’eau dégoulinante de son décolletage dans l’intérieur de
sa robe, elle fut aussi trempée que si on l’avait plongée dans
un bain. Alors, non loin d’elle, un grognement scandé
retentit assez fort pour pouvoir se faire entendre à toute une
armée et pourtant prolongé par période comme s’il
s’adressait non pas à l’ensemble, mais successivement à
chaque partie des troupes ; c’était le grand-duc Wladimir qui
riait de tout son cœur en voyant l’immersion de Mme
d’Arpajon, une des choses les plus gaies, aimait-il à dire
ensuite, à laquelle il eût assisté de toute sa vie. Comme
quelques personnes charitables faisaient remarquer au
Moscovite qu’un mot de condoléances de lui serait peut-être
mérité et ferait plaisir à cette femme qui, malgré sa
quarantaine bien sonnée, et tout en s’épongeant avec son
écharpe, sans demander le secours de personne, se dégageait
malgré l’eau qui souillait malicieusement la margelle de la
vasque, le Grand-Duc, qui avait bon cœur, crut devoir
s’exécuter et, les derniers roulements militaires du rire à
peine apaisés, on entendit un nouveau grondement plus
violent encore que l’autre. « Bravo, la vieille ! » s’écriait-il en
battant des mains comme au théâtre. Mme d’Arpajon ne fut
pas sensible à ce qu’on vantât sa dextérité aux dépens de sa
jeunesse. Et comme quelqu’un lui disait, assourdi par le bruit
de l’eau, que dominait pourtant le tonnerre de Monseigneur :
« Je crois que Son Altesse Impériale vous a dit quelque chose
», « Non ! c’était à Mme de Souvré », répondit-elle.
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Je traversai les jardins et remontai l’escalier où l’absence du
Prince, disparu à l’écart avec Swann, grossissait autour de M.
de Charlus la foule des invités, de même que, quand Louis
XIV n’était pas à Versailles, il y avait plus de monde chez
Monsieur, son frère. Je fus arrêté au passage par le baron,
tandis que derrière moi deux dames et un jeune homme
s’approchaient pour lui dire bonjour.
« C’est gentil de vous voir ici », me dit-il, en me tendant la
main. « Bonsoir madame de la Trémoïlle, bonsoir ma chère
Herminie. » Mais sans doute le souvenir de ce qu’il m’avait
dit sur son rôle de chef dans l’hôtel Guermantes lui donnait
le désir de paraître éprouver à l’endroit de ce qui le
mécontentait, mais qu’il n’avait pu empêcher, une
satisfaction à laquelle son impertinence de grand seigneur et
son égaillement d’hystérique donnèrent immédiatement une
forme d’ironie excessive : « C’est gentil, reprit-il, mais c’est
surtout bien drôle. » Et il se mit à pousser des éclats de rire
qui semblèrent à la fois témoigner de sa joie et de
l’impuissance où la parole humaine était de l’exprimer.
Cependant que certaines personnes, sachant combien il était
à la fois difficile d’accès et propre aux « sorties » insolentes,
s’approchaient avec curiosité et, avec un empressement
presque indécent, prenaient leurs jambes à leur cou. « Allons,
ne vous fâchez pas, me dit-il, en me touchant doucement
l’épaule, vous savez que je vous aime bien. Bonsoir
Antioche, bonsoir Louis-René. Avez-vous été voir le jet
d’eau ? me demanda-t-il sur un ton plus affirmatif que
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questionneur. C’est bien joli, n’est-ce pas ? C’est merveilleux.
Cela pourrait être encore mieux, naturellement, en
supprimant certaines choses, et alors il n’y aurait rien de
pareil, en France. Mais tel que c’est, c’est déjà parmi les
choses les mieux. Bréauté vous dira qu’on a eu tort de mettre
des lampions, pour tâcher de faire oublier que c’est lui qui a
eu cette idée absurde. Mais, en somme, il n’a réussi que très
peu à enlaidir. C’est beaucoup plus difficile de défigurer un
chef-d’œuvre que de le créer. Nous nous doutions du reste
déjà vaguement que Bréauté était moins puissant qu’Hubert
Robert. »
Je repris la file des visiteurs qui entraient dans l’hôtel. « Estce qu’il y a longtemps que vous avez vu ma délicieuse
cousine Oriane ? » me demanda la Princesse qui avait depuis
peu déserté son fauteuil à l’entrée, et avec qui je retournais
dans les salons. « Elle doit venir ce soir, je l’ai vue cet aprèsmidi, ajouta la maîtresse de maison. Elle me l’a promis. Je
crois du reste que vous dînez avec nous deux chez la reine
d’Italie, à l’ambassade, jeudi. Il y aura toutes les Altesses
possibles, ce sera très intimidant. » Elles ne pouvaient
nullement intimider la princesse de Guermantes, de laquelle
les salons en foisonnaient et qui disait : « Mes petits Cobourg
» comme elle eût dit : « Mes petits chiens ». Aussi, Mme de
Guermantes dit-elle : « Ce sera très intimidant », par simple
bêtise, qui, chez les gens du monde, l’emporte encore sur la
vanité. À l’égard de sa propre généalogie, elle en savait moins
qu’un agrégé d’histoire. Pour ce qui concernait ses relations,
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elle tenait à montrer qu’elle connaissait les surnoms qu’on
leur avait donnés. M’ayant demandé si je dînais la semaine
suivante chez la marquise de la Pommelière, qu’on appelait
souvent « la Pomme », la Princesse, ayant obtenu de moi une
réponse négative, se tut pendant quelques instants. Puis, sans
aucune autre raison qu’un étalage voulu d’érudition
involontaire, de banalité et de conformité à l’esprit général,
elle ajouta : « C’est une assez agréable femme, la Pomme ! »
Tandis que la Princesse causait avec moi, faisaient
précisément leur entrée le duc et la duchesse de Guermantes
! Mais je ne pus d’abord aller au-devant d’eux, car je fus
happé au passage par l’ambassadrice de Turquie, laquelle, me
désignant la maîtresse de maison que je venais de quitter,
s’écria en m’empoignant par le bras : « Ah ! quelle femme
délicieuse que la Princesse ! Quel être supérieur à tous ! Il me
semble que si j’étais un homme, ajouta-t-elle, avec un peu de
bassesse et de sensualité orientales, je vouerais ma vie à cette
céleste créature. » Je répondis qu’elle me semblait charmante
en effet, mais que je connaissais plus sa cousine la duchesse.
« Mais il n’y a aucun rapport, me dit l’ambassadrice. Oriane
est une charmante femme du monde qui tire son esprit de
Mémé et de Babal, tandis que Marie-Gilbert, c’est quelqu’un.
»
Je n’aime jamais beaucoup qu’on me dise ainsi sans réplique
ce que je dois penser des gens que je connais. Et il n’y avait
aucune raison pour que l’ambassadrice de Turquie eût sur la
valeur de la duchesse de Guermantes un jugement plus sûr
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que le mien. D’autre part, ce qui expliquait aussi mon
agacement contre l’ambassadrice, c’est que les défauts d’une
simple connaissance, et même d’un ami, sont pour nous de
vrais poisons, contre lesquels nous sommes heureusement «
mithridatés ».
Mais, sans apporter le moindre appareil de comparaison
scientifique et parler d’anaphylaxie, disons qu’au sein de nos
relations amicales ou purement mondaines, il y a une
hostilité momentanément guérie, mais récurrente, par accès.
Habituellement on souffre peu de ces poisons tant que les
gens sont « naturels ». En disant « Babal », « Mémé », pour
désigner des gens qu’elle ne connaissait pas, l’ambassadrice
de Turquie suspendait les effets du « mithridatisme » qui,
d’ordinaire, me la rendait tolérable. Elle m’agaçait, ce qui
était d’autant plus injuste qu’elle ne parlait pas ainsi pour
faire mieux croire qu’elle était intime de « Mémé », mais à
cause d’une instruction trop rapide qui lui faisait nommer ces
nobles seigneurs selon ce qu’elle croyait la coutume du pays.
Elle avait fait ses classes en quelques mois et n’avait pas suivi
la filière. Mais en y réfléchissant je trouvais à mon déplaisir
de rester auprès de l’ambassadrice une autre raison. Il n’y
avait pas si longtemps que chez « Oriane » cette même
personnalité diplomatique m’avait dit, d’un air motivé et
sérieux, que la princesse de Guermantes lui était
franchement antipathique. Je crus bon de ne pas m’arrêter à
ce revirement : l’invitation à la fête de ce soir l’avait amené.
L’ambassadrice était parfaitement sincère en me disant que la
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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princesse de Guermantes était une créature sublime. Elle
l’avait toujours pensé. Mais n’ayant jamais été jusqu’ici
invitée chez la princesse, elle avait cru devoir donner à ce
genre de non-invitation la forme d’une abstention volontaire
par principes. Maintenant qu’elle avait été conviée et
vraisemblablement le serait désormais, sa sympathie pouvait
librement s’exprimer. Il n’y a pas besoin, pour expliquer les
trois quarts des opinions qu’on porte sur les gens, d’aller
jusqu’au dépit amoureux, jusqu’à l’exclusion du pouvoir
politique. Le jugement reste incertain : une invitation refusée
ou reçue le détermine. Au reste, l’ambassadrice de Turquie,
comme disait la princesse de Guermantes qui passa avec moi
l’inspection des salons, « faisait bien ». Elle était surtout fort
utile. Les étoiles véritables du monde sont fatiguées d’y
paraître. Celui qui est curieux de les apercevoir doit souvent
émigrer dans un autre hémisphère, où elles sont à peu près
seules. Mais les femmes pareilles à l’ambassadrice ottomane,
toutes récentes dans le monde, ne laissent pas d’y briller
pour ainsi dire partout à la fois. Elles sont utiles à ces sortes
de représentations qui s’appellent une soirée, un raout, et où
elles se feraient traîner, moribondes, plutôt que d’y manquer.
Elles sont les figurantes sur qui on peut toujours compter,
ardentes à ne jamais manquer une fête. Aussi, les sots jeunes
gens, ignorant que ce sont de fausses étoiles, voient-ils en
elles les reines du chic, tandis qu’il faudrait une leçon pour
leur expliquer en vertu de quelles raisons Mme Standish,
ignorée d’eux et peignant des coussins, loin du monde, est au
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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moins une aussi grande dame que la duchesse de
Doudeauville.
Dans l’ordinaire de la vie, les yeux de la duchesse de
Guermantes étaient distraits et un peu mélancoliques, elle les
faisait briller seulement d’une flamme spirituelle chaque fois
qu’elle avait à dire bonjour à quelque ami ; absolument
comme si celui-ci avait été quelque mot d’esprit, quelque
trait charmant, quelque régal pour délicats dont la
dégustation a mis une expression de finesse et de joie sur le
visage du connaisseur. Mais pour les grandes soirées, comme
elle avait trop de bonjours à dire, elle trouvait qu’il eût été
fatigant, après chacun d’eux, d’éteindre à chaque fois la
lumière. Tel un gourmet de littérature, allant au théâtre voir
une nouveauté d’un des maîtres de la scène, témoigne sa
certitude de ne pas passer une mauvaise soirée en ayant déjà,
tandis qu’il remet ses affaires à l’ouvreuse, sa lèvre ajustée
pour un sourire sagace, son regard avivé pour une
approbation malicieuse ; ainsi c’était dès son arrivée que la
duchesse allumait pour toute la soirée. Et tandis qu’elle
donnait son manteau du soir, d’un magnifique rouge
Tiepolo, lequel laissa voir un véritable carcan de rubis qui
enfermait son cou, après avoir jeté sur sa robe ce dernier
regard rapide, minutieux et complet de couturière qui est
celui d’une femme du monde, Oriane s’assura du
scintillement de ses yeux non moins que de ses autres bijoux.
Quelques « bonnes langues » comme M. de Janville eurent
beau se précipiter sur le duc pour l’empêcher d’entrer : «
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Mais vous ignorez donc que le pauvre Mama est à l’article de
la mort ? On vient de l’administrer. – Je le sais, je le sais,
répondit M. de Guermantes en refoulant le fâcheux pour
entrer. Le viatique a produit le meilleur effet », ajouta-t-il en
souriant de plaisir à la pensée de la redoute à laquelle il était
décidé de ne pas manquer après la soirée du prince. « Nous
ne voulions pas qu’on sût que nous étions rentrés », me dit la
duchesse. Elle ne se doutait pas que la princesse avait
d’avance infirmé cette parole en me racontant qu’elle avait
vu un instant sa cousine qui lui avait promis de venir. Le
duc, après un long regard dont pendant cinq minutes il
accabla sa femme : « J’ai raconté à Oriane les doutes que
vous aviez. » Maintenant qu’elle voyait qu’ils n’étaient pas
fondés et qu’elle n’avait aucune démarche à faire pour
essayer de les dissiper, elle les déclara absurdes, me plaisanta
longuement. « Cette idée de croire que vous n’étiez pas invité
! Et puis, il y avait moi. Croyez-vous que je n’aurais pas pu
vous faire inviter chez ma cousine ? » Je dois dire qu’elle fit
souvent, dans la suite, des choses bien plus difficiles pour
moi ; néanmoins je me gardai de prendre ses paroles dans ce
sens que j’avais été trop réservé. Je commençais à connaître
l’exacte valeur du langage parlé ou muet de l’amabilité
aristocratique, amabilité heureuse de verser un baume sur le
sentiment d’infériorité de ceux à l’égard desquels elle
s’exerce, mais pas pourtant jusqu’au point de la dissiper, car
dans ce cas elle n’aurait plus de raison d’être. « Mais vous
êtes notre égal, sinon mieux », semblaient, par toutes leurs
actions, dire les Guermantes ; et ils le disaient de la façon la
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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plus gentille que l’on puisse imaginer, pour être aimés,
admirés, mais non pour être crus ; qu’on démêlât le caractère
fictif de cette amabilité, c’est ce qu’ils appelaient être bien
élevés ; croire l’amabilité réelle, c’était la mauvaise éducation.
Je reçus du reste à peu de temps de là une leçon qui acheva
de m’enseigner, avec la plus parfaite exactitude, l’extension et
les limites de certaines formes de l’amabilité aristocratique.
C’était à une matinée donnée par la duchesse de
Montmorency pour la reine d’Angleterre ; il y eut une espèce
de petit cortège pour aller au buffet, et en tête marchait la
souveraine ayant à son bras le duc de Guermantes. J’arrivai à
ce moment-là. De sa main libre, le duc me fit au moins à
quarante mètres de distance mille signes d’appel et d’amitié,
et qui avaient l’air de vouloir dire que je pouvais
m’approcher sans crainte, que je ne serais pas mangé tout
cru à la place des sandwichs. Mais moi, qui commençais à
me perfectionner dans le langage des cours, au lieu de me
rapprocher même d’un seul pas, à mes quarante mètres de
distance je m’inclinai profondément, mais sans sourire,
comme j’aurais fait devant quelqu’un que j’aurais à peine
connu, puis continuai mon chemin en sens opposé. J’aurais
pu écrire un chef-d’œuvre, les Guermantes m’en eussent
moins fait d’honneur que de ce salut. Non seulement il ne
passa pas inaperçu aux yeux du duc, qui ce jour-là pourtant
eut à répondre à plus de cinq cents personnes, mais à ceux
de la duchesse, laquelle, ayant rencontré ma mère, le lui
raconta en se gardant bien de lui dire que j’avais eu tort, que
j’aurais dû m’approcher. Elle lui dit que son mari avait été
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émerveillé de mon salut, qu’il était impossible d’y faire tenir
plus de choses. On ne cessa de trouver à ce salut toutes les
qualités, sans mentionner toutefois celle qui avait paru la
plus précieuse, à savoir qu’il avait été discret, et on ne cessa
pas non plus de me faire des compliments dont je compris
qu’ils étaient encore moins une récompense pour le passé
qu’une indication pour l’avenir, à la façon de celle
délicatement fournie à ses élèves par le directeur d’un
établissement d’éducation : « N’oubliez pas, mes chers
enfants, que ces prix sont moins pour vous que pour vos
parents, afin qu’ils vous renvoient l’année prochaine. » C’est
ainsi que Mme de Marsantes, quand quelqu’un d’un monde
différent entrait dans son milieu, vantait devant lui les gens
discrets « qu’on trouve quand on va les chercher et qui se
font oublier le reste du temps », comme on prévient, sous
une forme indirecte, un domestique qui sent mauvais que
l’usage des bains est parfait pour la santé.
Pendant que, avant même qu’elle eût quitté le vestibule, je
causais avec Mme de Guermantes, j’entendis une voix d’une
sorte qu’à l’avenir je devais, sans erreur possible, discerner.
C’était, dans le cas particulier, celle de M. de Vaugoubert
causant avec M. de Charlus. Un clinicien n’a même pas
besoin que le malade en observation soulève sa chemise ni
d’écouter la respiration, la voix suffit. Combien de fois plus
tard fus-je frappé dans un salon par l’intonation ou le rire de
tel homme, qui pourtant copiait exactement le langage de sa
profession ou les manières de son milieu, affectant une
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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distinction sévère ou une familière grossièreté, mais dont la
voix fausse me suffisait pour apprendre : « C’est un Charlus
», à mon oreille exercée, comme le diapason d’un accordeur.
À ce moment tout le personnel d’une ambassade passa,
lequel salua M. de Charlus. Bien que ma découverte du genre
de maladie en question datât seulement du jour même
(quand j’avais aperçu M. de Charlus et Jupien), je n’aurais pas
eu besoin, pour donner un diagnostic, de poser des
questions, d’ausculter. Mais M. de Vaugoubert causant avec
M. de Charlus parut incertain. Pourtant il aurait dû savoir à
quoi s’en tenir après les doutes de l’adolescence. L’inverti se
croit seul de sa sorte dans l’univers ; plus tard seulement, il
se figure – autre exagération – que l’exception unique, c’est
l’homme normal. Mais, ambitieux et timoré, M. de
Vaugoubert ne s’était pas livré depuis bien longtemps à ce
qui eût été pour lui le plaisir. La carrière diplomatique avait
eu sur sa vie l’effet d’une entrée dans les ordres. Combinée
avec l’assiduité à l’École des Sciences politiques, elle l’avait
voué depuis ses vingt ans à la chasteté du chrétien. Aussi,
comme chaque sens perd de sa force et de sa vivacité,
s’atrophie quand il n’est plus mis en usage, M. de
Vaugoubert, de même que l’homme civilisé qui ne serait plus
capable des exercices de force, de la finesse d’ouïe de
l’homme des cavernes, avait perdu la perspicacité spéciale
qui se trouvait rarement en défaut chez M. de Charlus ; et
aux tables officielles, soit à Paris, soit à l’étranger, le ministre
plénipotentiaire n’arrivait même plus à reconnaître ceux qui,
sous le déguisement de l’uniforme, étaient au fond ses
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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pareils. Quelques noms que prononça M. de Charlus,
indigné si on le citait pour ses goûts, mais toujours amusé de
faire connaître ceux des autres, causèrent à M. de
Vaugoubert un étonnement délicieux. Non qu’après tant
d’années il songeât à profiter d’aucune aubaine. Mais ces
révélations rapides, pareilles à celles qui dans les tragédies de
Racine apprennent à Athalie et à Abner que Joas est de la
race de David, qu’Esther assise dans la pourpre a des parents
youpins, changeant l’aspect de la légation de X... ou tel
service du Ministère des Affaires étrangères, rendaient
rétrospectivement ces palais aussi mystérieux que le temple
de Jérusalem ou la salle du trône de Suse. Pour cette
ambassade dont le jeune personnel vint tout entier serrer la
main de M. de Charlus, M. de Vaugoubert prit l’air
émerveillé d’Élise s’écriant dans Esther :
Ciel ! quel nombreux essaim d’innocentes beautés
S’offre à mes yeux en foule et sort de tous côtés !
Quelle aimable pudeur sur leur visage est peinte !
Puis désireux d’être plus « renseigné », il jeta en souriant à M.
de Charlus un regard niaisement interrogateur et
concupiscent : « Mais voyons, bien entendu », dit M. de
Charlus, de l’air docte d’un érudit parlant à un ignare.
Aussitôt M. de Vaugoubert (ce qui agaça beaucoup M. de
Charlus) ne détacha plus ses yeux de ces jeunes secrétaires,
que l’ambassadeur de X... en France, vieux cheval de retour,
n’avait pas choisis au hasard. M. de Vaugoubert se taisait, je
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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voyais seulement ses regards. Mais, habitué dès mon enfance
à prêter, même à ce qui est muet, le langage des classiques, je
faisais dire aux yeux de M. de Vaugoubert les vers par
lesquels Esther explique à Élise que Mardochée a tenu, par
zèle pour sa religion, à ne placer auprès de la Reine que des
filles qui y appartinssent.
Cependant son amour pour notre nation
A peuplé ce palais de filles de Sion,
Jeunes et tendres fleurs par le sort agitées,
Sous un ciel étranger comme moi transplantées
Dans un lieu séparé de profanes témoins,
Il (l’excellent ambassadeur) met à les former son étude et ses
soins.
Enfin M. de Vaugoubert parla, autrement que par ses
regards. « Qui sait, dit-il avec mélancolie, si, dans le pays où
je réside, la même chose n’existe pas. – C’est probable,
répondit M. de Charlus, à commencer par le roi Théodose,
bien que je ne sache rien de positif sur lui. – Oh ! pas du tout
! – Alors il n’est pas permis d’en avoir l’air à ce point-là. Et il
fait des petites manières. Il a le genre « ma chère », le genre
que je déteste le plus. Je n’oserais pas me montrer avec lui
dans la rue. Du reste, vous devez bien le connaître pour ce
qu’il est, il est connu comme le loup blanc. – Vous vous
trompez tout à fait sur lui. Il est du reste charmant. Le jour
où l’accord avec la France a été signé, le Roi m’a embrassé.
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Je n’ai jamais été si ému. – C’était le moment de lui dire ce
que vous désiriez. – Oh ! mon Dieu, quelle horreur, s’il avait
seulement un soupçon ! Mais je n’ai pas de crainte à cet
égard. » Paroles que j’entendis, car j’étais peu éloigné, et qui
firent que je me récitai mentalement :
Le Roi jusqu’à ce jour ignore qui je suis,
Et ce secret toujours tient ma langue enchaînée.
Ce dialogue, moitié muet, moitié parlé, n’avait duré que peu
d’instants, et je n’avais encore fait que quelques pas dans les
salons avec la duchesse de Guermantes quand une petite
dame brune, extrêmement jolie, l’arrêta :
« Je voudrais bien vous voir. D’Annunzio vous a aperçue
d’une loge, il a écrit à la princesse de T... une lettre où il dit
qu’il n’a jamais rien vu de si beau. Il donnerait toute sa vie
pour dix minutes d’entretien avec vous. En tout cas, même si
vous ne pouvez pas ou ne voulez pas, la lettre est en ma
possession. Il faudrait que vous me fixiez un rendez-vous. Il
y a certaines choses secrètes que je ne puis dire ici. Je vois
que vous ne me reconnaissez pas, ajouta-t-elle en s’adressant
à moi ; je vous ai connu chez la princesse de Parme (chez qui
je n’étais jamais allé). L’empereur de Russie voudrait que
votre père fût envoyé à Pétersbourg. Si vous pouviez venir
mardi, justement Isvolski sera là, il en parlerait avec vous. J’ai
un cadeau à vous faire, chérie, ajouta-t-elle en se tournant
vers la duchesse, et que je ne ferais à personne qu’à vous.
Les manuscrits de trois pièces d’Ibsen, qu’il m’a fait porter
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par son vieux garde-malade. J’en garderai une et vous
donnerai les deux autres. »
Le duc de Guermantes n’était pas enchanté de ces offres.
Incertain si Ibsen ou d’Annunzio étaient morts ou vivants, il
voyait déjà des écrivains, des dramaturges allant faire visite à
sa femme et la mettant dans leurs ouvrages. Les gens du
monde se représentent volontiers les livres comme une
espèce de cube dont une face est enlevée, si bien que l’auteur
se dépêche de « faire entrer » dedans les personnes qu’il
rencontre. C’est déloyal évidemment, et ce ne sont que des
gens de peu. Certes, ce ne serait pas ennuyeux de les voir «
en passant », car grâce à eux, si on lit un livre ou un article,
on connaît « le dessous des cartes », on peut « lever les
masques ». Malgré tout, le plus sage est de s’en tenir aux
auteurs morts. M. de Guermantes trouvait seulement «
parfaitement convenable » le monsieur qui faisait la
nécrologie dans le Gaulois. Celui-là, du moins, se contentait
de citer le nom de M. de Guermantes en tête des personnes
remarquées « notamment » dans les enterrements où le duc
s’était inscrit. Quand ce dernier préférait que son nom ne
figurât pas, au lieu de s’inscrire il envoyait une lettre de
condoléances à la famille du défunt en l’assurant de ses
sentiments bien tristes. Que si cette famille faisait mettre
dans le journal : « Parmi les lettres reçues, citons celle du duc
de Guermantes, etc. », ce n’était pas la faute de l’échotier,
mais du fils, frère, père de la défunte, que le duc qualifiait
d’arrivistes, et avec qui il était désormais décidé à ne plus
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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avoir de relations (ce qu’il appelait, ne sachant pas bien le
sens des locutions, « avoir maille à partir »). Toujours est-il
que les noms d’Ibsen et d’Annunzio, et leur survivance
incertaine, firent se froncer les sourcils du duc, qui n’était pas
encore assez loin de nous pour ne pas avoir entendu les
amabilités diverses de Mme Timoléon d’Amoncourt. C’était
une femme charmante, d’un esprit, comme sa beauté, si
ravissant, qu’un seul des deux eût réussi à plaire. Mais, née
hors du milieu où elle vivait maintenant, n’ayant aspiré
d’abord qu’à un salon littéraire, amie successivement –
nullement amante, elle était de mœurs fort pures – et
exclusivement de chaque grand écrivain qui lui donnait tous
ses manuscrits, écrivait des livres pour elle, le hasard l’ayant
introduite dans le faubourg Saint-Germain, ces privilèges
littéraires l’y servirent. Elle avait maintenant une situation à
n’avoir pas à dispenser d’autres grâces que celles que sa
présence répandait. Mais habituée jadis à l’entregent, aux
manèges, aux services à rendre, elle y persévérait bien qu’ils
ne fussent plus nécessaires. Elle avait toujours un secret
d’État à vous révéler, un potentat à vous faire connaître, une
aquarelle de maître à vous offrir. Il y avait bien dans tous ces
attraits inutiles un peu de mensonge, mais il faisaient de sa
vie une comédie d’une complication scintillante et il était
exact qu’elle faisait nommer des préfets et des généraux.
Tout en marchant à côté de moi, la duchesse de Guermantes
laissait la lumière azurée de ses yeux flotter devant elle, mais
dans le vague, afin d’éviter les gens avec qui elle ne tenait pas
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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à entrer en relations, et dont elle devinait parfois, de loin,
l’écueil menaçant. Nous avancions entre une double haie
d’invités, lesquels, sachant qu’ils ne connaîtraient jamais «
Oriane », voulaient au moins, comme une curiosité, la
montrer à leur femme : « Ursule, vite, vite, venez voir
Madame de Guermantes qui cause avec ce jeune homme. »
Et on sentait qu’il ne s’en fallait pas de beaucoup pour qu’ils
fussent montés sur des chaises, pour mieux voir, comme à la
revue du 14 juillet ou au Grand Prix. Ce n’est pas que la
duchesse de Guermantes eût un salon plus aristocratique que
sa cousine. Chez la première fréquentaient des gens que la
seconde n’eût jamais voulu inviter, surtout à cause de son
mari. Jamais elle n’eût reçu Mme Alphonse de Rothschild,
qui, intime amie de Mme de la Trémoïlle et de Mme de
Sagan, comme Oriane elle-même, fréquentait beaucoup chez
cette dernière. Il en était encore de même du baron Hirsch,
que le prince de Galles avait amené chez elle, mais non chez
la princesse à qui il aurait déplu, et aussi de quelques grandes
notoriétés bonapartistes ou même républicaines, qui
intéressaient la duchesse mais que le prince, royaliste
convaincu, n’eût pas voulu recevoir. Son antisémitisme, étant
aussi de principe, ne fléchissait devant aucune élégance, si
accréditée fût-elle, et s’il recevait Swann dont il était l’ami de
tout temps, étant d’ailleurs le seul des Guermantes qui
l’appelât Swann et non Charles, c’est que, sachant que la
grand’mère de Swann, protestante mariée à un juif, avait été
la maîtresse du duc de Berri, il essayait, de temps en temps,
de croire à la légende qui faisait du père de Swann un fils
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naturel du prince. Dans cette hypothèse, laquelle était
d’ailleurs fausse, Swann, fils d’un catholique, fils lui-même
d’un Bourbon et d’une catholique, n’avait rien que de
chrétien.
« Comment, vous ne connaissez pas ces splendeurs », me dit
la duchesse, en me parlant de l’hôtel où nous étions. Mais
après avoir célébré le « palais » de sa cousine, elle s’empressa
d’ajouter qu’elle préférait mille fois « son humble trou ». «
Ici, c’est admirable pour visiter. Mais je mourrais de chagrin
s’il me fallait rester à coucher dans des chambres où ont eu
lieu tant d’événements historiques. Ça me ferait l’effet d’être
restée après la fermeture, d’avoir été oubliée, au château de
Blois, de Fontainebleau ou même au Louvre, et d’avoir
comme seule ressource contre la tristesse de me dire que je
suis dans la chambre où a été assassiné Monaldeschi.
Comme camomille, c’est insuffisant. Tiens, voilà Mme de
Saint-Euverte. Nous avons dîné tout à l’heure chez elle.
Comme elle donne demain sa grande machine annuelle, je
pensais qu’elle serait allée se coucher. Mais elle ne peut pas
rater une fête. Si celle-ci avait eu lieu à la campagne, elle
serait montée sur une tapissière plutôt que de ne pas y être
allée. »
En réalité, Mme de Saint-Euverte était venue, ce soir, moins
pour le plaisir de ne pas manquer une fête chez les autres
que pour assurer le succès de la sienne, recruter les derniers
adhérents, et en quelque sorte passer in extremis la revue des
troupes qui devaient le lendemain évoluer brillamment à sa
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garden-party. Car, depuis pas mal d’années, les invités des
fêtes Saint-Euverte n’étaient plus du tout les mêmes
qu’autrefois. Les notabilités féminines du milieu
Guermantes, si clairsemées alors, avaient – comblées de
politesses par la maîtresse de la maison – amené peu à peu
leurs amies. En même temps, par un travail parallèlement
progressif, mais en sens inverse, Mme de Saint-Euverte avait
d’année en année réduit le nombre des personnes inconnues
au monde élégant. On avait cessé de voir l’une, puis l’autre.
Pendant quelque temps fonctionna le système des « fournées
», qui permettait, grâce à des fêtes sur lesquelles on faisait le
silence, de convier les réprouvés à venir se divertir entre eux,
ce qui dispensait de les inviter avec les gens de bien. De quoi
pouvaient-ils se plaindre ? N’avaient-ils pas panem et
circenses, des petits fours et un beau programme musical ?
Aussi, en symétrie en quelque sorte avec les deux duchesses
en exil, qu’autrefois, quand avait débuté le salon SaintEuverte, on avait vues en soutenir, comme deux cariatides, le
faîte chancelant, dans les dernières années on ne distingua
plus, mêlées au beau monde, que deux personnes
hétérogènes : la vieille Mme de Cambremer et la femme à
belle voix d’un architecte à laquelle on était souvent obligé
de demander de chanter. Mais ne connaissant plus personne
chez Mme de Saint-Euverte, pleurant leurs compagnes
perdues, sentant qu’elles gênaient, elles avaient l’air prêtes à
mourir de froid comme deux hirondelles qui n’ont pas
émigré à temps. Aussi l’année suivante ne furent-elles pas
invitées ; Mme de Franquetot tenta une démarche en faveur
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de sa cousine qui aimait tant la musique. Mais comme elle ne
put pas obtenir pour elle une réponse plus explicite que ces
mots : « Mais on peut toujours entrer écouter de la musique
si ça vous amuse, ça n’a rien de criminel ! » Mme de
Cambremer ne trouva pas l’invitation assez pressante et
s’abstint.
Une telle transmutation, opérée par Mme de Saint-Euverte,
d’un salon de lépreux en un salon de grandes dames (la
dernière forme, en apparence ultra-chic, qu’il avait prise), on
pouvait s’étonner que la personne qui donnait le lendemain
la fête la plus brillante de la saison eût eu besoin de venir la
veille adresser un suprême appel à ses troupes. Mais c’est que
la prééminence du salon Saint-Euverte n’existait que pour
ceux dont la vie mondaine consiste seulement à lire le
compte rendu des matinées et soirées, dans le Gaulois ou le
Figaro, sans être jamais allés à aucune. À ces mondains qui
ne voient le monde que par le journal, l’énumération des
ambassadrices d’Angleterre, d’Autriche, etc. ; des duchesses
d’Uzès, de La Trémoïlle, etc., etc., suffisait pour qu’ils
s’imaginassent volontiers le salon Saint-Euverte comme le
premier de Paris, alors qu’il était un des derniers. Non que
les comptes rendus fussent mensongers. La plupart des
personnes citées avaient bien été présentes. Mais chacune
était venue à la suite d’implorations, de politesses, de
services, et en ayant le sentiment d’honorer infiniment Mme
de Saint-Euverte. De tels salons, moins recherchés que fuis,
et où on va pour ainsi dire en service commandé, ne font
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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illusion qu’aux lectrices de « Mondanités ». Elles glissent sur
une fête vraiment élégante, celle-là où la maîtresse de la
maison, pouvant avoir toutes les duchesses, lesquelles
brûlent d’être « parmi les élus », ne demandent qu’à deux ou
trois, et ne font pas mettre le nom de leurs invités dans le
journal. Aussi ces femmes, méconnaissant ou dédaignant le
pouvoir qu’a pris aujourd’hui la publicité, sont-elles élégantes
pour la reine d’Espagne, mais, méconnues de la foule, parce
que la première sait et que la seconde ignore qui elles sont.
Mme de Saint-Euverte n’était pas de ces femmes, et en
bonne butineuse elle venait cueillir pour le lendemain tout ce
qui était invité. M. de Charlus ne l’était pas, il avait toujours
refusé d’aller chez elle. Mais il était brouillé avec tant de
gens, que Mme de Saint-Euverte pouvait mettre cela sur le
compte du caractère.
Certes, s’il n’y avait eu là qu’Oriane, Mme de Saint-Euverte
eût pu ne pas se déranger, puisque l’invitation avait été faite
de vive voix, et d’ailleurs acceptée avec cette charmante
bonne grâce trompeuse dans l’exercice de laquelle
triomphent ces académiciens de chez lesquels le candidat
sort attendri et ne doutant pas qu’il peut compter sur leur
voix. Mais il n’y avait pas qu’elle. Le prince d’Agrigente
viendrait-il ? Et Mme de Durfort ? Aussi, pour veiller au
grain, Mme de Saint-Euverte avait-elle cru plus expédient de
se transporter elle-même ; insinuante avec les uns, impérative
avec les autres, pour tous elle annonçait à mots couverts
d’inimaginables divertissements qu’on ne pourrait revoir une
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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seconde fois, et à chacun promettait qu’il trouverait chez elle
la personne qu’il avait le désir, ou le personnage qu’il avait le
besoin de rencontrer. Et cette sorte de fonction dont elle
était investie pour une fois dans l’année – telles certaines
magistratures du monde antique – de personne qui donnera
le lendemain la plus considérable garden-party de la saison
lui conférait une autorité momentanée. Ses listes étaient
faites et closes, de sorte que, tout en parcourant les salons de
la princesse avec lenteur pour verser successivement dans
chaque oreille : « Vous ne m’oublierez pas demain », elle
avait la gloire éphémère de détourner les yeux, en continuant
à sourire, si elle apercevait un laideron à éviter ou quelque
hobereau qu’une camaraderie de collège avait fait admettre
chez « Gilbert », et duquel la présence à sa garden-party
n’ajouterait rien. Elle préférait ne pas lui parler pour pouvoir
dire ensuite : « J’ai fait mes invitations verbalement, et
malheureusement je ne vous ai pas rencontré. » Ainsi elle,
simple Saint-Euverte, faisait-elle de ses yeux fureteurs un «
tri » dans la composition de la soirée de la princesse. Et elle
se croyait, en agissant ainsi, une vraie duchesse de
Guermantes.
Il faut dire que celle-ci n’avait pas non plus tant qu’on
pourrait croire la liberté de ses bonjours et de ses sourires.
Pour une part, sans doute, quand elle les refusait, c’était
volontairement : « Mais elle m’embête, disait-elle, est-ce que
je vais être obligée de lui parler de sa soirée pendant une
heure ? »
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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On vit passer une duchesse fort noire, que sa laideur et sa
bêtise, et certains écarts de conduite, avaient exilée non de la
société, mais de certaines intimités élégantes. « Ah ! susurra
Mme de Guermantes, avec le coup d’œil exact et désabusé
du connaisseur à qui on montre un bijou faux, on reçoit ça
ici ! » Sur la seule vue de la dame à demi tarée, et dont la
figure était encombrée de trop de grains de poils noirs, Mme
de Guermantes cotait la médiocre valeur de cette soirée. Elle
avait été élevée, mais avait cessé toutes relations avec cette
dame ; elle ne répondit à son salut que par un signe de tête
des plus secs. « Je ne comprends pas, me dit-elle, comme
pour s’excuser, que Marie-Gilbert nous invite avec toute
cette lie. On peut dire qu’il y en a ici de toutes les paroisses.
C’était beaucoup mieux arrangé chez Mélanie Pourtalès. Elle
pouvait avoir le Saint-Synode et le Temple de l’Oratoire si ça
lui plaisait, mais, au moins, on ne nous faisait pas venir ces
jours-là. » Mais pour beaucoup, c’était par timidité, peur
d’avoir une scène de son mari, qui ne voulait pas qu’elle
reçût des artistes, etc. (Marie-Gilbert en protégeait beaucoup,
il fallait prendre garde de ne pas être abordée par quelque
illustre chanteuse allemande), par quelque crainte aussi à
l’égard du nationalisme qu’en tant que, détenant, comme M.
de Charlus, l’esprit des Guermantes, elle méprisait au point
de vue mondain (on faisait passer maintenant, pour glorifier
l’état-major, un général plébéien avant certains ducs) mais
auquel pourtant, comme elle se savait cotée mal pensante,
elle faisait de larges concessions, jusqu’à redouter d’avoir à
tendre la main à Swann dans ce milieu antisémite. À cet
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égard elle fut vite rassurée, ayant appris que le Prince n’avait
pas laissé entrer Swann et avait eu avec lui « une espèce
d’altercation ». Elle ne risquait pas d’avoir à faire
publiquement la conversation avec « pauvre Charles » qu’elle
préférait chérir dans le privé.
– Et qu’est-ce encore que celle-là ? s’écria Mme de
Guermantes en voyant une petite dame l’air un peu étrange,
dans une robe noire tellement simple qu’on aurait dit une
malheureuse, lui faire, ainsi que son mari, un grand salut.
Elle ne la reconnut pas et, ayant de ces insolences, se
redressa comme offensée, et regarda sans répondre, d’un air
étonné : « Qu’est-ce que c’est que cette personne, Basin ? »
demanda-t-elle d’un air étonné, pendant que M. de
Guermantes, pour réparer l’impolitesse d’Oriane, saluait la
dame et serrait la main du mari. « Mais, c’est Mme de
Chaussepierre, vous avez été très impolie. – Je ne sais pas ce
que c’est Chaussepierre. – Le neveu de la vieille mère
Chanlivault. – Je ne connais rien de tout ça. Qui est la
femme, pourquoi me salue-t-elle ? – Mais, vous ne
connaissez que ça, c’est la fille de Mme de Charleval,
Henriette Montmorency. – Ah ! mais j’ai très bien connu sa
mère, elle était charmante, très spirituelle. Pourquoi a-t-elle
épousé tous ces gens que je ne connais pas ? Vous dites
qu’elle s’appelle Mme de Chaussepierre ? » dit-elle en épelant
ce dernier mot d’un air interrogateur et comme si elle avait
peur de se tromper. Le duc lui jeta un regard dur. « Cela n’est
pas si ridicule que vous avez l’air de croire de s’appeler
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Chaussepierre ! Le vieux Chaussepierre était le frère de la
Charleval déjà nommée, de Mme de Sennecour et de la
vicomtesse du Merlerault. Ce sont des gens bien. – Ah !
assez, s’écria la duchesse qui, comme une dompteuse, ne
voulait jamais avoir l’air de se laisser intimider par les regards
dévorants du fauve. Basin, vous faites ma joie. Je ne sais pas
où vous avez été dénicher ces noms, mais je vous fais tous
mes compliments. Si j’ignorais Chaussepierre, j’ai lu Balzac,
vous n’êtes pas le seul, et j’ai même lu Labiche. J’apprécie
Chanlivault, je ne hais pas Charleval, mais j’avoue que du
Merlerault est le chef-d’œuvre. Du reste, avouons que
Chaussepierre n’est pas mal non plus. Vous avez
collectionné tout ça, ce n’est pas possible. Vous qui voulez
faire un livre, me dit-elle, vous devriez retenir Charleval et du
Merlerault. Vous ne trouverez pas mieux. – Il se fera faire
tout simplement procès, et il ira en prison ; vous lui donnez
de très mauvais conseils, Oriane. – J’espère pour lui qu’il a à
sa disposition des personnes plus jeunes s’il a envie de
demander de mauvais conseils, et surtout de les suivre. Mais
s’il ne veut rien faire de plus mal qu’un livre ! » Assez loin de
nous, une merveilleuse et fière jeune femme se détachait
doucement dans une robe blanche, toute en diamants et en
tulle. Madame de Guermantes la regarda qui parlait devant
tout un groupe aimanté par sa grâce.
« Votre sœur est partout la plus belle ; elle est charmante ce
soir », dit-elle, tout en prenant une chaise, au prince de
Chimay qui passait. Le colonel de Froberville (il avait pour
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oncle le général du même nom) vint s’asseoir à côté de nous,
ainsi que M. de Bréauté, tandis que M. de Vaugoubert, se
dandinant (par un excès de politesse qu’il gardait même
quand il jouait au tennis où, à force de demander des
permissions aux personnages de marque avant d’attraper la
balle, il faisait inévitablement perdre la partie à son camp),
retournait auprès de M. de Charlus (jusque-là quasi
enveloppé par l’immense jupe de la comtesse Molé, qu’il
faisait profession d’admirer entre toutes les femmes), et, par
hasard, au moment où plusieurs membres d’une nouvelle
mission diplomatique à Paris saluaient le baron. À la vue
d’un jeune secrétaire à l’air particulièrement intelligent, M. de
Vaugoubert fixa sur M. de Charlus un sourire où
s’épanouissait visiblement une seule question. M. de Charlus
eût peut-être volontiers compromis quelqu’un, mais se
sentir, lui, compromis par ce sourire partant d’un autre et qui
ne pouvait avoir qu’une signification, l’exaspéra. « Je n’en
sais absolument rien, je vous prie de garder vos curiosités
pour vous-même. Elles me laissent plus que froid. Du reste,
dans le cas particulier, vous faites un impair de tout premier
ordre. Je crois ce jeune homme absolument le contraire. »
Ici, M. de Charlus, irrité d’avoir été dénoncé par un sot, ne
disait pas la vérité. Le secrétaire eût, si le baron avait dit vrai,
fait exception dans cette ambassade. Elle était, en effet,
composée de personnalités fort différentes, plusieurs
extrêmement médiocres, en sorte que, si l’on cherchait quel
avait pu être le motif du choix qui s’était porté sur elles, on
ne pouvait découvrir que l’inversion. En mettant à la tête de
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ce petit Sodome diplomatique un ambassadeur aimant au
contraire les femmes avec une exagération comique de
compère de revue, qui faisait manœuvrer en règle son
bataillon de travestis, on semblait avoir obéi à la loi des
contrastes. Malgré ce qu’il avait sous les yeux, il ne croyait
pas à l’inversion. Il en donna immédiatement la preuve en
mariant sa sœur à un chargé d’affaires qu’il croyait bien
faussement un coureur de poules. Dès lors il devint un peu
gênant et fut bientôt remplacé par une Excellence nouvelle
qui assura l’homogénéité de l’ensemble. D’autres ambassades
cherchèrent à rivaliser avec celle-là, mais elles ne purent lui
disputer le prix (comme au concours général, où un certain
lycée l’a toujours) et il fallut que plus de dix ans se passassent
avant que, des attachés hétérogènes s’étant introduits dans ce
tout si parfait, une autre pût enfin lui arracher la funeste
palme et marcher en tête.
Rassurée sur la crainte d’avoir à causer avec Swann, Mme de
Guermantes n’éprouvait plus que de la curiosité au sujet de
la conversation qu’il avait eue avec le maître de maison. «
Savez-vous à quel sujet ? demanda le duc à M. de Bréauté. –
J’ai entendu dire, répondit celui-ci, que c’était à propos d’un
petit acte que l’écrivain Bergotte avait fait représenter chez
eux. C’était ravissant, d’ailleurs. Mais il paraît que l’acteur
s’était fait la tête de Gilbert, que, d’ailleurs, le sieur Bergotte
aurait voulu en effet dépeindre. – Tiens, cela m’aurait
amusée de voir contrefaire Gilbert, dit la duchesse en
souriant rêveusement. – C’est sur cette petite représentation,
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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reprit M. de Bréauté en avançant sa mâchoire de rongeur,
que Gilbert a demandé des explications à Swann, qui s’est
contenté de répondre, ce que tout le monde trouva très
spirituel : « Mais, pas du tout, cela ne vous ressemble en rien,
vous êtes bien plus ridicule que ça ! » Il paraît, du reste, reprit
M. de Bréauté, que cette petite pièce était ravissante. Mme
Molé y était, elle s’est énormément amusée. – Comment,
Mme Molé va là ? dit la duchesse étonnée. Ah ! c’est Mémé
qui aura arrangé cela. C’est toujours ce qui finit par arriver
avec ces endroits-là. Tout le monde, un beau jour, se met à y
aller, et moi, qui me suis volontairement exclue par principe,
je me trouve seule à m’ennuyer dans mon coin. » Déjà,
depuis le récit que venait de leur faire M. de Bréauté, la
duchesse de Guermantes (sinon sur le salon Swann, du
moins sur l’hypothèse de rencontrer Swann dans un instant)
avait, comme on voit, adopté un nouveau point de vue. «
L’explication que vous nous donnez, dit à M. de Bréauté le
colonel de Froberville, est de tout point controuvée. J’ai mes
raisons pour le savoir. Le Prince a purement et simplement
fait une algarade à Swann et lui a fait assavoir, comme
disaient nos pères, de ne plus avoir à se montrer chez lui,
étant donné les opinions qu’il affiche. Et, selon moi, mon
oncle Gilbert a eu mille fois raison, non seulement de faire
cette algarade, mais aurait dû en finir il y a plus de six mois
avec un dreyfusard avéré. »
Le pauvre M. de Vaugoubert, devenu cette fois-ci de trop
lambin joueur de tennis une inerte balle de tennis elle-même
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qu’on lance sans ménagements, se trouva projeté vers la
duchesse de Guermantes, à laquelle il présenta ses
hommages. Il fut assez mal reçu, Oriane vivant dans la
persuasion que tous les diplomates – ou hommes politiques
– de son monde étaient des nigauds.
M. de Froberville avait forcément bénéficié de la situation de
faveur qui depuis peu était faite aux militaires dans la société.
Malheureusement, si la femme qu’il avait épousée était
parente très véritable des Guermantes, c’en était une aussi
extrêmement pauvre, et comme lui-même avait perdu sa
fortune, ils n’avaient guère de relations et c’étaient de ces
gens qu’on laissait de côté, hors des grandes occasions,
quand ils avaient la chance de perdre ou de marier un parent.
Alors, ils faisaient vraiment partie de la communion du
grand monde, comme les catholiques de nom qui ne
s’approchent de la sainte Table qu’une fois l’an. Leur
situation matérielle eût même été malheureuse si Mme de
Saint-Euverte, fidèle à l’affection qu’elle avait eue pour feu le
général de Froberville, n’avait pas aidé de toutes façons le
ménage, donnant des toilettes et des distractions aux deux
petites filles. Mais le colonel, qui passait pour un bon garçon,
n’avait pas l’âme reconnaissante. Il était envieux des
splendeurs d’une bienfaitrice qui les célébrait elle-même sans
trêve et sans mesure. La garden-party était pour lui, sa
femme et ses enfants, un plaisir merveilleux qu’ils n’eussent
pas voulu manquer pour tout l’or du monde, mais un plaisir
empoisonné par l’idée des joies d’orgueil qu’en tirait Mme de
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Saint-Euverte. L’annonce de cette garden-party dans les
journaux qui, ensuite, après un récit détaillé, ajoutaient
machiavéliquement : « Nous reviendrons sur cette belle fête
», les détails complémentaires sur les toilettes, donnés
pendant plusieurs jours de suite, tout cela faisait tellement
mal aux Froberville, qu’eux, assez sevrés de plaisirs et qui
savaient pouvoir compter sur celui de cette matinée, en
arrivaient chaque année à souhaiter que le mauvais temps en
gênât la réussite, à consulter le baromètre et à anticiper avec
délices les prémices d’un orage qui pût faire rater la fête.
– Je ne discuterai pas politique avec vous, Froberville, dit M.
de Guermantes, mais, pour ce qui concerne Swann, je peux
dire franchement que sa conduite à notre égard a été
inqualifiable. Patronné jadis dans le monde par nous, par le
duc de Chartres, on me dit qu’il est ouvertement dreyfusard.
Jamais je n’aurais cru cela de lui, de lui un fin gourmet, un
esprit positif, un collectionneur, un amateur de vieux livres,
membre du Jockey, un homme entouré de la considération
générale, un connaisseur de bonnes adresses qui nous
envoyait le meilleur porto qu’on puisse boire, un dilettante,
un père de famille. Ah ! j’ai été bien trompé. Je ne parle pas
de moi, il est convenu que je suis une vieille bête, dont
l’opinion ne compte pas, une espèce de va-nu-pieds, mais
rien que pour Oriane, il n’aurait pas dû faire cela, il aurait dû
désavouer ouvertement les Juifs et les sectateurs du
condamné.
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« Oui, après l’amitié que lui a toujours témoignée ma femme,
reprit le duc, qui considérait évidemment que condamner
Dreyfus pour haute trahison, quelque opinion qu’on eût
dans son for intérieur sur sa culpabilité, constituait une
espèce de remerciement pour la façon dont on avait été reçu
dans le faubourg Saint-Germain, il aurait dû se désolidariser.
Car, demandez à Oriane, elle avait vraiment de l’amitié pour
lui. » La duchesse, pensant qu’un ton ingénu et calme
donnerait une valeur plus dramatique et sincère à ses paroles,
dit d’une voix d’écolière, comme laissant sortir simplement la
vérité de sa bouche et en donnant seulement à ses yeux une
expression un peu mélancolique : « Mais c’est vrai, je n’ai
aucune raison de cacher que j’avais une sincère affection
pour Charles ! – Là, vous voyez, je ne lui fais pas dire. Et
après cela, il pousse l’ingratitude jusqu’à être dreyfusard ! »
« À propos de dreyfusards, dis-je, il paraît que le prince Von
l’est. – Ah ! vous faites bien de me parler de lui, s’écria M. de
Guermantes, j’allais oublier qu’il m’a demandé de venir dîner
lundi. Mais, qu’il soit dreyfusard ou non, cela m’est
parfaitement égal puisqu’il est étranger. Je m’en fiche comme
de colin-tampon. Pour un Français, c’est autre chose. Il est
vrai que Swann est juif. Mais jusqu’à ce jour – excusez-moi,
Froberville – j’avais eu la faiblesse de croire qu’un juif peut
être Français, j’entends un juif honorable, homme du
monde. Or Swann était cela dans toute la force du terme. Hé
bien ! il me force à reconnaître que je me suis trompé,
puisqu’il prend parti pour ce Dreyfus (qui, coupable ou non,
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ne fait nullement partie de son milieu, qu’il n’aurait jamais
rencontré) contre une société qui l’avait adopté, qui l’avait
traité comme un des siens. Il n’y a pas à dire, nous nous
étions tous portés garants de Swann, j’aurais répondu de son
patriotisme comme du mien. Ah ! il nous récompense bien
mal. J’avoue que de sa part je ne me serais jamais attendu à
cela. Je le jugeais mieux. Il avait de l’esprit (dans son genre,
bien entendu). Je sais bien qu’il avait déjà fait l’insanité de
son honteux mariage. Tenez, savez-vous quelqu’un à qui le
mariage de Swann a fait beaucoup de peine ? C’est à ma
femme. Oriane a souvent ce que j’appellerai une affectation
d’insensibilité. Mais au fond, elle ressent avec une force
extraordinaire. » Mme de Guermantes, ravie de cette analyse
de son caractère, l’écoutait d’un air modeste mais ne disait
pas un mot, par scrupule d’acquiescer à l’éloge, surtout par
peur de l’interrompre. M. de Guermantes aurait pu parler
une heure sur ce sujet qu’elle eût encore moins bougé que si
on lui avait fait de la musique. « Hé bien ! je me rappelle,
quand elle a appris le mariage de Swann, elle s’est sentie
froissée ; elle a trouvé que c’était mal de quelqu’un à qui
nous avions témoigné tant d’amitié. Elle aimait beaucoup
Swann ; elle a eu beaucoup de chagrin. N’est-ce pas Oriane ?
» Mme de Guermantes crut devoir répondre à une
interpellation aussi directe sur un point de fait qui lui
permettrait, sans en avoir l’air, de confirmer des louanges
qu’elle sentait terminées. D’un ton timide et simple, et un air
d’autant plus appris qu’il voulait paraître « senti », elle dit
avec une douceur réservée : « C’est vrai, Basin ne se trompe
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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pas. – Et pourtant ce n’était pas encore la même chose. Que
voulez-vous, l’amour est l’amour quoique, à mon avis, il
doive rester dans certaines bornes. J’excuserais encore un
jeune homme, un petit morveux, se laissant emballer par les
utopies. Mais Swann, un homme intelligent, d’une délicatesse
éprouvée, un fin connaisseur en tableaux, un familier du duc
de Chartres, de Gilbert lui-même ! » Le ton dont M. de
Guermantes disait cela était d’ailleurs parfaitement
sympathique, sans ombre de la vulgarité qu’il montrait trop
souvent. Il parlait avec une tristesse légèrement indignée,
mais tout en lui respirait cette gravité douce qui fait le
charme onctueux et large de certains personnages de
Rembrandt, le bourgmestre Six par exemple. On sentait que
la question de l’immoralité de la conduite de Swann dans
l’Affaire ne se posait même pas pour le duc, tant elle faisait
peu de doute ; il en ressentait l’affliction d’un père voyant un
de ses enfants, pour l’éducation duquel il a fait les plus
grands sacrifices, ruiner volontairement la magnifique
situation qu’il lui a faite et déshonorer, par des frasques que
les principes ou les préjugés de la famille ne peuvent
admettre, un nom respecté. Il est vrai que M. de Guermantes
n’avait pas manifesté autrefois un étonnement aussi profond
et aussi douloureux quand il avait appris que Saint-Loup était
dreyfusard. Mais d’abord il considérait son neveu comme un
jeune homme dans une mauvaise voie et de qui rien, jusqu’à
ce qu’il se soit amendé, ne saurait étonner, tandis que Swann
était ce que M. de Guermantes appelait « un homme
pondéré, un homme ayant une position de premier ordre ».
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Ensuite et surtout, un assez long temps avait passé pendant
lequel, si, au point de vue historique, les événements avaient
en partie semblé justifier la thèse dreyfusiste, l’opposition
antidreyfusarde avait redoublé de violence, et de purement
politique d’abord était devenue sociale. C’était maintenant
une question de militarisme, de patriotisme, et les vagues de
colère soulevées dans la société avaient eu le temps de
prendre cette force qu’elles n’ont jamais au début d’une
tempête. « Voyez-vous, reprit M. de Guermantes, même au
point de vue de ses chers juifs, puisqu’il tient absolument à
les soutenir, Swann a fait une boulette d’une portée
incalculable. Il prouve qu’ils sont en quelque sorte forcés de
prêter appui à quelqu’un de leur race, même s’ils ne le
connaissent pas. C’est un danger public. Nous avons
évidemment été trop coulants, et la gaffe que commet
Swann aura d’autant plus de retentissement qu’il était estimé,
même reçu, et qu’il était à peu près le seul juif qu’on
connaissait. On se dira : Ab uno disce omnes. » (La
satisfaction d’avoir trouvé à point nommé, dans sa mémoire,
une citation si opportune éclaira seule d’un orgueilleux
sourire la mélancolie du grand seigneur trahi.)
J’avais grande envie de savoir ce qui s’était exactement passé
entre le Prince et Swann et de voir ce dernier, s’il n’avait pas
encore quitté la soirée. « Je vous dirai, me répondit la
duchesse, à qui je parlais de ce désir, que moi je ne tiens pas
excessivement à le voir parce qu’il paraît, d’après ce qu’on
m’a dit tout à l’heure chez Mme de Saint-Euverte, qu’il
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voudrait avant de mourir que je fasse la connaissance de sa
femme et de sa fille. Mon Dieu, ce me fait une peine infinie
qu’il soit malade, mais d’abord j’espère que ce n’est pas aussi
grave que ça. Et puis enfin ce n’est tout de même pas une
raison, parce que ce serait vraiment trop facile. Un écrivain
sans talent n’aurait qu’à dire : « Votez pour moi à l’Académie
parce que ma femme va mourir et que je veux lui donner
cette dernière joie. » Il n’y aurait plus de salons si on était
obligé de faire la connaissance de tous les mourants. Mon
cocher pourrait me faire valoir : « Ma fille est très mal, faitesmoi recevoir chez la princesse de Parme. » J’adore Charles,
et cela me ferait beaucoup de chagrin de lui refuser, aussi
est-ce pour cela que j’aime mieux éviter qu’il me le demande.
J’espère de tout mon cœur qu’il n’est pas mourant, comme il
le dit, mais vraiment, si cela devait arriver, ce ne serait pas le
moment pour moi de faire la connaissance de ces deux
créatures qui m’ont privée du plus agréable de mes amis
pendant quinze ans, et qu’il me laisserait pour compte une
fois que je ne pourrais même pas en profiter pour le voir lui,
puisqu’il serait mort ! »
Mais M. de Bréauté n’avait cessé de ruminer le démenti que
lui avait infligé le colonel de Froberville.
– Je ne doute pas de l’exactitude de votre récit, mon cher
ami, dit-il, mais je tenais le mien de bonne source. C’est le
prince de La Tour d’Auvergne qui me l’avait narré.
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– Je m’étonne qu’un savant comme vous dise encore le
prince de La Tour d’Auvergne, interrompit le duc de
Guermantes, vous savez qu’il ne l’est pas le moins du
monde. Il n’y a plus qu’un seul membre de cette famille :
c’est l’oncle d’Oriane, le duc de Bouillon.
– Le frère de Mme de Villeparisis ? demandai-je, me
rappelant que celle-ci était une demoiselle de Bouillon.
– Parfaitement. Oriane, Mme de Lambresac vous dit
bonjour.
En effet, on voyait par moments se former et passer comme
une étoile filante un faible sourire destiné par la duchesse de
Lambresac à quelque personne qu’elle avait reconnue. Mais
ce sourire, au lieu de se préciser en une affirmation active, en
un langage muet mais clair, se noyait presque aussitôt en une
sorte d’extase idéale qui ne distinguait rien, tandis que la tête
s’inclinait en un geste de bénédiction béate rappelant celui
qu’incline vers la foule des communiantes un prélat un peu
ramolli. Mme de Lambresac ne l’était en aucune façon. Mais
je connaissais déjà ce genre particulier de distinction désuète.
À Combray et à Paris, toutes les amies de ma grand’mère
avaient l’habitude de saluer, dans une réunion mondaine,
d’un air aussi séraphique que si elles avaient aperçu
quelqu’un de connaissance à l’église, au moment de
l’Élévation ou pendant un enterrement, et lui jetaient
mollement un bonjour qui s’achevait en prière. Or, une
phrase de M. de Guermantes allait compléter le
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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rapprochement que je faisais. « Mais vous avez vu le duc de
Bouillon, me dit M. de Guermantes. Il sortait tantôt de ma
bibliothèque comme vous y entriez, un monsieur court de
taille et tout blanc. » C’était celui que j’avais pris pour un
petit bourgeois de Combray, et dont maintenant, à la
réflexion, je dégageais la ressemblance avec Mme de
Villeparisis. La similitude des saluts évanescents de la
duchesse de Lambresac avec ceux des amies de ma
grand’mère avait commencé de m’intéresser en me montrant
que dans les milieux étroits et fermés, qu’ils soient de petite
bourgeoisie ou de grandes noblesse, les anciennes manières
persistent, nous permettant comme à un archéologue de
retrouver ce que pouvait être l’éducation et la part d’âme
qu’elle reflète, au temps du vicomte d’Arlincourt et de Loïsa
Puget. Mieux maintenant la parfaite conformité d’apparence
entre un petit bourgeois de Combray de son âge et le duc de
Bouillon me rappelait (ce qui m’avait déjà tant frappé quand
j’avais vu le grand-père maternel de Saint-Loup, le duc de La
Rochefoucauld, sur un daguerréotype où il était exactement
pareil comme vêtements, comme air et comme façons à mon
grand-oncle) que les différences sociales, voire individuelles,
se fondent à distance dans l’uniformité d’une époque. La
vérité est que la ressemblance des vêtements et aussi la
réverbération par le visage de l’esprit de l’époque tiennent,
dans une personne, une place tellement plus importante que
sa caste, en occupent une grande seulement dans l’amourpropre de l’intéressé et l’imagination des autres, que, pour se
rendre compte qu’un grand seigneur du temps de Louis138
Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Philippe est moins différent d’un bourgeois du temps de
Louis-Philippe que d’un grand seigneur du temps de Louis
XV, il n’est pas nécessaire de parcourir les galeries du
Louvre.
À ce moment, un musicien bavarois à grands cheveux, que
protégeait la princesse de Guermantes, salua Oriane. Celle-ci
répondit par une inclinaison de tête, mais le duc, furieux de
voir sa femme dire bonsoir à quelqu’un qu’il ne connaissait
pas, qui avait une touche singulière, et qui, autant que M. de
Guermantes croyait le savoir, avait fort mauvaise réputation,
se retourna vers sa femme d’un air interrogateur et terrible,
comme s’il disait : « Qu’est-ce que c’est que cet ostrogoth-là
? » La situation de la pauvre Mme de Guermantes était déjà
assez compliquée, et si le musicien eût eu un peu pitié de
cette épouse martyre, il se serait au plus vite éloigné. Mais,
soit désir de ne pas rester sur l’humiliation qui venait de lui
être infligée en public, au milieu des plus vieux amis du
cercle du duc, desquels la présence avait peut-être bien
motivé un peu sa silencieuse inclinaison, et pour montrer
que c’était à bon droit, et non sans la connaître, qu’il avait
salué Mme de Guermantes, soit obéissant à l’inspiration
obscure et irrésistible de la gaffe qui le poussa – dans un
moment où il eût dû se fier plutôt à l’esprit – à appliquer la
lettre même du protocole, le musicien s’approcha davantage
de Mme de Guermantes et lui dit : « Madame la duchesse, je
voudrais solliciter l’honneur d’être présenté au duc. » Mme
de Guermantes était bien malheureuse. Mais enfin, elle avait
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beau être une épouse trompée, elle était tout de même la
duchesse de Guermantes et ne pouvait avoir l’air d’être
dépouillée de son droit de présenter à son mari les gens
qu’elle connaissait. « Basin, dit-elle, permettez-moi de vous
présenter M. d’Herweck. »
– Je ne vous demande pas si vous irez demain chez Mme de
Saint-Euverte, dit le colonel de Froberville à Mme de
Guermantes pour dissiper l’impression pénible produite par
la requête intempestive de M. d’Herweck. Tout Paris y sera.
Cependant, se tournant d’un seul mouvement et comme
d’une seule pièce vers le musicien indiscret, le duc de
Guermantes, faisant front, monumental, muet, courroucé,
pareil à Jupiter tonnant, resta immobile ainsi quelques
secondes, les yeux flambant de colère et d’étonnement, ses
cheveux crespelés semblant sortir d’un cratère. Puis, comme
dans l’emportement d’une impulsion qui seule lui permettait
d’accomplir la politesse qui lui était demandée, et après avoir
semblé par son attitude de défi attester toute l’assistance qu’il
ne connaissait pas le musicien bavarois, croisant derrière le
dos ses deux mains gantées de blanc, il se renversa en avant
et asséna au musicien un salut si profond, empreint de tant
de stupéfaction et de rage, si brusque, si violent, que l’artiste
tremblant recula tout en s’inclinant pour ne pas recevoir un
formidable coup de tête dans le ventre. « Mais c’est que
justement je ne serai pas à Paris, répondit la duchesse au
colonel de Froberville. Je vous dirai (ce que je ne devrais pas
avouer) que je suis arrivée à mon âge sans connaître les
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vitraux de Montfort-l’Amaury. C’est honteux, mais c’est
ainsi. Alors pour réparer cette coupable ignorance, je me suis
promis d’aller demain les voir. » M. de Bréauté sourit
finement. Il comprit en effet que, si la duchesse avait pu
rester jusqu’à son âge sans connaître les vitraux de Montfortl’Amaury, cette visite artistique ne prenait pas subitement le
caractère urgent d’une intervention « à chaud » et eût pu sans
péril, après avoir été différée pendant plus de vingt-cinq ans,
être reculée de vingt-quatre heures. Le projet qu’avait formé
la duchesse était simplement le décret rendu, dans la manière
des Guermantes, que le salon Saint-Euverte n’était
décidément pas une maison vraiment bien, mais une maison
où on vous invitait pour se parer de vous dans le compte
rendu du Gaulois, une maison qui décernerait un cachet de
suprême élégance à celles, ou, en tout cas, à celle, si elle
n’était qu’une, qu’on n’y verrait pas. Le délicat amusement de
M. de Bréauté, doublé de ce plaisir poétique qu’avaient les
gens du monde à voir Mme de Guermantes faire des choses
que leur situation moindre ne leur permettait pas d’imiter,
mais dont la vision seule leur causait le sourire du paysan
attaché à sa glèbe qui voit des hommes plus libres et plus
fortunés passer au-dessus de sa tête, ce plaisir délicat n’avait
aucun rapport avec le ravissement dissimulé, mais éperdu,
qu’éprouva aussitôt M. de Froberville.
Les efforts que faisait M. de Froberville pour qu’on
n’entendît pas son rire l’avaient fait devenir rouge comme un
coq, et malgré cela c’est en entrecoupant ses mots de
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hoquets de joie qu’il s’écria d’un ton miséricordieux : « Oh !
pauvre tante Saint-Euverte, elle va en faire une maladie !
Non ! la malheureuse femme ne va pas avoir sa duchesse ;
quel coup ! mais il y a de quoi la faire crever ! » ajouta-t-il, en
se tordant de rire. Et dans son ivresse il ne pouvait
s’empêcher de faire des appels de pieds et de se frotter les
mains. Souriant d’un œil et d’un seul coin de la bouche à M.
de Froberville dont elle appréciait l’intention aimable, mais
moins tolérable le mortel ennui, Mme de Guermantes finit
par se décider à le quitter. « Écoutez, je vais être obligée de
vous dire bonsoir », lui dit-elle en se levant, d’un air de
résignation mélancolique, et comme si ç’avait été pour elle
un malheur. Sous l’incantation de ses yeux bleus, sa voix
doucement musicale faisait penser à la plainte poétique d’une
fée. « Basin veut que j’aille voir un peu Marie. »
En réalité, elle en avait assez d’entendre Froberville, lequel
ne cessait plus de l’envier d’aller à Montfort-l’Amaury quand
elle savait fort bien qu’il entendait parler de ces vitraux pour
la première fois, et que, d’autre part, il n’eût pour rien au
monde lâché la matinée Saint-Euverte. « Adieu, je vous ai à
peine parlé ; c’est comme ça dans le monde, on ne se voit
pas, on ne dit pas les choses qu’on voudrait se dire ; du reste,
partout, c’est la même chose dans la vie. Espérons qu’après
la mort ce sera mieux arrangé. Au moins on n’aura toujours
pas besoin de se décolleter. Et encore qui sait ? On exhibera
peut-être ses os et ses vers pour les grandes fêtes. Pourquoi
pas ? Tenez, regardez la mère Rampillon, trouvez-vous une
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très grande différence entre ça et un squelette en robe
ouverte ? Il est vrai qu’elle a tous les droits, car elle a au
moins cent ans. Elle était déjà un des monstres sacrés devant
lesquels je refusais de m’incliner quand j’ai fait mes débuts
dans le monde. Je la croyais morte depuis très longtemps ; ce
qui serait d’ailleurs la seule explication du spectacle qu’elle
nous offre. C’est impressionnant et liturgique. C’est du «
Campo-Santo » ! La duchesse avait quitté Froberville ; il se
rapprocha : « Je voudrais vous dire un dernier mot. » Un peu
agacée : « Qu’est-ce qu’il y a encore ? » lui dit-elle avec
hauteur. Et lui, ayant craint qu’au dernier moment elle ne se
ravisât pour Montfort-l’Amaury : « Je n’avais pas osé vous en
parler à cause de Mme de Saint-Euverte, pour ne pas lui faire
de peine, mais puisque vous ne comptez pas y aller, je puis
vous dire que je suis heureux pour vous, car il y a de la
rougeole chez elle ! – Oh ! Mon Dieu ! dit Oriane qui avait
peur des maladies. Mais pour moi ça ne fait rien, je l’ai déjà
eue. On ne peut pas l’avoir deux fois. – Ce sont les médecins
qui disent ça ; je connais des gens qui l’ont eue jusqu’à
quatre. Enfin, vous êtes avertie. » Quant à lui, cette rougeole
fictive, il eût fallu qu’il l’eût réellement et qu’elle l’eût cloué
au lit pour qu’il se résignât à manquer la fête Saint-Euverte
attendue depuis tant de mois. Il aurait le plaisir d’y voir tant
d’élégances ! le plaisir plus grand d’y constater certaines
choses ratées, et surtout celui de pouvoir longtemps se
vanter d’avoir frayé avec les premières et, en les exagérant ou
en les inventant, de déplorer les secondes.
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Je profitai de ce que la duchesse changeait de place pour me
lever aussi afin d’aller vers le fumoir m’informer de Swann. «
Ne croyez pas un mot de ce qu’a raconté Babal, me dit-elle.
Jamais la petite Molé ne serait allée se fourrer là dedans. On
nous dit ça pour nous attirer. Ils ne reçoivent personne et ne
sont invités nulle part. Lui-même l’avoue : « Nous restons
tous les deux seuls au coin de notre feu. » Comme il dit
toujours nous, non pas comme le roi, mais pour sa femme,
je n’insiste pas. Mais je suis très renseignée », ajouta la
duchesse. Elle et moi nous croisâmes deux jeunes gens dont
la grande et dissemblable beauté tirait d’une même femme
son origine. C’étaient les deux fils de Mme de Surgis, la
nouvelle maîtresse du duc de Guermantes. Ils
resplendissaient des perfections de leur mère, mais chacun
d’une autre. En l’un avait passé, ondoyante en un corps viril,
la royale prestance de Mme de Surgis, et la même pâleur
ardente, roussâtre et sacrée affluait aux joues marmoréennes
de la mère et de ce fils ; mais son frère avait reçu le front
grec, le nez parfait, le cou de statue, les yeux infinis ; ainsi
faite de présents divers que la déesse avait partagés, leur
double beauté offrait le plaisir abstrait de penser que la cause
de cette beauté était en dehors d’eux ; on eût dit que les
principaux attributs de leur mère s’étaient incarnés en deux
corps différents ; que l’un des jeunes gens était la stature de
sa mère et son teint, l’autre son regard, comme les êtres
divins qui n’étaient que la force et la beauté de Jupiter ou de
Minerve. Pleins de respect pour M. de Guermantes, dont ils
disaient : « C’est un grand ami de nos parents », l’aîné
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cependant crut qu’il était prudent de ne pas venir saluer la
duchesse dont il savait, sans en comprendre peut-être la
raison, l’inimitié pour sa mère, et à notre vue il détourna
légèrement la tête. Le cadet, qui imitait toujours son frère,
parce qu’étant stupide et, de plus, myope, il n’osait pas avoir
d’avis personnel, pencha la tête selon le même angle, et ils se
glissèrent tous deux vers la salle de jeux, l’un derrière l’autre,
pareils à deux figures allégoriques.
Au moment d’arriver à cette salle, je fus arrêté par la
marquise de Citri, encore belle mais presque l’écume aux
dents. D’une naissance assez noble, elle avait cherché et fait
un brillant mariage en épousant M. de Citri, dont l’arrièregrand’mère était Aumale-Lorraine. Mais aussitôt cette
satisfaction éprouvée, son caractère négateur lui avait fait
prendre les gens du grand monde en une horreur qui
n’excluait pas absolument la vie mondaine. Non seulement,
dans une soirée, elle se moquait de tout le monde, mais cette
moquerie avait quelque chose de si violent que le rire même
n’était pas assez âpre et se changeait en guttural sifflement : «
Ah ! me dit-elle, en me montrant la duchesse de Guermantes
qui venait de me quitter et qui était déjà un peu loin, ce qui
me renverse c’est qu’elle puisse mener cette vie-là. » Cette
parole était-elle d’une sainte furibonde, et qui s’étonne que
les Gentils ne viennent pas d’eux-mêmes à la vérité, ou bien
d’une anarchiste en appétit de carnage ? En tout cas, cette
apostrophe était aussi peu justifiée que possible. D’abord, la
« vie que menait » Mme de Guermantes différait très peu (à
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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l’indignation près) de celle de Mme de Citri. Mme de Citri
était stupéfaite de voir la duchesse capable de ce sacrifice
mortel : assister à une soirée de Marie-Gilbert. Il faut dire,
dans le cas particulier, que Mme de Citri aimait beaucoup la
princesse, qui était en effet très bonne, et qu’elle savait en se
rendant à sa soirée lui faire grand plaisir. Aussi avait-elle
décommandé, pour venir à cette fête, une danseuse à qui elle
croyait du génie et qui devait l’initier aux mystères de la
chorégraphie russe. Une autre raison qui ôtait quelque valeur
à la rage concentrée qu’éprouvait Mme de Citri en voyant
Oriane dire bonjour à tel ou telle invité est que Mme de
Guermantes, bien qu’à un état beaucoup moins avancé,
présentait les symptômes du mal qui ravageait Mme de Citri.
On a, du reste, vu qu’elle en portait les germes de naissance.
Enfin, plus intelligente que Mme de Citri, Mme de
Guermantes aurait eu plus de droits qu’elle à ce nihilisme
(qui n’était pas que mondain), mais il est vrai que certaines
qualités aident plutôt à supporter les défauts du prochain
qu’elles ne contribuent à en faire souffrir ; et un homme de
grand talent prêtera d’habitude moins d’attention à la sottise
d’autrui que ne ferait un sot. Nous avons assez longuement
décrit le genre d’esprit de la duchesse pour convaincre que,
s’il n’avait rien de commun avec une haute intelligence, il
était du moins de l’esprit, de l’esprit adroit à utiliser (comme
un traducteur) différentes formes de syntaxe. Or, rien de tel
ne semblait qualifier Mme de Citri à mépriser des qualités
tellement semblables aux siennes. Elle trouvait tout le
monde idiot, mais dans sa conversation, dans ses lettres, se
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montrait plutôt inférieure aux gens qu’elle traitait avec tant
de dédain. Elle avait, du reste, un tel besoin de destruction
que, lorsqu’elle eut à peu près renoncé au monde, les plaisirs
qu’elle rechercha alors subirent l’un après l’autre son terrible
pouvoir dissolvant. Après avoir quitté les soirées pour des
séances de musique, elle se mit à dire : « Vous aimez
entendre cela, de la musique ? Ah ! mon Dieu, cela dépend
des moments. Mais ce que cela peut être ennuyeux ! Ah !
Beethoven, la barbe ! » Pour Wagner, puis pour Franck, pour
Debussy, elle ne se donnait même pas la peine de dire « la
barbe » mais se contentait de faire passer sa main, comme un
barbier, sur son visage.
Bientôt, ce qui fut ennuyeux, ce fut tout. « C’est si ennuyeux
les belles choses ! Ah ! les tableaux, c’est à vous rendre fou...
Comme vous avez raison, c’est si ennuyeux d’écrire des
lettres ! » Finalement ce fut la vie elle-même qu’elle nous
déclara une chose rasante, sans qu’on sût bien où elle prenait
son terme de comparaison.
Je ne sais si c’est à cause de ce que la duchesse de
Guermantes, le premier soir que j’avais dîné chez elle, avait
dit de cette pièce, mais la salle de jeux ou fumoir, avec son
pavage illustré, ses trépieds, ses figures de dieux et d’animaux
qui vous regardaient, les sphinx allongés aux bras des sièges,
et surtout l’immense table en marbre ou en mosaïque
émaillée, couverte de signes symboliques plus ou moins
imités de l’art étrusque et égyptien, cette salle de jeux me fit
l’effet d’une véritable chambre magique. Or, sur un siège
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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approché de la table étincelante et augurale, M. de Charlus,
lui, ne touchant à aucune carte, insensible à ce qui se passait
autour de lui, incapable de s’apercevoir que je venais
d’entrer, semblait précisément un magicien appliquant toute
la puissance de sa volonté et de son raisonnement à tirer un
horoscope. Non seulement comme à une Pythie sur son
trépied les yeux lui sortaient de la tête, mais, pour que rien ne
vînt le distraire des travaux qui exigeaient la cessation des
mouvements les plus simples, il avait (pareil à un calculateur
qui ne veut rien faire d’autre tant qu’il n’a pas résolu son
problème) posé auprès de lui le cigare qu’il avait un peu
auparavant dans la bouche et qu’il n’avait plus la liberté
d’esprit nécessaire pour fumer. En apercevant les deux
divinités accroupies que portait à ses bras le fauteuil placé en
face de lui, on eût pu croire que le baron cherchait à
découvrir l’énigme du sphinx, si ce n’avait pas été plutôt celle
d’un jeune et vivant Oedipe, assis précisément dans ce
fauteuil, où il s’était installé pour jouer. Or, la figure à
laquelle M. de Charlus appliquait, et avec une telle
contention, toutes ses facultés spirituelles, et qui n’était pas, à
vrai dire, de celles qu’on étudie d’habitude more geometrico,
c’était celle que lui proposaient les lignes de la figure du
jeune marquis de Surgis ; elle semblait, tant M. de Charlus
était profondément absorbé devant elle, être quelque mot en
losange, quelque devinette, quelque problème d’algèbre dont
il eût cherché à percer l’énigme ou à dégager la formule.
Devant lui les signes sibyllins et les figures inscrites sur cette
table de la Loi semblaient le grimoire qui allait permettre au
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vieux sorcier de savoir dans quel sens s’orientaient les destins
du jeune homme. Soudain, il s’aperçut que je le regardais,
leva la tête comme s’il sortait d’un rêve et me sourit en
rougissant. À ce moment l’autre fils de Mme de Surgis vint
auprès de celui qui jouait, regarder ses cartes. Quand M. de
Charlus eut appris de moi qu’ils étaient frères, son visage ne
put dissimuler l’admiration que lui inspirait une famille
créatrice de chefs-d’œuvre aussi splendides et aussi
différents. Et ce qui eût ajouté à l’enthousiasme du baron,
c’est d’apprendre que les deux fils de Mme de Surgis-le-Duc
n’étaient pas seulement de la même mère mais du même
père. Les enfants de Jupiter sont dissemblables, mais cela
vient de ce qu’il épousa d’abord Métis, dans le destin de qui
il était de donner le jour à de sages enfants, puis Thémis, et
ensuite Eurynome, et Mnémosyne, et Leto, et en dernier lieu
seulement Junon. Mais d’un seul père Mme de Surgis avait
fait naître deux fils qui avaient reçu des beautés d’elle, mais
des beautés différentes.
J’eus enfin le plaisir que Swann entrât dans cette pièce, qui
était fort grande, si bien qu’il ne m’aperçut pas d’abord.
Plaisir mêlé de tristesse, d’une tristesse que n’éprouvaient
peut-être pas les autres invités, mais qui chez eux consistait
dans cette espèce de fascination qu’exercent les formes
inattendues et singulières d’une mort prochaine, d’une mort
qu’on a déjà, comme dit le peuple, sur le visage. Et c’est avec
une stupéfaction presque désobligeante, où il entrait de la
curiosité indiscrète, de la cruauté, un retour à la fois quiet et
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soucieux (mélange à la fois de suave mari magno et de
memento quia pulvis, eût dit Robert), que tous les regards
s’attachèrent à ce visage duquel la maladie avait si bien rongé
les joues, comme une lune décroissante, que, sauf sous un
certain angle, celui sans doute sous lequel Swann se
regardait, elles tournaient court comme un décor
inconsistant auquel une illusion d’optique peut seule ajouter
l’apparence de l’épaisseur. Soit à cause de l’absence de ces
joues qui n’étaient plus là pour le diminuer, soit que
l’artériosclérose, qui est une intoxication aussi, le rougît
comme eût fait l’ivrognerie, ou le déformât comme eût fait la
morphine, le nez de polichinelle de Swann, longtemps
résorbé dans un visage agréable, semblait maintenant
énorme, tuméfié, cramoisi, plutôt celui d’un vieil Hébreu que
d’un curieux Valois. D’ailleurs peut-être chez lui, en ces
derniers jours, la race faisait-elle apparaître plus accusé le
type physique qui la caractérise, en même temps que le
sentiment d’une solidarité morale avec les autres Juifs,
solidarité que Swann semblait avoir oubliée toute sa vie, et
que, greffées les unes sur les autres, la maladie mortelle,
l’affaire Dreyfus, la propagande antisémite, avaient réveillée.
Il y a certains Israélites, très fins pourtant et mondains
délicats, chez lesquels restent en réserve et dans la coulisse,
afin de faire leur entrée à une heure donnée de leur vie,
comme dans une pièce, un mufle et un prophète. Swann
était arrivé à l’âge du prophète. Certes, avec sa figure d’où,
sous l’action de la maladie des segments entiers avaient
disparu, comme dans un bloc de glace qui fond et dont des
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pans entiers sont tombés, il avait bien changé. Mais je ne
pouvais m’empêcher d’être frappé combien davantage il
avait changé par rapport à moi. Cet homme, excellent,
cultivé, que j’étais bien loin d’être ennuyé de rencontrer, je
ne pouvais arriver à comprendre comment j’avais pu
l’ensemencer autrefois d’un mystère tel que son apparition
dans les Champs-Élysées me faisait battre le cœur au point
que j’avais honte de m’approcher de sa pèlerine doublée de
soie ; qu’à la porte de l’appartement où vivait un tel être, je
ne pouvais sonner sans être saisi d’un trouble et d’un effroi
infinis ; tout cela avait disparu, non seulement de sa demeure
mais de sa personne, et l’idée de causer avec lui pouvait
m’être agréable ou non, mais n’affectait en quoi que ce fût
mon système nerveux.
Et, de plus, combien il était changé depuis cet après-midi
même où je l’avais rencontré – en somme quelques heures
auparavant – dans le cabinet du duc de Guermantes. Avait-il
vraiment eu une scène avec le Prince et qui l’avait bouleversé
? La supposition n’était pas nécessaire. Les moindres efforts
qu’on demande à quelqu’un qui est très malade deviennent
vite pour lui un surmenage excessif. Pour peu qu’on
l’expose, déjà fatigué, à la chaleur d’une soirée, sa mine se
décompose et bleuit comme fait en moins d’un jour une
poire trop mûre, ou du lait près de tourner. De plus, la
chevelure de Swann était éclaircie par places, et, comme
disait Mme de Guermantes, avait besoin du fourreur, avait
l’air camphrée, et mal camphrée. J’allais traverser le fumoir et
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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parler à Swann quand malheureusement une main s’abattit
sur mon épaule : « Bonjour, mon petit, je suis à Paris pour
quarante-huit heures. J’ai passé chez toi, on m’a dit que tu
étais ici, de sorte que c’est toi qui vaut à ma tante l’honneur
de ma présence à sa fête. » C’était Saint-Loup. Je lui dis
combien je trouvais la demeure belle. « Oui, ça fait assez
monument historique. Moi, je trouve ça assommant. Ne
nous mettons pas près de mon oncle Palamède, sans cela
nous allons être happés. Comme Mme Molé (car c’est elle
qui tient la corde en ce moment) vient de partir, il est tout
désemparé. Il paraît que c’était un vrai spectacle, il ne l’a pas
quittée d’un pas, il ne l’a laissée que quand il l’a eu mise en
voiture. Je n’en veux pas à mon oncle, seulement je trouve
drôle que mon conseil de famille, qui s’est toujours montré si
sévère pour moi, soit composé précisément des parents qui
ont le plus fait la bombe, à commencer par le plus noceur de
tous, mon oncle Charlus, qui est mon subrogé tuteur, qui a
eu autant de femmes que don Juan, et qui à son âge ne
dételle pas. Il a été question à un moment qu’on me nomme
un conseil judiciaire. Je pense que, quand tous ces vieux
marcheurs se réunissaient pour examiner la question et me
faisaient venir pour me faire de la morale, et me dire que je
faisais de la peine à ma mère, ils ne devaient pas pouvoir se
regarder sans rire. Tu examineras la composition du conseil,
on a l’air d’avoir choisi exprès ceux qui ont le plus retroussé
de jupons. » En mettant à part M. de Charlus, au sujet
duquel l’étonnement de mon ami ne me paraissait pas plus
justifié, mais pour d’autres raisons et qui devaient d’ailleurs
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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se modifier plus tard dans mon esprit, Robert avait bien tort
de trouver extraordinaire que des leçons de sagesse fussent
données à un jeune homme par des parents qui ont fait les
fous, ou le font encore.
Quand l’atavisme, les ressemblances familiales seraient seules
en cause, il est inévitable que l’oncle qui fait la semonce ait à
peu près les mêmes défauts que le neveu qu’on l’a chargé de
gronder. L’oncle n’y met d’ailleurs aucune hypocrisie,
trompé qu’il est par la faculté qu’ont les hommes de croire, à
chaque nouvelle circonstance, qu’il s’agit « d’autre chose »,
faculté qui leur permet d’adopter des erreurs artistiques,
politiques, etc., sans s’apercevoir que ce sont les mêmes
qu’ils ont prises pour des vérités, il y a dix ans, à propos
d’une autre école de peinture qu’ils condamnaient, d’une
autre affaire politique qu’ils croyaient mériter leur haine,
dont ils sont revenus, et qu’ils épousent sans les reconnaître
sous un nouveau déguisement. D’ailleurs, même si les fautes
de l’oncle sont différentes de celles du neveu, l’hérédité peut
n’en être pas moins, dans une certaine mesure, la loi causale,
car l’effet ne ressemble pas toujours à la cause, comme la
copie à l’original, et même, si les fautes de l’oncle sont pires,
il peut parfaitement les croire moins graves.
Quand M. de Charlus venait de faire des remontrances
indignées à Robert, qui d’ailleurs ne connaissait pas les goûts
véritables de son oncle, à cette époque-là, et même si c’eût
encore été celle où le baron flétrissait ses propres goûts, il
eût parfaitement pu être sincère, en trouvant, du point de
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vue de l’homme du monde, que Robert était infiniment plus
coupable que lui. Robert n’avait-il pas failli, au moment où
son oncle avait été chargé de lui faire entendre raison, se
faire mettre au ban de son monde ? ne s’en était-il pas fallu
de peu qu’il ne fût blackboulé au Jockey ? n’était-il pas un
objet de risée par les folles dépenses qu’il faisait pour une
femme de la dernière catégorie, par ses amitiés avec des
gens, auteurs, acteurs, juifs, dont pas un n’était du monde,
par ses opinions qui ne se différenciaient pas de celles des
traîtres, par la douleur qu’il causait à tous les siens ? En quoi
cela pouvait-il se comparer, cette vie scandaleuse, à celle de
M. de Charlus qui avait su, jusqu’ici, non seulement garder,
mais grandir encore sa situation de Guermantes, étant dans
la société un être absolument privilégié, recherché, adulé par
la société la plus choisie, et qui, marié à une princesse de
Bourbon, femme éminente, avait su la rendre heureuse, avait
voué à sa mémoire un culte plus fervent, plus exact qu’on n’a
l’habitude dans le monde, et avait ainsi été aussi bon mari
que bon fils !
« Mais es-tu sûr que M. de Charlus ait eu tant de maîtresses ?
» demandai-je, non certes dans l’intention diabolique de
révéler à Robert le secret que j’avais surpris, mais agacé
cependant de l’entendre soutenir une erreur avec tant de
certitude et de suffisance. Il se contenta de hausser les
épaules en réponse à ce qu’il croyait de ma part de la naïveté.
« Mais d’ailleurs, je ne l’en blâme pas, je trouve qu’il a
parfaitement raison. » Et il commença à m’esquisser une
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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théorie qui lui eût fait horreur à Balbec (où il ne se contentait
pas de flétrir les séducteurs, la mort lui paraissant le seul
châtiment proportionné au crime). C’est qu’alors il était
encore amoureux et jaloux. Il alla jusqu’à me faire l’éloge des
maisons de passe. « Il n’y a que là qu’on trouve chaussure à
son pied, ce que nous appelons au régiment son gabarit. » Il
n’avait plus pour ce genre d’endroits le dégoût qui l’avait
soulevé à Balbec quand j’avais fait allusion à eux, et, en
l’entendant maintenant, je lui dis que Bloch m’en avait fait
connaître, mais Robert me répondit que celle où allait Bloch
devait être « extrêmement purée, le paradis du pauvre ». « Ça
dépend, après tout : où était-ce ? » Je restai dans le vague, car
je me rappelai que c’était là, en effet, que se donnait pour un
louis cette Rachel que Robert avait tant aimée. « En tout cas,
je t’en ferai connaître de bien mieux, où il va des femmes
épatantes. » En m’entendant exprimer le désir qu’il me
conduisît le plus tôt possible dans celles qu’il connaissait et
qui devaient, en effet, être bien supérieures à la maison que
m’avait indiquée Bloch, il témoigna d’un regret sincère de ne
le pouvoir pas cette fois puisqu’il repartait le lendemain. « Ce
sera pour mon prochain séjour, dit-il. Tu verras, il y a même
des jeunes filles, ajouta-t-il d’un air mystérieux. Il y a une
petite demoiselle de... je crois d’Orgeville, je te dirai
exactement, qui est la fille de gens tout ce qu’il y a de mieux ;
la mère est plus ou moins née La Croix-l’Évêque, ce sont des
gens du gratin, même un peu parents, sauf erreur, à ma tante
Oriane. Du reste, rien qu’à voir la petite, on sent que c’est la
fille de gens bien (je sentis s’étendre un instant sur la voix de
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Robert l’ombre du génie des Guermantes qui passa comme
un nuage, mais à une grande hauteur et ne s’arrêta pas). Ça
m’a tout l’air d’une affaire merveilleuse. Les parents sont
toujours malades et ne peuvent s’occuper d’elle. Dame, la
petite se désennuie, et je compte sur toi pour lui trouver des
distractions, à cette enfant ! – Oh ! quand reviendras-tu ? –
Je ne sais pas ; si tu ne tiens pas absolument à des duchesses
(le titre de duchesse étant pour l’aristocratie le seul qui
désigne un rang particulièrement brillant, comme on dirait,
dans le peuple, des princesses), dans un autre genre il y a la
première femme de chambre de Mme Putbus. »
À ce moment, Mme de Surgis entra dans le salon de jeu pour
chercher ses fils. En l’apercevant, M. de Charlus alla à elle
avec une amabilité dont la marquise fut d’autant plus
agréablement surprise, que c’est une grande froideur qu’elle
attendait du baron, lequel s’était posé de tout temps comme
le protecteur d’Oriane et, seul de la famille – trop souvent
complaisante aux exigences du duc à cause de son héritage et
par jalousie à l’égard de la duchesse – tenait impitoyablement
à distance les maîtresses de son frère. Aussi Mme de Surgis
eût-elle fort bien compris les motifs de l’attitude qu’elle
redoutait chez le baron, mais ne soupçonna nullement ceux
de l’accueil tout opposé qu’elle reçut de lui. Il lui parla avec
admiration du portrait que Jacquet avait fait d’elle autrefois.
Cette admiration s’exalta même jusqu’à un enthousiasme qui,
s’il était en partie intéressé pour empêcher la marquise de
s’éloigner de lui, pour « l’accrocher », comme Robert disait
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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des armées ennemies dont on veut forcer les effectifs à
rester engagés sur un certain point, était peut-être aussi
sincère. Car si chacun se plaisait à admirer dans les fils le
port de reine et les yeux de Mme de Surgis, le baron pouvait
éprouver un plaisir inverse, mais aussi vif, à retrouver ces
charmes réunis en faisceau chez leur mère, comme en un
portrait qui n’inspire pas lui-même de désirs, mais nourrit, de
l’admiration esthétique qu’il inspire, ceux qu’il réveille. Ceuxci venaient rétrospectivement donner un charme voluptueux
au portrait de Jacquet lui-même, et en ce moment le baron
l’eût volontiers acquis pour étudier en lui la généalogie
physiologique des deux jeunes Surgis.
« Tu vois que je n’exagérais pas, me dit Robert. Regarde un
peu l’empressement de mon oncle auprès de Mme de Surgis.
Et même, là, cela m’étonne. Si Oriane le savait elle serait
furieuse. Franchement il y a assez de femmes sans aller juste
se précipiter sur celle-là », ajouta-t-il ; comme tous les gens
qui ne sont pas amoureux, il s’imaginait qu’on choisit la
personne qu’on aime après mille délibérations et d’après des
qualités et convenances diverses. Du reste, tout en se
trompant sur son oncle, qu’il croyait adonné aux femmes,
Robert, dans sa rancune, parlait de M. de Charlus avec trop
de légèreté. On n’est pas toujours impunément le neveu de
quelqu’un. C’est très souvent par son intermédiaire qu’une
habitude héréditaire est transmise tôt ou tard. On pourrait
faire ainsi toute une galerie de portraits, ayant le titre de la
comédie allemande Oncle et neveu, où l’on verrait l’oncle
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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veillant jalousement, bien qu’involontairement, à ce que son
neveu finisse par lui ressembler.
J’ajouterai même que cette galerie serait incomplète si l’on
n’y faisait pas figurer les oncles qui n’ont aucune parenté
réelle, n’étant que les oncles de la femme du neveu. Les
Messieurs de Charlus sont, en effet, tellement persuadés
d’être les seuls bons maris, en plus les seuls dont une femme
ne soit pas jalouse, que généralement, par affection pour leur
nièce, ils lui font épouser aussi un Charlus. Ce qui embrouille
l’écheveau des ressemblances. Et à l’affection pour la nièce
se joint parfois de l’affection aussi pour son fiancé. De tels
mariages ne sont pas rares, et sont souvent ce qu’on appelle
heureux.
– De quoi parlions-nous ? Ah ! de cette grande blonde, la
femme de chambre de Mme Putbus. Elle aime aussi les
femmes, mais je pense que cela t’est égal ; je peux te dire
franchement, je n’ai jamais vu créature aussi belle. – Je me
l’imagine assez Giorgione ? – Follement Giorgione ! Ah ! si
j’avais du temps à passer à Paris, ce qu’il y a de choses
magnifiques à faire ! Et puis, on passe à une autre. Car pour
l’amour, vois-tu, c’est une bonne blague, j’en suis bien
revenu.
Je m’aperçus bientôt, avec surprise, qu’il n’était pas moins
revenu de la littérature, alors que c’était seulement des
littérateurs qu’il m’avait paru désabusé à notre dernière
rencontre (c’est presque tous fripouille et Cie, m’avait-il dit,
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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ce qui se pouvait expliquer par sa rancune justifiée à l’endroit
de certains amis de Rachel. Ils lui avaient en effet persuadé
qu’elle n’aurait jamais de talent si elle laissait « Robert,
homme d’une autre race », prendre de l’influence sur elle, et
avec elle se moquaient de lui, devant lui, dans les dîners qu’il
leur donnait). Mais en réalité l’amour de Robert pour les
Lettres n’avait rien de profond, n’émanait pas de sa vraie
nature, il n’était qu’un dérivé de son amour pour Rachel, et il
s’était effacé de celui-ci, en même temps que son horreur des
gens de plaisir et que son respect religieux pour la vertu des
femmes.
« Comme ces deux jeunes gens ont un air étrange ! Regardez
cette curieuse passion du jeu, marquise », dit M. de Charlus,
en désignant à Mme de Surgis ses deux fils, comme s’il
ignorait absolument qui ils étaient, « ce doivent être deux
Orientaux, ils ont certains traits caractéristiques, ce sont
peut-être des Turcs », ajouta-t-il, à la fois pour confirmer
encore sa feinte innocence, témoigner d’une vague
antipathie, qui, quand elle ferait place ensuite à l’amabilité,
prouverait que celle-ci s’adresserait seulement à la qualité de
fils de Mme de Surgis, n’ayant commencé que quand le
baron avait appris qui ils étaient. Peut-être aussi M. de
Charlus, de qui l’insolence était un don de nature qu’il avait
joie à exercer, profitait-il de la minute pendant laquelle il était
censé ignorer qui était le nom de ces deux jeunes gens pour
se divertir aux dépens de Mme de Surgis et se livrer à ses
railleries coutumières, comme Scapin met à profit le
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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déguisement de son maître pour lui administrer des volées
de coups de bâton.
« Ce sont mes fils », dit Mme de Surgis, avec une rougeur
qu’elle n’aurait pas eue si elle avait été plus fine sans être plus
vertueuse. Elle eût compris alors que l’air d’indifférence
absolue ou de raillerie que M. de Charlus manifestait à
l’égard d’un jeune homme n’était pas plus sincère que
l’admiration toute superficielle qu’il témoignait à une femme
n’exprimait le vrai fond de sa nature. Celle à qui il pouvait
tenir indéfiniment les propos les plus complimenteurs aurait
pu être jalouse du regard que, tout en causant avec elle, il
lançait à un homme qu’il feignait ensuite de n’avoir pas
remarqué. Car ce regard-là était un regard autre que ceux que
M. de Charlus avait pour les femmes ; un regard particulier,
venu des profondeurs, et qui, même dans une soirée, ne
pouvait s’empêcher d’aller naïvement aux jeunes gens,
comme les regards d’un couturier qui décèlent sa profession
par la façon immédiate qu’ils ont de s’attacher aux habits.
« Oh ! comme c’est curieux », répondit non sans insolence
M. de Charlus, en ayant l’air de faire faire à sa pensée un long
trajet pour l’amener à une réalité si différente de celle qu’il
feignait d’avoir supposée. « Mais je ne les connais pas »,
ajouta-t-il, craignant d’être allé un peu loin dans l’expression
de l’antipathie et d’avoir paralysé ainsi chez la marquise
l’intention de lui faire faire leur connaissance. « Est-ce que
vous voudriez me permettre de vous les présenter ?
demanda timidement Mme de Surgis. – Mais, mon Dieu !
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comme vous penserez, moi, je veux bien, je ne suis pas peutêtre un personnage bien divertissant pour d’aussi jeunes gens
», psalmodia M. de Charlus avec l’air d’hésitation et de
froideur de quelqu’un qui se laisse arracher une politesse.
« Arnulphe, Victurnien, venez vite », dit Mme de Surgis.
Victurnien se leva avec décision. Arnulphe, sans voir plus
loin que son frère, le suivit docilement.
– Voilà le tour des fils, maintenant, me dit Robert. C’est à
mourir de rire. Jusqu’au chien du logis, il s’efforce de
complaire. C’est d’autant plus drôle que mon oncle déteste
les gigolos. Et regarde comme il les écoute avec sérieux. Si
c’était moi qui avais voulu les lui présenter, ce qu’il m’aurait
envoyé dinguer. Écoute, il va falloir que j’aille dire bonjour à
Oriane. J’ai si peu de temps à passer à Paris que je veux
tâcher de voir ici tous les gens à qui j’aurais été sans cela
mettre des cartes.
– Comme ils ont l’air bien élevés, comme ils ont de jolies
manières, était en train de dire M. de Charlus.
– Vous trouvez ? répondait Mme de Surgis ravie.
Swann m’ayant aperçu s’approcha de Saint-Loup et de moi.
La gaieté juive était chez Swann moins fine que les
plaisanteries de l’homme du monde. « Bonsoir, nous dit-il.
Mon Dieu ! tous trois ensemble, on va croire à une réunion
de syndicat. Pour un peu on va chercher où est la caisse ! » Il
ne s’était pas aperçu que M. de Beauserfeuil était dans son
dos et l’entendait. Le général fronça involontairement les
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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sourcils. Nous entendions la voix de M. de Charlus tout près
de nous : « Comment ? vous vous appelez Victurnien,
comme dans le Cabinet des Antiques », disait le baron pour
prolonger la conversation avec les deux jeunes gens. « De
Balzac, oui », répondit l’aîné des Surgis, qui n’avait jamais lu
une ligne de ce romancier mais à qui son professeur avait
signalé, il y avait quelques jours, la similitude de son prénom
avec celui de d’Esgrignon. Mme de Surgis était ravie de voir
son fils briller et de M. de Charlus extasié devant tant de
science.
– Il paraît que Loubet est en plein pour nous, de source tout
à fait sûre, dit à Saint-Loup, mais cette fois à voix plus basse
pour ne pas être entendu du général, Swann pour qui les
relations républicaines de sa femme devenaient plus
intéressantes depuis que l’affaire Dreyfus était le centre de
ses préoccupations. Je vous dis cela parce que je sais que
vous marchez à fond avec nous.
– Mais, pas tant que ça ; vous vous trompez complètement,
répondit Robert. C’est une affaire mal engagée dans laquelle
je regrette bien de m’être fourré. Je n’avais rien à voir là
dedans. Si c’était à recommencer, je m’en tiendrais bien à
l’écart. Je suis soldat et avant tout pour l’armée. Si tu restes
un moment avec M. Swann, je te retrouverai tout à l’heure, je
vais près de ma tante.
Mais je vis que c’était avec Mlle d’Ambressac qu’il allait
causer et j’éprouvai du chagrin à la pensée qu’il m’avait
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menti sur leurs fiançailles possibles. Je fus rasséréné quand
j’appris qu’il lui avait été présenté une demi-heure avant par
Mme de Marsantes, qui désirait ce mariage, les Ambressac
étant très riches.
« Enfin, dit M. de Charlus à Mme de Surgis, je trouve un
jeune homme instruit, qui a lu, qui sait ce que c’est que
Balzac. Et cela me fait d’autant plus de plaisir de le
rencontrer là où c’est devenu le plus rare, chez un des mes
pairs, chez un des nôtres », ajouta-t-il en insistant sur ces
mots. Les Guermantes avaient beau faire semblant de
trouver tous les hommes pareils, dans les grandes occasions
où ils se trouvaient avec des gens « nés », et surtout moins
bien « nés », qu’ils désiraient et pouvaient flatter, ils
n’hésitaient pas à sortir les vieux souvenirs de famille. «
Autrefois, reprit le baron, aristocrates voulait dire les
meilleurs, par l’intelligence, par le cœur. Or, voilà le premier
d’entre nous que je vois sachant ce que c’est que Victurnien
d’Esgrignon. J’ai tort de dire le premier. Il y a aussi un
Polignac et un Montesquiou, ajouta M. de Charlus qui savait
que cette double assimilation ne pouvait qu’enivrer la
marquise. D’ailleurs vos fils ont de qui tenir, leur grand-père
maternel avait une collection célèbre du XVIIIe siècle. Je
vous montrerai la mienne si vous voulez me faire le plaisir de
venir déjeuner un jour, dit-il au jeune Victurnien. Je vous
montrerai une curieuse édition du Cabinet des Antiques avec
des corrections de la main de Balzac. Je serai charmé de
confronter ensemble les deux Victurnien. »
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Je ne pouvais me décider à quitter Swann. Il était arrivé à ce
degré de fatigue où le corps d’un malade n’est plus qu’une
cornue où s’observent des réactions chimiques. Sa figure se
marquait de petits points bleu de Prusse, qui avaient l’air de
ne pas appartenir au monde vivant, et dégageait ce genre
d’odeur qui, au lycée, après les « expériences », rend si
désagréable de rester dans une classe de « Sciences ». Je lui
demandai s’il n’avait pas eu une longue conversation avec le
prince de Guermantes et s’il ne voulait pas me raconter ce
qu’elle avait été.
– Si, me dit-il, mais allez d’abord un moment avec M. de
Charlus et Mme de Surgis, je vous attendrai ici.
En effet, M. de Charlus ayant proposé à Mme de Surgis de
quitter cette pièce trop chaude et d’aller s’asseoir un moment
avec elle, dans une autre, n’avait pas demandé aux deux fils
de venir avec leur mère, mais à moi. De cette façon, il se
donnait l’air, après les avoir amorcés, de ne pas tenir aux
deux jeunes gens. Il me faisait de plus une politesse facile,
Mme de Surgis-le-Duc étant assez mal vue.
Malheureusement, à peine étions-nous assis dans une baie
sans dégagements, que Mme de Saint-Euverte, but des
quolibets du baron, vint à passer. Elle, peut-être pour
dissimuler, ou dédaigner ouvertement les mauvais
sentiments qu’elle inspirait à M. de Charlus, et surtout
montrer qu’elle était intime avec une dame qui causait si
familièrement avec lui, dit un bonjour dédaigneusement
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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amical à la célèbre beauté, laquelle lui répondit, tout en
regardant du coin de l’œil M. de Charlus avec un sourire
moqueur. Mais la baie était si étroite que Mme de SaintEuverte, quand elle voulut, derrière nous, continuer de
quêter ses invités du lendemain, se trouva prise et ne put
facilement se dégager, moment précieux dont M. de Charlus,
désireux de faire briller sa verve insolente aux yeux de la
mère des deux jeunes gens, se garda bien de ne pas profiter.
Une niaise question que je lui posai sans malice lui fournit
l’occasion d’un triomphal couplet dont la pauvre de SaintEuverte, quasi immobilisée derrière nous, ne pouvait guère
perdre un mot.
– Croyez-vous que cet impertinent jeune homme, dit-il en
me désignant à Mme de Surgis, vient de me demander, sans
le moindre souci qu’on doit avoir de cacher ces sortes de
besoins, si j’allais chez Mme de Saint-Euverte, c’est-à-dire, je
pense, si j’avais la colique. Je tâcherais en tout cas de m’en
soulager dans un endroit plus confortable que chez une
personne qui, si j’ai bonne mémoire, célébrait son centenaire
quand je commençai à aller dans le monde, c’est-à-dire pas
chez elle. Et pourtant, qui plus qu’elle serait intéressante à
entendre ? Que de souvenirs historiques, vus et vécus du
temps du Premier Empire et de la Restauration, que
d’histoires intimes aussi qui n’avaient certainement rien de «
Saint », mais devaient être très « Vertes », si l’on en croit la
cuisse restée légère de la vénérable gambadeuse. Ce qui
m’empêcherait de l’interroger sur ces époques passionnantes,
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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c’est la sensibilité de mon appareil olfactif. La proximité de la
dame suffit. Je me dis tout d’un coup : « Oh ! mon Dieu, on
a crevé ma fosse d’aisances », c’est simplement la marquise
qui, dans quelque but d’invitation, vient d’ouvrir la bouche.
Et vous comprenez que si j’avais le malheur d’aller chez elle,
la fosse d’aisances se multiplierait en un formidable tonneau
de vidange. Elle porte pourtant un nom mystique qui me fait
toujours penser avec jubilation, quoiqu’elle ait passé depuis
longtemps la date de son jubilé, à ce stupide vers dit «
déliquescent » : « Ah ! verte, combien verte était mon âme ce
jour-là... » Mais il me faut une plus propre verdure. On me
dit que l’infatigable marcheuse donne des « garden-parties »,
moi j’appellerais ça « des invites à se promener dans les
égouts ». Est-ce que vous allez vous crotter là ? demanda-t-il
à Mme de Surgis, qui cette fois se trouva ennuyée. Car
voulant feindre de n’y pas aller, vis-à-vis du baron, et sachant
qu’elle donnerait des jours de sa propre vie plutôt que de
manquer la matinée Saint-Euverte, elle s’en tira par une
moyenne, c’est-à-dire l’incertitude. Cette incertitude prit une
forme si bêtement dilettante et si mesquinement couturière,
que M. de Charlus, ne craignant pas d’offenser Mme de
Surgis, à laquelle pourtant il désirait plaire, se mit à rire pour
lui montrer que « ça ne prenait pas ».
– J’admire toujours les gens qui font des projets, dit-elle ; je
me décommande souvent au dernier moment. Il y a une
question de robe d’été qui peut changer les choses. J’agirai
sous l’inspiration du moment.
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Pour ma part, j’étais indigné de l’abominable petit discours
que venait de tenir M. de Charlus. J’aurais voulu combler de
biens la donneuse de garden-parties. Malheureusement dans
le monde, comme dans le monde politique, les victimes sont
si lâches qu’on ne peut pas en vouloir bien longtemps aux
bourreaux. Mme de Saint-Euverte, qui avait réussi à se
dégager de la baie dont nous barrions l’entrée, frôla
involontairement le baron en passant, et, par un réflexe de
snobisme qui annihilait chez elle toute colère, peut-être
même dans l’espoir d’une entrée en matière d’un genre dont
ce ne devait pas être le premier essai : « Oh ! pardon,
monsieur de Charlus, j’espère que je ne vous ai pas fait mal »,
s’écria-t-elle comme si elle s’agenouillait devant son maître.
Celui-ci ne daigna répondre autrement que par un large rire
ironique et concéda seulement un « bonsoir », qui, comme
s’il s’apercevait seulement de la présence de la marquise une
fois qu’elle l’avait salué la première, était une insulte de plus.
Enfin, avec une platitude suprême, dont je souffris pour elle,
Mme de Saint-Euverte s’approcha de moi et, m’ayant pris à
l’écart, me dit à l’oreille : « Mais, qu’ai-je fait à M. de Charlus
? On prétend qu’il ne me trouve pas assez chic pour lui »,
dit-elle, en riant à gorge déployée. Je restai sérieux. D’une
part, je trouvais stupide qu’elle eût l’air de se croire ou de
vouloir faire croire que personne n’était, en effet, aussi chic
qu’elle. D’autre part, les gens qui rient si fort de ce qu’ils
disent, et qui n’est pas drôle, nous dispensent par là, en
prenant à leur charge l’hilarité, d’y participer.
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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– D’autres assurent qu’il est froissé que je ne l’invite pas.
Mais il ne m’encourage pas beaucoup. Il a l’air de me bouder
(l’expression me parut faible). Tâchez de le savoir et venez
me le dire demain. Et s’il a des remords et veut vous
accompagner, amenez-le. À tout péché miséricorde. Cela me
ferait même assez plaisir, à cause de Mme de Surgis que cela
ennuierait. Je vous laisse carte blanche. Vous avez le flair le
plus fin de toutes ces choses-là et je ne veux pas avoir l’air de
quémander des invités. En tout cas, sur vous, je compte
absolument.
Je songeai que Swann devait se fatiguer à m’attendre. Je ne
voulais pas, du reste, rentrer trop tard à cause d’Albertine, et,
prenant congé de Mme de Surgis et de M. de Charlus, j’allai
retrouver mon malade dans la salle de jeux. Je lui demandai
si ce qu’il avait dit au Prince dans leur entretien au jardin
était bien ce que M. de Bréauté (que je ne lui nommai pas)
nous avait rendu et qui était relatif à un petit acte de
Bergotte. Il éclata de rire : « Il n’y a pas un mot de vrai, pas
un seul, c’est entièrement inventé et aurait été absolument
stupide. Vraiment c’est inouï cette génération spontanée de
l’erreur. Je ne vous demande pas qui vous a dit cela, mais ce
serait vraiment curieux, dans un cadre aussi délimité que
celui-ci, de remonter de proche en proche pour savoir
comment cela s’est formé. Du reste, comment cela peut-il
intéresser les gens, ce que le Prince m’a dit ? Les gens sont
bien curieux. Moi, je n’ai jamais été curieux, sauf quand j’ai
été amoureux et quand j’ai été jaloux. Et pour ce que cela
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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m’a appris ! Êtes-vous jaloux ? » Je dis à Swann que je n’avais
jamais éprouvé de jalousie, que je ne savais même pas ce que
c’était. « Hé bien ! je vous en félicite. Quand on l’est un peu,
cela n’est pas tout à fait désagréable, à deux points de vue.
D’une part, parce que cela permet aux gens qui ne sont pas
curieux de s’intéresser à la vie des autres personnes, ou au
moins d’une autre. Et puis, parce que cela fait assez bien
sentir la douceur de posséder, de monter en voiture avec une
femme, de ne pas la laisser aller seule. Mais cela, ce n’est que
dans les tout premiers débuts du mal ou quand la guérison
est presque complète. Dans l’intervalle, c’est le plus affreux
des supplices. Du reste, même les deux douceurs dont je
vous parle, je dois vous dire que je les ai peu connues ; la
première, par la faute de ma nature qui n’est pas capable de
réflexions très prolongées ; la seconde, à cause des
circonstances, par la faute de la femme, je veux dire des
femmes, dont j’ai été jaloux. Mais cela ne fait rien. Même
quand on ne tient plus aux choses, il n’est pas absolument
indifférent d’y avoir tenu, parce que c’était toujours pour des
raisons qui échappaient aux autres. Le souvenir de ces
sentiments-là, nous sentons qu’il n’est qu’en nous ; c’est en
nous qu’il faut rentrer pour le regarder. Ne vous moquez pas
trop de ce jargon idéaliste, mais ce que je veux dire, c’est que
j’ai beaucoup aimé la vie et que j’ai beaucoup aimé les arts.
Hé bien ! maintenant que je suis un peu trop fatigué pour
vivre avec les autres, ces anciens sentiments si personnels à
moi, que j’ai eus, me semblent, ce qui est la manie de tous les
collectionneurs, très précieux. Je m’ouvre à moi-même mon
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cœur comme une espèce de vitrine, je regarde un à un tant
d’amours que les autres n’auront pas connus. Et de cette
collection à laquelle je suis maintenant plus attaché encore
qu’aux autres, je me dis, un peu comme Mazarin pour ses
livres, mais, du reste, sans angoisse aucune, que ce sera bien
embêtant de quitter tout cela. Mais venons à l’entretien avec
le Prince, je ne le raconterai qu’à une seule personne, et cette
personne, cela va être vous. » J’étais gêné, pour l’entendre,
par la conversation que, tout près de nous, M. de Charlus,
revenu dans la salle de jeux, prolongeait indéfiniment. « Et
vous lisez aussi ? Qu’est-ce que vous faites ? » demanda-t-il
au comte Arnulphe, qui ne connaissait même pas le nom de
Balzac. Mais sa myopie, comme il voyait tout très petit, lui
donnait l’air de voir très loin, de sorte que, rare poésie en un
sculptural dieu grec, dans ses prunelles s’inscrivaient comme
de distantes et mystérieuses étoiles.
« Si nous allions faire quelques pas dans le jardin, monsieur »,
dis-je à Swann, tandis que le comte Arnulphe, avec une voix
zézayante qui semblait indiquer que son développement, au
moins mental, n’était pas complet, répondait à M. de Charlus
avec une précision complaisante et naïve : « Oh ! moi, c’est
plutôt le golf, le tennis, le ballon, la course à pied, surtout le
polo. » Telle Minerve, s’étant subdivisée, avait cessé, dans
certaine cité, d’être la déesse de la Sagesse et avait incarné
une part d’elle-même en une divinité purement sportive,
hippique, « Athénè Hippia ». Et il allait aussi à Saint-Moritz
faire du ski, car Pallas Tritogeneia fréquente les hauts
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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sommets et rattrape les cavaliers. « Ah ! » répondit M. de
Charlus, avec le sourire transcendant de l’intellectuel qui ne
prend même pas la peine de dissimuler qu’il se moque, mais
qui, d’ailleurs, se sent si supérieur aux autres et méprise
tellement l’intelligence de ceux qui sont le moins bêtes, qu’il
les différencie à peine de ceux qui le sont le plus, du moment
qu’ils peuvent lui être agréables d’une autre façon. En parlant
à Arnulphe, M. de Charlus trouvait qu’il lui conférait par là
même une supériorité que tout le monde devait envier et
reconnaître. « Non, me répondit Swann, je suis trop fatigué
pour marcher, asseyons-nous plutôt dans un coin, je ne tiens
plus debout. » C’était vrai, et pourtant, commencer à causer
lui avait déjà rendu une certaine vivacité. C’est que dans la
fatigue la plus réelle il y a, surtout chez les gens nerveux, une
part qui dépend de l’attention et qui ne se conserve que par
la mémoire. On est subitement las dès qu’on craint de l’être,
et pour se remettre de sa fatigue, il suffit de l’oublier. Certes,
Swann n’était pas tout à fait de ces infatigables épuisés qui,
arrivés défaits, flétris, ne se tenant plus, se raniment dans la
conversation comme une fleur dans l’eau et peuvent pendant
des heures puiser dans leurs propres paroles des forces qu’ils
ne transmettent malheureusement pas à ceux qui les
écoutent et qui paraissent de plus en plus abattus au fur et à
mesure que le parleur se sent plus réveillé. Mais Swann
appartenait à cette forte race juive, à l’énergie vitale, à la
résistance à la mort de qui les individus eux-mêmes semblent
participer. Frappés chacun de maladies particulières, comme
elle l’est, elle-même, par la persécution, ils se débattent
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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indéfiniment dans des agonies terribles qui peuvent se
prolonger au delà de tout terme vraisemblable, quand déjà
on ne voit plus qu’une barbe de prophète surmontée d’un
nez immense qui se dilate pour aspirer les derniers souffles,
avant l’heure des prières rituelles, et que commence le défilé
ponctuel des parents éloignés s’avançant avec des
mouvements mécaniques, comme sur une frise assyrienne.
Nous allâmes nous asseoir, mais, avant de s’éloigner du
groupe que M. de Charlus formait avec les deux jeunes
Surgis et leur mère, Swann ne put s’empêcher d’attacher sur
le corsage de celle-ci de longs regards de connaisseur dilatés
et concupiscents. Il mit son monocle pour mieux apercevoir,
et, tout en me parlant, de temps à autre il jetait un regard
vers la direction de cette dame.
– Voici mot pour mot, me dit-il, quand nous fûmes assis, ma
conversation avec le Prince, et si vous vous rappelez ce que
je vous ai dit tantôt, vous verrez pourquoi je vous choisis
pour confident. Et puis aussi, pour une autre raison que
vous saurez un jour. « Mon cher Swann, m’a dit le prince de
Guermantes, vous m’excuserez si j’ai paru vous éviter depuis
quelque temps. (Je ne m’en étais nullement aperçu, étant
malade et fuyant moi-même tout le monde.) D’abord, j’avais
entendu dire, et je prévoyais bien que vous aviez, dans la
malheureuse affaire qui divise le pays, des opinions
entièrement opposées aux miennes. Or, il m’eût été
excessivement pénible que vous les professiez devant moi.
Ma nervosité était si grande que, la Princesse ayant entendu,
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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il y a deux ans, son beau-frère le grand-duc de Hesse dire
que Dreyfus était innocent, elle ne s’était pas contentée de
relever le propos avec vivacité, mais ne me l’avait pas répété
pour ne pas me contrarier. Presque à la même époque, le
prince royal de Suède était venu à Paris et, ayant
probablement entendu dire que l’impératrice Eugénie était
dreyfusiste, avait confondu avec la Princesse (étrange
confusion, vous l’avouerez, entre une femme du rang de ma
femme et une Espagnole, beaucoup moins bien née qu’on
ne dit, et mariée à un simple Bonaparte) et lui avait dit : «
Princesse, je suis doublement heureux de vous voir, car je
sais que vous avez les mêmes idées que moi sur l’affaire
Dreyfus, ce qui ne m’étonne pas puisque Votre Altesse est
bavaroise. » Ce qui avait attiré au Prince cette réponse : «
Monseigneur, je ne suis plus qu’une princesse française, et je
pense comme tous mes compatriotes. » Or, mon cher
Swann, il y a environ un an et demi, une conversation que
j’eus avec le général de Beauserfeuil me donna le soupçon
que, non pas une erreur, mais de graves illégalités, avaient été
commises dans la conduite du procès. »
Nous fûmes interrompus (Swann ne tenait pas à ce qu’on
entendît son récit) par la voix de M. de Charlus qui, sans se
soucier de nous, d’ailleurs, passait en reconduisant Mme de
Surgis et s’arrêta pour tâcher de la retenir encore, soit à cause
de ses fils, ou de ce désir qu’avaient les Guermantes de ne
pas voir finir la minute actuelle, lequel les plongeait dans une
sorte d’anxieuse inertie. Swann m’apprit à ce propos, un peu
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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plus tard, quelque chose qui ôta, pour moi, au nom de
Surgis-le-Duc toute la poésie que je lui avais trouvée. La
marquise de Surgis-le-Duc avait une beaucoup plus grande
situation mondaine, de beaucoup plus belles alliances que
son cousin, le comte de Surgis qui, pauvre, vivait dans ses
terres. Mais le mot qui terminait le titre, « le Duc », n’avait
nullement l’origine que je lui prêtais et qui m’avait fait le
rapprocher, dans mon imagination, de Bourg-l’Abbé, Boisle-Roi, etc. Tout simplement, un comte de Surgis avait
épousé, pendant la Restauration, la fille d’un richissime
industriel M. Leduc, ou Le Duc, fils lui-même d’un fabricant
de produits chimiques, l’homme le plus riche de son temps,
et qui était pair de France. Le roi Charles X avait créé, pour
l’enfant issu de ce mariage, le marquisat de Surgis-le-Duc, le
marquisat de Surgis existant déjà dans la famille.
L’adjonction du nom bourgeois n’avait pas empêché cette
branche de s’allier, à cause de l’énorme fortune, aux
premières familles du royaume. Et la marquise actuelle de
Surgis-le-Duc, d’une grande naissance, aurait pu avoir une
situation de premier ordre. Un démon de perversité l’avait
poussée, dédaignant la situation toute faite, à s’enfuir de la
maison conjugale, à vivre de la façon la plus scandaleuse.
Puis, le monde dédaigné par elle à vingt ans, quand il était à
ses pieds, lui avait cruellement manqué à trente, quand,
depuis dix ans, personne, sauf de rares amies fidèles, ne la
saluait plus, et elle avait entrepris de reconquérir
laborieusement, pièce par pièce, ce qu’elle possédait en
naissant (aller et retour qui ne sont pas rares).
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Quant aux grands seigneurs ses parents, reniés jadis par elle,
et qui l’avaient reniée à leur tour, elle s’excusait de la joie
qu’elle aurait à les ramener à elle sur des souvenirs d’enfance
qu’elle pourrait évoquer avec eux. Et en disant cela, pour
dissimuler son snobisme, elle mentait peut-être moins qu’elle
ne croyait. « Basin, c’est toute ma jeunesse ! » disait-elle le
jour où il lui était revenu. Et, en effet, c’était un peu vrai.
Mais elle avait mal calculé en le choisissant comme amant.
Car toutes les amies de la duchesse de Guermantes allaient
prendre parti pour elle, et ainsi Mme de Surgis redescendrait
pour la deuxième fois cette pente qu’elle avait eu tant de
peine à remonter. « Hé bien ! était en train de lui dire M. de
Charlus, qui tenait à prolonger l’entretien, vous mettrez mes
hommages au pied du beau portrait. Comment va-t-il ? Que
devient-il ? – Mais, répondit Mme de Surgis, vous savez que
je ne l’ai plus : mon mari n’en a pas été content. – Pas
content ! d’un des chefs-d’œuvre de notre époque, égal à la
duchesse de Châteauroux de Nattier et qui, du reste, ne
prétendait pas à fixer une moins majestueuse et meurtrière
déesse ! Oh ! le petit col bleu ! C’est-à-dire que jamais Ver
Meer n’a peint une étoffe avec plus de maîtrise, ne le disons
pas trop haut pour que Swann ne s’attaque pas à nous dans
l’intention de venger son peintre favori, le maître de Delft. »
La marquise, se retournant, adressa un sourire et tendit la
main à Swann qui s’était soulevé pour la saluer. Mais presque
sans dissimulation, soit qu’une vie déjà avancée lui en eût ôté
la volonté morale par l’indifférence à l’opinion, ou le pouvoir
physique par l’exaltation du désir et l’affaiblissement des
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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ressorts qui aident à le cacher, dès que Swann eut, en serrant
la main de la marquise, vu sa gorge de tout près et de haut, il
plongea un regard attentif, sérieux, absorbé, presque
soucieux, dans les profondeurs du corsage, et ses narines,
que le parfum de la femme grisait, palpitèrent comme un
papillon prêt à aller se poser sur la fleur entrevue.
Brusquement il s’arracha au vertige qui l’avait saisi, et Mme
de Surgis elle-même, quoique gênée, étouffa une respiration
profonde, tant le désir est parfois contagieux. « Le peintre
s’est froissé, dit-elle à M. de Charlus, et l’a repris. On avait
dit qu’il était maintenant chez Diane de Saint-Euverte. – Je
ne croirai jamais, répliqua le baron, qu’un chef-d’œuvre ait si
mauvais goût. »
– Il lui parle de son portrait. Moi, je lui en parlerais aussi
bien que Charlus, de ce portrait, me dit Swann, affectant un
ton traînard et voyou et suivant des yeux le couple qui
s’éloignait. Et cela me ferait sûrement plus de plaisir qu’à
Charlus, ajouta-t-il.
Je lui demandais si ce qu’on disait de M. de Charlus était vrai,
en quoi je mentais doublement, car si je ne savais pas qu’on
eût jamais rien dit, en revanche je savais fort bien depuis
tantôt que ce que je voulais dire était vrai. Swann haussa les
épaules, comme si j’avais proféré une absurdité.
– C’est-à-dire que c’est un ami délicieux. Mais ai-je besoin
d’ajouter que c’est purement platonique. Il est plus
sentimental que d’autres, voilà tout ; d’autre part, comme il
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ne va jamais très loin avec les femmes, cela a donné une
espèce de crédit aux bruits insensés dont vous voulez parler.
Charlus aime peut-être beaucoup ses amis, mais tenez pour
assuré que cela ne s’est jamais passé ailleurs que dans sa tête
et dans son cœur. Enfin, nous allons peut-être avoir deux
secondes de tranquillité. Donc, le prince de Guermantes
continua : « Je vous avouerai que cette idée d’une illégalité
possible dans la conduite du procès m’était extrêmement
pénible à cause du culte que vous savez que j’ai pour l’armée
; j’en reparlai avec le général, et je n’eus plus, hélas ! aucun
doute à cet égard. Je vous dirai franchement que, dans tout
cela, l’idée qu’un innocent pourrait subir la plus infamante
des peines ne m’avait même pas effleuré. Mais par cette idée
d’illégalité, je me mis à étudier ce que je n’avais pas voulu
lire, et voici que des doutes, cette fois non plus sur l’illégalité
mais sur l’innocence, vinrent me hanter. Je ne crus pas en
devoir parler à la Princesse. Dieu sait qu’elle est devenue
aussi Française que moi. Malgré tout, du jour où je l’ai
épousée, j’eus tant de coquetterie à lui montrer dans toute sa
beauté notre France, et ce que pour moi elle a de plus
splendide, son armée, qu’il m’était trop cruel de lui faire part
de mes soupçons qui n’atteignaient, il est vrai, que quelques
officiers. Mais je suis d’une famille de militaires, je ne voulais
pas croire que des officiers pussent se tromper. J’en reparlai
encore à Beauserfeuil, il m’avoua que des machinations
coupables avaient été ourdies, que le bordereau n’était peutêtre pas de Dreyfus, mais que la preuve éclatante de sa
culpabilité existait. C’était la pièce Henry. Et quelques jours
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après, on apprenait que c’était un faux. Dès lors, en cachette
de la Princesse, je me mis à lire tous les jours le Siècle,
l’Aurore ; bientôt je n’eus plus aucun doute, je ne pouvais
plus dormir. Je m’ouvris de mes souffrances morales à notre
ami, l’abbé Poiré, chez qui je rencontrai avec étonnement la
même conviction, et je fis dire par lui des messes à
l’intention de Dreyfus, de sa malheureuse femme et de ses
enfants. Sur ces entrefaites, un matin que j’allais chez la
Princesse, je vis sa femme de chambre qui cachait quelque
chose qu’elle avait dans la main. Je lui demandai en riant ce
que c’était, elle rougit et ne voulut pas me le dire. J’avais la
plus grande confiance dans ma femme, mais cet incident me
troubla fort (et sans doute aussi la Princesse à qui sa
camériste avait dû le raconter), car ma chère Marie me parla
à peine pendant le déjeuner qui suivit. Je demandai ce jour-là
à l’abbé Poiré s’il pourrait dire le lendemain ma messe pour
Dreyfus. » Allons, bon ! s’écria Swann à mi-voix en
s’interrompant.
Je levai la tête et vis le duc de Guermantes qui venait à nous.
« Pardon de vous déranger, mes enfants. Mon petit, dit-il en
s’adressant à moi, je suis délégué auprès de vous par Oriane.
Marie et Gilbert lui ont demandé de rester à souper à leur
table avec cinq ou six personnes seulement : la princesse de
Hesse, Mme de Ligne, Mme de Tarente, Mme de Chevreuse,
la duchesse d’Arenberg. Malheureusement, nous ne pouvons
pas rester, parce que nous allons à une espèce de petite
redoute. » J’écoutais, mais chaque fois que nous avons
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quelque chose à faire à un moment déterminé, nous
chargeons nous-mêmes un certain personnage habitué à ce
genre de besogne de surveiller l’heure et de nous avertir à
temps. Ce serviteur interne me rappela, comme je l’en avais
prié il y a quelques heures, qu’Albertine, en ce moment bien
loin de la pensée, devait venir chez moi aussitôt après le
théâtre. Aussi, je refusai le souper. Ce n’est pas que je ne me
plusse chez la princesse de Guermantes. Ainsi les hommes
peuvent avoir plusieurs sortes de plaisirs. Le véritable est
celui pour lequel ils quittent l’autre. Mais ce dernier, s’il est
apparent, ou même seul apparent, peut donner le change sur
le premier, rassure ou dépiste les jaloux, égare le jugement du
monde. Et pourtant, il suffirait pour que nous le sacrifiions à
l’autre d’un peu de bonheur ou d’un peu de souffrance.
Parfois un troisième ordre de plaisirs plus graves, mais plus
essentiels, n’existe pas encore pour nous chez qui sa
virtualité ne se traduit qu’en éveillant des regrets, des
découragements. Et c’est à ces plaisirs-là pourtant que nous
nous donnerons plus tard. Pour en donner un exemple tout
à fait secondaire, un militaire en temps de paix sacrifiera la
vie mondaine à l’amour, mais la guerre déclarée (et sans qu’il
soit même besoin de faire intervenir l’idée d’un devoir
patriotique), l’amour à la passion, plus forte que l’amour, de
se battre. Swann avait beau dire qu’il était heureux de me
raconter son histoire, je sentais bien que sa conversation
avec moi, à cause de l’heure tardive, et parce qu’il était trop
souffrant, était une de ces fatigues dont ceux qui savent
qu’ils se tuent par les veilles, par les excès, ont en rentrant un
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regret exaspéré, pareil à celui qu’ont de la folle dépense qu’ils
viennent encore de faire les prodigues, qui ne pourront
pourtant pas s’empêcher le lendemain de jeter l’argent par les
fenêtres. À partir d’un certain degré d’affaiblissement, qu’il
soit causé par l’âge ou par la maladie, tout plaisir pris aux
dépens du sommeil, en dehors des habitudes, tout
dérèglement, devient un ennui. Le causeur continue à parler
par politesse, par excitation, mais il sait que l’heure où il
aurait pu encore s’endormir est déjà passée, et il sait aussi les
reproches qu’il s’adressera au cours de l’insomnie et de la
fatigue qui vont suivre. Déjà, d’ailleurs, même le plaisir
momentané a pris fin, le corps et l’esprit sont trop
démeublés de leurs forces pour accueillir agréablement ce
qui paraît un divertissement à votre interlocuteur. Ils
ressemblent à un appartement un jour de départ ou de
déménagement, où ce sont des corvées que les visites que
l’on reçoit assis sur des malles, les yeux fixés sur la pendule.
– Enfin seuls, me dit-il ; je ne sais plus où j’en suis. N’est-ce
pas, je vous ai dit que le Prince avait demandé à l’abbé Poiré
s’il pourrait faire dire sa messe pour Dreyfus. « Non, me
répondit l’abbé (je vous dis « me », me dit Swann, parce que
c’est le Prince qui me parle, vous comprenez ?) car j’ai une
autre messe qu’on m’a chargé de dire également ce matin
pour lui. – Comment, lui dis-je, il y a un autre catholique que
moi qui est convaincu de son innocence ? – Il faut le croire.
– Mais la conviction de cet autre partisan doit être moins
ancienne que la mienne. – Pourtant, ce partisan me faisait
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déjà dire des messes quand vous croyiez encore Dreyfus
coupable. – Ah ! je vois bien que ce n’est pas quelqu’un de
notre milieu. – Au contraire ! – Vraiment, il y a parmi nous
des dreyfusistes ? Vous m’intriguez ; j’aimerais m’épancher
avec lui, si je le connais, cet oiseau rare. – Vous le
connaissez. – Il s’appelle ? – La princesse de Guermantes. »
Pendant que je craignais de froisser les opinions
nationalistes, la foi française de ma chère femme, elle, avait
eu peur d’alarmer mes opinions religieuses, mes sentiments
patriotiques. Mais, de son côté, elle pensait comme moi,
quoique depuis plus longtemps que moi. Et ce que sa femme
de chambre cachait en entrant dans sa chambre, ce qu’elle
allait lui acheter tous les jours, c’était l’Aurore. Mon cher
Swann, dès ce moment je pensai au plaisir que je vous ferais
en vous disant combien mes idées étaient sur ce point
parentes des vôtres ; pardonnez-moi de ne l’avoir pas fait
plus tôt. Si vous vous reportez au silence que j’avais gardé
vis-à-vis de la Princesse, vous ne serez pas étonné que
penser comme vous m’eût alors encore plus écarté de vous
que penser autrement que vous. Car ce sujet m’était
infiniment pénible à aborder. Plus je crois qu’une erreur, que
même des crimes ont été commis, plus je saigne dans mon
amour de l’armée. J’aurais pensé que des opinions
semblables aux miennes étaient loin de vous inspirer la
même douleur, quand on m’a dit l’autre jour que vous
réprouviez avec force les injures à l’armée et que les
dreyfusistes acceptassent de s’allier à ses insulteurs. Cela m’a
décidé, j’avoue qu’il m’a été cruel de vous confesser ce que je
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pense de certains officiers, peu nombreux heureusement,
mais c’est un soulagement pour moi de ne plus avoir à me
tenir loin de vous et surtout que vous sentiez bien que, si
j’avais pu être dans d’autres sentiments, c’est que je n’avais
pas un doute sur le bien-fondé du jugement rendu. Dès que
j’en eus un, je ne pouvais plus désirer qu’une chose, la
réparation de l’erreur. » Je vous avoue que ces paroles du
prince de Guermantes m’ont profondément ému. Si vous le
connaissiez comme moi, si vous saviez d’où il a fallu qu’il
revienne pour en arriver là, vous auriez de l’admiration pour
lui, et il en mérite. D’ailleurs, son opinion ne m’étonne pas,
c’est une nature si droite !
Swann oubliait que, dans l’après-midi, il m’avait dit au
contraire que les opinions en cette affaire Dreyfus étaient
commandées par l’atavisme. Tout au plus avait-il fait
exception pour l’intelligence, parce que chez Saint-Loup elle
était arrivée à vaincre l’atavisme et à faire de lui un
dreyfusard. Or, il venait de voir que cette victoire avait été de
courte durée et que Saint-Loup avait passé dans l’autre
camp. C’était donc maintenant à la droiture du cœur qu’il
donnait le rôle dévolu tantôt à l’intelligence. En réalité, nous
découvrons toujours après coup que nos adversaires avaient
une raison d’être du parti où ils sont et qui ne tient pas à ce
qu’il peut y avoir de juste dans ce parti, et que ceux qui
pensent comme nous c’est que l’intelligence, si leur nature
morale est trop basse pour être invoquée, ou leur droiture, si
leur pénétration est faible, les y a contraints.
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Swann trouvait maintenant indistinctement intelligents ceux
qui étaient de son opinion, son vieil ami le prince de
Guermantes, et mon camarade Bloch qu’il avait tenu à l’écart
jusque-là, et qu’il invita à déjeuner. Swann intéressa
beaucoup Bloch en lui disant que le prince de Guermantes
était dreyfusard. « Il faudrait lui demander de signer nos
listes pour Picquart ; avec un nom comme le sien, cela ferait
un effet formidable. » Mais Swann, mêlant à son ardente
conviction d’Israélite la modération diplomatique du
mondain, dont il avait trop pris les habitudes pour pouvoir si
tardivement s’en défaire, refusa d’autoriser Bloch à envoyer
au Prince, même comme spontanément, une circulaire à
signer. « Il ne peut pas faire cela, il ne faut pas demander
l’impossible, répétait Swann. Voilà un homme charmant qui
a fait des milliers de lieues pour venir jusqu’à nous. Il peut
nous être très utile. S’il signait votre liste, il se
compromettrait simplement auprès des siens, serait châtié à
cause de nous, peut-être se repentirait-il de ses confidences
et n’en ferait-il plus. » Bien plus, Swann refusa son propre
nom. Il le trouvait trop hébraïque pour ne pas faire mauvais
effet. Et puis, s’il approuvait tout ce qui touchait à la
révision, il ne voulait être mêlé en rien à la campagne
antimilitariste. Il portait, ce qu’il n’avait jamais fait jusque-là,
la décoration qu’il avait gagnée comme tout jeune mobile, en
70, et ajouta à son testament un codicille pour demander
que, contrairement à ses dispositions précédentes, des
honneurs militaires fussent rendus à son grade de chevalier
de la Légion d’honneur. Ce qui assembla, autour de l’église
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de Combray tout un escadron de ces cavaliers sur l’avenir
desquels pleurait autrefois Françoise, quand elle envisageait
la perspective d’une guerre. Bref Swann refusa de signer la
circulaire de Bloch, de sorte que, s’il passait pour un
dreyfusard enragé aux yeux de beaucoup, mon camarade le
trouva tiède, infecté de nationalisme, et cocardier.
Swann me quitta sans me serrer la main pour ne pas être
obligé de faire des adieux dans cette salle où il avait trop
d’amis, mais il me dit : « Vous devriez venir voir votre amie
Gilberte. Elle a réellement grandi et changé, vous ne la
reconnaîtriez pas. Elle serait si heureuse ! » Je n’aimais plus
Gilberte. Elle était pour moi comme une morte qu’on a
longtemps pleurée, puis l’oubli est venu, et, si elle
ressuscitait, elle ne pourrait plus s’insérer dans une vie qui
n’est plus faite pour elle. Je n’avais plus envie de la voir ni
même cette envie de lui montrer que je ne tenais pas à la voir
et que chaque jour, quand je l’aimais, je me promettais de lui
témoigner quand je ne l’aimerais plus.
Aussi, ne cherchant plus qu’à me donner, vis-à-vis de
Gilberte, l’air d’avoir désiré de tout mon cœur la retrouver et
d’en avoir été empêché par des circonstances dites «
indépendantes de ma volonté » et qui ne se produisent en
effet, au moins avec une certaine suite, que quand la volonté
ne les contrecarre pas, bien loin d’accueillir avec réserve
l’invitation de Swann, je ne le quittai pas qu’il ne m’eût
promis d’expliquer en détail à sa fille les contretemps qui
m’avaient privé, et me priveraient encore, d’aller la voir. « Du
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reste, je vais lui écrire tout à l’heure en rentrant, ajoutai-je.
Mais dites-lui bien que c’est une lettre de menaces, car, dans
un mois ou deux, je serai tout à fait libre, et alors qu’elle
tremble, car je serai chez vous aussi souvent même
qu’autrefois. »
Avant de laisser Swann, je lui dis un mot de sa santé. « Non,
ça ne va pas si mal que ça, me répondit-il. D’ailleurs, comme
je vous le disais, je suis assez fatigué et accepte d’avance avec
résignation ce qui peut arriver. Seulement, j’avoue que ce
serait bien agaçant de mourir avant la fin de l’affaire Dreyfus.
Toutes ces canailles-là ont plus d’un tour dans leur sac. Je ne
doute pas qu’ils soient finalement vaincus, mais enfin ils sont
très puissants, ils ont des appuis partout. Dans le moment où
ça va le mieux, tout craque. Je voudrais bien vivre assez pour
voir Dreyfus réhabilité et Picquart colonel. »
Quand Swann fut parti, je retournai dans le grand salon où
se trouvait cette princesse de Guermantes avec laquelle je ne
savais pas alors que je dusse être un jour si lié. La passion
qu’elle eut pour M. de Charlus ne se découvrit pas d’abord à
moi. Je remarquai seulement que le baron, à partir d’une
certaine époque et sans être pris contre la princesse de
Guermantes d’aucune de ces inimitiés qui chez lui
n’étonnaient pas, tout en continuant à avoir pour elle autant,
plus d’affection peut-être encore, paraissait mécontent et
agacé chaque fois qu’on lui parlait d’elle. Il ne donnait plus
jamais son nom dans la liste des personnes avec qui il
désirait dîner.
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Il est vrai qu’avant cela j’avais entendu un homme du monde
très méchant dire que la Princesse était tout à fait changée,
qu’elle était amoureuse de M. de Charlus, mais cette
médisance m’avait paru absurde et m’avait indigné. J’avais
bien remarqué avec étonnement que, quand je racontais
quelque chose qui me concernait, si au milieu intervenait M.
de Charlus, l’attention de la Princesse se mettait aussitôt à ce
cran plus serré qui est celui d’un malade qui, nous entendant
parler de nous, par conséquent, d’une façon distraite et
nonchalante, reconnaît tout d’un coup qu’un nom est celui
du mal dont il est atteint, ce qui à la fois l’intéresse et le
réjouit. Telle, si je lui disais : « Justement M. de Charlus me
racontait... », la Princesse reprenait en mains les rênes
détendues de son attention. Et une fois, ayant dit devant elle
que M. de Charlus avait en ce moment un assez vif
sentiment pour une certaine personne, je vis avec
étonnement s’insérer dans les yeux de la Princesse ce trait
différent et momentané qui trace dans les prunelles comme
le sillon d’une fêlure et qui provient d’une pensée que nos
paroles, à leur insu, ont agitée en l’être à qui nous parlons,
pensée secrète qui ne se traduira pas par des mots, mais qui
montera, des profondeurs remuées par nous, à la surface un
instant altérée du regard. Mais si mes paroles avaient ému la
Princesse, je n’avais pas soupçonné de quelle façon.
D’ailleurs peu de temps après, elle commença à me parler de
M. de Charlus, et presque sans détours. Si elle faisait allusion
aux bruits que de rares personnes faisaient courir sur le
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baron, c’était seulement comme à d’absurdes et infâmes
inventions. Mais, d’autre part, elle disait : « Je trouve qu’une
femme qui s’éprendrait d’un homme de l’immense valeur de
Palamède devrait avoir assez de hauteur de vues, assez de
dévouement, pour l’accepter et le comprendre en bloc, tel
qu’il est, pour respecter sa liberté, ses fantaisies, pour
chercher seulement à lui aplanir les difficultés et à le consoler
de ses peines. » Or, par ces propos pourtant si vagues, la
princesse de Guermantes révélait ce qu’elle cherchait à
magnifier, de la même façon que faisait parfois M. de
Charlus lui-même. N’ai-je pas entendu à plusieurs reprises ce
dernier dire à des gens qui jusque-là étaient incertains si on le
calomniait ou non : « Moi, qui ai eu bien des hauts et bien
des bas dans ma vie, qui ai connu toute espèce de gens, aussi
bien des voleurs que des rois, et même je dois dire, avec une
légère préférence pour les voleurs, qui ai poursuivi la beauté
sous toutes ses formes, etc... », et par ces paroles qu’il croyait
habiles, et en démentant des bruits dont on ne soupçonnait
pas qu’ils eussent couru (ou pour faire à la vérité, par goût,
par mesure, par souci de la vraisemblance une part qu’il était
seul à juger minime), il ôtait leurs derniers doutes sur lui aux
uns, inspirait leurs premiers à ceux qui n’en avaient pas
encore. Car le plus dangereux de tous les recels, c’est celui de
la faute elle-même dans l’esprit du coupable. La
connaissance permanente qu’il a d’elle l’empêche de
supposer combien généralement elle est ignorée, combien un
mensonge complet serait aisément cru, et, en revanche, de se
rendre compte à quel degré de vérité commence pour les
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autres, dans des paroles qu’il croit innocentes, l’aveu. Et
d’ailleurs il aurait eu de toute façon bien tort de chercher à le
taire, car il n’y a pas de vices qui ne trouvent dans le grand
monde des appuis complaisants, et l’on a vu bouleverser
l’aménagement d’un château pour faire coucher une sœur
près de sa sœur dès qu’on eut appris qu’elle ne l’aimait pas
qu’en sœur. Mais ce qui me révéla tout d’un coup l’amour de
la Princesse, ce fut un fait particulier et sur lequel je
n’insisterai pas ici, car il fait partie du récit tout autre où M.
de Charlus laissa mourir une reine plutôt que de manquer le
coiffeur qui devait le friser au petit fer pour un contrôleur
d’omnibus devant lequel il se trouva prodigieusement
intimidé. Cependant, pour en finir avec l’amour de la
Princesse, disons quel rien m’ouvrit les yeux. J’étais, ce jourlà, seul en voiture avec elle. Au moment où nous passions
devant une poste, elle fit arrêter. Elle n’avait pas emmené de
valet de pied. Elle sorti à demi une lettre de son manchon et
commença le mouvement de descendre pour la mettre dans
la boîte. Je voulus l’arrêter, elle se débattit légèrement, et déjà
nous nous rendions compte l’un et l’autre que notre premier
geste avait été, le sien compromettant en ayant l’air de
protéger un secret, le mien indiscret en m’opposant à cette
protection. Ce fut elle qui se ressaisit le plus vite. Devenant
subitement très rouge, elle me donna la lettre, je n’osai plus
ne pas la prendre, mais, en la mettant dans la boîte, je vis,
sans le vouloir, qu’elle était adressée à M. de Charlus.
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Pour revenir en arrière et à cette première soirée chez la
princesse de Guermantes, j’allai lui dire adieu, car son cousin
et sa cousine me ramenaient et étaient fort pressés, M. de
Guermantes voulait cependant dire au revoir à son frère.
Mme de Surgis ayant eu le temps, dans une porte, de dire au
duc que M. de Charlus avait été charmant pour elle et pour
ses fils, cette grande gentillesse de son frère, et la première
que celui-ci eût eue dans cet ordre d’idées, toucha
profondément Basin et réveilla chez lui des sentiments de
famille qui ne s’endormaient jamais longtemps. Au moment
où nous disions adieu à la Princesse, il tint, sans dire
expressément ses remerciements à M. de Charlus, à lui
exprimer sa tendresse, soit qu’il eût en effet peine à la
contenir, soit pour que le baron se souvînt que le genre
d’actions qu’il avait eu ce soir ne passait pas inaperçu aux
yeux d’un frère, de même que, dans le but de créer pour
l’avenir des associations de souvenirs salutaires, on donne du
sucre à un chien qui a fait le beau. « Hé bien ! petit frère, dit
le duc en arrêtant M. de Charlus et en le prenant tendrement
sous le bras, voilà comment on passe devant son aîné sans
même un petit bonjour. Je ne te vois plus, Mémé, et tu ne
sais pas comme cela me manque. En cherchant de vieilles
lettres j’en ai justement retrouvé de la pauvre maman qui
sont toutes si tendres pour toi. – Merci, Basin, répondit M.
de Charlus d’une voix altérée, car il ne pouvait jamais parler
sans émotion de leur mère. – Tu devrais te décider à me
laisser t’installer un pavillon à Guermantes, reprit le duc. » «
C’est gentil de voir les deux frères si tendres l’un avec l’autre,
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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dit la Princesse à Oriane. – Ah ! ça, je ne crois pas qu’on
puisse trouver beaucoup de frères comme cela. Je vous
inviterai avec lui, me promit-elle. Vous n’êtes pas mal avec
lui ?... Mais qu’est-ce qu’ils peuvent avoir à se dire », ajouta-telle d’un ton inquiet, car elle entendait imparfaitement leurs
paroles. Elle avait toujours eu une certaine jalousie du plaisir
que M. de Guermantes éprouvait à causer avec son frère
d’un passé à distance duquel il tenait un peu sa femme. Elle
sentait que, quand ils étaient heureux d’être ainsi l’un près de
l’autre et que, ne retenant plus son impatiente curiosité, elle
venait se joindre à eux, son arrivée ne leur faisait pas plaisir.
Mais, ce soir, à cette jalousie habituelle s’en ajoutait une
autre. Car si Mme de Surgis avait raconté à M. de
Guermantes les bontés qu’avait eues son frère, afin qu’il l’en
remerciât, en même temps des amies dévouées du couple
Guermantes avaient cru devoir prévenir la duchesse que la
maîtresse de son mari avait été vue en tête à tête avec le frère
de celui-ci. Et Mme de Guermantes en était tourmentée. «
Rappelle-toi comme nous étions heureux jadis à
Guermantes, reprit le duc en s’adressant à M. de Charlus. Si
tu y venais quelquefois l’été, nous reprendrions notre bonne
vie. Te rappelles-tu le vieux père Courveau : « Pourquoi estce que Pascal est troublant ? parce qu’il est trou... trou... –
Blé », prononça M. de Charlus comme s’il répondait encore
à son professeur. – « Et pourquoi est-ce que Pascal est
troublé ? parce qu’il est trou... parce qu’il est trou... – Blanc.
– Très bien, vous serez reçu, vous aurez certainement une
mention, et Mme la duchesse vous donnera un dictionnaire
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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chinois. » Si je me rappelle, mon petit Mémé ! Et la vieille
potiche que t’avait rapportée Hervey de Saint-Denis, je la
vois encore. Tu nous menaçais d’aller passer définitivement
ta vie en Chine tant tu étais épris de ce pays ; tu aimais déjà
faire de longues vadrouilles. Ah ! tu as été un type spécial,
car on peut dire qu’en rien tu n’as jamais eu les goûts de tout
le monde... » Mais à peine avait-il dit ces mots que le duc
piqua ce qu’on appelle un soleil, car il connaissait, sinon les
mœurs, du moins la réputation de son frère. Comme il ne lui
en parlait jamais, il était d’autant plus gêné d’avoir dit
quelque chose qui pouvait avoir l’air de s’y rapporter, et plus
encore d’avoir paru gêné. Après une seconde de silence : «
Qui sait, dit-il pour effacer ses dernières paroles, tu étais
peut-être amoureux d’une Chinoise avant d’aimer tant de
blanches et de leur plaire, si j’en juge par une certaine dame à
qui tu as fait bien plaisir ce soir en causant avec elle. Elle a
été ravie de toi. » Le duc s’était promis de ne pas parler de
Mme de Surgis, mais, au milieu du désarroi que la gaffe qu’il
avait faite venait de jeter dans ses idées, il s’était jeté sur la
plus voisine, qui était précisément celle qui ne devait pas
paraître dans l’entretien, quoiqu’elle l’eût motivé. Mais M. de
Charlus avait remarqué la rougeur de son frère. Et, comme
les coupables qui ne veulent pas avoir l’air embarrassé qu’on
parle devant eux du crime qu’ils sont censés ne pas avoir
commis et croient devoir prolonger une conversation
périlleuse : « J’en suis charmé, lui répondit-il, mais je tiens à
revenir sur ta phrase précédente, qui me semble
profondément vraie. Tu disais que je n’ai jamais eu les idées
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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de tout le monde ; comme c’est juste ! tu disais que j’avais
des goûts spéciaux. – Mais non », protesta M. de
Guermantes, qui, en effet, n’avait pas dit ces mots et ne
croyait peut-être pas chez son frère à la réalité de ce qu’ils
désignent. Et, d’ailleurs, se croyait-il le droit de le tourmenter
pour des singularités qui en tout cas étaient restées assez
douteuses ou assez secrètes pour ne nuire en rien à l’énorme
situation du baron ? Bien plus, sentant que cette situation de
son frère allait se mettre au service de ses maîtresses, le duc
se disait que cela valait bien quelques complaisances en
échange ; eût-il à ce moment connu quelque liaison « spéciale
» de son frère que, dans l’espoir de l’appui que celui-ci lui
prêterait, espoir uni au pieux souvenir du temps passé, M. de
Guermantes eût passé dessus, fermant les yeux sur elle, et au
besoin prêtant la main. « Voyons, Basin ; bonsoir, Palamède,
dit la duchesse qui, rongée de rage et de curiosité, n’y
pouvait plus tenir, si vous avez décidé de passer la nuit ici, il
vaut mieux que nous restions à souper. Vous nous tenez
debout, Marie et moi, depuis une demi-heure. » Le duc quitta
son frère après une significative étreinte et nous descendîmes
tous trois l’immense escalier de l’hôtel de la Princesse.
Des deux côtés, sur les marches les plus hautes, étaient
répandus des couples qui attendaient que leur voiture fût
avancée. Droite, isolée, ayant à ses côtés son mari et moi, la
duchesse se tenait à gauche de l’escalier, déjà enveloppée
dans son manteau à la Tiepolo, le col enserré dans le fermoir
de rubis, dévorée des yeux par des femmes, des hommes, qui
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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cherchaient à surprendre le secret de son élégance et de sa
beauté. Attendant sa voiture sur le même degré de l’escalier
que Mme de Guermantes, mais à l’extrémité opposée, Mme
de Gallardon, qui avait perdu depuis longtemps tout espoir
d’avoir jamais la visite de sa cousine, tournait le dos pour ne
pas avoir l’air de la voir, et surtout pour ne pas offrir la
preuve que celle-ci ne la saluait pas. Mme de Gallardon était
de fort méchante humeur parce que des messieurs qui
étaient avec elle avaient cru devoir lui parler d’Oriane : « Je
ne tiens pas du tout à la voir, leur avait-elle répondu, je l’ai,
du reste, aperçue tout à l’heure, elle commence à vieillir ; il
paraît qu’elle ne peut pas s’y faire. Basin lui-même le dit. Et
dame ! je comprends ça, parce que, comme elle n’est pas
intelligente, qu’elle est méchante comme une teigne et qu’elle
a mauvaise façon, elle sent bien que, quand elle ne sera plus
belle, il ne lui restera rien du tout. »
J’avais mis mon pardessus, ce que M. de Guermantes, qui
craignait les refroidissements, blâma, en descendant avec
moi, à cause de la chaleur qu’il faisait. Et la génération de
nobles qui a plus ou moins passé par Monseigneur
Dupanloup parle un si mauvais français (excepté les
Castellane), que le duc exprima ainsi sa pensée : « Il vaut
mieux ne pas être couvert avant d’aller dehors, du moins en
thèse générale. » Je revois toute cette sortie, je revois, si ce
n’est pas à tort que je le place sur cet escalier, portrait
détaché de son cadre, le prince de Sagan, duquel ce dut être
la dernière soirée mondaine, se découvrant pour présenter
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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ses hommages à la duchesse, avec une si ample révolution du
chapeau haut de forme dans sa main gantée de blanc, qui
répondait au gardénia de la boutonnière, qu’on s’étonnait
que ce ne fût pas un feutre à plume de l’ancien régime,
duquel plusieurs visages ancestraux étaient exactement
reproduits dans celui de ce grand seigneur. Il ne resta qu’un
peu de temps auprès d’elle, mais ses poses, même d’un
instant, suffisaient à composer tout un tableau vivant et
comme une scène historique. D’ailleurs, comme il est mort
depuis, et que je ne l’avais de son vivant qu’aperçu, il est
tellement devenu pour moi un personnage d’histoire,
d’histoire mondaine du moins, qu’il m’arrive de m’étonner
en pensant qu’une femme, qu’un homme que je connais sont
sa sœur et son neveu.
Pendant que nous descendions l’escalier, le montait, avec un
air de lassitude qui lui seyait, une femme qui paraissait une
quarantaine d’années bien qu’elle eût davantage. C’était la
princesse d’Orvillers, fille naturelle, disait-on, du duc de
Parme, et dont la douce voix se scandait d’un vague accent
autrichien. Elle s’avançait, grande, inclinée, dans une robe de
soie blanche à fleurs, laissant battre sa poitrine délicieuse,
palpitante et fourbue, à travers un harnais de diamants et de
saphirs. Tout en secouant la tête comme une cavale de roi
qu’eût embarrassée son licol de perles, d’une valeur
inestimable et d’un poids incommode, elle posait çà et là ses
regards doux et charmants, d’un bleu qui, au fur et à mesure
qu’il commençait à s’user, devenait plus caressant encore, et
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faisait à la plupart des invités qui s’en allaient un signe de tête
amical. « Vous arrivez à une jolie heure, Paulette ! dit la
duchesse. – Ah ! j’ai un tel regret ! Mais vraiment il n’y a pas
eu la possibilité matérielle », répondit la princesse d’Orvillers
qui avait pris à la duchesse de Guermantes ce genre de
phrases, mais y ajoutait sa douceur naturelle et l’air de
sincérité donné par l’énergie d’un accent lointainement
tudesque dans une voix si tendre. Elle avait l’air de faire
allusion à des complications de vie trop longues à dire, et
non vulgairement à des soirées, bien qu’elle revînt en ce
moment de plusieurs. Mais ce n’était pas elles qui la forçaient
de venir si tard. Comme le prince de Guermantes avait
pendant de longues années empêché sa femme de recevoir
Mme d’Orvillers, celle-ci, quand l’interdit fut levé, se
contenta de répondre aux invitations, pour ne pas avoir l’air
d’en avoir soif, par des simples cartes déposées. Au bout de
deux ou trois ans de cette méthode, elle venait elle-même,
mais très tard, comme après le théâtre. De cette façon, elle se
donnait l’air de ne tenir nullement à la soirée, ni à y être vue,
mais simplement de venir faire une visite au Prince et à la
Princesse, rien que pour eux, par sympathie, au moment où,
les trois quarts des invités déjà partis, elle « jouirait mieux
d’eux ». « Oriane est vraiment tombée au dernier degré,
ronchonna Mme de Gallardon. Je ne comprends pas Basin
de la laisser parler à Mme d’Orvillers. Ce n’est pas M. de
Gallardon qui m’eût permis cela. » Pour moi, j’avais reconnu
en Mme d’Orvillers la femme qui, près de l’hôtel
Guermantes, me lançait de longs regards langoureux, se
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retournait, s’arrêtait devant les glaces des boutiques. Mme de
Guermantes me présenta, Mme d’Orvillers fut charmante, ni
trop aimable, ni piquée. Elle me regarda comme tout le
monde, de ses yeux doux... Mais je ne devais plus jamais,
quand je la rencontrerais, recevoir d’elle une seule de ces
avances où elle avait semblé s’offrir. Il y a des regards
particuliers et qui ont l’air de vous reconnaître, qu’un jeune
homme ne reçoit jamais de certaines femmes – et de certains
hommes – que jusqu’au jour où ils vous connaissent et
apprennent que vous êtes l’ami de gens avec qui ils sont liés
aussi.
On annonça que la voiture était avancée. Mme de
Guermantes prit sa jupe rouge comme pour descendre et
monter en voiture, mais, saisie peut-être d’un remords, ou du
désir de faire plaisir et surtout de profiter de la brièveté que
l’empêchement matériel de le prolonger imposait à un acte
aussi ennuyeux, elle regarda Mme de Gallardon ; puis,
comme si elle venait seulement de l’apercevoir, prise d’une
inspiration, elle retraversa, avant de descendre, toute la
longueur du degré et, arrivée à sa cousine ravie, lui tendit la
main. « Comme il y a longtemps », lui dit la duchesse qui,
pour ne pas avoir à développer tout ce qu’était censé
contenir de regrets et de légitimes excuses cette formule, se
tourna d’un air effrayé vers le duc, lequel, en effet, descendu
avec moi vers la voiture, tempêtait en voyant que sa femme
était partie vers Mme de Gallardon et interrompait la
circulation des autres voitures. « Oriane est tout de même
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encore bien belle ! dit Mme de Gallardon. Les gens
m’amusent quand ils disent que nous sommes en froid ;
nous pouvons, pour des raisons où nous n’avons pas besoin
de mettre les autres, rester des années sans nous voir, nous
avons trop de souvenirs communs pour pouvoir jamais être
séparées, et, au fond, elle sait bien qu’elle m’aime plus que
tant des gens qu’elle voit tous les jours et qui ne sont pas de
son rang. » Mme de Gallardon était en effet comme ces
amoureux dédaignés qui veulent à toute force faire croire
qu’ils sont plus aimés que ceux que choie leur belle. Et (par
les éloges que, sans souci de la contradiction avec ce qu’elle
avait dit peu avant, elle prodigua en parlant de la duchesse de
Guermantes) elle prouva indirectement que celle-ci possédait
à fond les maximes qui doivent guider dans sa carrière une
grande élégante laquelle, dans le moment même où sa plus
merveilleuse toilette excite, à côté de l’admiration, l’envie,
doit savoir traverser tout un escalier pour la désarmer. «
Faites au moins attention de ne pas mouiller vos souliers » (il
avait tombé une petite pluie d’orage), dit le duc, qui était
encore furieux d’avoir attendu.
Pendant le retour, à cause de l’exiguïté du coupé, les souliers
rouges se trouvèrent forcément peu éloignés des miens, et
Mme de Guermantes, craignant même qu’ils ne les eussent
touchés, dit au duc : « Ce jeune homme va être obligé de me
dire comme je ne sais plus quelle caricature : « Madame,
dites-moi tout de suite que vous m’aimez, mais ne me
marchez pas sur les pieds comme cela. » Ma pensée d’ailleurs
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était assez loin de Mme de Guermantes. Depuis que SaintLoup m’avait parlé d’une jeune fille de grande naissance qui
allait dans une maison de passe et de la femme de chambre
de la baronne Putbus, c’était dans ces deux personnes que,
faisant bloc, s’étaient résumés les désirs que m’inspiraient
chaque jour tant de beautés de deux classes, d’une part les
vulgaires et magnifiques, les majestueuses femmes de
chambre de grande maison enflées d’orgueil et qui disent «
nous » en parlant des duchesses, d’autre part ces jeunes filles
dont il me suffisait parfois, même sans les avoir vues passer
en voiture ou à pied, d’avoir lu le nom dans un compte
rendu de bal pour que j’en devinsse amoureux et qu’ayant
consciencieusement cherché dans l’annuaire des châteaux où
elles passaient l’été (bien souvent en me laissant égarer par
un nom similaire) je rêvasse tour à tour d’aller habiter les
plaines de l’Ouest, les dunes du Nord, les bois de pins du
Midi. Mais j’avais beau fondre toute la matière charnelle la
plus exquise pour composer, selon l’idéal que m’en avait
tracé Saint-Loup, la jeune fille légère et la femme de chambre
de Mme Putbus, il manquait à mes deux beautés possédables
ce que j’ignorerais tant que je ne les aurais pas vues : le
caractère individuel. Je devais m’épuiser vainement à
rechercher à me figurer, pendant les mois où j’eusse préféré
une femme de chambre, celle de Mme Putbus. Mais quelle
tranquillité, après avoir été perpétuellement troublé par mes
désirs inquiets pour tant d’êtres fugitifs dont souvent je ne
savais même pas le nom, qui étaient en tout cas si difficiles à
retrouver, encore plus à connaître, impossibles peut-être à
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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conquérir, d’avoir prélevé sur toute cette beauté éparse,
fugitive, anonyme, deux spécimens de choix munis de leur
fiche signalétique et que j’étais du moins certain de me
procurer quand je le voudrais. Je reculais l’heure de me
mettre à ce double plaisir, comme celle du travail, mais la
certitude de l’avoir quand je voudrais me dispensait presque
de le prendre, comme ces cachets soporifiques qu’il suffit
d’avoir à la portée de la main pour n’avoir pas besoin d’eux
et s’endormir. Je ne désirais dans l’univers que deux femmes
dont je ne pouvais, il est vrai, arriver à me représenter le
visage, mais dont Saint-Loup m’avait appris les noms et
garanti la complaisance. De sorte que, s’il avait par ses
paroles de tout à l’heure fourni un rude travail à mon
imagination, il avait par contre procuré une appréciable
détente, un repos durable à ma volonté.
« Hé bien ! me dit la duchesse, en dehors de vos bals, est-ce
que je ne peux vous être d’aucune utilité ? Avez-vous trouvé
un salon où vous aimeriez que je vous présente ? » Je lui
répondis que je craignais que le seul qui me fît envie ne fût
trop peu élégant pour elle. « Qui est-ce ? » demanda-t-elle
d’une voix menaçante et rauque, sans presque ouvrir la
bouche. « La baronne Putbus. » Cette fois-ci elle feignit une
véritable colère. « Ah ! non, ça, par exemple, je crois que
vous vous fichez de moi. Je ne sais même pas par quel
hasard je sais le nom de ce chameau. Mais c’est la lie de la
société. C’est comme si vous me demandiez de vous
présenter à ma mercière. Et encore non, car ma mercière est
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charmante. Vous êtes un peu fou, mon pauvre petit. En tout
cas, je vous demande en grâce d’être poli avec les personnes
à qui je vous ai présenté, de leur mettre des cartes, d’aller les
voir et de ne pas leur parler de la baronne Putbus, qui leur
est inconnue. » Je demandai si Mme d’Orvillers n’était pas un
peu légère. « Oh ! pas du tout, vous confondez, elle serait
plutôt bégueule. N’est-ce pas, Basin ? – Oui, en tout cas je
ne crois pas qu’il y ait jamais rien à dire sur elle », dit le duc.
« Vous ne voulez pas venir avec nous à la redoute ? me
demanda-t-il. Je vous prêterais un manteau vénitien et je sais
quelqu’un à qui cela ferait bougrement plaisir, à Oriane
d’abord, cela ce n’est pas la peine de le dire ; mais à la
princesse de Parme. Elle chante tout le temps vos louanges,
elle ne jure que par vous. Vous avez la chance – comme elle
est un peu mûre – qu’elle soit d’une pudicité absolue. Sans
cela elle vous aurait certainement pris comme sigisbée,
comme on disait dans ma jeunesse, une espèce de cavalier
servant. »
Je ne tenais pas à la redoute, mais au rendez-vous avec
Albertine. Aussi je refusai. La voiture s’était arrêtée, le valet
de pied demanda la porte cochère, les chevaux piaffèrent
jusqu’à ce qu’elle fût ouverte toute grande, et la voiture
s’engagea dans la cour. « À la revoyure, me dit le duc. – J’ai
quelquefois regretté de demeurer aussi près de Marie, me dit
la duchesse, parce que, si je l’aime beaucoup, j’aime un petit
peu moins la voir. Mais je n’ai jamais regretté cette proximité
autant que ce soir puisque cela me fait rester si peu avec
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vous. – Allons, Oriane, pas de discours. » La duchesse aurait
voulu que j’entrasse un instant chez eux. Elle rit beaucoup,
ainsi que le duc, quand je dis que je ne pouvais pas parce
qu’une jeune fille devait précisément venir me faire une visite
maintenant. « Vous avez une drôle d’heure pour recevoir vos
visites, me dit-elle. – Allons, mon petit, dépêchons-nous, dit
M. de Guermantes à sa femme. Il est minuit moins le quart
et le temps de nous costumer... » Il se heurta devant sa porte,
sévèrement gardée par elles, aux deux dames à canne qui
n’avaient pas craint de descendre nuitamment de leur cime
afin d’empêcher un scandale. « Basin, nous avons tenu à
vous prévenir, de peur que vous ne soyez vu à cette redoute :
le pauvre Amanien vient de mourir, il y a une heure. » Le duc
eut un instant d’alarme. Il voyait la fameuse redoute
s’effondrer pour lui du moment que, par ces maudites
montagnardes, il était averti de la mort de M. d’Osmond.
Mais il se ressaisit bien vite et lança aux deux cousines ce
mot où il faisait entrer, avec la détermination de ne pas
renoncer à un plaisir, son incapacité d’assimiler exactement
les tours de la langue française : « Il est mort ! Mais non, on
exagère, on exagère ! » Et sans plus s’occuper des deux
parentes qui, munies de leurs alpenstocks, allaient faire
l’ascension dans la nuit, il se précipita aux nouvelles en
interrogeant son valet de chambre : « Mon casque est bien
arrivé ? – Oui, monsieur le duc. – Il y a bien un petit trou
pour respirer ? Je n’ai pas envie d’être asphyxié, que diable !
– Oui, monsieur le duc. – Ah ! tonnerre de Dieu, c’est un
soir de malheur. Oriane, j’ai oublié de demander à Babal si
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les souliers à la poulaine étaient pour vous ! – Mais, mon
petit, puisque le costumier de l’Opéra-Comique est là, il nous
le dira. Moi, je ne crois pas que ça puisse aller avec vos
éperons. – Allons trouver le costumier, dit le duc. Adieu,
mon petit, je vous dirais bien d’entrer avec nous pendant que
nous essaierons, pour vous amuser. Mais nous causerions, il
va être minuit et il faut que nous n’arrivions pas en retard
pour que la fête soit complète. »
Moi aussi j’étais pressé de quitter M. et Mme de Guermantes
au plus vite. Phèdre finissait vers onze heures et demie. Le
temps de venir, Albertine devait être arrivée. J’allai droit à
Françoise : « Mlle Albertine est là ? – Personne n’est venu. »
Mon Dieu, cela voulait-il dire que personne ne viendrait !
J’étais tourmenté, la visite d’Albertine me semblant
maintenant d’autant plus désirable qu’elle était moins
certaine.
Françoise était ennuyée aussi, mais pour une tout autre
raison. Elle venait d’installer sa fille à table pour un succulent
repas. Mais en m’entendant venir, voyant le temps lui
manquer pour enlever les plats et disposer des aiguilles et du
fil comme s’il s’agissait d’un ouvrage et non d’un souper : «
Elle vient de prendre une cuillère de soupe, me dit
Françoise, je l’ai forcée de sucer un peu de carcasse », pour
diminuer ainsi jusqu’à rien le souper de sa fille, et comme si
ç’avait été coupable qu’il fût copieux. Même au déjeuner ou
au dîner, si je commettais la faute d’entrer dans la cuisine,
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Françoise faisait semblant qu’on eût fini et s’excusait même
en disant : « J’avais voulu manger un morceau ou une
bouchée. » Mais on était vite rassuré en voyant la multitude
des plats qui couvraient la table et que Françoise, surprise
par mon entrée soudaine, comme un malfaiteur qu’elle
n’était pas, n’avait pas eu le temps de faire disparaître. Puis
elle ajouta : « Allons, va te coucher, tu as assez travaillé
comme cela aujourd’hui (car elle voulait que sa fille eût l’air
non seulement de ne nous coûter rien, de vivre de
privations, mais encore de se tuer au travail pour nous). Tu
ne fais qu’encombrer la cuisine et surtout gêner Monsieur
qui attend de la visite. Allons, monte », reprit-elle, comme si
elle était obligée d’user de son autorité pour envoyer coucher
sa fille qui, du moment que le souper était raté, n’était plus là
que pour la frime et, si j’étais resté cinq minutes encore, eût
d’elle-même décampé. Et se tournant vers moi, avec ce beau
français populaire et pourtant un peu individuel qui était le
sien : « Monsieur ne voit pas que l’envie de dormir lui coupe
la figure. » J’étais resté ravi de ne pas avoir à causer avec la
fille de Françoise.
J’ai dit qu’elle était d’un petit pays qui était tout voisin de
celui de sa mère, et pourtant différent par la nature du
terrain, les cultures, le patois, par certaines particularités des
habitants, surtout. Ainsi la « bouchère » et la nièce de
Françoise s’entendaient fort mal, mais avaient ce point
commun, quand elles partaient faire une course, de s’attarder
des heures « chez la sœur » ou « chez la cousine », étant
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d’elles-mêmes incapables de terminer une conversation,
conversation au cours de laquelle le motif qui les avait fait
sortir s’évanouissait au point que si on leur disait à leur
retour : « Hé bien, M. le marquis de Norpois sera-t-il visible
à six heures un quart », elles ne se frappaient même pas le
front en disant : « Ah ! j’ai oublié », mais : « Ah ! je n’ai pas
compris que monsieur avait demandé cela, je croyais qu’il
fallait seulement lui donner le bonjour. » Si elles « perdaient
la boule » de cette façon pour une chose dite une heure
auparavant, en revanche il était impossible de leur ôter de la
tête ce qu’elles avaient une fois entendu dire par la sœur ou
par la cousine. Ainsi, si la bouchère avait entendu dire que
les Anglais nous avaient fait la guerre en 70 en même temps
que les Prussiens, et que j’eusse eu beau expliquer que ce fait
était faux, toutes les trois semaines la bouchère me répétait
au cours d’une conversation : « C’est cause à cette guerre que
les Anglais nous ont faite en 70 en même temps que les
Prussiens. – Mais je vous ai dit cent fois que vous vous
trompez. » Elle répondait, ce qui impliquait que rien n’était
ébranlé dans sa conviction : « En tout cas, ce n’est pas une
raison pour leur en vouloir. Depuis 70, il a coulé de l’eau
sous les ponts, etc. » Une autre fois, prônant une guerre avec
l’Angleterre, que je désapprouvais, elle disait : « Bien sûr,
vaut toujours mieux pas de guerre ; mais puisqu’il le faut,
vaut mieux y aller tout de suite. Comme l’a expliqué tantôt la
sœur, depuis cette guerre que les Anglais nous ont faite en
70, les traités de commerce nous ruinent. Après qu’on les
aura battus, on ne laissera plus entrer en France un seul
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Anglais sans payer trois cents francs d’entrée, comme nous
maintenant pour aller en Angleterre. »
Tel était, en dehors de beaucoup d’honnêteté et, quand ils
parlaient, d’une sourde obstination à ne pas se laisser
interrompre, à reprendre vingt fois là où ils en étaient si on
les interrompait, ce qui finissait par donner à leurs propos la
solidité inébranlable d’une fugue de Bach, le caractère des
habitants dans ce petit pays qui n’en comptait pas cinq cents
et que bordaient ses châtaigniers, ses saules, ses champs de
pommes de terre et de betteraves.
La fille de Françoise, au contraire, parlait, se croyant une
femme d’aujourd’hui et sortie des sentiers trop anciens,
l’argot parisien et ne manquait aucune des plaisanteries
adjointes. Françoise lui ayant dit que je venais de chez une
princesse : « Ah ! sans doute une princesse à la noix de coco.
» Voyant que j’attendais une visite, elle fit semblant de croire
que je m’appelais Charles. Je lui répondis naïvement que
non, ce qui lui permit de placer : « Ah ! je croyais ! Et je me
disais Charles attend (charlatan). » Ce n’était pas de très bon
goût. Mais je fus moins indifférent lorsque, comme
consolation du retard d’Albertine, elle me dit : « Je crois que
vous pouvez l’attendre à perpète. Elle ne viendra plus. Ah !
nos gigolettes d’aujourd’hui ! »
Ainsi son parler différait de celui de sa mère ; mais, ce qui est
plus curieux, le parler de sa mère n’était pas le même que
celui de sa grand’mère, native de Bailleau-le-Pin, qui était si
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près du pays de Françoise. Pourtant les patois différaient
légèrement comme les deux paysages. Le pays de la mère de
Françoise, en pente et descendant à un ravin, était fréquenté
par les saules. Et, très loin de là, au contraire, il y avait en
France une petite région où on parlait presque tout à fait le
même patois qu’à Méséglise. J’en fis la découverte en même
temps que j’en éprouvai l’ennui. En effet, je trouvai une fois
Françoise en grande conversation avec une femme de
chambre de la maison, qui était de ce pays et parlait ce
patois. Elles se comprenaient presque, je ne les comprenais
pas du tout, elles le savaient et ne cessaient pas pour cela,
excusées, croyaient-elles, par la joie d’être payses quoique
nées si loin l’une de l’autre, de continuer à parler devant moi
cette langue étrangère, comme lorsqu’on ne veut pas être
compris. Ces pittoresques études de géographie linguistique
et de camaraderie ancillaire se poursuivirent chaque semaine
dans la cuisine, sans que j’y prisse aucun plaisir.
Comme, chaque fois que la porte cochère s’ouvrait, la
concierge appuyait sur un bouton électrique qui éclairait
l’escalier, et comme il n’y avait pas de locataires qui ne
fussent rentrés, je quittai immédiatement la cuisine et revins
m’asseoir dans l’antichambre, épiant, là où la tenture un peu
trop étroite, qui ne couvrait pas complètement la porte vitrée
de notre appartement, laissait passer la sombre raie verticale
faite par la demi-obscurité de l’escalier. Si tout d’un coup
cette raie devenait d’un blond doré, c’est qu’Albertine
viendrait d’entrer en bas et serait dans deux minutes près de
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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moi ; personne d’autre ne pouvait plus venir à cette heure-là.
Et je restais, ne pouvant détacher mes yeux de la raie qui
s’obstinait à demeurer sombre ; je me penchais tout entier
pour être sûr de bien voir ; mais j’avais beau regarder, le noir
trait vertical, malgré mon désir passionné, ne me donnait pas
l’enivrante allégresse que j’aurais eue si je l’avais vu changé,
par un enchantement soudain et significatif, en un lumineux
barreau d’or. C’était bien de l’inquiétude pour cette Albertine
à laquelle je n’avais pas pensé trois minutes pendant la soirée
Guermantes ! Mais, réveillant les sentiments d’attente jadis
éprouvés à propos d’autres jeunes filles, surtout de Gilberte,
quand elle tardait à venir, la privation possible d’un simple
plaisir physique me causait une cruelle souffrance morale.
Il me fallut rentrer dans ma chambre. Françoise m’y suivit.
Elle trouvait, comme j’étais revenu de ma soirée, qu’il était
inutile que je gardasse la rose que j’avais à la boutonnière et
vint pour me l’enlever. Son geste, en me rappelant
qu’Albertine pouvait ne plus venir, et en m’obligeant aussi à
confesser que je désirais être élégant pour elle, me causa une
irritation qui fut redoublée du fait qu’en me dégageant
violemment, je froissai la fleur et que Françoise me dit : « Il
aurait mieux valu me la laisser ôter plutôt que non pas la
gâter ainsi. » D’ailleurs, ses moindres paroles m’exaspéraient.
Dans l’attente, on souffre tant de l’absence de ce qu’on
désire qu’on ne peut supporter une autre présence.
Françoise sortie de la chambre, je pensai que, si c’était pour
en arriver maintenant à avoir de la coquetterie à l’égard
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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d’Albertine, il était bien fâcheux que je me fusse montré tant
de fois à elle si mal rasé, avec une barbe de plusieurs jours,
les soirs où je la laissais venir pour recommencer nos
caresses. Je sentais qu’insoucieuse de moi, elle me laissait
seul. Pour embellir un peu ma chambre, si Albertine venait
encore, et parce que c’était une des plus jolies choses que
j’avais, je remis, pour la première fois depuis des années, sur
la table qui était auprès de mon lit, ce portefeuille orné de
turquoises que Gilberte m’avait fait faire pour envelopper la
plaquette de Bergotte et que, si longtemps, j’avais voulu
garder avec moi pendant que je dormais, à côté de la bille
d’agate. D’ailleurs, autant peut-être qu’Albertine, toujours
pas venue, sa présence en ce moment dans un « ailleurs »
qu’elle avait évidemment trouvé plus agréable, et que je ne
connaissais pas, me causait un sentiment douloureux qui,
malgré ce que j’avais dit, il y avait à peine une heure, à
Swann, sur mon incapacité d’être jaloux, aurait pu, si j’avais
vu mon amie à des intervalles moins éloignés, se changer en
un besoin anxieux de savoir où, avec qui, elle passait son
temps. Je n’osais pas envoyer chez Albertine, il était trop
tard, mais dans l’espoir que, soupant peut-être avec des
amies, dans un café, elle aurait l’idée de me téléphoner, je
tournai le commutateur et, rétablissant la communication
dans ma chambre, je la coupai entre le bureau de postes et la
loge du concierge à laquelle il était relié d’habitude à cette
heure-là. Avoir un récepteur dans le petit couloir où donnait
la chambre de Françoise eût été plus simple, moins
dérangeant, mais inutile. Les progrès de la civilisation
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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permettent à chacun de manifester des qualités
insoupçonnées ou de nouveaux vices qui les rendent plus
chers ou plus insupportables à leurs amis. C’est ainsi que la
découverte d’Edison avait permis à Françoise d’acquérir un
défaut de plus, qui était de se refuser, quelque utilité, quelque
urgence qu’il y eût, à se servir du téléphone. Elle trouvait le
moyen de s’enfuir quand on voulait le lui apprendre, comme
d’autres au moment d’être vaccinés. Aussi le téléphone étaitil placé dans ma chambre, et, pour qu’il ne gênât pas mes
parents, sa sonnerie était remplacée par un simple bruit de
tourniquet. De peur de ne pas l’entendre, je ne bougeais pas.
Mon immobilité était telle que, pour la première fois depuis
des mois, je remarquai le tic tac de la pendule. Françoise vint
arranger des choses. Elle causait avec moi, mais je détestais
cette conversation, sous la continuité uniformément banale
de laquelle mes sentiments changeaient de minute en minute,
passant de la crainte à l’anxiété ; de l’anxiété à la déception
complète. Différent des paroles vaguement satisfaites que je
me croyais obligé de lui adresser, je sentais mon visage si
malheureux que je prétendis que je souffrais d’un
rhumatisme pour expliquer le désaccord entre mon
indifférence simulée et cette expression douloureuse ; puis je
craignais que les paroles prononcées, d’ailleurs à mi-voix, par
Françoise (non à cause d’Albertine, car elle jugeait passée
depuis longtemps l’heure de sa venue possible) risquassent
de m’empêcher d’entendre l’appel sauveur qui ne viendrait
plus. Enfin Françoise alla se coucher ; je la renvoyai avec une
rude douceur, pour que le bruit qu’elle ferait en s’en allant ne
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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couvrit pas celui du téléphone. Et je recommençai à écouter,
à souffrir ; quand nous attendons, de l’oreille qui recueille les
bruits à l’esprit qui les dépouille et les analyse, et de l’esprit
au cœur à qui il transmet ses résultats, le double trajet est si
rapide que nous ne pouvons même pas percevoir sa durée, et
qu’il semble que nous écoutions directement avec notre
cœur.
J’étais torturé par l’incessante reprise du désir toujours plus
anxieux, et jamais accompli, d’un bruit d’appel ; arrivé au
point culminant d’une ascension tourmentée dans les spirales
de mon angoisse solitaire, du fond du Paris populeux et
nocturne approché soudain de moi, à côté de ma
bibliothèque, j’entendis tout à coup, mécanique et sublime,
comme dans Tristan l’écharpe agitée ou le chalumeau du
pâtre, le bruit de toupie du téléphone. Je m’élançai, c’était
Albertine. « Je ne vous dérange pas en vous téléphonant à
une pareille heure ? – Mais non... », dis-je en comprimant ma
joie, car ce qu’elle disait de l’heure indue était sans doute
pour s’excuser de venir dans un moment, si tard, non parce
qu’elle n’allait pas venir. « Est-ce que vous venez ?
demandai-je d’un ton indifférent. – Mais... non, si vous
n’avez pas absolument besoin de moi. » Une partie de moi à
laquelle l’autre voulait se rejoindre était en Albertine. Il fallait
qu’elle vînt, mais je ne le lui dis pas d’abord ; comme nous
étions en communication, je me dis que je pourrais toujours
l’obliger, à la dernière seconde, soit à venir chez moi, soit à
me laisser courir chez elle. « Oui, je suis près de chez moi,
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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dit-elle, et infiniment loin de chez vous ; je n’avais pas bien
lu votre mot. Je viens de le retrouver et j’ai eu peur que vous
ne m’attendiez. » Je sentais qu’elle mentait, et c’était
maintenant, dans ma fureur, plus encore par besoin de la
déranger que de la voir que je voulais l’obliger à venir. Mais
je tenais d’abord à refuser ce que je tâcherais d’obtenir dans
quelques instants. Mais où était-elle ? À ses paroles se
mêlaient d’autres sons : la trompe d’un cycliste, la voix d’une
femme qui chantait, une fanfare lointaine retentissaient aussi
distinctement que la voix chère, comme pour me montrer
que c’était bien Albertine dans son milieu actuel qui était
près de moi en ce moment, comme une motte de terre avec
laquelle on a emporté toutes les graminées qui l’entourent.
Les mêmes bruits que j’entendais frappaient aussi son oreille
et mettaient une entrave à son attention : détails de vérité,
étrangers au sujet, inutiles en eux-mêmes, d’autant plus
nécessaires à nous révéler l’évidence du miracle ; traits
sobres et charmants, descriptifs de quelque rue parisienne,
traits perçants aussi et cruels d’une soirée inconnue qui, au
sortir de Phèdre, avaient empêché Albertine de venir chez
moi. « Je commence par vous prévenir que ce n’est pas pour
que vous veniez, car, à cette heure-ci, vous me gêneriez
beaucoup..., lui dis-je, je tombe de sommeil. Et puis, enfin,
mille complications. Je tiens à vous dire qu’il n’y avait pas de
malentendu possible dans ma lettre. Vous m’avez répondu
que c’était convenu. Alors, si vous n’aviez pas compris,
qu’est-ce que vous entendiez par là ? – J’ai dit que c’était
convenu, seulement je ne me souvenais plus trop de ce qui
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était convenu. Mais je vois que vous êtes fâché, cela
m’ennuie. Je regrette d’être allée à Phèdre. Si j’avais su que
cela ferait tant d’histoires... ajouta-t-elle, comme tous les
gens qui, en faute pour une chose, font semblant de croire
que c’est une autre qu’on leur reproche. – Phèdre n’est pour
rien dans mon mécontentement, puisque c’est moi qui vous
ai demandé d’y aller. – Alors, vous m’en voulez, c’est
ennuyeux qu’il soit trop tard ce soir, sans cela je serais allée
chez vous, mais je viendrai demain ou après-demain, pour
m’excuser. – Oh ! non, Albertine, je vous en prie, après
m’avoir fait perdre une soirée, laissez-moi au moins la paix
les jours suivants. Je ne serai pas libre avant une quinzaine de
jours ou trois semaines. Écoutez, si cela vous ennuie que
nous restions sur une impression de colère, et, au fond, vous
avez peut-être raison, alors j’aime encore mieux, fatigue pour
fatigue, puisque je vous ai attendue jusqu’à cette heure-ci et
que vous êtes encore dehors, que vous veniez tout de suite,
je vais prendre du café pour me réveiller. – Ce ne serait pas
possible de remettre cela à demain ? parce que la difficulté...
» En entendant ces mots d’excuse, prononcés comme si elle
n’allait pas venir, je sentis qu’au désir de revoir la figure
veloutée qui déjà à Balbec dirigeait toutes mes journées vers
le moment où, devant la mer mauve de septembre, je serais
auprès de cette fleur rose, tentait douloureusement de s’unir
un élément bien différent. Ce terrible besoin d’un être, à
Combray, j’avais appris à le connaître au sujet de ma mère, et
jusqu’à vouloir mourir si elle me faisait dire par Françoise
qu’elle ne pourrait pas monter. Cet effort de l’ancien
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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sentiment, pour se combiner et ne faire qu’un élément
unique avec l’autre, plus récent, et qui, lui, n’avait pour
voluptueux objet que la surface colorée, la rose carnation
d’une fleur de plage, cet effort aboutit souvent à ne faire (au
sens chimique) qu’un corps nouveau, qui peut ne durer que
quelques instants. Ce soir-là, du moins, et pour longtemps
encore, les deux éléments restèrent dissociés. Mais déjà, aux
derniers mots entendus au téléphone, je commençai à
comprendre que la vie d’Albertine était située (non pas
matériellement sans doute) à une telle distance de moi qu’il
m’eût fallu toujours de fatigantes explorations pour mettre la
main sur elle, mais, de plus, organisée comme des
fortifications de campagne et, pour plus de sûreté, de
l’espèce de celles que l’on a pris plus tard l’habitude
d’appeler camouflées. Albertine, au reste, faisait, à un degré
plus élevé de la société, partie de ce genre de personnes à qui
la concierge promet à votre porteur de faire remettre la lettre
quand elle rentrera – jusqu’au jour où vous vous apercevez
que c’est précisément elle, la personne rencontrée dehors et
à laquelle vous vous êtes permis d’écrire, qui est la concierge.
De sorte qu’elle habite bien – mais dans la loge – le logis
qu’elle vous a indiqué (lequel, d’autre part, est une petite
maison de passe dont la concierge est la maquerelle) – et
qu’elle donne comme adresse un immeuble où elle est
connue par des complices qui ne vous livreront pas son
secret, d’où on lui fera parvenir vos lettres, mais où elle
n’habite pas, où elle a tout au plus laissé des affaires.
Existences disposées sur cinq ou six lignes de repli, de sorte
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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que, quand on veut voir cette femme, ou savoir, on est venu
frapper trop à droite, ou trop à gauche, ou trop en avant, ou
trop en arrière, et qu’on peut pendant des mois, des années,
tout ignorer. Pour Albertine, je sentais que je n’apprendrais
jamais rien, qu’entre la multiplicité entremêlée des détails
réels et des faits mensongers je n’arriverais jamais à me
débrouiller. Et que ce serait toujours ainsi, à moins que de la
mettre en prison (mais on s’évade) jusqu’à la fin. Ce soir-là,
cette conviction ne fit passer à travers moi qu’une
inquiétude, mais où je sentais frémir comme une anticipation
de longues souffrances.
– Mais non, répondis-je, je vous ai déjà dit que je ne serais
pas libre avant trois semaines, pas plus demain qu’un autre
jour. – Bien, alors... je vais prendre le pas de course... c’est
ennuyeux, parce que je suis chez une amie qui... (Je sentais
qu’elle n’avait pas cru que j’accepterais sa proposition de
venir, laquelle n’était donc pas sincère, et je voulais la mettre
au pied du mur.) – Qu’est-ce que ça peut me faire, votre
amie ? venez ou ne venez pas, c’est votre affaire, ce n’est pas
moi qui vous demande de venir, c’est vous qui me l’avez
proposé. – Ne vous fâchez pas, je saute dans un fiacre et je
serai chez vous dans dix minutes.
Ainsi, de ce Paris des profondeurs nocturnes duquel avait
déjà émané jusque dans ma chambre, mesurant le rayon
d’action d’un être lointain, une voix qui allait surgir et
apparaître, après cette première annonciation, c’était cette
Albertine que j’avais connue jadis sous le ciel de Balbec,
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quand les garçons du Grand-Hôtel, en mettant le couvert,
étaient aveuglés par la lumière du couchant, que, les vitres
étant entièrement tirées, les souffles imperceptibles du soir
passaient librement de la plage, où s’attardaient les derniers
promeneurs, à l’immense salle à manger où les premiers
dîneurs n’étaient pas assis encore, et que dans la glace placée
derrière le comptoir passait le reflet rouge de la coque et
s’attardait longtemps le reflet gris de la fumée du dernier
bateau pour Rivebelle. Je ne me demandais plus ce qui avait
pu mettre Albertine en retard, et quand Françoise entra dans
ma chambre me dire : « Mademoiselle Albertine est là », si je
répondis sans même bouger la tête, ce fut seulement par
dissimulation : « Comment mademoiselle Albertine vient-elle
aussi tard ! » Mais levant alors les yeux sur Françoise comme
dans une curiosité d’avoir sa réponse qui devait corroborer
l’apparente sincérité de ma question, je m’aperçus, avec
admiration et fureur, que, capable de rivaliser avec la Berma
elle-même dans l’art de faire parler les vêtements inanimés et
les traits du visage, Françoise avait su faire la leçon à son
corsage, à ses cheveux dont les plus blancs avaient été
ramenés à la surface, exhibés comme un extrait de naissance,
à son cou courbé par la fatigue et l’obéissance. Ils la
plaignaient d’avoir été tirée du sommeil et de la moiteur du
lit, au milieu de la nuit, à son âge, obligée de se vêtir quatre à
quatre, au risque de prendre une fluxion de poitrine. Aussi,
craignant d’avoir eu l’air de m’excuser de la venue tardive
d’Albertine : « En tout cas, je suis bien content qu’elle soit
venue, tout est pour le mieux », et je laissai éclater ma joie
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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profonde. Elle ne demeura pas longtemps sans mélange,
quand j’eus entendu la réponse de Françoise. Celle-ci, sans
proférer aucune plainte, ayant même l’air d’étouffer de son
mieux une toux irrésistible, et croisant seulement sur elle son
châle comme si elle avait froid, commença par me raconter
tout ce qu’elle avait dit à Albertine, n’ayant pas manqué de
lui demander des nouvelles de sa tante. « Justement j’y disais,
monsieur devait avoir crainte que mademoiselle ne vienne
plus, parce que ce n’est pas une heure pour venir, c’est
bientôt le matin. Mais elle devait être dans des endroits
qu’elle s’amusait bien car elle ne m’a pas seulement dit
qu’elle était contrariée d’avoir fait attendre monsieur, elle m’a
répondu d’un air de se fiche du monde : « Mieux vaut tard
que jamais ! » Et Françoise ajouta ces mots qui me percèrent
le cœur : « En parlant comme ça elle s’est vendue. Elle aurait
peut-être bien voulu se cacher mais... » Je n’avais pas de quoi
être bien étonné. Je viens de dire que Françoise rendait
rarement compte, dans les commissions qu’on lui donnait,
sinon de ce qu’elle avait dit et sur quoi elle s’étendait
volontiers, du moins de la réponse attendue. Mais, si par
exception elle nous répétait les paroles que nos amis avaient
dites, si courtes qu’elles fussent, elle s’arrangerait
généralement, au besoin grâce à l’expression, au ton dont elle
assurait qu’elles avaient été accompagnées, à leur donner
quelque chose de blessant. À la rigueur, elle acceptait d’avoir
subi d’un fournisseur chez qui nous l’avions envoyée une
avanie, d’ailleurs probablement imaginaire, pourvu que,
s’adressant à elle qui nous représentait, qui avait parlé en
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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notre nom, cette avanie nous atteignît par ricochet. Il n’eût
resté qu’à lui répondre qu’elle avait mal compris, qu’elle était
atteinte de délire de persécution et que tous les commerçants
n’étaient pas ligués contre elle. D’ailleurs leurs sentiments
m’importaient peu. Il n’en était pas de même de ceux
d’Albertine. Et en me redisant ces mots ironiques : « Mieux
vaut tard que jamais ! » Françoise m’évoqua aussitôt les amis
dans la société desquels Albertine avait fini sa soirée, s’y
plaisant donc plus que dans la mienne. « Elle est comique,
elle a un petit chapeau plat, avec ses gros yeux, ça lui donne
un drôle d’air, surtout avec son manteau qu’elle aurait bien
fait d’envoyer chez l’estoppeuse car il est tout mangé. Elle
m’amuse », ajouta, comme se moquant d’Albertine,
Françoise, qui partageait rarement mes impressions mais
éprouvait le besoin de faire connaître les siennes. Je ne
voulais même pas avoir l’air de comprendre que ce rire
signifiait le dédain de la moquerie, mais, pour rendre coup
pour coup, je répondis à Françoise, bien que je ne connusse
pas le petit chapeau dont elle parlait : « Ce que vous appelez
« petit chapeau plat » est quelque chose de simplement
ravissant... – C’est-à-dire que c’est trois fois rien », dit
Françoise en exprimant, franchement cette fois, son
véritable mépris. Alors (d’un ton doux et ralenti pour que ma
réponse mensongère eût l’air d’être l’expression non de ma
colère mais de la vérité, en ne perdant pas de temps
cependant, pour ne pas faire attendre Albertine), j’adressai à
Françoise ces paroles cruelles : « Vous êtes excellente, lui disje mielleusement, vous êtes gentille, vous avez mille qualités,
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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mais vous en êtes au même point que le jour où vous êtes
arrivée à Paris, aussi bien pour vous connaître en choses de
toilette que pour bien prononcer les mots et ne pas faire de
cuirs. » Et ce reproche était particulièrement stupide, car ces
mots français que nous sommes si fiers de prononcer
exactement ne sont eux-mêmes que des « cuirs » faits par des
bouches gauloises qui prononçaient de travers le latin ou le
saxon, notre langue n’étant que la prononciation défectueuse
de quelques autres.
Le génie linguistique à l’état vivant, l’avenir et le passé du
français, voilà ce qui eût dû m’intéresser dans les fautes de
Françoise. L’« estoppeuse » pour la « stoppeuse » n’était-il
pas aussi curieux que ces animaux survivants des époques
lointaines, comme la baleine ou la girafe, et qui nous
montrent les états que la vie animale a traversés ? « Et,
ajoutai-je, du moment que depuis tant d’années vous n’avez
pas su apprendre, vous n’apprendrez jamais. Vous pouvez
vous en consoler, cela ne vous empêche pas d’être une très
brave personne, de faire à merveille le bœuf à la gelée, et
encore mille autres choses. Le chapeau que vous croyez
simple est copié sur un chapeau de la princesse de
Guermantes, qui a coûté cinq cents francs. Du reste, je
compte en offrir prochainement un encore plus beau à Mlle
Albertine. » Je savais que ce qui pouvait le plus ennuyer
Françoise c’est que je dépensasse de l’argent pour des gens
qu’elle n’aimait pas. Elle me répondit par quelques mots que
rendit peu intelligibles un brusque essoufflement. Quand
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j’appris plus tard qu’elle avait une maladie de cœur, quel
remords j’eus de ne m’être jamais refusé le plaisir féroce et
stérile de riposter ainsi à ses paroles ! Françoise détestait, du
reste, Albertine parce que, pauvre, Albertine ne pouvait
accroître ce que Françoise considérait comme mes
supériorités. Elle souriait avec bienveillance chaque fois que
j’étais invité par Mme de Villeparisis. En revanche elle était
indignée qu’Albertine ne pratiquât pas la réciprocité. J’en
étais arrivé à être obligé d’inventer de prétendus cadeaux
faits par celle-ci et à l’existence desquels Françoise n’ajouta
jamais l’ombre de foi. Ce manque de réciprocité la choquait
surtout en matière alimentaire. Qu’Albertine acceptât des
dîners de maman, si nous n’étions pas invités chez Mme
Bontemps (laquelle pourtant n’était pas à Paris la moitié du
temps, son mari acceptant des « postes » comme autrefois
quand il avait assez du ministère), cela lui paraissait, de la
part de mon amie, une indélicatesse qu’elle flétrissait
indirectement en récitant ce dicton courant à Combray :
« Mangeons mon pain,
– Je le veux bien.
– Mangeons le tien.
– Je n’ai plus faim. »
Je fis semblant d’être contraint d’écrire. « À qui écriviez-vous
? me dit Albertine en entrant. – À une jolie amie à moi, à
Gilberte Swann. Vous ne la connaissez pas ? – Non. » Je
renonçai à poser à Albertine des questions sur sa soirée, je
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sentais que je lui ferais des reproches et que nous n’aurions
plus le temps, vu l’heure qu’il était, de nous réconcilier
suffisamment pour passer aux baisers et aux caresses. Aussi
ce fut par eux que je voulais dès la première minute
commencer. D’ailleurs, si j’étais un peu calmé, je ne me
sentais pas heureux. La perte de toute boussole, de toute
direction, qui caractérise l’attente persiste encore après
l’arrivée de l’être attendu, et, substituée en nous au calme à la
faveur duquel nous nous peignions sa venue comme un tel
plaisir, nous empêche d’en goûter aucun. Albertine était là :
mes nerfs démontés, continuant leur agitation, l’attendaient
encore. « Je veux prendre un bon baiser, Albertine. – Tant
que vous voudrez », me dit-elle avec toute sa bonté. Je ne
l’avais jamais vue aussi jolie. « Encore un ? – Mais vous savez
que ça me fait un grand, grand plaisir. – Et à moi encore
mille fois plus, me répondit-elle. Oh ! le joli portefeuille que
vous avez là ! – Prenez-le, je vous le donne en souvenir. –
Vous êtes trop gentil... » On serait à jamais guéri du
romanesque si l’on voulait, pour penser à celle qu’on aime,
tâcher d’être celui qu’on sera quand on ne l’aimera plus. Le
portefeuille, la bille d’agate de Gilberte, tout cela n’avait reçu
jadis son importance que d’un état purement inférieur,
puisque maintenant c’était pour moi un portefeuille, une bille
quelconques.
Je demandai à Albertine si elle voulait boire. « Il me semble
que je vois là des oranges et de l’eau, me dit-elle. Ce sera
parfait. » Je pus goûter ainsi, avec ses baisers, cette fraîcheur
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qui me paraissait supérieure à eux chez la princesse de
Guermantes. Et l’orange pressée dans l’eau semblait me
livrer, au fur et à mesure que je buvais, la vie secrète de son
mûrissement, son action heureuse contre certains états de ce
corps humain qui appartient à un règne si différent, son
impuissance à le faire vivre, mais en revanche les jeux
d’arrosage par où elle pouvait lui être favorable, cent
mystères dévoilés par le fruit à ma sensation, nullement à
mon intelligence.
Albertine partie, je me rappelai que j’avais promis à Swann
d’écrire à Gilberte et je trouvai plus gentil de le faire tout de
suite. Ce fut sans émotion, et comme mettant la dernière
ligne à un ennuyeux devoir de classe, que je traçai sur
l’enveloppe le nom de Gilberte Swann dont je couvrais jadis
mes cahiers pour me donner l’illusion de correspondre avec
elle. C’est que, si, autrefois, ce nom-là, c’était moi qui
l’écrivais, maintenant la tâche en avait été dévolue par
l’habitude à l’un de ces nombreux secrétaires qu’elle
s’adjoint. Celui-là pouvait écrire le nom de Gilberte avec
d’autant plus de calme que, placé récemment chez moi par
l’habitude, récemment entré à mon service, il n’avait pas
connu Gilberte et savait seulement, sans mettre aucune
réalité sous ces mots, parce qu’il m’avait entendu parler
d’elle, que c’était une jeune fille de laquelle j’avais été
amoureux.
Je ne pouvais l’accuser de sécheresse. L’être que j’étais
maintenant vis-à-vis d’elle était le « témoin » le mieux choisi
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pour comprendre ce qu’elle-même avait été. Le portefeuille,
la bille d’agate, étaient simplement redevenus pour moi à
l’égard d’Albertine ce qu’ils avaient été pour Gilberte, ce
qu’ils eussent été pour tout être qui n’eût pas fait jouer sur
eux le reflet d’une flamme intérieure. Mais maintenant un
nouveau trouble était en moi qui altérait à son tour la
puissance véritable des choses et des mots. Et comme
Albertine me disait, pour me remercier encore : « J’aime tant
les turquoises ! » je lui répondis : « Ne laissez pas mourir
celles-là », leur confiant ainsi comme à des pierres l’avenir de
notre amitié qui pourtant n’était pas plus capable d’inspirer
un sentiment à Albertine qu’il ne l’avait été de conserver
celui qui m’unissait autrefois à Gilberte.
Il se produisit à cette époque un phénomène qui ne mérite
d’être mentionné que parce qu’il se retrouve à toutes les
périodes importantes de l’histoire. Au moment même où
j’écrivais à Gilberte, M. de Guermantes, à peine rentré de la
redoute, encore coiffé de son casque, songeait que le
lendemain il serait bien forcé d’être officiellement en deuil, et
décida d’avancer de huit jours la cure d’eaux qu’il devait
faire. Quand il en revint trois semaines après (et pour
anticiper, puisque je viens seulement de finir ma lettre à
Gilberte), les amis du duc qui l’avaient vu, si indifférent au
début, devenir un antidreyfusard forcené, restèrent muets de
surprise en l’entendant (comme si la cure n’avait pas agi
seulement sur la vessie) leur répondre : « Hé bien, le procès
sera révisé et il sera acquitté ; on ne peut pas condamner un
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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homme contre lequel il n’y a rien. Avez-vous jamais vu un
gaga comme Froberville ? Un officier préparant les Français
à la boucherie, pour dire la guerre ! Étrange époque ! » Or,
dans l’intervalle, le duc de Guermantes avait connu aux eaux
trois charmantes dames (une princesse italienne et ses deux
belles-sœurs). En les entendant dire quelques mots sur les
livres qu’elles lisaient, sur une pièce qu’on jouait au Casino,
le duc avait tout de suite compris qu’il avait affaire à des
femmes d’une intellectualité supérieure et avec lesquelles,
comme il le disait, il n’était pas de force. Il n’en avait été que
plus heureux d’être invité à jouer au bridge par la princesse.
Mais à peine arrivé chez elle, comme il lui disait, dans la
ferveur de son antidreyfusisme sans nuances : « Hé bien, on
ne nous parle plus de la révision du fameux Dreyfus », sa
stupéfaction avait été grande d’entendre la princesse et ses
belles-sœurs dire : « On n’en a jamais été si près. On ne peut
pas retenir au bagne quelqu’un qui n’a rien fait. – Ah ? Ah ?
», avait d’abord balbutié le duc, comme à la découverte d’un
sobriquet bizarre qui eût été en usage dans cette maison pour
tourner en ridicule quelqu’un qu’il avait cru jusque-là
intelligent. Mais au bout de quelques jours, comme, par
lâcheté et esprit d’imitation, on crie : « Eh ! là, Jojotte », sans
savoir pourquoi, à un grand artiste qu’on entend appeler
ainsi, dans cette maison, le duc, encore tout gêné par la
coutume nouvelle, disait cependant : « En effet, s’il n’y a rien
contre lui ! » Les trois charmantes dames trouvaient qu’il
n’allait pas assez vite et le rudoyaient un peu : « Mais, au
fond, personne d’intelligent n’a pu croire qu’il y eût rien. »
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Chaque fois qu’un fait « écrasant » contre Dreyfus se
produisait et que le duc, croyant que cela allait convertir les
trois dames charmantes, venait le leur annoncer, elles riaient
beaucoup et n’avaient pas de peine, avec une grande finesse
de dialectique, à lui montrer que l’argument était sans valeur
et tout à fait ridicule. Le duc était rentré à Paris dreyfusard
enragé. Et certes nous ne prétendons pas que les trois dames
charmantes ne fussent pas, dans ce cas-là, messagères de
vérité. Mais il est à remarquer que tous les dix ans, quand on
a laissé un homme rempli d’une conviction véritable, il arrive
qu’un couple intelligent, ou une seule dame charmante,
entrent dans sa société et qu’au bout de quelques mois on
l’amène à des opinions contraires. Et sur ce point il y a
beaucoup de pays qui se comportent comme l’homme
sincère, beaucoup de pays qu’on a laissés remplis de haine
pour un peuple et qui, six mois après, ont changé de
sentiment et renversé leurs alliances.
Je ne vis plus de quelque temps Albertine, mais continuai, à
défaut de Mme de Guermantes qui ne parlait plus à mon
imagination, à voir d’autres fées et leurs demeures, aussi
inséparables d’elles que du mollusque qui la fabriqua et s’en
abrite la valve de nacre ou d’émail, ou la tourelle à créneaux
de son coquillage. Je n’aurais pas su classer ces dames, la
difficulté du problème étant aussi insignifiante et impossible
non seulement à résoudre mais à poser. Avant la dame il
fallait aborder le féerique hôtel. Or l’une recevait toujours
après déjeuner, les mois d’été ; même avant d’arriver chez
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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elle, il avait fallu faire baisser la capote du fiacre, tant tapait
dur le soleil, dont le souvenir, sans que je m’en rendisse
compte, allait entrer dans l’impression totale. Je croyais
seulement aller au Cours-la-Reine ; en réalité, avant d’être
arrivé dans la réunion dont un homme pratique se fût peutêtre moqué, j’avais, comme dans un voyage à travers l’Italie,
un éblouissement, des délices, dont l’hôtel ne serait plus
séparé dans ma mémoire. De plus, à cause de la chaleur de la
maison et de l’heure, la dame avait clos hermétiquement les
volets dans les vastes salons rectangulaires du rez-dechaussée où elle recevait. Je reconnaissais mal d’abord la
maîtresse de maison et ses visiteurs, même la duchesse de
Guermantes, qui de sa voix rauque me demandait de venir
m’asseoir auprès d’elle, dans un fauteuil de Beauvais
représentant l’Enlèvement d’Europe. Puis je distinguais sur
les murs les vastes tapisseries du XVIIIe siècle représentant
des vaisseaux aux mâts fleuris de roses trémières, au-dessous
desquels je me trouvais comme dans le palais non de la Seine
mais de Neptune, au bord du fleuve Océan, où la duchesse
de Guermantes devenait comme une divinité des eaux. Je
n’en finirais pas si j’énumérais tous les salons différents de
celui-là. Cet exemple suffit à montrer que je faisais entrer
dans mes jugements mondains des impressions poétiques
que je ne faisais jamais entrer en ligne de compte au moment
de faire le total, si bien que, quand je calculais les mérites
d’un salon, mon addition n’était jamais juste.
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Certes ces causes d’erreur étaient loin d’être les seules, mais
je n’ai plus le temps, avant mon départ pour Balbec (où,
pour mon malheur, je vais faire un second séjour qui sera
aussi le dernier), de commencer des peintures du monde qui
trouveront leur place bien plus tard. Disons seulement qu’à
cette première fausse raison (ma vie relativement frivole et
qui faisait supposer l’amour du monde) de ma lettre à
Gilberte et du retour aux Swann qu’elle semblait indiquer,
Odette aurait pu en ajouter tout aussi inexactement une
seconde. Je n’ai imaginé jusqu’ici les aspects différents que le
monde prend pour une même personne qu’en supposant
que la même dame qui ne connaissait personne va chez tout
le monde, et que telle autre qui avait une position dominante
est délaissée, on est tenté d’y voir uniquement de ces hauts et
bas, purement personnels, qui de temps à autre amènent
dans une même société, à la suite de spéculations de bourse,
une ruine retentissante ou un enrichissement inespéré. Or ce
n’est pas seulement cela. Dans une certaine mesure, les
manifestations mondaines – fort inférieures aux
mouvements artistiques, aux crises politiques, à l’évolution
qui porte le goût public vers le théâtre d’idées, puis vers la
peinture impressionniste, puis vers la musique allemande et
complexe, puis vers la musique russe et simple, ou vers les
idées sociales, les idées de justice, la réaction religieuse, le
sursaut patriotique – en sont cependant le reflet lointain,
brisé, incertain, trouble, changeant. De sorte que même les
salons ne peuvent être dépeints dans une immobilité statique
qui a pu convenir jusqu’ici à l’étude des caractères, lesquels
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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devront, eux aussi, être comme entraînés dans un
mouvement quasi historique. Le goût de nouveauté qui porte
les hommes du monde plus ou moins sincèrement avides de
se renseigner sur l’évolution intellectuelle à fréquenter les
milieux où ils peuvent suivre celle-ci, leur fait préférer
d’habitude quelque maîtresse de maison jusque-là inédite, qui
représente encore toutes fraîches les espérances de mentalité
supérieure si fanées et défraîchies chez les femmes qui ont
exercé depuis longtemps le pouvoir mondain, et lesquelles,
comme ils en connaissent le fort et le faible, ne parlent plus à
leur imagination. Et chaque époque se trouve ainsi
personnifiée dans des femmes nouvelles, dans un nouveau
groupe de femmes, qui, rattachées étroitement à ce qui pique
à ce moment-là les curiosités les plus neuves, semblent, dans
leur toilette, apparaître seulement, à ce moment-là, comme
une espèce inconnue née du dernier déluge, beautés
irrésistibles de chaque nouveau Consulat, de chaque nouveau
Directoire. Mais très souvent la maîtresse de maison
nouvelle est tout simplement comme certains hommes
d’État dont c’est le premier ministère, mais qui, depuis
quarante ans, frappaient à toutes les portes sans se les voir
ouvrir, des femmes qui n’étaient pas connues de la société
mais n’en recevaient pas moins, depuis fort longtemps, et
faute de mieux, quelques « rares intimes ». Certes, ce n’est
pas toujours le cas, et quand, avec l’efflorescence prodigieuse
des ballets russes, révélatrice coup sur coup de Bakst, de
Nijinski, de Benoist, du génie de Stravinski, la princesse
Yourbeletieff, jeune marraine de tous ces grands hommes
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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nouveaux, apparut portant sur la tête une immense aigrette
tremblante inconnue des Parisiennes et qu’elles cherchèrent
toutes à imiter, on put croire que cette merveilleuse créature
avait été apportée dans leurs innombrables bagages, et
comme leur plus précieux trésor, par les danseurs russes ;
mais quand à côté d’elle, dans son avant-scène, nous verrons,
à toutes les représentations des « Russes », siéger comme une
véritable fée, ignorée jusqu’à ce jour de l’aristocratie, Mme
Verdurin, nous pourrons répondre aux gens du monde qui
crurent aisément Mme Verdurin fraîchement débarquée avec
la troupe de Diaghilew, que cette dame avait déjà existé dans
des temps différents, et passé par divers avatars dont celui-là
ne différait qu’en ce qu’il était le premier qui amenait enfin,
désormais assuré, et en marche d’un pas de plus en plus
rapide, le succès si longtemps et si vainement attendu par la
Patronne. Pour Mme Swann, il est vrai, la nouveauté qu’elle
représentait n’avait pas le même caractère collectif. Son salon
s’était cristallisé autour d’un homme, d’un mourant, qui avait
presque tout d’un coup passé, aux moments où son talent
s’épuisait, de l’obscurité à la grande gloire. L’engouement
pour les œuvres de Bergotte était immense. Il passait toute la
journée, exhibé, chez Mme Swann, qui chuchotait à un
homme influent : « Je lui parlerai, il vous fera un article. » Il
était, du reste, en état de le faire, et même un petit acte pour
Mme Swann. Plus près de la mort, il allait un peu moins mal
qu’au temps où il venait prendre des nouvelles de ma
grand’mère. C’est que de grandes douleurs physiques lui
avaient imposé un régime. La maladie est le plus écouté des
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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médecins : à la bonté, au savoir on ne fait que promettre ; on
obéit à la souffrance. Certes, le petit clan des Verdurin avait
actuellement un intérêt autrement vivant que le salon
légèrement nationaliste, plus encore littéraire, et avant tout
bergottique, de Mme Swann. Le petit clan était en effet le
centre actif d’une longue crise politique arrivée à son
maximum d’intensité : le dreyfusisme. Mais les gens du
monde étaient pour la plupart tellement antirévisionnistes,
qu’un salon dreyfusien semblait quelque chose d’aussi
impossible qu’à une autre époque un salon communard. La
princesse de Caprarola, qui avait fait la connaissance de Mme
Verdurin à propos d’une grande exposition qu’elle avait
organisée, avait bien été rendre à celle-ci une longue visite,
dans l’espoir de débaucher quelques éléments intéressants du
petit clan et de les agréger à son propre salon, visite au cours
de laquelle la princesse (jouant au petit pied la duchesse de
Guermantes) avait pris la contre-partie des opinions reçues,
déclaré les gens de son monde idiots, ce que Mme Verdurin
avait trouvé d’un grand courage. Mais ce courage ne devait
pas aller plus tard jusqu’à oser, sous le feu des regards de
dames nationalistes, saluer Mme Verdurin aux courses de
Balbec. Pour Mme Swann, les antidreyfusards lui savaient, au
contraire, gré d’être « bien pensante », ce à quoi, mariée à un
juif, elle avait un mérite double. Néanmoins les personnes
qui n’étaient jamais allées chez elle s’imaginaient qu’elle
recevait seulement quelques Israélites obscurs et des élèves
de Bergotte. On classe ainsi des femmes, autrement
qualifiées que Mme Swann, au dernier rang de l’échelle
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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sociale, soit à cause de leurs origines, soit parce qu’elles
n’aiment pas les dîners en ville et les soirées où on ne les voit
jamais, ce qu’on suppose faussement dû à ce qu’elles
n’auraient pas été invitées, soit parce qu’elles ne parlent
jamais de leurs amitiés mondaines mais seulement de
littérature et d’art, soit parce que les gens se cachent d’aller
chez elles, ou que, pour ne pas faire d’impolitesse aux autres,
elles se cachent de les recevoir, enfin pour mille raisons qui
achèvent de faire de telle ou telle d’entre elles aux yeux de
certains, la femme qu’on ne reçoit pas. Il en était ainsi pour
Odette. Mme d’Épinoy, à l’occasion d’un versement qu’elle
désirait pour la « Patrie française », ayant eu à aller la voir,
comme elle serait entrée chez sa mercière, convaincue
d’ailleurs qu’elle ne trouverait que des visages, non pas
même méprisés mais inconnus, resta clouée sur la place
quand la porte s’ouvrit, non sur le salon qu’elle supposait,
mais sur une salle magique où, comme grâce à un
changement à vue dans une féerie, elle reconnut dans des
figurantes éblouissantes, à demi étendues sur des divans,
assises sur des fauteuils, appelant la maîtresse de maison par
son petit nom, les altesses, les duchesses qu’elle-même, la
princesse d’Épinoy, avait grand’peine à attirer chez elle, et
auxquelles en ce moment, sous les yeux bienveillants
d’Odette, le marquis du Lau, le comte Louis de Turenne, le
prince Borghèse, le duc d’Estrées, portant l’orangeade et les
petits fours, servaient de panetiers et d’échansons. La
princesse d’Épinoy, comme elle mettait, sans s’en rendre
compte, la qualité mondaine à l’intérieur des êtres, fut
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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obligée de désincarner Mme Swann et de la réincarner en
une femme élégante. L’ignorance de la vie réelle que mènent
les femmes qui ne l’exposent pas dans les journaux tend ainsi
sur certaines situations (et contribue par là à diversifier les
salons) un voile de mystère. Pour Odette, au
commencement, quelques hommes de la plus haute société,
curieux de connaître Bergotte, avaient été dîner chez elle
dans l’intimité. Elle avait eu le tact, récemment acquis, de
n’en pas faire étalage, ils trouvaient là, souvenir peut-être du
petit noyau dont Odette avait gardé, depuis le schisme, les
traditions, le couvert mis, etc. Odette les emmenait avec
Bergotte, que cela achevait d’ailleurs de tuer, aux « première
» intéressantes. Ils parlèrent d’elle à quelques femmes de leur
monde capables de s’intéresser à tant de nouveauté. Elles
étaient persuadées qu’Odette, intime de Bergotte, avait plus
ou moins collaboré à ses œuvres, et la croyaient mille fois
plus intelligente que les femmes les plus remarquables du
faubourg, pour la même raison qu’elles mettaient tout leur
espoir politique en certains républicains bon teint comme M.
Doumer et M. Deschanel, tandis qu’elles voyaient la France
aux abîmes si elle était confiée au personnel monarchiste
qu’elles recevaient à dîner, aux Charette, aux Doudeauville,
etc. Ce changement de la situation d’Odette s’accomplissait
de sa part avec une discrétion qui la rendait plus sûre et plus
rapide, mais ne la laissait nullement soupçonner du public
enclin à s’en remettre aux chroniques du Gaulois, des
progrès ou de la décadence d’un salon, de sorte qu’un jour, à
une répétition générale d’une pièce de Bergotte donnée dans
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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une salle des plus élégantes au bénéfice d’une œuvre de
charité, ce fut un vrai coup de théâtre quand on vit dans la
loge de face, qui était celle de l’auteur, venir s’asseoir à côté
de Mme Swann, Mme de Marsantes et celle qui, par
l’effacement progressif de la duchesse de Guermantes
(rassasiée d’honneur, et s’annihilant par moindre effort), était
en train de devenir la lionne, la reine du temps, la comtesse
Molé. « Quand nous ne nous doutions pas même qu’elle
avait commencé à monter, se dit-on d’Odette, au moment
où on vit entrer la comtesse Molé dans la loge, elle a franchi
le dernier échelon. »
De sorte que Mme Swann pouvait croire que c’était par
snobisme que je me rapprochais de sa fille.
Odette, malgré ses brillantes amies, n’écouta pas moins la
pièce avec une extrême attention, comme si elle eût été là
seulement pour l’entendre, de même que jadis elle traversait
le Bois par hygiène et pour faire de l’exercice. Des hommes
qui étaient jadis moins empressés autour d’elle vinrent au
balcon, dérangeant tout le monde, se suspendre à sa main
pour approcher le cercle imposant dont elle était environnée.
Elle, avec un sourire plutôt encore d’amabilité que d’ironie,
répondait patiemment à leurs questions, affectant plus de
calme qu’on n’aurait cru, et qui était peut-être sincère, cette
exhibition n’étant que l’exhibition tardive d’une intimité
habituelle et discrètement cachée. Derrière ces trois dames
attirant tous les yeux était Bergotte entouré par le prince
d’Agrigente, le comte Louis Turenne, et le marquis de
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Bréauté. Et il est aisé de comprendre que, pour des hommes
qui étaient reçus partout et qui ne pouvaient plus attendre
une surélévation que de recherches d’originalité, cette
démonstration de leur valeur, qu’ils croyaient faire en se
laissant attirer par une maîtresse de maison réputée de haute
intellectualité et auprès de qui ils s’attendaient à rencontrer
tous les auteurs dramatiques et tous les romanciers en vogue,
était plus excitante et vivante que ces soirées chez la
princesse de Guermantes, lesquelles, sans aucun programme
et attrait nouveau, se succédaient depuis tant d’années, plus
ou moins pareilles à celle que nous avons si longuement
décrite. Dans ce grand monde-là, celui des Guermantes, d’où
la curiosité se détournait un peu, les modes intellectuelles
nouvelles ne s’incarnaient pas en divertissements à leur
image, comme en ces bluettes de Bergotte écrites pour Mme
Swann, comme en ces véritables séances de salut public (si le
monde avait pu s’intéresser à l’affaire Dreyfus) où chez Mme
Verdurin se réunissaient Picquart, Clemenceau, Zola,
Reinach et Labori.
Gilberte servait aussi à la situation de sa mère, car un oncle
de Swann venait de laisser près de quatre-vingts millions à la
jeune fille, ce qui faisait que le faubourg Saint-Germain
commençait à penser à elle. Le revers de la médaille était que
Swann, d’ailleurs mourant, avait des opinions dreyfusistes,
mais cela même ne nuisait pas à sa femme et même lui
rendait service. Cela ne lui nuisait pas parce qu’on disait : « Il
est gâteux, idiot, on ne s’occupe pas de lui, il n’y a que sa
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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femme qui compte et elle est charmante. » Mais même le
dreyfusisme de Swann était utile à Odette. Livrée à ellemême, elle se fût peut-être laissé aller à faire aux femmes
chics des avances qui l’eussent perdue. Tandis que les soirs
où elle traînait son mari dîner dans le faubourg SaintGermain, Swann, restant farouchement dans son coin, ne se
gênait pas, s’il voyait Odette se faire présenter à quelque
dame nationaliste, de dire à haute voix : « Mais voyons,
Odette, vous êtes folle. Je vous prie de rester tranquille. Ce
serait une platitude de votre part de vous faire présenter à
des antisémites. Je vous le défends. » Les gens du monde
après qui chacun court ne sont habitués ni à tant de fierté ni
à tant de mauvaise éducation. Pour la première fois ils
voyaient quelqu’un qui se croyait « plus » qu’eux. On se
racontait ces grognements de Swann, et les cartes cornées
pleuvaient chez Odette. Quand celle-ci était en visite chez
Mme d’Arpajon, c’était un vif et sympathique mouvement de
curiosité. « Ça ne vous a pas ennuyée que je vous l’aie
présentée, disait Mme d’Arpajon. Elle est très gentille. C’est
Marie de Marsantes qui me l’a fait connaître. – Mais non, au
contraire, il paraît qu’elle est tout ce qu’il y a de plus
intelligente, elle est charmante. Je désirais au contraire la
rencontrer ; dites-moi donc où elle demeure. » Mme
d’Arpajon disait à Mme Swann qu’elle s’était beaucoup
amusée chez elle l’avant-veille et avait lâché avec joie pour
elle Mme de Saint-Euverte. Et c’était vrai, car préférer Mme
Swann, c’était montrer qu’on était intelligent, comme d’aller
au concert au lieu d’aller à un thé. Mais quand Mme de Saint234
Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Euverte venait chez Mme d’Arpajon en même temps
qu’Odette, comme Mme de Saint-Euverte était très snob et
que Mme d’Arpajon, tout en la traitant d’assez haut, tenait à
ses réceptions, Mme d’Arpajon ne présentait pas Odette
pour que Mme de Saint-Euverte ne sût pas qui c’était. La
marquise s’imaginait que ce devait être quelque princesse qui
sortait très peu pour qu’elle ne l’eût jamais vue, prolongeait
sa visite, répondait indirectement à ce que disait Odette, mais
Mme d’Arpajon restait de fer. Et quand Mme de SaintEuverte, vaincue, s’en allait : « Je ne vous ai pas présentée,
disait la maîtresse de maison à Odette, parce qu’on n’aime
pas beaucoup aller chez elle et elle invite énormément ; vous
n’auriez pas pu vous en dépêtrer. – Oh ! cela ne fait rien »,
disait Odette avec un regret. Mais elle gardait l’idée qu’on
n’aimait pas aller chez Mme de Saint-Euverte, ce qui, dans
une certaine mesure, était vrai, et elle en concluait qu’elle
avait une situation très supérieure à Mme de Saint-Euverte
bien que celle-ci en eût une très grande, et Odette encore
aucune.
Elle ne s’en rendait pas compte, et bien que toutes les amies
de Mme de Guermantes fussent liées avec Mme d’Arpajon,
quand celle-ci invitait Mme Swann, Odette disait d’un air
scrupuleux : « Je vais chez Mme d’Arpajon, mais vous allez
me trouver bien vieux jeu ; cela me choque, à cause de Mme
de Guermantes (qu’elle ne connaissait pas du reste). Les
hommes distingués pensaient que le fait que Mme Swann
connût peu de gens du grand monde tenait à ce qu’elle
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devait être une femme supérieure, probablement une grande
musicienne, et que ce serait une espèce de titre
extramondain, comme pour un duc d’être docteur ès
sciences, que d’aller chez elle. Les femmes complètement
nulles étaient attirées vers Odette par une raison contraire ;
apprenant qu’elle allait au concert Colonne et se déclarait
wagnérienne, elles en concluaient que ce devait être une «
farceuse », et elles étaient fort allumées par l’idée de la
connaître. Mais peu assurées dans leur propre situation, elles
craignaient de se compromettre en public en ayant l’air liées
avec Odette, et, si dans un concert de charité elles
apercevaient Mme Swann, elles détournaient la tête, jugeant
impossible de saluer, sous les yeux de Mme de
Rochechouart, une femme qui était bien capable d’être allée
à Bayreuth – ce qui voulait dire faire les cent dix-neuf coups.
Chaque personne en visite chez une autre devenait
différente. Sans parler des métamorphoses merveilleuses qui
s’accomplissaient ainsi chez les fées, dans le salon de Mme
Swann, M. de Bréauté, soudain mis en valeur par l’absence
des gens qui l’entouraient d’habitude, par l’air de satisfaction
qu’il avait de se trouver là aussi bien que si, au lieu d’aller à
une fête, il avait chaussé des besicles pour s’enfermer à lire la
Revue des Deux-Mondes, par le rite mystérieux qu’il avait
l’air d’accomplir en venant voir Odette, M. de Bréauté luimême semblait un homme nouveau. J’aurais beaucoup
donné pour voir quelles altérations la duchesse de
Montmorency-Luxembourg aurait subies dans ce milieu
nouveau. Mais elle était une des personnes à qui jamais on ne
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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pourrait présenter Odette. Mme de Montmorency, beaucoup
plus bienveillante pour Oriane que celle-ci n’était pour elle,
m’étonnait beaucoup en me disant à propos de Mme de
Guermantes : « Elle connaît des gens d’esprit, tout le monde
l’aime, je crois que, si elle avait eu un peu plus d’esprit de
suite, elle serait arrivée à se faire un salon. La vérité est
qu’elle n’y tenait pas, elle a bien raison, elle est heureuse
comme cela, recherchée de tous. » Si Mme de Guermantes
n’avait pas un « salon », alors qu’est-ce que c’était qu’un «
salon » ? La stupéfaction où me jetèrent ces paroles n’était
pas plus grande que celle que je causai à Mme de
Guermantes en lui disant que j’aimais bien aller chez Mme
de Montmorency. Oriane la trouvait une vieille crétine. «
Encore moi, disait-elle, j’y suis forcée, c’est ma tante ; mais
vous ! Elle ne sait même pas attirer les gens agréables. »
Mme de Guermantes ne se rendait pas compte que les gens
agréables me laissaient froid, que quand elle me disait « salon
Arpajon » je voyais un papillon jaune, et « salon Swann »
(Mme Swann était chez elle l’hiver de 6 à 7) un papillon noir
aux ailes feutrées de neige. Encore ce dernier salon, qui n’en
était pas un, elle le jugeait, bien qu’inaccessible pour elle,
excusable pour moi, à cause des « gens d’esprit ». Mais Mme
de Luxembourg ! Si j’eusse déjà « produit » quelque chose
qui eût été remarqué, elle eût conclu qu’une part de
snobisme peut s’allier au talent. Et je mis le comble à sa
déception ; je lui avouai que je n’allais pas chez Mme de
Montmorency (comme elle croyait) pour « prendre des notes
» et « faire une étude ». Mme de Guermantes ne se trompait,
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du reste, pas plus que les romanciers mondains qui analysent
cruellement du dehors les actes d’un snob ou prétendu tel,
mais ne se placent jamais à l’intérieur de celui-ci, à l’époque
où fleurit dans l’imagination tout un printemps social. Moimême, quand je voulus savoir quel si grand plaisir
j’éprouvais à aller chez Mme de Montmorency, je fus un peu
désappointé. Elle habitait, dans le faubourg Saint-Germain,
une vieille demeure remplie de pavillons que séparaient de
petits jardins. Sous la voûte, une statuette, qu’on disait de
Falconet, représentait une Source d’où, du reste, une
humidité perpétuelle suintait. Un peu plus loin la concierge,
toujours les yeux rouges, soit chagrin, soit neurasthénie, soit
migraine, soit rhume, ne vous répondait jamais, vous faisait
un geste vague indiquant que la duchesse était là et laissait
tomber de ses paupières quelques gouttes au-dessus d’un bol
rempli de « ne m’oubliez pas ». Le plaisir que j’avais à voir la
statuette, parce qu’elle me faisait penser à un petit jardinier
en plâtre qu’il y avait dans un jardin de Combray, n’était rien
auprès de celui que me causait le grand escalier humide et
sonore, plein d’échos, comme celui de certains
établissements de bains d’autrefois, aux vases remplis de
cinéraires – bleu sur bleu – dans l’antichambre, et surtout le
tintement de la sonnette, qui était exactement celui de la
chambre d’Eulalie. Ce tintement mettait le comble à mon
enthousiasme, mais me semblait trop humble pour que je le
pusse expliquer à Mme de Montmorency, de sorte que cette
dame me voyait toujours dans un ravissement dont elle ne
devina jamais la cause.
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Les intermittences du coeur
Ma seconde arrivée à Balbec fut bien différente de la
première. Le directeur était venu en personne m’attendre à
Pont-à-Couleuvre, répétant combien il tenait à sa clientèle
titrée, ce qui me fit craindre qu’il m’anoblît jusqu’à ce que
j’eusse compris que, dans l’obscurité de sa mémoire
grammaticale, titrée signifiait simplement attitrée. Du reste,
au fur et à mesure qu’il apprenait de nouvelles langues, il
parlait plus mal les anciennes. Il m’annonça qu’il m’avait logé
tout en haut de l’hôtel. « J’espère, dit-il, que vous ne verrez
pas là un manque d’impolitesse, j’étais ennuyé de vous
donner une chambre dont vous êtes indigne, mais je l’ai fait
rapport au bruit, parce que comme cela vous n’aurez
personne au-dessus de vous pour vous fatiguer le trépan
(pour tympan). Soyez tranquille, je ferai fermer les fenêtres
pour qu’elles ne battent pas. Là-dessus je suis intolérable »,
ces mots n’exprimant pas sa pensée, laquelle était qu’on le
trouverait toujours inexorable à ce sujet, mais peut-être bien
celle de ses valets d’étage. Les chambres étaient d’ailleurs
celles du premier séjour. Elles n’étaient pas plus bas, mais
j’avais monté dans l’estime du directeur. Je pourrais faire
faire du feu si cela me plaisait (car sur l’ordre des médecins,
j’étais parti dès Pâques), mais il craignait qu’il n’y eût des «
fixures » dans le plafond. « Surtout attendez toujours pour
allumer une flambée que la précédente soit consommée
(pour consumée). Car l’important c’est d’éviter de ne pas
mettre le feu à la cheminée, d’autant plus que, pour égayer
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
LR
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un peu, j’ai fait placer dessus une grande postiche en vieux
Chine, que cela pourrait abîmer. »
Il m’apprit avec beaucoup de tristesse la mort du bâtonnier
de Cherbourg : « C’était un vieux routinier », dit-il
(probablement pour roublard) et me laissa entendre que sa
fin avait été avancée par une vie de déboires, ce qui signifiait
de débauches. « Déjà depuis quelque temps je remarquais
qu’après le dîner il s’accroupissait dans le salon (sans doute
pour s’assoupissait). Les derniers temps, il était tellement
changé que, si l’on n’avait pas su que c’était lui, à le voir il
était à peine reconnaissant » (pour reconnaissable sans
doute).
Compensation heureuse : le premier président de Caen
venait de recevoir la « cravache » de commandeur de la
Légion d’honneur. « Sûr et certain qu’il a des capacités, mais
paraît qu’on la lui a donnée surtout à cause de sa grande «
impuissance ». On revenait du reste sur cette décoration
dans l’Écho de Paris de la veille, dont le directeur n’avait
encore lu que « le premier paraphe » (pour paragraphe). La
politique de M. Caillaux y était bien arrangée. « Je trouve du
reste qu’ils ont raison, dit-il. Il nous met trop sous la coupole
de l’Allemagne » (sous la coupe). Comme ce genre de sujet,
traité par un hôtelier, me paraissait ennuyeux, je cessai
d’écouter. Je pensais aux images qui m’avaient décidé de
retourner à Balbec. Elles étaient bien différentes de celles
d’autrefois, la vision que je venais chercher était aussi
éclatante que la première était brumeuse ; elles ne devaient
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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pas moins me décevoir. Les images choisies par le souvenir
sont aussi arbitraires, aussi étroites, aussi insaisissables, que
celles que l’imagination avait formées et la réalité détruites. Il
n’y a pas de raison pour qu’en dehors de nous, un lieu réel
possède plutôt les tableaux de la mémoire que ceux du rêve.
Et puis, une réalité nouvelle nous fera peut-être oublier,
détester même les désirs à cause desquels nous étions partis.
Ceux qui m’avaient fait partir pour Balbec tenaient en partie
à ce que les Verdurin (des invitations de qui je n’avais jamais
profité, et qui seraient certainement heureux de me recevoir
si j’allais, à la campagne, m’excuser de n’avoir jamais pu leur
faire une visite à Paris, sachant que plusieurs fidèles
passeraient les vacances sur cette côte, et ayant, à cause de
cela, loué pour toute la saison un des châteaux de M. de
Cambremer (la Raspelière), y avaient invité Mme Putbus. Le
soir où je l’avais appris (à Paris), j’envoyai, en véritable fou,
notre jeune valet de pied s’informer si cette dame
emmènerait à Balbec sa camériste. Il était onze heures du
soir. Le concierge mit longtemps à ouvrir et, par miracle,
n’envoya pas promener mon messager, ne fit pas appeler la
police, se contenta de le recevoir très mal, tout en lui
fournissant le renseignement désiré. Il dit qu’en effet la
première femme de chambre accompagnerait sa maîtresse,
d’abord aux eaux en Allemagne, puis à Biarritz, et, pour finir,
chez Mme Verdurin. Dès lors j’avais été tranquille et content
d’avoir ce pain sur la planche. J’avais pu me dispenser de ces
poursuites dans les rues où j’étais dépourvu auprès des
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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beautés rencontrées de cette lettre d’introduction que serait
auprès du « Giorgione » d’avoir dîné le soir même, chez les
Verdurin, avec sa maîtresse. D’ailleurs elle aurait peut-être
meilleure idée de moi encore en sachant que je connaissais,
non seulement les bourgeois locataires de la Raspelière mais
ses propriétaires, et surtout Saint-Loup qui, ne pouvant me
recommander à distance à la femme de chambre (celle-ci
ignorant le nom de Robert), avait écrit pour moi une lettre
chaleureuse aux Cambremer. Il pensait qu’en dehors de
toute l’utilité dont ils me pourraient être, Mme de
Cambremer la belle-fille, née Legrandin, m’intéresserait en
causant avec moi. « C’est une femme intelligente, m’avait-il
assuré. Elle ne te dira pas des choses définitives (les choses «
définitives » avaient été substituées aux choses « sublimes »
par Robert qui modifiait, tous les cinq ou six ans, quelquesunes de ses expressions favorites tout en conservant les
principales), mais c’est une nature, elle a une personnalité, de
l’intuition ; elle jette à propos la parole qu’il faut. De temps
en temps elle est énervante, elle lance des bêtises pour « faire
gratin », ce qui est d’autant plus ridicule que rien n’est moins
élégant que les Cambremer, elle n’est pas toujours à la page,
mais, somme toute, elle est encore dans les personnes les
plus supportables à fréquenter. »
Aussitôt que la recommandation de Robert leur était
parvenue, les Cambremer, soit snobisme qui leur faisait
désirer d’être indirectement aimables pour Saint-Loup, soit
reconnaissance de ce qu’il avait été pour un de leurs neveux
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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à Doncières, et plus probablement surtout par bonté et
traditions hospitalières, avaient écrit de longues lettres
demandant que j’habitasse chez eux, et, si je préférais être
plus indépendant, s’offrant à me chercher un logis. Quand
Saint-Loup leur eût objecté que j’habiterais le Grand-Hôtel
de Balbec, ils répondirent que, du moins, ils attendaient une
visite dès mon arrivée et, si elle tardait trop, ne manqueraient
pas de venir me relancer pour m’inviter à leurs gardenparties.
Sans doute rien ne rattachait d’une façon essentielle la
femme de chambre de Mme Putbus au pays de Balbec ; elle
n’y serait pas pour moi comme la paysanne que, seul sur la
route de Méséglise, j’avais si souvent appelée en vain, de
toute la force de mon désir.
Mais j’avais depuis longtemps cessé de chercher à extraire
d’une femme comme la racine carrée de son inconnu, lequel
ne résistait pas souvent à une simple présentation. Du moins
à Balbec, où je n’étais pas allé depuis longtemps, j’aurais cet
avantage, à défaut du rapport nécessaire qui n’existait pas
entre le pays et cette femme, que le sentiment de la réalité
n’y serait pas supprimé pour moi par l’habitude, comme à
Paris où, soit dans ma propre maison, soit dans une chambre
connue, le plaisir auprès d’une femme ne pouvait pas me
donner un instant l’illusion, au milieu des choses
quotidiennes, qu’il m’ouvrait accès à une nouvelle vie. (Car si
l’habitude est une seconde nature, elle nous empêche de
connaître la première, dont elle n’a ni les cruautés, ni les
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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enchantements.) Or cette illusion, je l’aurais peut-être dans
un pays nouveau où renaît la sensibilité, devant un rayon de
soleil, et où justement achèverait de m’exalter la femme de
chambre que je désirais : or on verra les circonstances faire
non seulement que cette femme ne vint pas à Balbec, mais
que je ne redoutai rien tant qu’elle y pût venir, de sorte que
ce but principal de mon voyage ne fut ni atteint, ni même
poursuivi. Certes Mme Putbus ne devait pas aller aussi tôt
dans la saison chez les Verdurin ; mais ces plaisirs qu’on a
choisis, peuvent être lointains, si leur venue est assurée, et
que dans leur attente on puisse se livrer d’ici là à la paresse
de chercher à plaire et à l’impuissance d’aimer. Au reste, à
Balbec, je n’allais pas dans un esprit aussi pratique que la
première fois ; il y a toujours moins d’égoïsme dans
l’imagination pure que dans le souvenir ; et je savais que
j’allais précisément me trouver dans un de ces lieux où
foisonnent les belles inconnues ; une plage n’en offre pas
moins qu’un bal, et je pensais d’avance aux promenades
devant l’hôtel, sur la digue, avec ce même genre de plaisir
que Mme de Guermantes m’aurait procuré si, au lieu de me
faire inviter dans des dîners brillants, elle avait donné plus
souvent mon nom pour leurs listes de cavaliers aux
maîtresses de maison chez qui l’on dansait. Faire des
connaissances féminines à Balbec me serait aussi facile que
cela m’avait été malaisé autrefois, car j’y avais maintenant
autant de relations et d’appuis que j’en étais dénué à mon
premier voyage.
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Je fus tiré de ma rêverie par la voix du directeur, dont je
n’avais pas écouté les dissertations politiques. Changeant de
sujet, il me dit la joie du premier président en apprenant
mon arrivée et qu’il viendrait me voir dans ma chambre, le
soir même. La pensée de cette visite m’effraya si fort (car je
commençais à me sentir fatigué) que je le priai d’y mettre
obstacle (ce qu’il me promit) et, pour plus de sûreté, de faire,
pour le premier soir, monter la garde à mon étage par ses
employés. Il ne paraissait pas les aimer beaucoup. « Je suis
tout le temps obligé de courir après eux parce qu’ils
manquent trop d’inertie. Si je n’étais pas là ils ne bougeraient
pas. Je mettrai le liftier de planton à votre porte. » Je
demandai s’il était enfin « chef des chasseurs ». « Il n’est pas
encore assez vieux dans la maison, me répondit-il. Il a des
camarades plus âgés que lui. Cela ferait crier. En toutes
choses il faut des granulations. Je reconnais qu’il a une
bonne aptitude (pour attitude) devant son ascenseur. Mais
c’est encore un peu jeune pour des situations pareilles. Avec
d’autres qui sont trop anciens, cela ferait contraste. Ça
manque un peu de sérieux, ce qui est la qualité primitive
(sans doute la qualité primordiale, la qualité la plus
importante). Il faut qu’il ait un peu plus de plomb dans l’aile
(mon interlocuteur voulait dire dans la tête). Du reste, il n’a
qu’à se fier à moi. Je m’y connais. Avant de prendre mes
galons comme directeur du Grand-Hôtel, j’ai fait mes
premières armes sous M. Paillard. » Cette comparaison
m’impressionna et je remerciai le directeur d’être venu luimême jusqu’à Pont-à-Couleuvre. « Oh ! de rien. Cela ne m’a
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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fait perdre qu’un temps infini » (pour infime). Du reste nous
étions arrivés.
Bouleversement de toute ma personne. Dès la première nuit,
comme je souffrais d’une crise de fatigue cardiaque, tâchant
de dompter ma souffrance, je me baissai avec lenteur et
prudence pour me déchausser. Mais à peine eus-je touché le
premier bouton de ma bottine, ma poitrine s’enfla, remplie
d’une présence inconnue, divine, des sanglots me
secouèrent, des larmes ruisselèrent de mes yeux. L’être qui
venait à mon secours, qui me sauvait de la sécheresse de
l’âme, c’était celui qui, plusieurs années auparavant, dans un
moment de détresse et de solitude identiques, dans un
moment où je n’avais plus rien de moi, était entré, et qui
m’avait rendu à moi-même, car il était moi et plus que moi
(le contenant qui est plus que le contenu et me l’apportait).
Je venais d’apercevoir, dans ma mémoire, penché sur ma
fatigue, le visage tendre, préoccupé et déçu de ma
grand’mère, telle qu’elle avait été ce premier soir d’arrivée, le
visage de ma grand’mère, non pas de celle que je m’étais
étonné et reproché de si peu regretter et qui n’avait d’elle que
le nom, mais de ma grand’mère véritable dont, pour la
première fois depuis les Champs-Élysées où elle avait eu son
attaque, je retrouvais dans un souvenir involontaire et
complet la réalité vivante. Cette réalité n’existe pas pour
nous tant qu’elle n’a pas été recréée par notre pensée (sans
cela les hommes qui ont été mêlés à un combat gigantesque
seraient tous de grands poètes épiques) ; et ainsi, dans un
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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désir fou de me précipiter dans ses bras, ce n’était qu’à
l’instant – plus d’une année après son enterrement, à cause
de cet anachronisme qui empêche si souvent le calendrier
des faits de coïncider avec celui des sentiments – que je
venais d’apprendre qu’elle était morte. J’avais souvent parlé
d’elle depuis ce moment-là et aussi pensé à elle, mais sous
mes paroles et mes pensées de jeune homme ingrat, égoïste
et cruel, il n’y avait jamais rien eu qui ressemblât à ma
grand’mère, parce que dans ma légèreté, mon amour du
plaisir, mon accoutumance à la voir malade, je ne contenais
en moi qu’à l’état virtuel le souvenir de ce qu’elle avait été. À
n’importe quel moment que nous la considérions, notre âme
totale n’a qu’une valeur presque fictive, malgré le nombreux
bilan de ses richesses, car tantôt les unes, tantôt les autres
sont indisponibles, qu’il s’agisse d’ailleurs de richesses
effectives aussi bien que de celles de l’imagination, et pour
moi, par exemple, tout autant que de l’ancien nom de
Guermantes, de celles, combien plus graves, du souvenir vrai
de ma grand’mère. Car aux troubles de la mémoire sont liées
les intermittences du cœur. C’est sans doute l’existence de
notre corps, semblable pour nous à un vase où notre
spiritualité serait enclose, qui nous induit à supposer que
tous nos biens intérieurs, nos joies passées, toutes nos
douleurs sont perpétuellement en notre possession. Peutêtre est-il aussi inexact de croire qu’elles s’échappent ou
reviennent. En tout cas, si elles restent en nous c’est, la
plupart du temps, dans un domaine inconnu où elles ne sont
de nul service pour nous, et où même les plus usuelles sont
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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refoulées par des souvenirs d’ordre différent et qui excluent
toute simultanéité avec elles dans la conscience. Mais si le
cadre de sensations où elles sont conservées est ressaisi, elles
ont à leur tour ce même pouvoir d’expulser tout ce qui leur
est incompatible, d’installer seul en nous, le moi qui les
vécut. Or, comme celui que je venais subitement de
redevenir n’avait pas existé depuis ce soir lointain où ma
grand’mère m’avait déshabillé à mon arrivée à Balbec, ce fut
tout naturellement, non pas après la journée actuelle, que ce
moi ignorait, mais – comme s’il y avait dans le temps des
séries différentes et parallèles – sans solution de continuité,
tout de suite après le premier soir d’autrefois que j’adhérai à
la minute où ma grand’mère s’était penchée vers moi. Le moi
que j’étais alors, et qui avait disparu si longtemps, était de
nouveau si près de moi qu’il me semblait encore entendre les
paroles qui avaient immédiatement précédé et qui n’étaient
pourtant plus qu’un songe, comme un homme mal éveillé
croit percevoir tout près de lui les bruits de son rêve qui
s’enfuit. Je n’étais plus que cet être qui cherchait à se réfugier
dans les bras de sa grand’mère, à effacer les traces de ses
peines en lui donnant des baisers, cet être que j’aurais eu à
me figurer, quand j’étais tel ou tel de ceux qui s’étaient
succédé en moi depuis quelque temps, autant de difficulté
que maintenant il m’eût fallu d’efforts, stériles d’ailleurs,
pour ressentir les désirs et les joies de l’un de ceux que, pour
un temps du moins, je n’étais plus. Je me rappelais comme
une heure avant le moment où ma grand’mère s’était
penchée ainsi, dans sa robe de chambre, vers mes bottines ;
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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errant dans la rue étouffante de chaleur, devant le pâtissier,
j’avais cru que je ne pourrais jamais, dans le besoin que
j’avais de l’embrasser, attendre l’heure qu’il me fallait encore
passer sans elle. Et maintenant que ce même besoin
renaissait, je savais que je pouvais attendre des heures après
des heures, qu’elle ne serait plus jamais auprès de moi, je ne
faisais que de le découvrir parce que je venais, en la sentant,
pour la première fois, vivante, véritable, gonflant mon cœur
à le briser, en la retrouvant enfin, d’apprendre que je l’avais
perdue pour toujours. Perdue pour toujours ; je ne pouvais
comprendre, et je m’exerçais à subir la souffrance de cette
contradiction : d’une part, une existence, une tendresse,
survivantes en moi telles que je les avais connues, c’est-à-dire
faites pour moi, un amour où tout trouvait tellement en moi
son complément, son but, sa constante direction, que le
génie de grands hommes, tous les génies qui avaient pu
exister depuis le commencement du monde n’eussent pas
valu pour ma grand’mère un seul de mes défauts ; et d’autre
part, aussitôt que j’avais revécu, comme présente, cette
félicité, la sentir traversée par la certitude, s’élançant comme
une douleur physique à répétition, d’un néant qui avait effacé
mon image de cette tendresse, qui avait détruit cette
existence, aboli rétrospectivement notre mutuelle
prédestination, fait de ma grand’mère, au moment où je la
retrouvais comme dans un miroir, une simple étrangère
qu’un hasard a fait passer quelques années auprès de moi,
comme cela aurait pu être auprès de tout autre, mais pour
qui, avant et après, je n’étais rien, je ne serais rien.
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Au lieu des plaisirs que j’avais eus depuis quelque temps, le
seul qu’il m’eût été possible de goûter en ce moment c’eût
été, retouchant le passé, de diminuer les douleurs que ma
grand’mère avait autrefois ressenties. Or, je ne me la
rappelais pas seulement dans cette robe de chambre,
vêtement approprié, au point d’en devenir presque
symbolique, aux fatigues, malsaines sans doute, mais douces
aussi, qu’elle prenait pour moi ; peu à peu voici que je me
souvenais de toutes les occasions que j’avais saisies, en lui
laissant voir, en lui exagérant au besoin mes souffrances, de
lui faire une peine que je m’imaginais ensuite effacée par mes
baisers, comme si ma tendresse eût été aussi capable que
mon bonheur de faire le sien ; et pis que cela, moi qui ne
concevais plus de bonheur maintenant qu’à en pouvoir
retrouver répandu dans mon souvenir sur les pentes de ce
visage modelé et incliné par la tendresse, j’avais mis autrefois
une rage insensée à chercher d’en extirper jusqu’aux plus
petits plaisirs, tel ce jour où Saint-Loup avait fait la
photographie de grand’mère et où, ayant peine à dissimuler à
celle-ci la puérilité presque ridicule de la coquetterie qu’elle
mettait à poser, avec son chapeau à grands bords, dans un
demi-jour seyant, je m’étais laissé aller à murmurer quelques
mots impatientés et blessants, qui, je l’avais senti à une
contraction de son visage, avaient porté, l’avaient atteinte ;
c’était moi qu’ils déchiraient, maintenant qu’était impossible
à jamais la consolation de mille baisers.
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Mais jamais je ne pourrais plus effacer cette contraction de
sa figure, et cette souffrance de son cœur, ou plutôt du mien
; car comme les morts n’existent plus qu’en nous, c’est nousmêmes que nous frappons sans relâche quand nous nous
obstinons à nous souvenir des coups que nous leur avons
assénés. Ces douleurs, si cruelles qu’elles fussent, je m’y
attachais de toutes mes forces, car je sentais bien qu’elles
étaient l’effet du souvenir de ma grand’mère, la preuve que
ce souvenir que j’avais était bien présent en moi. Je sentais
que je ne me la rappelais vraiment que par la douleur, et
j’aurais voulu que s’enfonçassent plus solidement encore en
moi ces clous qui y rivaient sa mémoire. Je ne cherchais pas
à rendre la souffrance plus douce, à l’embellir, à feindre que
ma grand’mère ne fût qu’absente et momentanément
invisible, en adressant à sa photographie (celle que SaintLoup avait faite et que j’avais avec moi) des paroles et des
prières comme à un être séparé de nous mais qui, resté
individuel, nous connaît et nous reste relié par une
indissoluble harmonie. Jamais je ne le fis, car je ne tenais pas
seulement à souffrir, mais à respecter l’originalité de ma
souffrance telle que je l’avais subie tout d’un coup sans le
vouloir, et je voulais continuer à la subir, suivant ses lois à
elle, à chaque fois que revenait cette contradiction si étrange
de la survivance et du néant entre-croisés en moi. Cette
impression douloureuse et actuellement incompréhensible, je
savais non certes pas si j’en dégagerais un peu de vérité un
jour, mais que si, ce peu de vérité, je pouvais jamais
l’extraire, ce ne pourrait être que d’elle, si particulière, si
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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spontanée, qui n’avait été ni tracée par mon intelligence, ni
atténuée par ma pusillanimité, mais que la mort elle-même, la
brusque révélation de la mort, avait, comme la foudre,
creusée en moi, selon un graphique surnaturel et inhumain,
un double et mystérieux sillon. (Quant à l’oubli de ma
grand’mère où j’avais vécu jusqu’ici, je ne pouvais même pas
songer à m’attacher à lui pour en tirer de la vérité ; puisque
en lui-même il n’était rien qu’une négation, l’affaiblissement
de la pensée incapable de recréer un moment réel de la vie et
obligée de lui substituer des images conventionnelles et
indifférentes.) Peut-être pourtant, l’instinct de conservation,
l’ingéniosité de l’intelligence à nous préserver de la douleur,
commençant déjà à construire sur des ruines encore
fumantes, à poser les premières assises de son œuvre utile et
néfaste, goûtais-je trop la douceur de me rappeler tels et tels
jugements de l’être chéri, de me les rappeler comme si elle
eût pu les porter encore, comme si elle existait, comme si je
continuais d’exister pour elle. Mais dès que je fus arrivé à
m’endormir, à cette heure, plus véridique, où mes yeux se
fermèrent aux choses du dehors, le monde du sommeil (sur
le seuil duquel l’intelligence et la volonté momentanément
paralysées ne pouvaient plus me disputer à la cruauté de mes
impressions véritables) refléta, réfracta la douloureuse
synthèse de la survivance et du néant, dans la profondeur
organique et devenue translucide des viscères
mystérieusement éclairés. Monde du sommeil, où la
connaissance interne, placée sous la dépendance des troubles
de nos organes, accélère le rythme du cœur ou de la
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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respiration, parce qu’une même dose d’effroi, de tristesse, de
remords agit, avec une puissance centuplée si elle est ainsi
injectée dans nos veines ; dès que, pour y parcourir les
artères de la cité souterraine, nous nous sommes embarqués
sur les flots noirs de notre propre sang comme sur un Léthé
intérieur aux sextuples replis, de grandes figures solennelles
nous apparaissent, nous abordent et nous quittent, nous
laissant en larmes. Je cherchai en vain celle de ma
grand’mère dès que j’eus abordé sous les porches sombres ;
je savais pourtant qu’elle existait encore, mais d’une vie
diminuée, aussi pâle que celle du souvenir ; l’obscurité
grandissait, et le vent ; mon père n’arrivait pas qui devait me
conduire à elle. Tout d’un coup la respiration me manqua, je
sentis mon cœur comme durci, je venais de me rappeler que
depuis de longues semaines j’avais oublié d’écrire à ma
grand’mère. Que devait-elle penser de moi ? « Mon Dieu, me
disais-je, comme elle doit être malheureuse dans cette petite
chambre qu’on a louée pour elle, aussi petite que pour une
ancienne domestique, où elle est toute seule avec la garde
qu’on a placée pour la soigner et où elle ne peut pas bouger,
car elle est toujours un peu paralysée et n’a pas voulu une
seule fois se lever. Elle doit croire que je l’oublie depuis
qu’elle est morte ; comme elle doit se sentir seule et
abandonnée ! Oh ! il faut que je coure la voir, je ne peux pas
attendre une minute, je ne peux pas attendre que mon père
arrive ; mais où est-ce ? comment ai-je pu oublier l’adresse ?
pourvu qu’elle me reconnaisse encore ! Comment ai-je pu
l’oublier pendant des mois ? Il fait noir, je ne trouverai pas,
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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le vent m’empêche d’avancer ; mais voici mon père qui se
promène devant moi ; je lui crie : « Où est grand’mère ? dismoi l’adresse. Est-elle bien ? Est-ce bien sûr qu’elle ne
manque de rien ? – Mais non, me dit mon père, tu peux être
tranquille. Sa garde est une personne ordonnée. On envoie
de temps en temps une toute petite somme pour qu’on
puisse lui acheter le peu qui lui est nécessaire. Elle demande
quelquefois ce que tu es devenu. On lui a même dit que tu
allais faire un livre. Elle a paru contente. Elle a essuyé une
larme. » Alors je crus me rappeler qu’un peu après sa mort,
ma grand’mère m’avait dit en sanglotant d’un air humble,
comme une vieille servante chassée, comme une étrangère : «
Tu me permettras bien de te voir quelquefois tout de même,
ne me laisse pas trop d’années sans me visiter. Songe que tu
as été mon petit-fils et que les grand’mères n’oublient pas. »
En revoyant le visage si soumis, si malheureux, si doux
qu’elle avait, je voulais courir immédiatement et lui dire ce
que j’aurais dû lui répondre alors : « Mais, grand’mère, tu me
verras autant que tu voudras, je n’ai que toi au monde, je ne
te quitterai plus jamais. » Comme mon silence a dû la faire
sangloter depuis tant de mois que je n’ai été là où elle est
couchée, qu’a-t-elle pu se dire ? Et c’est en sanglotant que
moi aussi je dis à mon père : « Vite, vite, son adresse,
conduis-moi. » Mais lui : « C’est que... je ne sais si tu pourras
la voir. Et puis, tu sais, elle est très faible, très faible, elle
n’est plus elle-même, je crois que ce te sera plutôt pénible. Et
je ne me rappelle pas le numéro exact de l’avenue. – Mais
dis-moi, toi qui sais, ce n’est pas vrai que les morts ne vivent
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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plus. Ce n’est pas vrai tout de même, malgré ce qu’on dit,
puisque grand’mère existe encore. » Mon père sourit
tristement : « Oh ! bien peu, tu sais, bien peu. Je crois que tu
ferais mieux de n’y pas aller. Elle ne manque de rien. On
vient tout mettre en ordre. – Mais elle est souvent seule ? –
Oui, mais cela vaut mieux pour elle. Il vaut mieux qu’elle ne
pense pas, cela ne pourrait que lui faire de la peine. Cela fait
souvent de la peine de penser. Du reste, tu sais, elle est très
éteinte. Je te laisserai l’indication précise pour que tu puisses
y aller ; je ne vois pas ce que tu pourrais y faire et je ne crois
pas que la garde te la laisserait voir. – Tu sais bien pourtant
que je vivrai toujours près d’elle, cerfs, cerfs, Francis
Jammes, fourchette. » Mais déjà j’avais retraversé le fleuve
aux ténébreux méandres, j’étais remonté à la surface où
s’ouvre le monde des vivants, aussi si je répétais encore : «
Francis Jammes, cerfs, cerfs », la suite de ces mots ne
m’offrait plus le sens limpide et la logique qu’ils exprimaient
si naturellement pour moi il y a un instant encore, et que je
ne pouvais plus me rappeler. Je ne comprenais plus même
pourquoi le mot Aias, que m’avait dit tout à l’heure mon
père, avait immédiatement signifié : « Prends garde d’avoir
froid », sans aucun doute possible. J’avais oublié de fermer
les volets, et sans doute le grand jour m’avait éveillé. Mais je
ne pus supporter d’avoir sous les yeux ces flots de la mer que
ma grand’mère pouvait autrefois contempler pendant des
heures ; l’image nouvelle de leur beauté indifférente se
complétait aussitôt par l’idée qu’elle ne les voyait pas ;
j’aurais voulu boucher mes oreilles à leur bruit, car
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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maintenant la plénitude lumineuse de la plage creusait un
vide dans mon cœur ; tout semblait me dire comme ces
allées et ces pelouses d’un jardin public où je l’avais autrefois
perdue, quand j’étais tout enfant : « Nous ne l’avons pas vue
», et sous la rotondité du ciel pâle et divin je me sentais
oppressé comme sous une immense cloche bleuâtre fermant
un horizon où ma grand’mère n’était pas. Pour ne plus rien
voir, je me tournai du côté du mur, mais hélas, ce qui était
contre moi c’était cette cloison qui servait jadis entre nous
deux de messager matinal, cette cloison qui, aussi docile
qu’un violon à rendre toutes les nuances d’un sentiment,
disait si exactement à ma grand’mère ma crainte à la fois de
la réveiller, et, si elle était éveillée déjà, de n’être pas entendu
d’elle et qu’elle n’osât bouger, puis aussitôt, comme la
réplique d’un second instrument, m’annonçant sa venue et
m’invitant au calme. Je n’osais pas approcher de cette
cloison plus que d’un piano où ma grand’mère aurait joué et
qui vibrerait encore de son toucher. Je savais que je pourrais
frapper maintenant, même plus fort, que rien ne pourrait
plus la réveiller, que je n’entendais aucune réponse, que ma
grand’mère ne viendrait plus. Et je ne demandais rien de plus
à Dieu, s’il existe un paradis, que d’y pouvoir frapper contre
cette cloison les trois petits coups que ma grand’mère
reconnaîtrait entre mille, et auxquels elle répondrait par ces
autres coups qui voulaient dire : « Ne t’agite pas, petite
souris, je comprends que tu es impatient, mais je vais venir »,
et qu’il me laissât rester avec elle toute l’éternité, qui ne serait
pas trop longue pour nous deux.
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Le directeur vint me demander si je ne voulais pas
descendre. À tout hasard il avait veillé à mon « placement »
dans la salle à manger. Comme il ne m’avait pas vu, il avait
craint que je ne fusse repris de mes étouffements d’autrefois.
Il espérait que ce ne serait qu’un tout petit « maux de gorge »
et m’assura avoir entendu dire qu’on les calmait à l’aide de ce
qu’il appelait : le « calyptus ».
Il me remit un petit mot d’Albertine. Elle n’avait pas dû
venir à Balbec cette année, mais, ayant changé de projets, elle
était depuis trois jours, non à Balbec même, mais à dix
minutes par le tram, à une station voisine. Craignant que je
ne fusse fatigué par le voyage, elle s’était abstenue pour le
premier soir, mais me faisait demander quand je pourrais la
recevoir. Je m’informai si elle était venue elle-même, non
pour la voir, mais pour m’arranger à ne pas la voir. « Mais
oui, me répondit le directeur. Mais elle voudrait que ce soit le
plus tôt possible, à moins que vous n’ayez pas de raisons
tout à fait nécessiteuses. Vous voyez, conclut-il, que tout le
monde ici vous désire, en définitif. » Mais moi, je ne voulais
voir personne.
Et pourtant, la veille, à l’arrivée, je m’étais senti repris par le
charme indolent de la vie de bains de mer. Le même lift,
silencieux, cette fois, par respect, non par dédain, et rouge de
plaisir, avait mis en marche l’ascenseur. M’élevant le long de
la colonne montante, j’avais retraversé ce qui avait été
autrefois pour moi le mystère d’un hôtel inconnu, où quand
on arrive, touriste sans protection et sans prestige, chaque
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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habitué qui rentre dans sa chambre, chaque jeune fille qui
descend dîner, chaque bonne qui passe dans les couloirs
étrangement délinéamentés, et la jeune fille venue
d’Amérique avec sa dame de compagnie et qui descend
dîner, jettent sur vous un regard où l’on ne lit rien de ce
qu’on aurait voulu. Cette fois-ci, au contraire, j’avais éprouvé
le plaisir trop reposant de faire la montée d’un hôtel connu,
où je me sentais chez moi, où j’avais accompli une fois de
plus cette opération toujours à recommencer, plus longue,
plus difficile que le retournement de la paupière, et qui
consiste à poser sur les choses l’âme qui nous est familière au
lieu de la leur qui nous effrayait. Faudrait-il maintenant,
m’étais-je dit, ne me doutant pas du brusque changement
d’âme qui m’attendait, aller toujours dans d’autres hôtels, où
je dînerais pour la première fois, où l’habitude n’aurait pas
encore tué, à chaque étage, devant chaque porte, le dragon
terrifiant qui semblait veiller sur une existence enchantée, où
j’aurais à approcher de ces femmes inconnues que les
palaces, les casinos, les plages ne font, à la façon des vastes
polypiers, que réunir et faire vivre en commun ?
J’avais ressenti du plaisir même à ce que l’ennuyeux premier
président fût si pressé de me voir ; je voyais, pour le premier
jour, des vagues, les chaînes de montagne d’azur de la mer,
ses glaciers et ses cascades, son élévation et sa majesté
négligente – rien qu’à sentir, pour la première fois depuis si
longtemps, en me lavant les mains, cette odeur spéciale des
savons trop parfumés du Grand-Hôtel – laquelle, semblant
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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appartenir à la fois au moment présent et au séjour passé,
flottait entre eux comme le charme réel d’une vie particulière
où l’on ne rentre que pour changer de cravates. Les draps du
lit, trop fins, trop légers, trop vastes, impossibles à border, à
faire tenir, et qui restaient soufflés autour des couvertures en
volutes mouvantes, m’eussent attristé autrefois. Ils bercèrent
seulement, sur la rondeur incommode et bombée de leurs
voiles, le soleil glorieux et plein d’espérances du premier
matin. Mais celui-ci n’eut pas le temps de paraître. Dans la
nuit même l’atroce et divine présence avait ressuscité. Je priai
le directeur de s’en aller, de demander que personne n’entrât.
Je lui dis que je resterais couché et repoussai son offre de
faire chercher chez le pharmacien l’excellente drogue. Il fut
ravi de mon refus car il craignait que des clients ne fussent
incommodés par l’odeur du « calyptus ». Ce qui me valut ce
compliment : « Vous êtes dans le mouvement » (il voulait
dire : « dans le vrai »), et cette recommandation : « Faites
attention de ne pas vous salir à la porte, car, rapport aux
serrures, je l’ai faite « induire » d’huile ; si un employé se
permettait de frapper à votre chambre il serait « roulé » de
coups. Et qu’on se le tienne pour dit car je n’aime pas les «
répétitions » (évidemment cela signifiait : je n’aime pas
répéter deux fois les choses). Seulement, est-ce que vous ne
voulez pas pour vous remonter un peu du vin vieux dont j’ai
en bas une bourrique (sans doute pour barrique) ? Je ne vous
l’apporterai pas sur un plat d’argent comme la tête de
Jonathan, et je vous préviens que ce n’est pas du ChâteauLafite, mais c’est à peu près équivoque (pour équivalent). Et
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comme c’est léger, on pourrait vous faire frire une petite
sole. » Je refusai le tout, mais fus surpris d’entendre le nom
du poisson (la sole) être prononcé comme l’arbre le saule,
par un homme qui avait dû en commander tant dans sa vie.
Malgré les promesses du directeur, on m’apporta un peu plus
tard la carte cornée de la marquise de Cambremer. Venue
pour me voir, la vieille dame avait fait demander si j’étais là,
et quand elle avait appris que mon arrivée datait seulement
de la veille, et que j’étais souffrant, elle n’avait pas insisté, et
(non sans s’arrêter sans doute devant le pharmacien, ou la
mercière, chez lesquels le valet de pied, sautant du siège,
entrait payer quelque note ou faire des provisions) la
marquise était repartie pour Féterne, dans sa vieille calèche à
huit ressorts attelée de deux chevaux. Assez souvent
d’ailleurs, on entendait le roulement et on admirait l’apparat
de celle-ci dans les rues de Balbec et de quelques autres
petites localités de la côte, situées entre Balbec et Féterne.
Non pas que ces arrêts chez des fournisseurs fussent le but
de ces randonnées. Il était au contraire quelque goûter, ou
garden-party, chez un hobereau ou un bourgeois fort
indignes de la marquise. Mais celle-ci, quoique dominant de
très haut, par sa naissance et sa fortune, la petite noblesse
des environs, avait, dans sa bonté et sa simplicité parfaites,
tellement peur de décevoir quelqu’un qui l’avait invitée,
qu’elle se rendait aux plus insignifiantes réunions mondaines
du voisinage. Certes, plutôt que de faire tant de chemin pour
venir entendre, dans la chaleur d’un petit salon étouffant,
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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une chanteuse généralement sans talent et qu’en sa qualité de
grande dame de la région et de musicienne renommée il lui
faudrait ensuite féliciter avec exagération, Mme de
Cambremer eût préféré aller se promener ou rester dans ses
merveilleux jardins de Féterne au bas desquels le flot assoupi
d’une petite baie vient mourir au milieu des fleurs. Mais elle
savait que sa venue probable avait été annoncée par le maître
de maison, que ce fût un noble ou un franc-bourgeois de
Maineville-la-Teinturière ou de Chatton-court-l’Orgueilleux.
Or, si Mme de Cambremer était sortie ce jour-là sans faire
acte de présence à la fête, tel ou tel des invités venu d’une
des petites plages qui longent la mer avait pu entendre et
voir la calèche de la marquise, ce qui eût ôté l’excuse de
n’avoir pu quitter Féterne. D’autre part, ces maîtres de
maison avaient beau avoir vu souvent Mme de Cambremer
se rendre à des concerts donnés chez des gens où ils
considéraient que ce n’était pas sa place d’être, la petite
diminution qui, à leurs yeux, était, de ce fait, infligée à la
situation de la trop bonne marquise disparaissait aussitôt que
c’était eux qui recevaient, et c’est avec fièvre qu’ils se
demandaient s’ils l’auraient ou non à leur petit goûter. Quel
soulagement à des inquiétudes ressenties depuis plusieurs
jours, si, après le premier morceau chanté par la fille des
maîtres de la maison ou par quelque amateur en villégiature,
un invité annonçait (signe infaillible que la marquise allait
venir à la matinée) avoir vu les chevaux de la fameuse
calèche arrêtés devant l’horloger ou le droguiste. Alors Mme
de Cambremer (qui, en effet, n’allait pas tarder à entrer,
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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suivie de sa belle-fille, des invités en ce moment à demeure
chez elle, et qu’elle avait demandé la permission, accordée
avec quelle joie, d’amener) reprenait tout son lustre aux yeux
des maîtres de maison, pour lesquels la récompense de sa
venue espérée avait peut-être été la cause déterminante et
inavouée de la décision qu’ils avaient prise il y a un mois :
s’infliger les tracas et faire les frais de donner une matinée.
Voyant la marquise présente à leur goûter, ils se rappelaient
non plus sa complaisance à se rendre à ceux de voisins peu
qualifiés, mais l’ancienneté de sa famille, le luxe de son
château, l’impolitesse de sa belle-fille née Legrandin qui, par
son arrogance, relevait la bonhomie un peu fade de la bellemère. Déjà ils croyaient lire, au courrier mondain du Gaulois,
l’entrefilet qu’ils cuisineraient eux-mêmes en famille, toutes
portes fermées à clef, sur « le petit coin de Bretagne où l’on
s’amuse ferme, la matinée ultra-select où l’on ne s’est séparé
qu’après avoir fait promettre aux maîtres de maison de
bientôt recommencer ». Chaque jour ils attendaient le
journal, anxieux de ne pas avoir encore vu leur matinée y
figurer, et craignant de n’avoir eu Mme de Cambremer que
pour leurs seuls invités et non pour la multitude des lecteurs.
Enfin le jour béni arrivait : « La saison est
exceptionnellement brillante cette année à Balbec. La mode
est aux petits concerts d’après-midi, etc... » Dieu merci, le
nom de Mme de Cambremer avait été bien orthographié et «
cité au hasard », mais en tête. Il ne restait plus qu’à paraître
ennuyé de cette indiscrétion des journaux qui pouvait
amener des brouilles avec les personnes qu’on n’avait pu
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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inviter, et à demander hypocritement, devant Mme de
Cambremer, qui avait pu avoir la perfidie d’envoyer cet écho
dont la marquise bienveillante et grande dame, disait : « Je
comprends que cela vous ennuie, mais pour moi je n’ai été
que très heureuse qu’on me sût chez vous. »
Sur la carte qu’on me remit, Mme de Cambremer avait
griffonné qu’elle donnait une matinée le surlendemain. Et
certes il y a seulement deux jours, si fatigué de vie mondaine
que je fusse, c’eût été un vrai plaisir pour moi que de la
goûter transplantée dans ces jardins où poussaient en pleine
terre, grâce à l’exposition de Féterne, les figuiers, les
palmiers, les plants de rosiers, jusque dans la mer souvent
d’un calme et d’un bleu méditerranéens et sur laquelle le
petit yacht des propriétaires allait, avant le commencement
de la fête, chercher, dans les plages de l’autre côté de la baie,
les invités les plus importants, servait, avec ses vélums
tendus contre le soleil, quand tout le monde était arrivé, de
salle à manger pour goûter, et repartait le soir reconduire
ceux qu’il avait amenés. Luxe charmant, mais si coûteux que
c’était en partie afin de parer aux dépenses qu’il entraînait
que Mme de Cambremer avait cherché à augmenter ses
revenus de différentes façons, et notamment en louant, pour
la première fois, une de ses propriétés, fort différente de
Féterne : la Raspelière. Oui, il y a deux jours, combien une
telle matinée, peuplée de petits nobles inconnus, dans un
cadre nouveau, m’eût changé de la « haute vie » parisienne !
Mais maintenant les plaisirs n’avaient plus aucun sens pour
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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moi. J’écrivis donc à Mme de Cambremer pour m’excuser,
de même qu’une heure avant j’avais fait congédier Albertine :
le chagrin avait aboli en moi la possibilité du désir aussi
complètement qu’une forte fièvre coupe l’appétit... Ma mère
devait arriver le lendemain. Il me semblait que j’étais moins
indigne de vivre auprès d’elle, que je la comprendrais mieux,
maintenant que toute une vie étrangère et dégradante avait
fait place à la remontée des souvenirs déchirants qui
ceignaient et ennoblissaient mon âme, comme la sienne, de
leur couronne d’épines. Je le croyais ; en réalité il y a bien
loin des chagrins véritables comme était celui de maman –
qui vous ôtent littéralement la vie pour bien longtemps,
quelquefois pour toujours, dès qu’on a perdu l’être qu’on
aime – à ces autres chagrins, passagers malgré tout, comme
devait être le mien, qui s’en vont vite comme ils sont venus
tard, qu’on ne connaît que longtemps après l’événement
parce qu’on a eu besoin pour les ressentir de les comprendre
; chagrins comme tant de gens en éprouvent, et dont celui
qui était actuellement ma torture ne se différenciait que par
cette modalité du souvenir involontaire.
Quant à un chagrin aussi profond que celui de ma mère, je
devais le connaître un jour, on le verra dans la suite de ce
récit, mais ce n’était pas maintenant, ni ainsi que je me le
figurais. Néanmoins, comme un récitant qui devrait
connaître son rôle et être à sa place depuis bien longtemps
mais qui est arrivé seulement à la dernière seconde et,
n’ayant lu qu’une fois ce qu’il a à dire, sait dissimuler assez
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habilement, quand vient le moment où il doit donner la
réplique, pour que personne ne puisse s’apercevoir de son
retard, mon chagrin tout nouveau me permit, quand ma
mère arriva, de lui parler comme s’il avait toujours été le
même. Elle crut seulement que la vue de ces lieux où j’avais
été avec ma grand’mère (et ce n’était d’ailleurs pas cela)
l’avait réveillé. Pour la première fois alors, et parce que
j’avais une douleur qui n’était rien à côté de la sienne, mais
qui m’ouvrait les yeux, je me rendis compte avec épouvante
de ce qu’elle pouvait souffrir. Pour la première fois je
compris que ce regard fixe et sans pleurs (ce qui faisait que
Françoise la plaignait peu) qu’elle avait depuis la mort de ma
grand’mère était arrêté sur cette incompréhensible
contradiction du souvenir et du néant. D’ailleurs, quoique
toujours dans ses voiles noirs, plus habillée dans ce pays
nouveau, j’étais plus frappé de la transformation qui s’était
accomplie en elle. Ce n’est pas assez de dire qu’elle avait
perdu toute gaîté ; fondue, figée en une sorte d’image
implorante, elle semblait avoir peur d’offenser d’un
mouvement trop brusque, d’un son de voix trop haut, la
présence douloureuse qui ne la quittait pas. Mais surtout, dès
que je la vis entrer, dans son manteau de crêpe, je m’aperçus
– ce qui m’avait échappé à Paris – que ce n’était plus ma
mère que j’avais sous les yeux, mais ma grand’mère. Comme
dans les familles royales et ducales, à la mort du chef le fils
prend son titre et, de duc d’Orléans, de prince de Tarente ou
de prince des Laumes, devient roi de France, duc de la
Trémoïlle, duc de Guermantes, ainsi souvent, par un
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avènement d’un autre ordre et de plus profonde origine, le
mort saisit le vif qui devient son successeur ressemblant, le
continuateur de sa vie interrompue. Peut-être le grand
chagrin qui suit, chez une fille telle qu’était maman, la mort
de sa mère, ne fait-il que briser plus tôt la chrysalide, hâter la
métamorphose et l’apparition d’un être qu’on porte en soi et
qui, sans cette crise qui fait brûler les étapes et sauter d’un
seul coup des périodes, ne fût survenu que plus lentement.
Peut-être dans le regret de celle qui n’est plus y a-t-il une
espèce de suggestion qui finit par amener sur nos traits des
similitudes que nous avions d’ailleurs en puissance, et y a-t-il
surtout arrêt de notre activité plus particulièrement
individuelle (chez ma mère, de son bon sens, de la gaîté
moqueuse qu’elle tenait de son père), que nous ne craignions
pas, tant que vivait l’être bien-aimé, d’exercer, fût-ce à ses
dépens, et qui contre-balançait le caractère que nous tenions
exclusivement de lui. Une fois qu’elle est morte, nous
aurions scrupule à être autre, nous n’admirons plus que ce
qu’elle était, ce que nous étions déjà, mais mêlé à autre
chose, et ce que nous allons être désormais uniquement.
C’est dans ce sens-là (et non dans celui si vague, si faux où
on l’entend généralement) qu’on peut dire que la mort n’est
pas inutile, que le mort continue à agir sur nous. Il agit
même plus qu’un vivant parce que, la véritable réalité n’étant
dégagée que par l’esprit, étant l’objet d’une opération
spirituelle, nous ne connaissons vraiment que ce que nous
sommes obligés de recréer par la pensée, ce que nous cache
la vie de tous les jours... Enfin dans ce culte du regret pour
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nos morts, nous vouons une idolâtrie à ce qu’ils ont aimé.
Non seulement ma mère ne pouvait se séparer du sac de ma
grand’mère, devenu plus précieux que s’il eût été de saphirs
et de diamants, de son manchon, de tous ces vêtements qui
accentuaient encore la ressemblance d’aspect entre elles
deux, mais même des volumes de Mme de Sévigné que ma
grand’mère avait toujours avec elle, exemplaires que ma
mère n’eût pas changés contre le manuscrit même des lettres.
Elle plaisantait autrefois ma grand’mère qui ne lui écrivait
jamais une fois sans citer une phrase de Mme de Sévigné ou
de Mme de Beausergent. Dans chacune des trois lettres que
je reçus de maman avant son arrivée à Balbec, elle me cita
Mme de Sévigné comme si ces trois lettres eussent été non
pas adressées par elle à moi, mais par ma grand’mère
adressées à elle. Elle voulut descendre sur la digue voir cette
plage dont ma grand’mère lui parlait tous les jours en lui
écrivant. Tenant à la main l’« en tous cas » de sa mère, je la
vis de la fenêtre s’avancer toute noire, à pas timides, pieux,
sur le sable que des pieds chéris avaient foulé avant elle, et
elle avait l’air d’aller à la recherche d’une morte que les flots
devaient ramener. Pour ne pas la laisser dîner seule, je dus
descendre avec elle. Le premier président et la veuve du
bâtonnier se firent présenter à elle. Et tout ce qui avait
rapport à ma grand’mère lui était si sensible qu’elle fut
touchée infiniment, garda toujours le souvenir et la
reconnaissance de ce que lui dit le premier président, comme
elle souffrit avec indignation de ce qu’au contraire la femme
du bâtonnier n’eût pas une parole de souvenir pour la morte.
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En réalité, le premier président ne se souciait pas plus d’elle
que la femme du bâtonnier. Les paroles émues de l’un et le
silence de l’autre, bien que ma mère mît entre eux une telle
différence, n’étaient qu’une façon diverse d’exprimer cette
indifférence que nous inspirent les morts. Mais je crois que
ma mère trouva surtout de la douceur dans les paroles où,
malgré moi, je laissai passer un peu de ma souffrance. Elle
ne pouvait que rendre maman heureuse (malgré toute la
tendresse qu’elle avait pour moi), comme tout ce qui assurait
à ma grand’mère une survivance dans les cœurs. Tous les
jours suivants ma mère descendit s’asseoir sur la plage, pour
faire exactement ce que sa mère avait fait, et elle lisait ses
deux livres préférés, les Mémoires de Mme de Beausergent
et les Lettres de Mme de Sévigné. Elle, et aucun de nous,
n’avait pu supporter qu’on appelât cette dernière la «
spirituelle marquise », pas plus que La Fontaine « le
Bonhomme ». Mais quand elle lisait dans les lettres ces mots
: « ma fille », elle croyait entendre sa mère lui parler.
Elle eut la mauvaise chance, dans un de ces pèlerinages où
elle ne voulait pas être troublée, de rencontrer sur la plage
une dame de Combray, suivie de ses filles. Je crois que son
nom était Mme Poussin. Mais nous ne l’appelions jamais
entre nous que « Tu m’en diras des nouvelles », car c’est par
cette phrase perpétuellement répétée qu’elle avertissait ses
filles des maux qu’elles se préparaient, par exemple en disant
à l’une qui se frottait les yeux : « Quand tu auras une bonne
ophtalmie, tu m’en diras des nouvelles. » Elle adressa de loin
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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à maman de longs saluts éplorés, non en signe de
condoléance, mais par genre d’éducation. Elle eût fait de
même si nous n’eussions pas perdu ma grand’mère et
n’eussions eu que des raisons d’être heureux. Vivant assez
retirée à Combray, dans un immense jardin, elle ne trouvait
jamais rien assez doux et faisait subir des adoucissements
aux mots et aux noms mêmes de la langue française. Elle
trouvait trop dur d’appeler « cuiller » la pièce d’argenterie qui
versait ses sirops, et disait en conséquence « cueiller » ; elle
eût eu peur de brusquer le doux chantre de Télémaque en
l’appelant rudement Fénelon – comme je faisais moi-même
en connaissance de cause, ayant pour ami le plus cher l’être
le plus intelligent, bon et brave, inoubliable à tous ceux qui
l’ont connu, Bertrand de Fénelon – et elle ne disait jamais
que « Fénélon » trouvant que l’accent aigu ajoutait quelque
mollesse. Le gendre, moins doux, de cette Mme Poussin, et
duquel j’ai oublié le nom, étant notaire à Combray, emporta
la caisse et fit perdre à mon oncle, notamment, une assez
forte somme. Mais la plupart des gens de Combray étaient si
bien avec les autres membres de la famille qu’il n’en résulta
aucun froid et qu’on se contenta de plaindre Mme Poussin.
Elle ne recevait pas, mais chaque fois qu’on passait devant sa
grille on s’arrêtait à admirer ses admirables ombrages, sans
pouvoir distinguer autre chose. Elle ne nous gêna guère à
Balbec où je ne la rencontrai qu’une fois, à un moment où
elle disait à sa fille en train de se ronger les ongles : « Quand
tu auras un bon panaris, tu m’en diras des nouvelles. »
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Pendant que maman lisait sur la plage je restais seul dans ma
chambre. Je me rappelais les derniers temps de la vie de ma
grand’mère et tout ce qui se rapportait à eux, la porte de
l’escalier qui était maintenue ouverte quand nous étions
sortis pour sa dernière promenade. En contraste avec tout
cela, le reste du monde semblait à peine réel et ma
souffrance l’empoisonnait tout entier. Enfin ma mère exigea
que je sortisse. Mais, à chaque pas, quelque aspect oublié du
Casino, de la rue où en l’attendant, le premier soir, j’étais allé
jusqu’au monument de Duguay-Trouin, m’empêchait,
comme un vent contre lequel on ne peut lutter, d’aller plus
avant ; je baissais les yeux pour ne pas voir. Et après avoir
repris quelque force, je revenais vers l’hôtel, vers l’hôtel où je
savais qu’il était désormais impossible que, si longtemps
dussé-je attendre, je retrouvasse ma grand’mère, que j’avais
retrouvée autrefois, le premier soir d’arrivée. Comme c’était
la première fois que je sortais, beaucoup de domestiques que
je n’avais pas encore vus me regardèrent curieusement. Sur le
seuil même de l’hôtel, un jeune chasseur ôta sa casquette
pour me saluer et la remit prestement. Je crus qu’Aimé lui
avait, selon son expression, « passé la consigne » d’avoir des
égards pour moi. Mais je vis au même moment que, pour
une autre personne qui rentrait, il l’enleva de nouveau. La
vérité était que, dans la vie, ce jeune homme ne savait qu’ôter
et remettre sa casquette, et le faisait parfaitement bien. Ayant
compris qu’il était incapable d’autre chose et qu’il excellait
dans celle-là, il l’accomplissait le plus grand nombre de fois
qu’il pouvait par jour, ce qui lui valait de la part des clients
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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une sympathie discrète mais générale, une grande sympathie
aussi de la part du concierge à qui revenait la tâche d’engager
les chasseurs et qui, jusqu’à cet oiseau rare, n’avait pas pu en
trouver un qui ne se fît renvoyer en moins de huit jours, au
grand étonnement d’Aimé qui disait : « Pourtant, dans ce
métier-là, on ne leur demande guère que d’être poli, ça ne
devrait pas être si difficile. » Le directeur tenait aussi à ce
qu’ils eussent ce qu’il appelait une belle « présence », voulant
dire qu’ils restassent là, ou plutôt ayant mal retenu le mot
prestance. L’aspect de la pelouse qui s’étendait derrière
l’hôtel avait été modifié par la création de quelques platesbandes fleuries et l’enlèvement non seulement d’un arbuste
exotique, mais du chasseur qui, la première année, décorait
extérieurement l’entrée par la tige souple de sa taille et la
coloration curieuse de sa chevelure. Il avait suivi une
comtesse polonaise qui l’avait pris comme secrétaire, imitant
en cela ses deux aînés et sa sœur dactylographe, arrachés à
l’hôtel par des personnalités de pays et de sexe divers, qui
s’étaient éprises de leur charme. Seul demeurait leur cadet,
dont personne ne voulait parce qu’il louchait. Il était fort
heureux quand la comtesse polonaise et les protecteurs des
deux autres venaient passer quelque temps à l’hôtel de
Balbec. Car, malgré qu’il enviât ses frères, il les aimait et
pouvait ainsi, pendant quelques semaines, cultiver des
sentiments de famille. L’abbesse de Fontevrault n’avait-elle
pas l’habitude, quittant pour cela ses moinesses, de venir
partager l’hospitalité qu’offrait Louis XIV à cette autre
Mortemart, sa maîtresse, Mme de Montespan ? Pour lui,
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c’était la première année qu’il était à Balbec ; il ne me
connaissait pas encore, mais ayant entendu ses camarades
plus anciens faire suivre, quand ils me parlaient, le mot de
Monsieur de mon nom, il les imita dès la première fois avec
l’air de satisfaction, soit de manifester son instruction
relativement à une personnalité qu’il jugeait connue, soit de
se conformer à un usage qu’il ignorait il y a cinq minutes,
mais auquel il lui semblait qu’il était indispensable de ne pas
manquer. Je comprenais très bien le charme que ce grand
palace pouvait offrir à certaines personnes. Il était dressé
comme un théâtre, et une nombreuse figuration l’animait
jusque dans les plinthes. Bien que le client ne fût qu’une
sorte de spectateur, il était mêlé perpétuellement au
spectacle, non même comme dans ces théâtres où les acteurs
jouent une scène dans la salle, mais comme si la vie du
spectateur se déroulait au milieu des somptuosités de la
scène. Le joueur de tennis pouvait rentrer en veston de
flanelle blanche, le concierge s’était mis en habit bleu
galonné d’argent pour lui donner ses lettres. Si ce joueur de
tennis ne voulait pas monter à pied, il n’était pas moins mêlé
aux acteurs en ayant à côté de lui pour faire monter
l’ascenseur le lift aussi richement costumé. Les couloirs des
étages dérobaient une fuite de caméristes et de couturières,
belles sur la mer et jusqu’aux petites chambres desquelles les
amateurs de la beauté féminine ancillaire arrivaient par de
savants détours. En bas, c’était l’élément masculin qui
dominait et faisait de cet hôtel, à cause de l’extrême et oisive
jeunesse des serviteurs, comme une sorte de tragédie judéo272
Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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chrétienne ayant pris corps et perpétuellement représentée.
Aussi ne pouvais-je m’empêcher de me dire à moi-même, en
les voyant, non certes les vers de Racine qui m’étaient venus
à l’esprit chez la princesse de Guermantes tandis que M. de
Vaugoubert regardait de jeunes secrétaires d’ambassade
saluant M. de Charlus, mais d’autres vers de Racine, cette
fois-ci non plus d’Esther, mais d’Athalie : car dès le hall, ce
qu’au XVIIe siècle on appelait les Portiques, « un peuple
florissant » de jeunes chasseurs se tenait, surtout à l’heure du
goûter, comme les jeunes Israélites des chœurs de Racine.
Mais je ne crois pas qu’un seul eût pu fournir même la vague
réponse que Joas trouve pour Athalie quand celle-ci
demande au prince enfant : « Quel est donc votre emploi ? »
car ils n’en avaient aucun. Tout au plus, si l’on avait
demandé à n’importe lequel d’entre eux, comme la nouvelle
Reine : « Mais tout ce peuple enfermé dans ce lieu, à quoi
s’occupe-t-il ? », aurait-il pu dire : « Je vois l’ordre pompeux
de ces cérémonies et j’y contribue. » Parfois un des jeunes
figurants allait vers quelque personnage plus important, puis
cette jeune beauté rentrait dans le chœur, et, à moins que ce
ne fût l’instant d’une détente contemplative, tous
entrelaçaient leurs évolutions inutiles, respectueuses,
décoratives et quotidiennes. Car, sauf leur « jour de sortie », «
loin du monde élevés » et ne franchissant pas le parvis, ils
menaient la même existence ecclésiastique que les lévites
dans Athalie, et devant cette « troupe jeune et fidèle » jouant
aux pieds des degrés couverts de tapis magnifiques, je
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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pouvais me demander si je pénétrais dans le grand hôtel de
Balbec ou dans le temple de Salomon.
Je remontais directement à ma chambre. Mes pensées étaient
habituellement attachées aux derniers jours de la maladie de
ma grand’mère, à ces souffrances que je revivais, en les
accroissant de cet élément, plus difficile encore à supporter
que la souffrance même des autres et auxquelles il est ajouté
par notre cruelle pitié ; quand nous croyons seulement
recréer les douleurs d’un être cher, notre pitié les exagère ;
mais peut-être est-ce elle qui est dans le vrai, plus que la
conscience qu’ont de ces douleurs ceux qui les souffrent, et
auxquels est cachée cette tristesse de leur vie, que la pitié,
elle, voit, dont elle se désespère. Toutefois ma pitié eût dans
un élan nouveau dépassé les souffrances de ma grand’mère si
j’avais su alors ce que j’ignorai longtemps, que ma
grand’mère, la veille de sa mort, dans un moment de
conscience et s’assurant que je n’étais pas là, avait pris la
main de maman et, après y avoir collé ses lèvres fiévreuses,
lui avait dit : « Adieu, ma fille, adieu pour toujours. » Et c’est
peut-être aussi ce souvenir-là que ma mère n’a plus jamais
cessé de regarder si fixement. Puis les doux souvenirs me
revenaient. Elle était ma grand’mère et j’étais son petit-fils.
Les expressions de son visage semblaient écrites dans une
langue qui n’était que pour moi ; elle était tout dans ma vie,
les autres n’existaient que relativement à elle, au jugement
qu’elle me donnerait sur eux ; mais non, nos rapports ont été
trop fugitifs pour n’avoir pas été accidentels. Elle ne me
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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connaît plus, je ne la reverrai jamais. Nous n’avions pas été
créés uniquement l’un pour l’autre, c’était une étrangère.
Cette étrangère, j’étais en train d’en regarder la photographie
par Saint-Loup. Maman, qui avait rencontré Albertine, avait
insisté pour que je la visse, à cause des choses gentilles
qu’elle lui avait dites sur grand’mère et sur moi. Je lui avais
donc donné rendez-vous. Je prévins le directeur pour qu’il la
fît attendre au salon. Il me dit qu’il la connaissait depuis bien
longtemps, elle et ses amies, bien avant qu’elles eussent
atteint « l’âge de la pureté », mais qu’il leur en voulait de
choses qu’elles avaient dites de l’hôtel. Il faut qu’elles ne
soient pas bien « illustrées » pour causer ainsi. À moins qu’on
ne les ait calomniées. Je compris aisément que pureté était
dit pour « puberté ». En attendant l’heure d’aller retrouver
Albertine, je tenais mes yeux fixés, comme sur un dessin
qu’on finit par ne plus voir à force de l’avoir regardé, sur la
photographie que Saint-Loup avait faite, quand tout d’un
coup, je pensai de nouveau : « C’est grand’mère, je suis son
petit-fils », comme un amnésique retrouve son nom, comme
un malade change de personnalité. Françoise entra me dire
qu’Albertine était là, et voyant la photographie : « Pauvre
Madame, c’est bien elle, jusqu’à son bouton de beauté sur la
joue ; ce jour que le marquis l’a photographiée, elle avait été
bien malade, elle s’était deux fois trouvée mal. « Surtout,
Françoise, qu’elle m’avait dit, il ne faut pas que mon petit-fils
le sache. » Et elle le cachait bien, elle était toujours gaie en
société. Seule, par exemple, je trouvais qu’elle avait l’air par
moments d’avoir l’esprit un peu monotone. Mais ça passait
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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vite. Et puis elle me dit comme ça : « Si jamais il m’arrivait
quelque chose, il faudrait qu’il ait un portrait de moi. Je n’en
ai jamais fait faire un seul. » Alors elle m’envoya dire à M. le
marquis, en lui recommandant de ne pas raconter à
Monsieur que c’était elle qui l’avait demandé, s’il ne pourrait
pas lui tirer sa photographie. Mais quand je suis revenue lui
dire que oui, elle ne voulait plus parce qu’elle se trouvait trop
mauvaise figure. « C’est pire encore, qu’elle me dit, que pas
de photographie du tout. » Mais comme elle n’était pas bête,
elle finit pas s’arranger si bien, en mettant un grand chapeau
rabattu, qu’il n’y paraissait plus quand elle n’était pas au
grand jour. Elle en était bien contente de sa photographie,
parce qu’en ce moment-là elle ne croyait pas qu’elle
reviendrait de Balbec. J’avais beau lui dire : « Madame, il ne
faut pas causer comme ça, j’aime pas entendre Madame
causer comme ça », c’était dans son idée. Et dame, il y avait
plusieurs jours qu’elle ne pouvait pas manger. C’est pour cela
qu’elle poussait Monsieur à aller dîner très loin avec M. le
marquis. Alors au lieu d’aller à table elle faisait semblant de
lire et, dès que la voiture du marquis était partie, elle montait
se coucher. Des jours elle voulait prévenir Madame d’arriver
pour la voir encore. Et puis elle avait peur de la surprendre,
comme elle ne lui avait rien dit. « Il vaut mieux qu’elle reste
avec son mari, voyez-vous Françoise. » Françoise, me
regardant, me demanda tout à coup si je me « sentais
indisposé ». Je lui dis que non ; et elle : « Et puis vous me
ficelez là à causer avec vous. Votre visite est peut-être déjà
arrivée. Il faut que je descende. Ce n’est pas une personne
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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pour ici. Et avec une allant vite comme elle, elle pourrait être
repartie. Elle n’aime pas attendre. Ah ! maintenant,
Mademoiselle Albertine, c’est quelqu’un. – Vous vous
trompez, Françoise, elle est assez bien, trop bien pour ici.
Mais allez la prévenir que je ne pourrai pas la voir
aujourd’hui. »
Quelles déclamations apitoyées j’aurais éveillées en Françoise
si elle m’avait vu pleurer. Soigneusement je me cachai. Sans
cela j’aurais eu sa sympathie. Mais je lui donnai la mienne.
Nous ne nous mettons pas assez dans le cœur de ces pauvres
femmes de chambre qui ne peuvent pas nous voir pleurer,
comme si pleurer nous faisait mal ; ou peut-être leur faisait
mal, Françoise m’ayant dit quand j’étais petit : « Ne pleurez
pas comme cela, je n’aime pas vous voir pleurer comme cela.
» Nous n’aimons pas les grandes phrases, les attestations,
nous avons tort, nous fermons ainsi notre cœur au
pathétique des campagnes, à la légende que la pauvre
servante, renvoyée, peut-être injustement, pour vol, toute
pâle, devenue subitement plus humble comme si c’était un
crime d’être accusée, déroule en invoquant l’honnêteté de
son père, les principes de sa mère, les conseils de l’aïeule.
Certes ces mêmes domestiques qui ne peuvent supporter nos
larmes nous feront prendre sans scrupule une fluxion de
poitrine parce que la femme de chambre d’au-dessous aime
les courants d’air et que ce ne serait pas poli de les
supprimer. Car il faut que ceux-là mêmes qui ont raison,
comme Françoise, aient tort aussi, pour faire de la Justice
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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une chose impossible. Même les humbles plaisirs des
servantes provoquent ou le refus ou la raillerie de leurs
maîtres. Car c’est toujours un rien, mais niaisement
sentimental, anti-hygiénique. Aussi peuvent-elles dire : «
Comment, moi qui ne demande que cela dans l’année, on ne
me l’accorde pas. » Et pourtant les maîtres accorderont
beaucoup plus, qui ne fût pas stupide et dangereux pour elles
– ou pour eux. Certes, à l’humilité de la pauvre femme de
chambre, tremblante, prête à avouer ce qu’elle n’a pas
commis, disant « je partirai ce soir s’il le faut », on ne peut
pas résister. Mais il faut savoir aussi ne pas rester insensibles,
malgré la banalité solennelle et menaçante des choses qu’elle
dit, son héritage maternel et la dignité du « clos », devant une
vieille cuisinière drapée dans une vie et une ascendance
d’honneur, tenant le balai comme un sceptre, poussant son
rôle au tragique, l’entrecoupant de pleurs, se redressant avec
majesté. Ce jour-là je me rappelai ou j’imaginai de telles
scènes, je les rapportai à notre vieille servante, et, depuis lors,
malgré tout le mal qu’elle put faire à Albertine, j’aimai
Françoise d’une affection, intermittente il est vrai, mais du
genre le plus fort, celui qui a pour base la pitié.
Certes, je souffris toute la journée en restant devant la
photographie de ma grand’mère. Elle me torturait. Moins
pourtant que ne fit le soir la visite du directeur. Comme je lui
parlais de ma grand’mère et qu’il me renouvelait ses
condoléances, je l’entendis me dire (car il aimait employer les
mots qu’il prononçait mal) : « C’est comme le jour où
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Madame votre grand’mère avait eu cette symecope, je
voulais vous en avertir, parce qu’à cause de la clientèle, n’estce pas, cela aurait pu faire du tort à la maison. Il aurait mieux
valu qu’elle parte le soir même. Mais elle me supplia de ne
rien dire et me promit qu’elle n’aurait plus de symecope, ou
qu’à la première elle partirait. Le chef de l’étage m’a pourtant
rendu compte qu’elle en a eu une autre. Mais, dame, vous
étiez de vieux clients qu’on cherchait à contenter, et du
moment que personne ne s’est plaint. » Ainsi ma grand’mère
avait des syncopes et me les avait cachées. Peut-être au
moment où j’étais le moins gentil pour elle, où elle était
obligée, tout en souffrant, de faire attention à être de bonne
humeur pour ne pas m’irriter et à paraître bien portante pour
ne pas être mise à la porte de l’hôtel. « Simecope » c’est un
mot que, prononcé ainsi, je n’aurais jamais imaginé, qui
m’aurait peut-être, s’appliquant à d’autres, paru ridicule, mais
qui dans son étrange nouveauté sonore, pareille à celle d’une
dissonance originale, resta longtemps ce qui était capable
d’éveiller en moi les sensations les plus douloureuses.
Le lendemain j’allai, à la demande de maman, m’étendre un
peu sur le sable, ou plutôt dans les dunes, là où on est caché
par leurs replis, et où je savais qu’Albertine et ses amies ne
pourraient pas me trouver. Mes paupières, abaissées, ne
laissaient passer qu’une seule lumière, toute rose, celle des
parois intérieures des yeux. Puis elles se fermèrent tout à fait.
Alors ma grand’mère m’apparut assise dans un fauteuil. Si
faible, elle avait l’air de vivre moins qu’une autre personne.
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Pourtant je l’entendais respirer ; parfois un signe montrait
qu’elle avait compris ce que nous disions, mon père et moi.
Mais j’avais beau l’embrasser, je ne pouvais pas arriver à
éveiller un regard d’affection dans ses yeux, un peu de
couleur sur ses joues. Absente d’elle-même, elle avait l’air de
ne pas m’aimer, de ne pas me connaître, peut-être de ne pas
me voir. Je ne pouvais deviner le secret de son indifférence,
de son abattement, de son mécontentement silencieux.
J’entraînai mon père à l’écart. « Tu vois tout de même, lui
dis-je, il n’y a pas à dire, elle a saisi exactement chaque chose.
C’est l’illusion complète de la vie. Si on pouvait faire venir
ton cousin qui prétend que les morts ne vivent pas ! Voilà
plus d’un an qu’elle est morte et, en somme, elle vit toujours.
Mais pourquoi ne veut-elle pas m’embrasser ? – Regarde, sa
pauvre tête retombe. – Mais elle voudrait aller aux ChampsÉlysées tantôt. – C’est de la folie ! – Vraiment, tu crois que
cela pourrait lui faire mal, qu’elle pourrait mourir davantage ?
Il n’est pas possible qu’elle ne m’aime plus. J’aurai beau
l’embrasser, est-ce qu’elle ne me sourira plus jamais ? – Que
veux-tu, les morts sont les morts. »
Quelques jours plus tard la photographie qu’avait faite SaintLoup m’était douce à regarder ; elle ne réveillait pas le
souvenir de ce que m’avait dit Françoise parce qu’il ne
m’avait plus quitté et je m’habituais à lui. Mais, en regard de
l’idée que je me faisais de son état si grave, si douloureux ce
jour-là, la photographie, profitant encore des ruses qu’avait
eues ma grand’mère et qui réussissaient à me tromper même
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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depuis qu’elles m’avaient été dévoilées, me la montrait si
élégante, si insouciante, sous le chapeau qui cachait un peu
son visage, que je la voyais moins malheureuse et mieux
portante que je ne l’avais imaginée. Et pourtant ses joues,
ayant à son insu une expression à elles, quelque chose de
plombé, de hagard, comme le regard d’une bête qui se
sentirait déjà choisie et désignée, ma grand’mère avait un air
de condamnée à mort, un air involontairement sombre,
inconsciemment tragique, qui m’échappait mais qui
empêchait maman de regarder jamais cette photographie,
cette photographie qui lui paraissait, moins une
photographie de sa mère que de la maladie de celle-ci, d’une
insulte que cette maladie faisait au visage brutalement
souffleté de grand’mère.
Puis un jour, je me décidai à faire dire à Albertine que je la
recevrais prochainement. C’est qu’un matin de grande
chaleur prématurée, les mille cris des enfants qui jouaient,
des baigneurs plaisantant, des marchands de journaux,
m’avaient décrit en traits de feu, en flammèches entrelacées,
la plage ardente que les petites vagues venaient une à une
arroser de leur fraîcheur ; alors avait commencé le concert
symphonique mêlé au clapotement de l’eau, dans lequel les
violons vibraient comme un essaim d’abeilles égaré sur la
mer. Aussitôt j’avais désiré de réentendre le rire d’Albertine,
de revoir ses amies, ces jeunes filles se détachant sur les flots,
et restées dans mon souvenir le charme inséparable, la flore
caractéristique de Balbec ; et j’avais résolu d’envoyer par
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Françoise un mot à Albertine, pour la semaine prochaine,
tandis que, montant doucement, la mer, à chaque
déferlement de lame, recouvrait complètement de coulées de
cristal la mélodie dont les phrases apparaissaient séparées les
unes des autres, comme ces anges luthiers qui, au faîte de la
cathédrale italienne, s’élèvent entre les crêtes de porphyre
bleu et de jaspe écumant. Mais le jour où Albertine vint, le
temps s’était de nouveau gâté et rafraîchi, et d’ailleurs je
n’eus pas l’occasion d’entendre son rire ; elle était de fort
mauvaise humeur. « Balbec est assommant cette année, me
dit-elle. Je tâcherai de ne pas rester longtemps. Vous savez
que je suis ici depuis Pâques, cela fait plus d’un mois. Il n’y a
personne. Si vous croyez que c’est folichon. » Malgré la pluie
récente et le ciel changeant à toute minute, après avoir
accompagné Albertine jusqu’à Egreville, car Albertine faisait,
selon son expression, la « navette » entre cette petite plage,
où était la villa de Mme Bontemps, et Incarville où elle avait
été « prise en pension » par les parents de Rosemonde, je
partis me promener seul vers cette grande route que prenait
la voiture de Mme de Villeparisis quand nous allions nous
promener avec ma grand’mère ; des flaques d’eau, que le
soleil qui brillait n’avait pas séchées, faisaient du sol un vrai
marécage, et je pensais à ma grand’mère qui jadis ne pouvait
marcher deux pas sans se crotter. Mais, dès que je fus arrivé
à la route, ce fut un éblouissement. Là où je n’avais vu, avec
ma grand’mère, au mois d’août, que les feuilles et comme
l’emplacement des pommiers, à perte de vue ils étaient en
pleine floraison, d’un luxe inouï, les pieds dans la boue et en
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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toilette de bal, ne prenant pas de précautions pour ne pas
gâter le plus merveilleux satin rose qu’on eût jamais vu et
que faisait briller le soleil ; l’horizon lointain de la mer
fournissait aux pommiers comme un arrière-plan d’estampe
japonaise ; si je levais la tête pour regarder le ciel entre les
fleurs, qui faisaient paraître son bleu rasséréné, presque
violent, elles semblaient s’écarter pour montrer la
profondeur de ce paradis. Sous cet azur, une brise légère
mais froide faisait trembler légèrement les bouquets
rougissants. Des mésanges bleues venaient se poser sur les
branches et sautaient entre les fleurs, indulgentes, comme si
c’eût été un amateur d’exotisme et de couleurs qui avait
artificiellement créé cette beauté vivante. Mais elle touchait
jusqu’aux larmes parce que, si loin qu’on allât dans ses effets
d’art raffiné, on sentait qu’elle était naturelle, que ces
pommiers étaient là en pleine campagne comme des paysans,
sur une grande route de France. Puis aux rayons du soleil
succédèrent subitement ceux de la pluie ; ils zébrèrent tout
l’horizon, enserrèrent la file des pommiers dans leur réseau
gris. Mais ceux-ci continuaient à dresser leur beauté, fleurie
et rose, dans le vent devenu glacial sous l’averse qui tombait :
c’était une journée de printemps.
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Deuxième partie
Chapitre deuxième
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Les mystères d’Albertine. – Les jeunes filles qu’elle voit dans
la glace. – La dame inconnue. – Le liftier. – Madame de
Cambremer. – Les plaisirs de M. Nissim Bernard. – Première
esquisse du caractère étrange de Morel. – M. de Charlus dîne
chez les Verdurin.
Dans ma crainte que le plaisir trouvé dans cette promenade
solitaire n’affaiblît en moi le souvenir de ma grand’mère, je
cherchais à le raviver en pensant à telle grande souffrance
morale qu’elle avait eue ; à mon appel cette souffrance
essayait de se construire dans mon cœur, elle y élançait ses
piliers immenses ; mais mon cœur, sans doute, était trop
petit pour elle, je n’avais la force de porter une douleur si
grande, mon attention se dérobait au moment où elle se
reformait tout entière, et ses arches s’effondraient avant de
s’être rejointes, comme avant d’avoir parfait leur voûte
s’écroulent les vagues. Cependant, rien que par mes rêves
quand j’étais endormi, j’aurais pu apprendre que mon
chagrin de la mort de ma grand’mère diminuait, car elle y
apparaissait moins opprimée par l’idée que je me faisais de
son néant. Je la voyais toujours malade, mais en voie de se
rétablir, je la trouvais mieux. Et si elle faisait allusion à ce
qu’elle avait souffert, je lui fermais la bouche avec mes
baisers et je l’assurais qu’elle était maintenant guérie pour
toujours. J’aurais voulu faire constater aux sceptiques que la
mort est vraiment une maladie dont on revient. Seulement je
ne trouvais plus chez ma grand’mère la riche spontanéité
d’autrefois. Ses paroles n’étaient qu’une réponse affaiblie,
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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docile, presque un simple écho de mes paroles ; elle n’était
plus que le reflet de ma propre pensée.
Incapable comme je l’étais encore d’éprouver à nouveau un
désir physique, Albertine recommençait cependant à
m’inspirer comme un désir de bonheur. Certains rêves de
tendresse partagée, toujours flottants en nous, s’allient
volontiers, par une sorte d’affinité, au souvenir (à condition
que celui-ci soit déjà devenu un peu vague) d’une femme
avec qui nous avons eu du plaisir. Ce sentiment me rappelait
des aspects du visage d’Albertine, plus doux, moins gais,
assez différents de ceux que m’eût évoqués le désir physique
; et comme il était aussi moins pressant que ne l’était ce
dernier, j’en eusse volontiers ajourné la réalisation à l’hiver
suivant sans chercher à revoir Albertine à Balbec avant son
départ. Mais, même au milieu d’un chagrin encore vif, le
désir physique renaît. De mon lit où on me faisait rester
longtemps tous les jours à me reposer, je souhaitais
qu’Albertine vînt recommencer nos jeux d’autrefois. Ne
voit-on pas, dans la chambre même où ils ont perdu un
enfant, des époux, bientôt de nouveau entrelacés, donner un
frère au petit mort ? J’essayais de me distraire de ce désir en
allant jusqu’à la fenêtre regarder la mer de ce jour-là. Comme
la première année, les mers, d’un jour à l’autre, étaient
rarement les mêmes. Mais d’ailleurs elles ne ressemblaient
guère à celles de cette première année, soit parce que
maintenant c’était le printemps avec ses orages, soit parce
que, même si j’étais venu à la même date que la première
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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fois, des temps différents, plus changeants, auraient pu
déconseiller cette côte à certaines mers indolentes,
vaporeuses et fragiles que j’avais vues pendant des jours
ardents dormir sur la plage en soulevant imperceptiblement
leur sein bleuâtre, d’une molle palpitation, soit surtout parce
que mes yeux, instruits par Elstir à retenir précisément les
éléments que j’écartais volontairement jadis, contemplaient
longuement ce que la première année ils ne savaient pas voir.
Cette opposition qui alors me frappait tant entre les
promenades agrestes que je faisais avec Mme de Villeparisis
et ce voisinage fluide, inaccessible et mythologique, de
l’Océan éternel n’existait plus pour moi. Et certains jours la
mer me semblait, au contraire, maintenant presque rurale
elle-même. Les jours, assez rares, de vrai beau temps, la
chaleur avait tracé sur les eaux, comme à travers champs,
une route poussiéreuse et blanche derrière laquelle la fine
pointe d’un bateau de pêche dépassait comme un clocher
villageois. Un remorqueur, dont on ne voyait que la
cheminée, fumait au loin comme une usine écartée, tandis
que seul à l’horizon un carré blanc et bombé, peint sans
doute par une voile, mais qui semblait compact et comme
calcaire, faisait penser à l’angle ensoleillé de quelque
bâtiment isolé, hôpital ou école. Et les nuages et le vent, les
jours où il s’en ajoutait au soleil, parachevaient sinon l’erreur
du jugement, du moins l’illusion du premier regard, la
suggestion qu’il éveille dans l’imagination. Car l’alternance
d’espaces de couleurs nettement tranchées, comme celles qui
résultent, dans la campagne, de la contiguïté de cultures
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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différentes, les inégalités âpres, jaunes, et comme boueuses
de la surface marine, les levées, les talus qui dérobaient à la
vue une barque où une équipe d’agiles matelots semblait
moissonner, tout cela, par les jours orageux, faisait de l’océan
quelque chose d’aussi varié, d’aussi consistant, d’aussi
accidenté, d’aussi populeux, d’aussi civilisé que la terre
carrossable sur laquelle j’allais autrefois et ne devais pas
tarder à faire des promenades. Et une fois, ne pouvant plus
résister à mon désir, au lieu de me recoucher, je m’habillai et
partis chercher Albertine à Incarville. Je lui demanderais de
m’accompagner jusqu’à Douville où j’irais faire à Féterne
une visite à Mme de Cambremer, et à la Raspelière une visite
à Mme Verdurin. Albertine m’attendrait pendant ce temps-là
sur la plage et nous reviendrions ensemble dans la nuit. J’allai
prendre le petit chemin de fer d’intérêt local dont j’avais, par
Albertine et ses amies, appris autrefois tous les surnoms
dans la région, où on l’appelait tantôt le Tortillard à cause de
ses innombrables détours, le Tacot parce qu’il n’avançait pas,
le Transatlantique à cause d’une effroyable sirène qu’il
possédait pour que se garassent les passants, le Decauville et
le Funi, bien que ce ne fût nullement un funiculaire mais
parce qu’il grimpait sur la falaise, ni même à proprement
parler un Decauville mais parce qu’il avait une voie de 60, le
B. A. G. parce qu’il allait de Balbec à Grallevast en passant
par Angerville, le Tram et le T. S. N. parce qu’il faisait partie
de la ligne des tramways du Sud de la Normandie. Je
m’installai dans un wagon où j’étais seul ; il faisait un soleil
splendide, on étouffait ; je baissai le store bleu qui ne laissa
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passer qu’une raie de soleil. Mais aussitôt je vis ma
grand’mère, telle qu’elle était assise dans le train à notre
départ de Paris à Balbec, quand, dans la souffrance de me
voir prendre de la bière, elle avait préféré ne pas regarder,
fermer les yeux et faire semblant de dormir. Moi qui ne
pouvais supporter autrefois la souffrance qu’elle avait quand
mon grand-père prenait du cognac, je lui avais infligé celle,
non pas même seulement de me voir prendre, sur l’invitation
d’un autre, une boisson qu’elle croyait funeste pour moi,
mais je l’avais forcée à me laisser libre de m’en gorger à ma
guise ; bien plus, par mes colères, mes crises d’étouffement,
je l’avais forcée à m’y aider, à me le conseiller, dans une
résignation suprême dont j’avais devant ma mémoire l’image
muette, désespérée, aux yeux clos pour ne pas voir. Un tel
souvenir, comme un coup de baguette, m’avait de nouveau
rendu l’âme que j’étais en train de perdre depuis quelque
temps ; qu’est-ce que j’aurais pu faire de Rosemonde quand
mes lèvres tout entières étaient parcourues seulement par le
désir désespéré d’embrasser une morte ? qu’aurais-je pu dire
aux Cambremer et aux Verdurin quand mon cœur battait si
fort parce que s’y reformait à tout moment la douleur que
ma grand’mère avait soufferte ? Je ne pus rester dans ce
wagon. Dès que le train s’arrêta à Maineville-la-Teinturière,
renonçant à mes projets, je descendis, je rejoignis la falaise et
j’en suivis les chemins sinueux. Maineville avait acquis depuis
quelque temps une importance considérable et une
réputation particulière, parce qu’un directeur de nombreux
casinos, marchand de bien-être, avait fait construire non loin
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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de là, avec un luxe de mauvais goût capable de rivaliser avec
celui d’un palace, un établissement, sur lequel nous
reviendrons, et qui était, à franc parler, la première maison
publique pour gens chics qu’on eût eu l’idée de construire
sur les côtes de France. C’était la seule. Chaque port a bien la
sienne, mais bonne seulement pour les marins et pour les
amateurs de pittoresque que cela amuse de voir, tout près de
l’église immémoriale, la patronne presque aussi vieille,
vénérable et moussue, se tenir devant sa porte mal famée en
attendant le retour des bateaux de pêche.
M’écartant de l’éblouissante maison de « plaisir »,
insolemment dressée là malgré les protestations des familles
inutilement adressées au maire, je rejoignis la falaise et j’en
suivis les chemins sinueux dans la direction de Balbec.
J’entendis sans y répondre l’appel des aubépines. Voisines
moins cossues des fleurs de pommiers, elles les trouvaient
bien lourdes, tout en reconnaissant le teint frais qu’ont les
filles, aux pétales rosés, de ces gros fabricants de cidre. Elles
savaient que, moins richement dotées, on les recherchait
cependant davantage et qu’il leur suffisait, pour plaire, d’une
blancheur chiffonnée.
Quand je rentrai, le concierge de l’hôtel me remit une lettre
de deuil où faisaient part le marquis et la marquise de
Gonneville, le vicomte et la vicomtesse d’Amfreville, le
comte et la comtesse de Berneville, le marquis et la marquise
de Graincourt, le comte d’Amenoncourt, la comtesse de
Maineville, le comte et la comtesse de Franquetot, la
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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comtesse de Chaverny née d’Aigleville, et de laquelle je
compris enfin pourquoi elle m’était envoyée quand je
reconnus les noms de la marquise de Cambremer née du
Mesnil La Guichard, du marquis et de la marquise de
Cambremer, et que je vis que la morte, une cousine des
Cambremer, s’appelait Éléonore-Euphrasie-Humbertine de
Cambremer, comtesse de Criquetot. Dans toute l’étendue de
cette famille provinciale, dont le dénombrement remplissait
des lignes fines et serrées, pas un bourgeois, et d’ailleurs pas
un titre connu, mais tout le ban et l’arrière-ban des nobles de
la région qui faisaient chanter leurs noms – ceux de tous les
lieux intéressants du pays – aux joyeuses finales en ville, en
court, parfois plus sourdes (en tot). Habillés des tuiles de
leur château ou du crépi de leur église, la tête branlant
dépassant à peine la voûte ou le corps de logis, et seulement
pour se coiffer du lanternon normand ou des colombages du
toit en poivrière, ils avaient l’air d’avoir sonné le
rassemblement de tous les jolis villages échelonnés ou
dispersés à cinquante lieues à la ronde et de les avoir
disposés en formation serrée, sans une lacune, sans un
intrus, dans le damier compact et rectangulaire de
l’aristocratique lettre bordée de noir.
Ma mère était remontée dans sa chambre, méditant cette
phrase de Mme de Sévigné : « Je ne vois aucun de ceux qui
veulent me divertir de vous ; en paroles couvertes c’est qu’ils
veulent m’empêcher de penser à vous et cela m’offense »,
parce que le premier président lui avait dit qu’elle devrait se
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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distraire. À moi il chuchota : « C’est la princesse de Parme. »
Ma peur se dissipa en voyant que la femme que me montrait
le magistrat n’avait aucun rapport avec Son Altesse Royale.
Mais comme elle avait fait retenir une chambre pour passer
la nuit en revenant de chez Mme de Luxembourg, la
nouvelle eut pour effet sur beaucoup de leur faire prendre
toute nouvelle dame arrivée pour la princesse de Parme – et
pour moi, de me faire monter m’enfermer dans mon grenier.
Je n’aurais pas voulu y rester seul. Il était à peine quatre
heures. Je demandai à Françoise d’aller chercher Albertine
pour qu’elle vînt passer la fin de l’après-midi avec moi.
Je crois que je mentirais en disant que commença déjà la
douloureuse et perpétuelle méfiance que devait m’inspirer
Albertine, à plus forte raison le caractère particulier, surtout
gomorrhéen, que devait revêtir cette méfiance. Certes, dès ce
jour-là – mais ce n’était pas le premier – mon attente fut un
peu anxieuse. Françoise, une fois partie, resta si longtemps
que je commençai à désespérer. Je n’avais pas allumé de
lampe. Il ne faisait plus guère jour. Le vent faisait claquer le
drapeau du Casino. Et, plus débile encore dans le silence de
la grève, sur laquelle la mer montait, et comme une voix qui
aurait traduit et accru le vague énervant de cette heure
inquiète et fausse, un petit orgue de Barbarie arrêté devant
l’hôtel jouait des valses viennoises. Enfin Françoise arriva,
mais seule. « Je suis été aussi vite que j’ai pu mais elle ne
voulait pas venir à cause qu’elle ne se trouvait pas assez
coiffée. Si elle n’est pas restée une heure d’horloge à se
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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pommader, elle n’est pas restée cinq minutes. Ça va être une
vraie parfumerie ici. Elle vient, elle est restée en arrière pour
s’arranger devant la glace. Je croyais la trouver là. » Le temps
fut long encore avant qu’Albertine arrivât. Mais la gaieté, la
gentillesse qu’elle eut cette fois dissipèrent ma tristesse. Elle
m’annonça (contrairement à ce qu’elle avait dit l’autre jour)
qu’elle resterait la saison entière, et me demanda si nous ne
pourrions pas, comme la première année, nous voir tous les
jours. Je lui dis qu’en ce moment j’étais trop triste et que je la
ferais plutôt chercher de temps en temps, au dernier
moment, comme à Paris. « Si jamais vous vous sentez de la
peine ou que le cœur vous en dise, n’hésitez pas, me dit-elle,
faites-moi chercher, je viendrai en vitesse, et si vous ne
craignez pas que cela fasse scandale dans l’hôtel, je resterai
aussi longtemps que vous voudrez. » Françoise avait, en la
ramenant, eu l’air heureuse comme chaque fois qu’elle avait
pris une peine pour moi et avait réussi à me faire plaisir.
Mais Albertine elle-même n’était pour rien dans cette joie et,
dès le lendemain, Françoise devait me dire ces paroles
profondes : « Monsieur ne devrait pas voir cette demoiselle.
Je vois bien le genre de caractère qu’elle a, elle vous fera des
chagrins. » En reconduisant Albertine, je vis, par la salle à
manger éclairée, la princesse de Parme. Je ne fis que la
regarder en m’arrangeant à n’être pas vu. Mais j’avoue que je
trouvai une certaine grandeur dans la royale politesse qui
m’avait fait sourire chez les Guermantes. C’est un principe
que les souverains sont partout chez eux, et le protocole le
traduit en usages morts et sans valeur, comme celui qui veut
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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que le maître de la maison tienne à la main son chapeau,
dans sa propre demeure, pour montrer qu’il n’est plus chez
lui mais chez le Prince. Or cette idée, la princesse de Parme
ne se la formulait peut-être pas, mais elle en était tellement
imbue que tous ses actes, spontanément inventés pour les
circonstances, la traduisaient. Quand elle se leva de table elle
remit un gros pourboire à Aimé comme s’il avait été là
uniquement pour elle et si elle récompensait, en quittant un
château, un maître d’hôtel affecté à son service. Elle ne se
contenta d’ailleurs pas du pourboire, mais avec un gracieux
sourire lui adressa quelques paroles aimables et flatteuses,
dont sa mère l’avait munie. Un peu plus, elle lui aurait dit
qu’autant l’hôtel était bien tenu, autant était florissante la
Normandie, et qu’à tous les pays du monde elle préférait la
France. Une autre pièce glissa des mains de la princesse pour
le sommelier qu’elle avait fait appeler et à qui elle tint à
exprimer sa satisfaction comme un général qui vient de
passer une revue. Le lift était, à ce moment, venu lui donner
une réponse ; il eut aussi un mot, un sourire et un pourboire,
tout cela mêlé de paroles encourageantes et humbles
destinées à leur prouver qu’elle n’était pas plus que l’un
d’eux. Comme Aimé, le sommelier, le lift et les autres
crurent qu’il serait impoli de ne pas sourire jusqu’aux oreilles
à une personne qui leur souriait, elle fut bientôt entourée
d’un groupe de domestiques avec qui elle causa
bienveillamment ; ces façons étant inaccoutumées dans les
palaces, les personnes qui passaient sur la place, ignorant son
nom, crurent qu’ils voyaient une habituée de Balbec, qui, à
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cause d’une extraction médiocre ou dans un intérêt
professionnel (c’était peut-être la femme d’un placier en
Champagne), était moins différente de la domesticité que les
clients vraiment chics. Pour moi je pensai au palais de
Parme, aux conseils moitié religieux, moitié politiques
donnés à cette princesse, laquelle agissait avec le peuple
comme si elle avait dû se le concilier pour régner un jour,
bien plus, comme si elle régnait déjà.
Je remontais dans ma chambre, mais je n’y étais pas seul.
J’entendais quelqu’un jouer avec moelleux des morceaux de
Schumann. Certes il arrive que les gens, même ceux que
nous aimons le mieux, se saturent de la tristesse ou de
l’agacement qui émane de nous. Il y a pourtant quelque
chose qui est capable d’un pouvoir d’exaspérer où
n’atteindra jamais une personne : c’est un piano.
Albertine m’avait fait prendre en note les dates où elle devait
s’absenter et aller chez des amies pour quelques jours, et
m’avait fait inscrire aussi leur adresse pour si j’avais besoin
d’elle un de ces soirs-là, car aucune n’habitait bien loin. Cela
fit que, pour la trouver, de jeune fille en jeune fille, se
nouèrent tout naturellement autour d’elle des liens de fleurs.
J’ose avouer que beaucoup de ses amies – je ne l’aimais pas
encore – me donnèrent, sur une plage ou une autre, des
instants de plaisir. Ces jeunes camarades bienveillantes ne me
semblaient pas très nombreuses. Mais dernièrement j’y ai
repensé, leurs noms me sont revenus. Je comptai que, dans
cette seule saison, douze me donnèrent leurs frêles faveurs.
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Un nom me revint ensuite, ce qui fit treize. J’eus alors
comme une cruauté enfantine de rester sur ce nombre.
Hélas, je songeais que j’avais oublié la première, Albertine
qui n’était plus et qui fit la quatorzième.
J’avais, pour reprendre le fil du récit, inscrit les noms et les
adresses des jeunes filles chez qui je la trouverais tel jour où
elle ne serait pas à Incarville, mais de ces jours-là j’avais
pensé que je profiterais plutôt pour aller chez Mme
Verdurin. D’ailleurs nos désirs pour différentes femmes
n’ont pas toujours la même force. Tel soir nous ne pouvons
nous passer d’une qui, après cela, pendant un mois ou deux,
ne nous troublera guère. Et puis les causes d’alternance, que
ce n’est pas le lieu d’étudier ici, après les grandes fatigues
charnelles, font que la femme dont l’image hante notre
sénilité momentanée est une femme qu’on ne ferait presque
que baiser sur le front. Quant à Albertine, je la voyais
rarement, et seulement les soirs, fort espacés, où je ne
pouvais me passer d’elle. Si un tel désir me saisissait quand
elle était trop loin de Balbec pour que Françoise pût aller
jusque-là, j’envoyais le lift à Egreville, à la Sogne, à SaintFrichoux, en lui demandant de terminer son travail un peu
plus tôt. Il entrait dans ma chambre, mais en laissait la porte
ouverte car, bien qu’il fît avec conscience son « boulot »,
lequel était fort dur, consistant, dès cinq heures du matin, en
nombreux nettoyages, il ne pouvait se résoudre à l’effort de
fermer une porte et, si on lui faisait remarquer qu’elle était
ouverte, il revenait en arrière et, aboutissant à son maximum
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d’effort, la poussait légèrement. Avec l’orgueil démocratique
qui le caractérisait et auquel n’atteignent pas dans les
carrières libérales les membres de professions un peu
nombreuses, avocats, médecins, hommes de lettres appelant
seulement un autre avocat, homme de lettres ou médecin : «
Mon confrère », lui, usant avec raison d’un terme réservé aux
corps restreints, comme les académies par exemple, il me
disait, en parlant d’un chasseur qui était lift un jour sur deux :
« Je vais voir à me faire remplacer par mon collègue. » Cet
orgueil ne l’empêchait pas, dans le but d’améliorer ce qu’il
appelait son traitement, d’accepter pour ses courses des
rémunérations, qui l’avaient fait prendre en horreur à
Françoise : « Oui, la première fois qu’on le voit on lui
donnerait le bon Dieu sans confession, mais il y a des jours
où il est poli comme une porte de prison. Tout ça c’est des
tire-sous. » Cette catégorie où elle avait si souvent fait figurer
Eulalie et où, hélas, pour tous les malheurs que cela devait
un jour amener, elle rangeait déjà Albertine, parce qu’elle me
voyait souvent demander à maman, pour mon amie peu
fortunée, de menus objets, des colifichets, ce que Françoise
trouvait inexcusable, parce que Mme Bontemps n’avait
qu’une bonne à tout faire. Bien vite, le lift, ayant retiré ce que
j’eusse appelé sa livrée et ce qu’il nommait sa tunique,
apparaissait en chapeau de paille, avec une canne, soignant sa
démarche et le corps redressé, car sa mère lui avait
recommandé de ne jamais prendre le genre « ouvrier » ou «
chasseur ». De même que, grâce aux livres, la science l’est à
un ouvrier qui n’est plus ouvrier quand il a fini son travail, de
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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même, grâce au canotier et à la paire de gants, l’élégance
devenait accessible au lift qui, ayant cessé, pour la soirée, de
faire monter les clients, se croyait, comme un jeune
chirurgien qui a retiré sa blouse, ou le maréchal des logis
Saint-Loup sans uniforme, devenu un parfait homme du
monde. Il n’était pas d’ailleurs sans ambition, ni talent non
plus pour manipuler sa cage et ne pas vous arrêter entre
deux étages. Mais son langage était défectueux. Je croyais à
son ambition parce qu’il disait en parlant du concierge,
duquel il dépendait : « Mon concierge », sur le même ton
qu’un homme possédant à Paris ce que le chasseur eût
appelé « un hôtel particulier » eût parlé de son portier. Quant
au langage du liftier, il est curieux que quelqu’un qui
entendait cinquante fois par jour un client appeler : «
Ascenseur », ne dît jamais lui-même qu’« accenseur ».
Certaines choses étaient extrêmement agaçantes chez ce
liftier : quoi que je lui eusse dit il m’interrompait par une
locution « Vous pensez ! » ou « Pensez ! » qui semblait
signifier ou bien que ma remarque était d’une telle évidence
que tout le monde l’eût trouvée, ou bien reporter sur lui le
mérite comme si c’était lui qui attirait mon attention làdessus. « Vous pensez ! » ou « Pensez ! », exclamé avec la
plus grande énergie, revenait toutes les deux minutes dans sa
bouche, pour des choses dont il ne se fût jamais avisé, ce qui
m’irritait tant que je me mettais aussitôt à dire le contraire
pour lui montrer qu’il n’y comprenait rien. Mais à ma
seconde assertion, bien qu’elle fût inconciliable avec la
première, il ne répondait pas moins : « Vous pensez ! »,
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comme si ces mots étaient inévitables. Je lui pardonnais
difficilement aussi qu’il employât certains termes de son
métier, et qui eussent, à cause de cela, été parfaitement
convenables au propre, seulement dans le sens figuré, ce qui
leur donnait une intention spirituelle assez bébête, par
exemple le verbe pédaler. Jamais il n’en usait quand il avait
fait une course à bicyclette. Mais si, à pied, il s’était dépêché
pour être à l’heure, pour signifier qu’il avait marché vite il
disait : « Vous pensez si on a pédalé ! » Le liftier était plutôt
petit, mal bâti et assez laid. Cela n’empêchait pas que chaque
fois qu’on lui parlait d’un jeune homme de taille haute,
élancée et fine, il disait : « Ah ! oui, je sais, un qui est juste de
ma grandeur. » Et un jour que j’attendais une réponse de lui,
comme on avait monté l’escalier, au bruit des pas j’avais par
impatience ouvert la porte de ma chambre et j’avais vu un
chasseur beau comme Endymion, les traits incroyablement
parfaits, qui venait pour une dame que je ne connaissais pas.
Quand le liftier était rentré, en lui disant avec quelle
impatience j’avais attendu sa réponse, je lui avais raconté que
j’avais cru qu’il montait mais que c’était un chasseur de
l’hôtel de Normandie. « Ah ! oui, je sais lequel, me dit-il, il
n’y en a qu’un, un garçon de ma taille. Comme figure aussi il
me ressemble tellement qu’on pourrait nous prendre l’un
pour l’autre, on dirait tout à fait mon frangin. » Enfin il
voulait paraître avoir tout compris dès la première seconde,
ce qui faisait que, dès qu’on lui recommandait quelque chose,
il disait : « Oui, oui, oui, oui, oui, je comprends très bien »,
avec une netteté et un ton intelligent qui me firent quelque
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temps illusion ; mais les personnes, au fur et à mesure qu’on
les connaît, sont comme un métal plongé dans un mélange
altérant, et on les voit peu à peu perdre leurs qualités
(comme parfois leurs défauts). Avant de lui faire mes
recommandations, je vis qu’il avait laissé la porte ouverte ; je
le lui fis remarquer, j’avais peur qu’on ne nous entendît ; il
condescendit à mon désir et revint ayant diminué
l’ouverture. « C’est pour vous faire plaisir. Mais il n’y a plus
personne à l’étage que nous deux. » Aussitôt j’entendis
passer une, puis deux, puis trois personnes. Cela m’agaçait à
cause de l’indiscrétion possible, mais surtout parce que je
voyais que cela ne l’étonnait nullement et que c’était un vaet-vient normal. « Oui, c’est la femme de chambre d’à côté
qui va chercher ses affaires. Oh ! c’est sans importance, c’est
le sommelier qui remonte ses clefs. Non, non, ce n’est rien,
vous pouvez parler, c’est mon collègue qui va prendre son
service. » Et comme les raisons que tous les gens avaient de
passer ne diminuaient pas mon ennui qu’ils pussent
m’entendre, sur mon ordre formel, il alla, non pas fermer la
porte, ce qui était au-dessus des forces de ce cycliste qui
désirait une « moto », mais la pousser un peu plus. « Comme
ça nous sommes bien tranquilles. » Nous l’étions tellement
qu’une Américaine entra et se retira en s’excusant de s’être
trompée de chambre. « Vous allez me ramener cette jeune
fille, lui dis-je, après avoir fait claquer moi-même la porte de
toutes mes forces (ce qui amena un autre chasseur s’assurer
qu’il n’y avait pas de fenêtre ouverte). Vous vous rappelez
bien : Mlle Albertine Simonet. Du reste, c’est sur
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l’enveloppe. Vous n’avez qu’à lui dire que cela vient de moi.
Elle viendra très volontiers, ajoutai-je pour l’encourager et ne
pas trop m’humilier. – Vous pensez ! – Mais non, au
contraire, ce n’est pas du tout naturel qu’elle vienne
volontiers. C’est très incommode de venir de Berneville ici. –
Je comprends ! – Vous lui direz de venir avec vous. – Oui,
oui, oui, oui, je comprends très bien, répondait-il de ce ton
précis et fin qui depuis longtemps avait cessé de me faire «
bonne impression » parce que je savais qu’il était presque
mécanique et recouvrait sous sa netteté apparente beaucoup
de vague et de bêtise. – À quelle heure serez-vous revenu ? –
J’ai pas pour bien longtemps, disait le lift qui, poussant à
l’extrême la règle édictée par Bélise d’éviter la récidive du pas
avec le ne, se contentait toujours d’une seule négative. Je
peux très bien y aller. Justement les sorties ont été
supprimées ce tantôt parce qu’il y avait un salon de 20
couverts pour le déjeuner. Et c’était mon tour de sortir le
tantôt. C’est bien juste si je sors un peu ce soir. Je prends
n’avec moi mon vélo. Comme cela je ferai vite. » Et une
heure après il arrivait en me disant : « Monsieur a bien
attendu, mais cette demoiselle vient n’avec moi. Elle est en
bas. – Ah ! merci, le concierge ne sera pas fâché contre moi ?
– Monsieur Paul ? Il sait seulement pas où je suis été. Même
le chef de la porte n’a rien à dire. » Mais une fois où je lui
avais dit : « Il faut absolument que vous la rameniez », il me
dit en souriant : « Vous savez que je ne l’ai pas trouvée. Elle
n’est pas là. Et j’ai pas pu rester plus longtemps ; j’avais peur
d’être comme mon collègue qui a été envoyé de l’hôtel (car
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le lift qui disait rentrer pour une profession où on entre pour
la première fois, « je voudrais bien rentrer dans les postes »,
pour compensation, ou pour adoucir la chose s’il s’était agi
de lui, ou l’insinuer plus doucereusement et perfidement s’il
s’agissait d’un autre supprimait l’r et disait : « Je sais qu’il a
été envoyé »). Ce n’était pas par méchanceté qu’il souriait,
mais à cause de sa timidité. Il croyait diminuer l’importance
de sa faute en la prenant en plaisanterie. De même s’il
m’avait dit : « Vous savez que je ne l’ai pas trouvée », ce n’est
pas qu’il crût qu’en effet je le susse déjà. Au contraire il ne
doutait pas que je l’ignorasse, et surtout il s’en effrayait.
Aussi disait-il « vous le savez » pour s’éviter à lui-même les
affres qu’il traverserait en prononçant les phrases destinées à
me l’apprendre. On ne devrait jamais se mettre en colère
contre ceux qui, pris en faute par nous, se mettent à ricaner.
Ils le font non parce qu’ils se moquent, mais tremblent que
nous puissions être mécontents. Témoignons une grande
pitié, montrons une grande douceur à ceux qui rient. Pareil à
une véritable attaque, le trouble du lift avait amené chez lui
non seulement une rougeur apoplectique mais une altération
du langage, devenu soudain familier. Il finit par m’expliquer
qu’Albertine n’était pas à Egreville, qu’elle devait revenir
seulement à 9 heures et que, si des fois, ce qui voulait dire
par hasard, elle rentrait plus tôt, on lui ferait la commission,
et qu’elle serait en tout cas chez moi avant une heure du
matin.
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Ce ne fut pas ce soir-là encore, d’ailleurs, que commença à
prendre consistance ma cruelle méfiance. Non, pour le dire
tout de suite, et bien que le fait ait eu lieu seulement
quelques semaines après, elle naquit d’une remarque de
Cottard. Albertine et ses amies avaient voulu ce jour-là
m’entraîner au casino d’Incarville et, pour ma chance, je ne
les y eusse pas rejointes (voulant aller faire une visite à Mme
Verdurin qui m’avait invité plusieurs fois), si je n’eusse été
arrêté à Incarville même par une panne de tram qui allait
demander un certain temps de réparation. Marchant de long
en large en attendant qu’elle fût finie, je me trouvai tout à
coup face à face avec le docteur Cottard venu à Incarville en
consultation. J’hésitai presque à lui dire bonjour comme il
n’avait répondu à aucune de mes lettres. Mais l’amabilité ne
se manifeste pas chez tout le monde de la même façon.
N’ayant pas été astreint par l’éducation aux mêmes règles
fixes de savoir-vivre que les gens du monde, Cottard était
plein de bonnes intentions qu’on ignorait, qu’on niait,
jusqu’au jour où il avait l’occasion de les manifester. Il
s’excusa, avait bien reçu mes lettres, avait signalé ma
présence aux Verdurin, qui avaient grande envie de me voir
et chez qui il me conseillait d’aller. Il voulait même m’y
emmener le soir même, car il allait reprendre le petit chemin
de fer d’intérêt local pour y aller dîner. Comme j’hésitais et
qu’il avait encore un peu de temps pour son train, la panne
devant être assez longue, je le fis entrer dans le petit Casino,
un de ceux qui m’avaient paru si tristes le soir de ma
première arrivée, maintenant plein du tumulte des jeunes
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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filles qui, faute de cavaliers, dansaient ensemble. Andrée vint
à moi en faisant des glissades, je comptais repartir dans un
instant avec Cottard chez les Verdurin, quand je refusai
définitivement son offre, pris d’un désir trop vif de rester
avec Albertine. C’est que je venais de l’entendre rire. Et ce
rire évoquait aussi les roses carnations, les parois parfumées
contre lesquelles il semblait qu’il vînt de se frotter et dont,
âcre, sensuel et révélateur comme une odeur de géranium, il
semblait transporter avec lui quelques particules presque
pondérables, irritantes et secrètes.
Une des jeunes filles que je ne connaissais pas se mit au
piano, et Andrée demanda à Albertine de valser avec elle.
Heureux, dans ce petit Casino, de penser que j’allais rester
avec ces jeunes filles, je fis remarquer à Cottard comme elles
dansaient bien. Mais lui, du point de vue spécial du médecin,
et avec une mauvaise éducation qui ne tenait pas compte de
ce que je connaissais ces jeunes filles, à qui il avait pourtant
dû me voir dire bonjour, me répondit : « Oui, mais les
parents sont bien imprudents qui laissent leurs filles prendre
de pareilles habitudes. Je ne permettrais certainement pas
aux miennes de venir ici. Sont-elles jolies au moins ? Je ne
distingue pas leurs traits. Tenez, regardez, ajouta-t-il en me
montrant Albertine et Andrée qui valsaient lentement,
serrées l’une contre l’autre, j’ai oublié mon lorgnon et je ne
vois pas bien, mais elles sont certainement au comble de la
jouissance. On ne sait pas assez que c’est surtout par les
seins que les femmes l’éprouvent. Et, voyez, les leurs se
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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touchent complètement. » En effet, le contact n’avait pas
cessé entre ceux d’Andrée et ceux d’Albertine. Je ne sais si
elles entendirent ou devinèrent la réflexion de Cottard, mais
elles se détachèrent légèrement l’une de l’autre tout en
continuant à valser. Andrée dit à ce moment un mot à
Albertine et celle-ci rit du même rire pénétrant et profond
que j’avais entendu tout à l’heure. Mais le trouble qu’il
m’apporta cette fois ne me fut plus que cruel ; Albertine
avait l’air d’y montrer, de faire constater à Andrée quelque
frémissement voluptueux et secret. Il sonnait comme les
premiers ou les derniers accords d’une fête inconnue. Je
repartis avec Cottard, distrait en causant avec lui, ne pensant
que par instants à la scène que je venais de voir. Ce n’était
pas que la conversation de Cottard fût intéressante. Elle était
même en ce moment devenue aigre car nous venions
d’apercevoir le docteur du Boulbon, qui ne nous vit pas. Il
était venu passer quelque temps de l’autre côté de la baie de
Balbec, où on le consultait beaucoup. Or, quoique Cottard
eût l’habitude de déclarer qu’il ne faisait pas de médecine en
vacances, il avait espéré se faire, sur cette côte, une clientèle
de choix, à quoi du Boulbon se trouvait mettre obstacle.
Certes le médecin de Balbec ne pouvait gêner Cottard.
C’était seulement un médecin très consciencieux, qui savait
tout et à qui on ne pouvait parler de la moindre
démangeaison sans qu’il vous indiquât aussitôt, dans une
formule complexe, la pommade, lotion ou liniment qui
convenait. Comme disait Marie Gineste dans son joli
langage, il savait « charmer » les blessures et les plaies. Mais il
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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n’avait pas d’illustration. Il avait bien causé un petit ennui à
Cottard. Celui-ci, depuis qu’il voulait troquer sa chaire contre
celle de thérapeutique, s’était fait une spécialité des
intoxications. Les intoxications, périlleuse innovation de la
médecine, servant à renouveler les étiquettes des
pharmaciens dont tout produit est déclaré nullement
toxique, au rebours des drogues similaires, et même
désintoxiquant. C’est la réclame à la mode ; à peine s’il survit
en bas, en lettres illisibles, comme une faible trace d’une
mode précédente, l’assurance que le produit a été
soigneusement antiseptisé. Les intoxications servent aussi à
rassurer le malade, qui apprend avec joie que sa paralysie
n’est qu’un malaise toxique. Or un grand-duc étant venu
passer quelques jours à Balbec et ayant un œil extrêmement
enflé avait fait venir Cottard lequel, en échange de quelques
billets de cent francs (le professeur ne se dérangeait pas à
moins), avait imputé comme cause à l’inflammation un état
toxique et prescrit un régime désintoxiquant. L’œil ne
désenflant pas, le grand-duc se rabattit sur le médecin
ordinaire de Balbec, lequel en cinq minutes retira un grain de
poussière. Le lendemain il n’y paraissait plus. Un rival plus
dangereux pourtant était une célébrité des maladies
nerveuses. C’était un homme rouge, jovial, à la fois parce que
la fréquentation de la déchéance nerveuse ne l’empêchait pas
d’être très bien portant, et aussi pour rassurer ses malades
par le gros rire de son bonjour et de son au revoir, quitte à
aider de ses bras d’athlète à leur passer plus tard la camisole
de force. Néanmoins, dès qu’on causait avec lui dans le
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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monde, fût-ce de politique ou de littérature, il vous écoutait
avec une bienveillance attentive, d’un air de dire : « De quoi
s’agit-il ? », sans se prononcer tout de suite comme s’il s’était
agi d’une consultation. Mais enfin celui-là, quelque talent
qu’il eût, était un spécialiste. Aussi toute la rage de Cottard
était-elle reportée sur du Boulbon. Je quittai du reste bientôt,
pour rentrer, le professeur ami des Verdurin, en lui
promettant d’aller les voir.
Le mal que m’avaient fait ses paroles concernant Albertine et
Andrée était profond, mais les pires souffrances n’en furent
pas senties par moi immédiatement, comme il arrive pour
ces empoisonnements qui n’agissent qu’au bout d’un certain
temps.
Albertine, le soir où le lift était allé la chercher, ne vint pas,
malgré les assurances de celui-ci. Certes les charmes d’une
personne sont une cause moins fréquente d’amour qu’une
phrase du genre de celle-ci : « Non, ce soir je ne serai pas
libre. » On ne fait guère attention à cette phrase si on est
avec des amis ; on est gai toute la soirée, on ne s’occupe pas
d’une certaine image ; pendant ce temps-là elle baigne dans
le mélange nécessaire ; en rentrant on trouve le cliché, qui est
développé et parfaitement net. On s’aperçoit que la vie n’est
plus la vie qu’on aurait quittée pour un rien la veille, parce
que, si on continue à ne pas craindre la mort, on n’ose plus
penser à la séparation.
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Du reste, à partir, non d’une heure du matin (heure que le
liftier avait fixée), mais de trois heures, je n’eus plus comme
autrefois la souffrance de sentir diminuer mes chances
qu’elle apparût. La certitude qu’elle ne viendrait plus
m’apporta un calme complet, une fraîcheur ; cette nuit était
tout simplement une nuit comme tant d’autres où je ne la
voyais pas, c’est de cette idée que je partais. Et dès lors la
pensée que je la verrais le lendemain ou d’autres jours, se
détachant sur ce néant accepté, devenait douce. Quelquefois,
dans ces soirées d’attente, l’angoisse est due à un
médicament qu’on a pris. Faussement interprété par celui qui
souffre, il croit être anxieux à cause de celle qui ne vient pas.
L’amour naît dans ce cas comme certaines maladies
nerveuses de l’explication inexacte d’un malaise pénible.
Explication qu’il n’est pas utile de rectifier, du moins en ce
qui concerne l’amour, sentiment qui (quelle qu’en soit la
cause) est toujours erroné.
Le lendemain, quand Albertine m’écrivit qu’elle venait
seulement de rentrer à Egreville, n’avait donc pas eu mon
mot à temps, et viendrait, si je le permettais, me voir le soir,
derrière les mots de sa lettre comme derrière ceux qu’elle
m’avait dits une fois au téléphone, je crus sentir la présence
de plaisirs, d’êtres, qu’elle m’avait préférés. Encore une fois
je fus agité tout entier par la curiosité douloureuse de savoir
ce qu’elle avait pu faire, par l’amour latent qu’on porte
toujours en soi ; je pus croire un moment qu’il allait
m’attacher à Albertine, mais il se contenta de frémir sur
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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place et ses dernières rumeurs s’éteignirent sans qu’il se fût
mis en marche.
J’avais mal compris, dans mon premier séjour à Balbec – et
peut-être bien Andrée avait fait comme moi – le caractère
d’Albertine. J’avais cru que c’était frivolité, mais ne savais si
toutes nos supplications ne réussiraient pas à la retenir et lui
faire manquer une garden-party, une promenade à ânes, un
pique-nique. Dans mon second séjour à Balbec, je
soupçonnai que cette frivolité n’était qu’une apparence, la
garden-party qu’un paravent, sinon une invention. Il se
passait sous des formes diverses la chose suivante (j’entends
la chose vue par moi, de mon côté du verre, qui n’était
nullement transparent, et sans que je puisse savoir ce qu’il y
avait de vrai de l’autre côté). Albertine me faisait les
protestations de tendresse les plus passionnées. Elle
regardait l’heure parce qu’elle devait aller faire une visite à
une dame qui recevait, paraît-il, tous les jours à cinq heures,
à Infreville. Tourmenté d’un soupçon et me sentant d’ailleurs
souffrant, je demandais à Albertine, je la suppliais de rester
avec moi. C’était impossible (et même elle n’avait plus que
cinq minutes à rester) parce que cela fâcherait cette dame,
peu hospitalière et susceptible, et, disait Albertine,
assommante. « Mais on peut bien manquer une visite. –
Non, ma tante m’a appris qu’il fallait être polie avant tout. –
Mais je vous ai vue si souvent être impolie. – Là, ce n’est pas
la même chose, cette dame m’en voudrait et me ferait des
histoires avec ma tante. Je ne suis déjà pas si bien que cela
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avec elle. Elle tient à ce que je sois allée une fois la voir. –
Mais puisqu’elle reçoit tous les jours. » Là, Albertine sentant
qu’elle s’était « coupée », modifiait la raison. « Bien entendu
elle reçoit tous les jours. Mais aujourd’hui j’ai donné rendezvous chez elle à des amies. Comme cela on s’ennuiera moins.
– Alors, Albertine, vous préférez la dame et vos amies à moi,
puisque, pour ne pas risquer de faire une visite un peu
ennuyeuse, vous préférez de me laisser seul, malade et désolé
? – Cela me serait bien égal que la visite fût ennuyeuse. Mais
c’est par dévouement pour elles. Je les ramènerai dans ma
carriole. Sans cela elles n’auraient plus aucun moyen de
transport. » Je faisais remarquer à Albertine qu’il y avait des
trains jusqu’à 10 heures du soir, d’Infreville. « C’est vrai,
mais, vous savez, il est possible qu’on nous demande de
rester à dîner. Elle est très hospitalière. – Hé bien, vous
refuserez. – Je fâcherais encore ma tante. – Du reste, vous
pouvez dîner et prendre le train de 10 heures. – C’est un peu
juste. – Alors je ne peux jamais aller dîner en ville et revenir
par le train. Mais tenez, Albertine, nous allons faire une
chose bien simple : je sens que l’air me fera du bien ; puisque
vous ne pouvez lâcher la dame, je vais vous accompagner
jusqu’à Infreville. Ne craignez rien, je n’irai pas jusqu’à la
tour Élisabeth (la villa de la dame), je ne verrai ni la dame, ni
vos amies. » Albertine avait l’air d’avoir reçu un coup
terrible. Sa parole était entrecoupée. Elle dit que les bains de
mer ne lui réussissaient pas. « Si ça vous ennuie que je vous
accompagne ? – Mais comment pouvez-vous dire cela, vous
savez bien que mon plus grand plaisir est de sortir avec vous.
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» Un brusque revirement s’était opéré. « Puisque nous allons
nous promener ensemble, me dit-elle, pourquoi n’irionsnous pas de l’autre côté de Balbec, nous dînerions ensemble.
Ce serait si gentil. Au fond, cette côte-là est bien plus jolie. Je
commence à en avoir soupé d’Infreville et du reste, tous ces
petits coins vert-épinard. – Mais l’amie de votre tante sera
fâchée si vous n’allez pas la voir. – Hé bien, elle se défâchera.
– Non, il ne faut pas fâcher les gens. – Mais elle ne s’en
apercevra même pas, elle reçoit tous les jours ; que j’y aille
demain, après-demain, dans huit jours, dans quinze jours,
cela fera toujours l’affaire. – Et vos amies ? – Oh ! elles
m’ont assez souvent plaquée. C’est bien mon tour. – Mais du
côté que vous me proposez, il n’y a pas de train après neuf
heures. – Hé bien, la belle affaire ! neuf heures c’est parfait.
Et puis il ne faut jamais se laisser arrêter par les questions du
retour. On trouvera toujours une charrette, un vélo, à défaut
on a ses jambes. – On trouve toujours, Albertine, comme
vous y allez ! Du côté d’Infreville, où les petites stations de
bois sont collées les unes à côtés des autres, oui. Mais du
côté de... ce n’est pas la même chose. – Même de ce côté-là.
Je vous promets de vous ramener sain et sauf. » Je sentais
qu’Albertine renonçait pour moi à quelque chose d’arrangé
qu’elle ne voulait pas me dire, et qu’il y avait quelqu’un qui
serait malheureux comme je l’étais. Voyant que ce qu’elle
avait voulu n’était pas possible, puisque je voulais
l’accompagner, elle renonçait franchement. Elle savait que ce
n’était pas irrémédiable. Car, comme toutes les femmes qui
ont plusieurs choses dans leur existence, elle avait ce point
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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d’appui qui ne faiblit jamais : le doute et la jalousie. Certes
elle ne cherchait pas à les exciter, au contraire. Mais les
amoureux sont si soupçonneux qu’ils flairent tout de suite le
mensonge. De sorte qu’Albertine n’était pas mieux qu’une
autre, savait par expérience (sans deviner le moins du monde
qu’elle le devait à la jalousie) qu’elle était toujours sûre de
retrouver les gens qu’elle avait plaqués un soir. La personne
inconnue qu’elle lâchait pour moi souffrirait, l’en aimerait
davantage (Albertine ne savait pas que c’était pour cela), et,
pour ne pas continuer à souffrir, reviendrait de soi-même
vers elle, comme j’aurais fait. Mais je ne voulais ni faire de la
peine, ni me fatiguer, ni entrer dans la voie terrible des
investigations, de la surveillance multiforme, innombrable. «
Non, Albertine, je ne veux pas gâter votre plaisir, allez chez
votre dame d’Infreville, ou enfin chez la personne dont elle
est le porte-nom, cela m’est égal. La vraie raison pour
laquelle je ne vais pas avec vous, c’est que vous ne le désirez
pas, que la promenade que vous feriez avec moi n’est pas
celle que vous vouliez faire, la preuve en est que vous vous
êtes contredite plus de cinq fois sans vous en apercevoir. »
La pauvre Albertine craignit que ses contradictions, qu’elle
n’avait pas aperçues, eussent été plus graves. Ne sachant pas
exactement les mensonges qu’elle avait faits : « C’est très
possible que je me sois contredite. L’air de la mer m’ôte tout
raisonnement. Je dis tout le temps les noms les uns pour les
autres. » Et (ce qui me prouva qu’elle n’aurait pas eu besoin,
maintenant, de beaucoup de douces affirmations pour que je
la crusse) je ressentis la souffrance d’une blessure en
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entendant cet aveu de ce que je n’avais que faiblement
supposé. « Hé bien, c’est entendu, je pars, dit-elle d’un ton
tragique, non sans regarder l’heure afin de voir si elle n’était
pas en retard pour l’autre, maintenant que je lui fournissais le
prétexte de ne pas passer la soirée avec moi. Vous êtes trop
méchant. Je change tout pour passer une bonne soirée avec
vous et c’est vous qui ne voulez pas, et vous m’accusez de
mensonge. Jamais je ne vous avais encore vu si cruel. La mer
sera mon tombeau. Je ne vous reverrai jamais. (Mon cœur
battit à ces mots, bien que je fusse sûr qu’elle reviendrait le
lendemain, ce qui arriva.) Je me noierai, je me jetterai à l’eau.
– Comme Sapho. – Encore une insulte de plus ; vous n’avez
pas seulement des doutes sur ce que je dis mais sur ce que je
fais. – Mais, mon petit, je ne mettais aucune intention, je
vous le jure, vous savez que Sapho s’est précipitée dans la
mer. – Si, si, vous n’avez aucune confiance en moi. » Elle vit
qu’il était moins vingt à la pendule ; elle craignit de rater ce
qu’elle avait à faire, et, choisissant l’adieu le plus bref (dont
elle s’excusa, du reste, en me venant voir le lendemain ;
probablement, ce lendemain-là, l’autre personne n’était pas
libre), elle s’enfuit au pas de course en criant : « Adieu pour
jamais », d’un air désolé. Et peut-être était-elle désolée. Car
sachant ce qu’elle faisait en ce moment mieux que moi, plus
sévère et plus indulgente à la fois à elle-même que je n’étais
pour elle, peut-être avait-elle tout de même un doute que je
ne voudrais plus la recevoir après la façon dont elle m’avait
quitté. Or, je crois qu’elle tenait à moi, au point que l’autre
personne était plus jalouse que moi-même.
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Quelques jours après, à Balbec, comme nous étions dans la
salle de danse du Casino, entrèrent la sœur et la cousine de
Bloch, devenues l’une et l’autre fort jolies, mais que je ne
saluais plus à cause de mes amies, parce que la plus jeune, la
cousine, vivait, au su de tout le monde, avec l’actrice dont
elle avait fait la connaissance pendant mon premier séjour.
Andrée, sur une allusion qu’on fit à mi-voix à cela, me dit : «
Oh ! là-dessus je suis comme Albertine, il n’y a rien qui nous
fasse horreur à toutes les deux comme cela. » Quant à
Albertine, se mettant à causer avec moi sur le canapé où
nous étions assis, elle avait tourné le dos aux deux jeunes
filles de mauvais genre. Et pourtant j’avais remarqué
qu’avant ce mouvement, au moment où étaient apparues
Mlle Bloch et sa cousine, avait passé dans les yeux de mon
amie cette attention brusque et profonde qui donnait parfois
au visage de l’espiègle jeune fille un air sérieux, même grave,
et la laissait triste après. Mais Albertine avait aussitôt
détourné vers moi ses regards restés pourtant singulièrement
immobiles et rêveurs. Mlle Bloch et sa cousine ayant fini par
s’en aller après avoir ri très fort et poussé des cris peu
convenables, je demandai à Albertine si la petite blonde
(celle qui était l’amie de l’actrice) n’était pas la même qui, la
veille, avait eu le prix dans la course pour les voitures de
fleurs. « Ah ! je ne sais pas, dit Albertine, est-ce qu’il y en a
une qui est blonde ? Je vous dirai qu’elles ne m’intéressent
pas beaucoup, je ne les ai jamais regardées. Est-ce qu’il y en a
une qui est blonde ? » demanda-t-elle d’un air interrogateur
et détaché à ses trois amies. S’appliquant à des personnes
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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qu’Albertine rencontrait tous les jours sur la digue, cette
ignorance me parut bien excessive pour ne pas être feinte. «
Elles n’ont pas l’air de nous regarder beaucoup non plus, disje à Albertine, peut-être dans l’hypothèse, que je
n’envisageais pourtant pas d’une façon consciente, où
Albertine eût aimé les femmes, de lui ôter tout regret en lui
montrant qu’elle n’avait pas attiré l’attention de celles-ci, et
que d’une façon générale il n’est pas d’usage, même pour les
plus vicieuses, de se soucier des jeunes filles qu’elles ne
connaissent pas. – Elles ne nous ont pas regardées ? me
répondit étourdiment Albertine. Elles n’ont pas fait autre
chose tout le temps. – Mais vous ne pouvez pas le savoir, lui
dis-je, vous leur tourniez le dos. – Eh bien, et cela ? » me
répondit-elle en me montrant, encastrée dans le mur en face
de nous, une grande glace que je n’avais pas remarquée, et
sur laquelle je comprenais maintenant que mon amie, tout en
me parlant, n’avait pas cessé de fixer ses beaux yeux remplis
de préoccupation.
À partir du jour où Cottard fut entré avec moi dans le petit
casino d’Incarville, sans partager l’opinion qu’il avait émise,
Albertine ne me sembla plus la même ; sa vue me causait de
la colère. Moi-même j’avais changé tout autant qu’elle me
semblait autre. J’avais cessé de lui vouloir du bien ; en sa
présence, hors de sa présence quand cela pouvait lui être
répété, je parlais d’elle de la façon la plus blessante. Il y avait
des trêves cependant. Un jour j’apprenais qu’Albertine et
Andrée avaient accepté toutes deux une invitation chez
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Elstir. Ne doutant pas que ce fût en considération de ce
qu’elles pourraient, pendant le retour, s’amuser, comme des
pensionnaires, à contrefaire les jeunes filles qui ont mauvais
genre, et y trouver un plaisir inavoué de vierges qui me
serrait le cœur, sans m’annoncer, pour les gêner et priver
Albertine du plaisir sur lequel elle comptait, j’arrivai à
l’improviste chez Elstir. Mais je n’y trouvai qu’Andrée.
Albertine avait choisi un autre jour où sa tante devait y aller.
Alors je me disais que Cottard avait dû se tromper ;
l’impression favorable que m’avait produite la présence
d’Andrée sans son amie se prolongeait et entretenait en moi
des dispositions plus douces à l’égard d’Albertine. Mais elles
ne duraient pas plus longtemps que la fragile bonne santé de
ces personnes délicates sujettes à des mieux passagers, et
qu’un rien suffit à faire retomber malades. Albertine incitait
Andrée à des jeux qui, sans aller bien loin, n’étaient peut-être
pas tout à fait innocents ; souffrant de ce soupçon, je
finissais par l’éloigner. À peine j’en étais guéri qu’il renaissait
sous une autre forme. Je venais de voir Andrée, dans un de
ces mouvements gracieux qui lui étaient particuliers, poser
câlinement sa tête sur l’épaule d’Albertine, l’embrasser dans
le cou en fermant à demi les yeux ; ou bien elles avaient
échangé un coup d’œil ; une parole avait échappé à
quelqu’un qui les avait vues seules ensemble et allant se
baigner, petits riens tels qu’il en flotte d’une façon habituelle
dans l’atmosphère ambiante où la plupart des gens les
absorbent toute la journée sans que leur santé en souffre ou
que leur humeur s’en altère, mais qui sont morbides et
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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générateurs de souffrances nouvelles pour un être
prédisposé. Parfois même, sans que j’eusse revu Albertine,
sans que personne m’eût parlé d’elle, je retrouvais dans ma
mémoire une pose d’Albertine auprès de Gisèle et qui
m’avait paru innocente alors ; elle suffisait maintenant pour
détruire le calme que j’avais pu retrouver, je n’avais même
plus besoin d’aller respirer au dehors des germes dangereux,
je m’étais, comme aurait dit Cottard, intoxiqué moi-même. Je
pensais alors à tout ce que j’avais appris de l’amour de
Swann pour Odette, de la façon dont Swann avait été joué
toute sa vie. Au fond, si je veux y penser, l’hypothèse qui me
fit peu à peu construire tout le caractère d’Albertine et
interpréter douloureusement chaque moment d’une vie que
je ne pouvais pas contrôler entière, ce fut le souvenir, l’idée
fixe du caractère de Mme Swann, tel qu’on m’avait raconté
qu’il était. Ces récits contribuèrent à faire que, dans l’avenir,
mon imagination faisait le jeu de supposer qu’Albertine
aurait pu, au lieu d’être une jeune fille bonne, avoir la même
immoralité, la même faculté de tromperie qu’une ancienne
grue, et je pensais à toutes les souffrances qui m’auraient
attendu dans ce cas si j’avais jamais dû l’aimer.
Un jour, devant le Grand-Hôtel où nous étions réunis sur la
digue, je venais d’adresser à Albertine les paroles les plus
dures et les plus humiliantes, et Rosemonde disait : « Ah ! ce
que vous êtes changé tout de même pour elle, autrefois il n’y
en avait que pour elle, c’était elle qui tenait la corde,
maintenant elle n’est plus bonne à donner à manger aux
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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chiens. » J’étais en train, pour faire ressortir davantage
encore mon attitude à l’égard d’Albertine, d’adresser toutes
les amabilités possibles à Andrée qui, si elle était atteinte du
même vice, me semblait plus excusable parce qu’elle était
souffrante et neurasthénique, quand nous vîmes déboucher
au petit trot de ses deux chevaux, dans la rue perpendiculaire
à la digue à l’angle de laquelle nous nous tenions, la calèche
de Mme de Cambremer. Le premier président qui, à ce
moment, s’avançait vers nous, s’écarta d’un bond, quand il
reconnut la voiture, pour ne pas être vu dans notre société ;
puis, quand il pensa que les regards de la marquise allaient
pouvoir croiser les siens, s’inclina en lançant un immense
coup de chapeau. Mais la voiture, au lieu de continuer,
comme il semblait probable, par la rue de la Mer, disparut
derrière l’entrée de l’hôtel. Il y avait bien dix minutes de cela
lorsque le lift, tout essoufflé, vint me prévenir : « C’est la
marquise de Camembert qui vient n’ici pour voir Monsieur.
Je suis monté à la chambre, j’ai cherché au salon de lecture,
je ne pouvais pas trouver Monsieur. Heureusement que j’ai
eu l’idée de regarder sur la plage. » Il finissait à peine son
récit que, suivie de sa belle-fille et d’un monsieur très
cérémonieux, s’avança vers moi la marquise, arrivant
probablement d’une matinée ou d’un thé dans le voisinage et
toute voûtée sous le poids moins de la vieillesse que de la
foule d’objets de luxe dont elle croyait plus aimable et plus
digne de son rang d’être recouverte afin de paraître le plus «
habillé » possible aux gens qu’elle venait voir. C’était, en
somme, à l’hôtel, ce « débarquage » des Cambremer que ma
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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grand’mère redoutait si fort autrefois quand elle voulait
qu’on laissât ignorer à Legrandin que nous irions peut-être à
Balbec. Alors maman riait des craintes inspirées par un
événement qu’elle jugeait impossible. Voici qu’enfin il se
produisait pourtant, mais par d’autres voies et sans que
Legrandin y fût pour quelque chose. « Est-ce que je peux
rester, si je ne vous dérange pas, me demanda Albertine
(dans les yeux de qui restaient, amenées par les choses
cruelles que je venais de lui dire, quelques larmes que je
remarquai sans paraître les voir, mais non sans en être
réjoui), j’aurais quelque chose à vous dire. » Un chapeau à
plumes, surmonté lui-même d’une épingle de saphir, était
posé n’importe comment sur la perruque de Mme de
Cambremer, comme un insigne dont l’exhibition est
nécessaire, mais suffisante, la place indifférente, l’élégance
conventionnelle, et l’immobilité inutile. Malgré la chaleur, la
bonne dame avait revêtu un mantelet de jais pareil à une
dalmatique, par-dessus lequel pendait une étole d’hermine
dont le port semblait en relation non avec la température et
la saison, mais avec le caractère de la cérémonie. Et sur la
poitrine de Mme de Cambremer un tortil de baronne relié à
une chaînette pendait à la façon d’une croix pectorale. Le
Monsieur était un célèbre avocat de Paris, de famille
nobiliaire, qui était venu passer trois jours chez les
Cambremer. C’était un de ces hommes à qui leur expérience
professionnelle consommée fait un peu mépriser leur
profession et qui disent par exemple : « Je sais que je plaide
bien, aussi cela ne m’amuse plus de plaider », ou : « Cela ne
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m’intéresse plus d’opérer ; je sais que j’opère bien. »
Intelligents, artistes, ils voient autour de leur maturité,
fortement rentée par le succès, briller cette « intelligence »,
cette nature d’« artiste » que leurs confrères leur
reconnaissent et qui leur confère un à-peu-près de goût et de
discernement. Ils se prennent de passion pour la peinture
non d’un grand artiste, mais d’un artiste cependant très
distingué, et à l’achat des œuvres duquel ils emploient les
gros revenus que leur procure leur carrière. Le Sidaner était
l’artiste élu par l’ami des Cambremer, lequel était, du reste,
très agréable. Il parlait bien des livres, mais non de ceux des
vrais maîtres, de ceux qui se sont maîtrisés. Le seul défaut
gênant qu’offrît cet amateur était qu’il employait certaines
expressions toutes faites d’une façon constante, par exemple
: « en majeure partie », ce qui donnait à ce dont il voulait
parler quelque chose d’important et d’incomplet. Mme de
Cambremer avait profité, me dit-elle, d’une matinée que des
amis à elle avaient donnée ce jour-là à côté de Balbec, pour
venir me voir, comme elle l’avait promis à Robert de SaintLoup. « Vous savez qu’il doit bientôt venir passer quelques
jours dans le pays. Son oncle Charlus y est en villégiature
chez sa belle-sœur, la duchesse de Luxembourg, et M. de
Saint-Loup profitera de l’occasion pour aller à la fois dire
bonjour à sa tante et revoir son ancien régiment, où il est
très aimé, très estimé. Nous recevons souvent des officiers
qui nous parlent tous de lui avec des éloges infinis. Comme
ce serait gentil si vous nous faisiez le plaisir de venir tous les
deux à Féterne. » Je lui présentai Albertine et ses amies. Mme
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de Cambremer nous nomma à sa belle-fille. Celle-ci, qui se
montrait glaciale avec les petits nobliaux que le voisinage de
Féterne la forçait à fréquenter, si pleine de réserve de crainte
de se compromettre, me tendit au contraire la main avec un
sourire rayonnant, mise comme elle était en sûreté et en joie
devant un ami de Robert de Saint-Loup et que celui-ci,
gardant plus de finesse mondaine qu’il ne voulait le laisser
voir, lui avait dit très lié avec les Guermantes. Telle, au
rebours de sa belle-mère, Mme de Cambremer avait-elle
deux politesses infiniment différentes. C’est tout au plus la
première, sèche, insupportable, qu’elle m’eût concédée si je
l’avais connue par son frère Legrandin. Mais pour un ami
des Guermantes elle n’avait pas assez de sourires. La pièce la
plus commode de l’hôtel pour recevoir était le salon de
lecture, ce lieu jadis si terrible où maintenant j’entrais dix fois
par jour, ressortant librement, en maître, comme ces fous
peu atteints et depuis si longtemps pensionnaires d’un asile
que le médecin leur en a confié la clef. Aussi offris-je à Mme
de Cambremer de l’y conduire. Et comme ce salon ne
m’inspirait plus de timidité et ne m’offrait plus de charme
parce que le visage des choses change pour nous comme
celui des personnes, c’est sans trouble que je lui fis cette
proposition. Mais elle la refusa, préférant rester dehors, et
nous nous assîmes en plein air, sur la terrasse de l’hôtel. J’y
trouvai et recueillis un volume de Mme de Sévigné que
maman n’avait pas eu le temps d’emporter dans sa fuite
précipitée, quand elle avait appris qu’il arrivait des visites
pour moi. Autant que ma grand’mère elle redoutait ces
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invasions d’étrangers et, par peur de ne plus pouvoir
s’échapper si elle se laissait cerner, elle se sauvait avec une
rapidité qui nous faisait toujours, à mon père et à moi, nous
moquer d’elle. Mme de Cambremer tenait à la main, avec la
crosse d’une ombrelle, plusieurs sacs brodés, un vide-poche,
une bourse en or d’où pendaient des fils de grenats, et un
mouchoir en dentelle. Il me semblait qu’il lui eût été plus
commode de les poser sur une chaise ; mais je sentais qu’il
eût été inconvenant et inutile de lui demander d’abandonner
les ornements de sa tournée pastorale et de son sacerdoce
mondain. Nous regardions la mer calme où des mouettes
éparses flottaient comme des corolles blanches. À cause du
niveau de simple « médium » où nous abaisse la conversation
mondaine, et aussi notre désir de plaire non à l’aide de nos
qualités ignorées de nous-mêmes, mais de ce que nous
croyons devoir être prisé par ceux qui sont avec nous, je me
mis instinctivement à parler à Mme de Cambremer, née
Legrandin, de la façon qu’eut pu faire son frère. « Elles ont,
dis-je, en parlant des mouettes, une immobilité et une
blancheur de nymphéas. » Et en effet elles avaient l’air
d’offrir un but inerte aux petits flots qui les ballottaient au
point que ceux-ci, par contraste, semblaient, dans leur
poursuite, animés d’une intention, prendre de la vie. La
marquise douairière ne se lassait pas de célébrer la superbe
vue de la mer que nous avions à Balbec, et m’enviait, elle qui
de la Raspelière (qu’elle n’habitait du reste pas cette année)
ne voyait les flots que de si loin. Elle avait deux singulières
habitudes qui tenaient à la fois à son amour exalté pour les
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arts (surtout pour la musique) et à son insuffisance dentaire.
Chaque fois qu’elle parlait esthétique, ses glandes salivaires,
comme celles de certains animaux au moment du rut,
entraient dans une phase d’hypersécrétion telle que la
bouche édentée de la vieille dame laissait passer, au coin des
lèvres légèrement moustachues, quelques gouttes dont ce
n’était pas la place. Aussitôt elle les ravalait avec un grand
soupir, comme quelqu’un qui reprend sa respiration. Enfin,
s’il s’agissait d’une trop grande beauté musicale, dans son
enthousiasme elle levait les bras et proférait quelques
jugements sommaires, énergiquement mastiqués et au besoin
venant du nez. Or je n’avais jamais songé que la vulgaire
plage de Balbec pût offrir en effet une « vue de mer », et les
simples paroles de Mme de Cambremer changeaient mes
idées à cet égard. En revanche, et je le lui dis, j’avais toujours
entendu célébrer le coup d’œil unique de la Raspelière, située
au faîte de la colline et où, dans un grand salon à deux
cheminées, toute une rangée de fenêtres regarde, au bout des
jardins, entre les feuillages, la mer jusqu’au delà de Balbec, et
l’autre rangée, la vallée. « Comme vous êtes aimable et
comme c’est bien dit : la mer entre les feuillages. C’est
ravissant, on dirait... un éventail. » Et je sentis à une
respiration profonde destinée à rattraper la salive et à
assécher la moustache, que le compliment était sincère. Mais
la marquise, née Legrandin, resta froide pour témoigner de
son dédain non pas pour mes paroles mais pour celles de sa
belle-mère. D’ailleurs elle ne méprisait pas seulement
l’intelligence de celle-ci, mais déplorait son amabilité,
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craignant toujours que les gens n’eussent pas une idée
suffisante des Cambremer. « Et comme le nom est joli, disje. On aimerait savoir l’origine de tous ces noms-là. – Pour
celui-là je peux vous le dire, me répondit avec douceur la
vieille dame. C’est une demeure de famille, de ma
grand’mère Arrachepel, ce n’est pas une famille illustre, mais
c’est une bonne et très ancienne famille de province. –
Comment, pas illustre ? interrompit sèchement sa belle-fille.
Tout un vitrail de la cathédrale de Bayeux est rempli par ses
armes, et la principale église d’Avranches contient leurs
monuments funéraires. Si ces vieux noms vous amusent,
ajouta-t-elle, vous venez un an trop tard. Nous avions fait
nommer à la cure de Criquetot, malgré toutes les difficultés
qu’il y a à changer de diocèse, le doyen d’un pays où j’ai
personnellement des terres, fort loin d’ici, à Combray, où le
bon
prêtre
se
sentait
devenir
neurasthénique.
Malheureusement l’air de la mer n’a pas réussi à son grand
âge ; sa neurasthénie s’est augmentée et il est retourné à
Combray. Mais il s’est amusé, pendant qu’il était notre
voisin, à aller consulter toutes les vieilles chartes, et il a fait
une petite brochure assez curieuse sur les noms de la région.
Cela l’a d’ailleurs mis en goût, car il paraît qu’il occupe ses
dernières années à écrire un grand ouvrage sur Combray et
ses environs. Je vais vous envoyer sa brochure sur les
environs de Féterne. C’est un vrai travail de Bénédictin.
Vous y lirez des choses très intéressantes sur notre vieille
Raspelière dont ma belle-mère parle beaucoup trop
modestement. – En tout cas, cette année, répondit Mme de
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Cambremer douairière, la Raspelière n’est plus nôtre et ne
m’appartient pas. Mais on sent que vous avez une nature de
peintre ; vous devriez dessiner, et j’aimerais tant vous
montrer Féterne qui est bien mieux que la Raspelière. » Car
depuis que les Cambremer avaient loué cette dernière
demeure aux Verdurin, sa position dominante avait
brusquement cessé de leur apparaître ce qu’elle avait été
pour eux pendant tant d’années, c’est-à-dire donnant
l’avantage, unique dans le pays, d’avoir vue à la fois sur la
mer et sur la vallée, et en revanche leur avait présenté tout à
coup – et après coup – l’inconvénient qu’il fallait toujours
monter et descendre pour y arriver et en sortir. Bref, on eût
cru que si Mme de Cambremer l’avait louée, c’était moins
pour accroître ses revenus que pour reposer ses chevaux. Et
elle se disait ravie de pouvoir enfin posséder tout le temps la
mer de si près, à Féterne, elle qui pendant si longtemps,
oubliant les deux mois qu’elle y passait, ne l’avait vue que
d’en haut et comme dans un panorama. « Je la découvre à
mon âge, disait-elle, et comme j’en jouis ! Ça me fait un bien
! Je louerais la Raspelière pour rien afin d’être contrainte
d’habiter Féterne. »
– Pour revenir à des sujets plus intéressants, reprit la sœur de
Legrandin qui disait : « Ma mère » à la vieille marquise, mais,
avec les années, avait pris des façons insolentes avec elle,
vous parliez de nymphéas : je pense que vous connaissez
ceux que Claude Monet a peints. Quel génie ! Cela
m’intéresse d’autant plus qu’auprès de Combray, cet endroit
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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où je vous ai dit que j’avais des terres... Mais elle préféra ne
pas trop parler de Combray. « Ah ! c’est sûrement la série
dont nous a parlé Elstir, le plus grand des peintres
contemporains, s’écria Albertine qui n’avait rien dit jusquelà. – Ah ! on voit que Mademoiselle aime les arts, s’écria
Mme de Cambremer qui, en poussant une respiration
profonde, résorba un jet de salive. – Vous me permettrez de
lui préférer Le Sidaner, Mademoiselle », dit l’avocat en
souriant d’un air connaisseur. Et, comme il avait goûté, ou
vu goûter, autrefois certaines « audaces » d’Elstir, il ajouta : «
Elstir était doué, il a même fait presque partie de l’avantgarde, mais je ne sais pas pourquoi il a cessé de suivre, il a
gâché sa vie. » Mme de Cambremer donna raison à l’avocat
en ce qui concernait Elstir, mais, au grand chagrin de son
invité, égala Monet à Le Sidaner. On ne peut pas dire qu’elle
fût bête ; elle débordait d’une intelligence que je sentais
m’être entièrement inutile. Justement, le soleil s’abaissant, les
mouettes étaient maintenant jaunes, comme les nymphéas
dans une autre toile de cette même série de Monet. Je dis
que je la connaissais et (continuant à imiter le langage, du
frère, dont je n’avais pas encore osé citer le nom) j’ajoutai
qu’il était malheureux qu’elle n’eût pas eu plutôt l’idée de
venir la veille, car à la même heure, c’est une lumière de
Poussin qu’elle eût pu admirer. Devant un hobereau
normand inconnu des Guermantes et qui lui eût dit qu’elle
eût dû venir la veille, Mme de Cambremer-Legrandin se fût
sans doute redressée d’un air offensé. Mais j’aurais pu être
bien plus familier encore qu’elle n’eût été que douceur
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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moelleuse et florissante ; je pouvais, dans la chaleur de cette
belle fin d’après-midi, butiner à mon gré dans le gros gâteau
de miel que Mme de Cambremer était si rarement et qui
remplaça les petits fours que je n’eus pas l’idée d’offrir. Mais
le nom de Poussin, sans altérer l’aménité de la femme du
monde, souleva les protestations de la dilettante. En
entendant ce nom, à six reprises que ne séparait presque
aucun intervalle, elle eut ce petit claquement de la langue
contre les lèvres qui sert à signifier à un enfant qui est en
train de faire une bêtise, à la fois un blâme d’avoir
commencé et l’interdiction de poursuivre. « Au nom du ciel,
après un peintre comme Monet, qui est tout bonnement un
génie, n’allez pas nommer un vieux poncif sans talent
comme Poussin. Je vous dirai tout nûment que je le trouve le
plus barbifiant des raseurs. Qu’est-ce que vous voulez, je ne
peux pourtant pas appeler cela de la peinture. Monet, Degas,
Manet, oui, voilà des peintres ! C’est très curieux, ajouta-telle, en fixant un regard scrutateur et ravi sur un point vague
de l’espace, où elle apercevait sa propre pensée, c’est très
curieux, autrefois je préférais Manet. Maintenant, j’admire
toujours Manet, c’est entendu, mais je crois que je lui préfère
peut-être encore Monet. Ah ! les cathédrales ! » Elle mettait
autant de scrupules que de complaisance à me renseigner sur
l’évolution qu’avait suivie son goût. Et on sentait que les
phases par lesquelles avait passé ce goût n’étaient pas, selon
elle, moins importantes que les différentes manières de
Monet lui-même. Je n’avais pas, du reste, à être flatté qu’elle
me fît confidence de ses admirations, car, même devant la
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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provinciale la plus bornée, elle ne pouvait pas rester cinq
minutes sans éprouver le besoin de les confesser. Quand une
dame noble d’Avranches, laquelle n’eût pas été capable de
distinguer Mozart de Wagner, disait devant Madame de
Cambremer : « Nous n’avons pas eu de nouveauté
intéressante pendant notre séjour à Paris, nous avons été une
fois à l’Opéra-Comique, on donnait Pelléas et Mélisande,
c’est affreux », Mme de Cambremer non seulement bouillait
mais éprouvait le besoin de s’écrier : « Mais au contraire,
c’est un petit chef-d’œuvre », et de « discuter ». C’était peutêtre une habitude de Combray, prise auprès des sœurs de ma
grand’mère qui appelaient cela : « Combattre pour la bonne
cause », et qui aimaient les dîners où elles savaient, toutes les
semaines, qu’elles auraient à défendre leurs dieux contre des
Philistins. Telle Mme de Cambremer aimait à se « fouetter le
sang » en se « chamaillant » sur l’art, comme d’autres sur la
politique. Elle prenait le parti de Debussy comme elle aurait
fait celui d’une de ses amies dont on eût incriminé la
conduite. Elle devait pourtant bien comprendre qu’en disant
: « Mais non, c’est un petit chef-d’œuvre », elle ne pouvait
pas improviser, chez la personne qu’elle remettait à sa place,
toute la progression de culture artistique au terme de laquelle
elles fussent tombées d’accord sans avoir besoin de discuter.
« Il faudra que je demande à Le Sidaner ce qu’il pense de
Poussin, me dit l’avocat. C’est un renfermé, un silencieux,
mais je saurai bien lui tirer les vers du nez. »
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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– Du reste, continua Mme de Cambremer, j’ai horreur des
couchers de soleil, c’est romantique, c’est opéra. C’est pour
cela que je déteste la maison de ma belle-mère, avec ses
plantes du Midi. Vous verrez, ça a l’air d’un parc de MonteCarlo. C’est pour cela que j’aime mieux votre rive. C’est plus
triste, plus sincère ; il y a un petit chemin d’où on ne voit pas
la mer. Les jours de pluie, il n’y a que de la boue, c’est tout
un monde. C’est comme à Venise, je déteste le Grand Canal
et je ne connais rien de touchant comme les petites ruelles.
Du reste c’est une question d’ambiance.
– Mais, lui dis-je, sentant que la seule manière de réhabiliter
Poussin aux yeux de Mme de Cambremer c’était d’apprendre
à celle-ci qu’il était redevenu à la mode, M. Degas assure qu’il
ne connaît rien de plus beau que les Poussin de Chantilly. –
Ouais ? Je ne connais pas ceux de Chantilly, me dit Mme de
Cambremer, qui ne voulait pas être d’un autre avis que
Degas, mais je peux parler de ceux du Louvre qui sont des
horreurs. – Il les admire aussi énormément. – Il faudra que je
les revoie. Tout cela est un peu ancien dans ma tête,
répondit-elle après un instant de silence et comme si le
jugement favorable qu’elle allait certainement bientôt porter
sur Poussin devait dépendre, non de la nouvelle que je
venais de lui communiquer, mais de l’examen
supplémentaire, et cette fois définitif, qu’elle comptait faire
subir aux Poussin du Louvre pour avoir la faculté de se
déjuger.
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Me contentant de ce qui était un commencement de
rétractation, puisque, si elle n’admirait pas encore les
Poussin, elle s’ajournait pour une seconde délibération, pour
ne pas la laisser plus longtemps à la torture je dis à sa bellemère combien on m’avait parlé des fleurs admirables de
Féterne. Modestement elle parla du petit jardin de curé
qu’elle avait derrière et où le matin, en poussant une porte,
elle allait en robe de chambre donner à manger à ses paons,
chercher les œufs pondus, et cueillir des zinnias ou des roses
qui, sur le chemin de table, faisant aux œufs à la crème ou
aux fritures une bordure de fleurs, lui rappelaient ses allées. «
C’est vrai que nous avons beaucoup de roses, me dit-elle,
notre roseraie est presque un peu trop près de la maison
d’habitation, il y a des jours où cela me fait mal à la tête.
C’est plus agréable de la terrasse de la Raspelière où le vent
apporte l’odeur des roses, mais déjà moins entêtante. » Je me
tournai vers la belle-fille : « C’est tout à fait Pelléas, lui dis-je,
pour contenter son goût de modernisme, cette odeur de
roses montant jusqu’aux terrasses. Elle est si forte, dans la
partition, que, comme j’ai le hay-fever et la rose-fever, elle
me faisait éternuer chaque fois que j’entendais cette scène. »
« Quel chef-d’œuvre que Pelléas ! s’écria Mme de
Cambremer, j’en suis férue » ; et s’approchant de moi avec
les gestes d’une femme sauvage qui aurait voulu me faire des
agaceries, s’aidant des doigts pour piquer les notes
imaginaires, elle se mit à fredonner quelque chose que je
supposai être pour elle les adieux de Pelléas, et continua avec
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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une véhémente insistance comme s’il avait été d’importance
que Mme de Cambremer me rappelât en ce moment cette
scène, ou peut-être plutôt me montrât qu’elle se la rappelait.
« Je crois que c’est encore plus beau que Parsifal, ajouta-telle, parce que dans Parsifal il s’ajoute aux plus grandes
beautés un certain halo de phrases mélodiques, donc
caduques puisque mélodiques. – Je sais que vous êtes une
grande musicienne, Madame, dis-je à la douairière. J’aimerais
beaucoup vous entendre. » Mme de Cambremer-Legrandin
regarda la mer pour ne pas prendre part à la conversation.
Considérant que ce qu’aimait sa belle-mère n’était pas de la
musique, elle considérait le talent, prétendu selon elle, et des
plus remarquables en réalité, qu’on lui reconnaissait comme
une virtuosité sans intérêt. Il est vrai que la seule élève
encore vivante de Chopin déclarait avec raison que la
manière de jouer, le « sentiment », du Maître, ne s’était
transmis, à travers elle, qu’à Mme de Cambremer ; mais jouer
comme Chopin était loin d’être une référence pour la sœur
de Legrandin, laquelle ne méprisait personne autant que le
musicien polonais. « Oh ! elles s’envolent, s’écria Albertine
en me montrant les mouettes qui, se débarrassant pour un
instant de leur incognito de fleurs, montaient toutes
ensemble vers le soleil. – Leurs ailes de géants les empêchent
de marcher, dit Mme de Cambremer, confondant les
mouettes avec les albatros. – Je les aime beaucoup, j’en
voyais à Amsterdam, dit Albertine. Elles sentent la mer, elles
viennent la humer même à travers les pierres des rues. – Ah !
vous avez été en Hollande, vous connaissez les Ver Meer ? »
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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demanda impérieusement Mme de Cambremer et du ton
dont elle aurait dit : « Vous connaissez les Guermantes ? »,
car le snobisme en changeant d’objet ne change pas d’accent.
Albertine répondit non : elle croyait que c’étaient des gens
vivants. Mais il n’y parut pas. « Je serais très heureuse de
vous faire de la musique, me dit Mme de Cambremer. Mais,
vous savez, je ne joue que des choses qui n’intéressent plus
votre génération. J’ai été élevée dans le culte de Chopin »,
dit-elle à voix basse, car elle redoutait sa belle-fille et savait
que celle-ci, considérant que Chopin n’était pas de la
musique, le bien jouer ou le mal jouer étaient des expressions
dénuées de sens. Elle reconnaissait que sa belle-mère avait
du mécanisme, perlait les traits. « Jamais on ne me fera dire
qu’elle est musicienne », concluait Mme de CambremerLegrandin. Parce qu’elle se croyait « avancée » et (en art
seulement) « jamais assez à gauche », disait-elle, elle se
représentait non seulement que la musique progresse, mais
sur une seule ligne, et que Debussy était en quelque sorte un
sur-Wagner, encore un peu plus avancé que Wagner. Elle ne
se rendait pas compte que si Debussy n’était pas aussi
indépendant de Wagner qu’elle-même devait le croire dans
quelques années, parce qu’on se sert tout de même des
armes conquises pour achever de s’affranchir de celui qu’on
a momentanément vaincu, il cherchait cependant, après la
satiété qu’on commençait à avoir des œuvres trop complètes,
où tout est exprimé, à contenter un besoin contraire. Des
théories, bien entendu, étayaient momentanément cette
réaction, pareilles à celles qui, en politique, viennent à l’appui
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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des lois contre les congrégations, des guerres en Orient
(enseignement contre nature, péril jaune, etc., etc.). On disait
qu’à une époque de hâte convenait un art rapide, absolument
comme on aurait dit que la guerre future ne pouvait pas
durer plus de quinze jours, ou qu’avec les chemins de fer
seraient délaissés les petits coins chers aux diligences et que
l’auto pourtant devait remettre en honneur. On
recommandait de ne pas fatiguer l’attention de l’auditeur,
comme si nous ne disposions pas d’attentions différentes
dont il dépend précisément de l’artiste d’éveiller les plus
hautes. Car ceux qui bâillent de fatigue après dix lignes d’un
article médiocre avaient refait tous les ans le voyage de
Bayreuth pour entendre la Tétralogie. D’ailleurs le jour
devait venir où, pour un temps, Debussy serait déclaré aussi
fragile que Massenet et les tressautements de Mélisande
abaissés au rang de ceux de Manon. Car les théories et les
écoles, comme les microbes et les globules, s’entre-dévorent
et assurent, par leur lutte, la continuité de la vie. Mais ce
temps n’était pas encore venu.
Comme à la Bourse, quand un mouvement de hausse se
produit, tout un compartiment de valeurs en profitent, un
certain nombre d’auteurs dédaignés bénéficiaient de la
réaction, soit parce qu’ils ne méritaient pas ce dédain, soit
simplement – ce qui permettait de dire une nouveauté en les
prônant – parce qu’ils l’avaient encouru. Et on allait même
chercher, dans un passé isolé, quelques talents indépendants
sur la réputation de qui ne semblait pas devoir influer le
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mouvement actuel, mais dont un des maîtres nouveaux
passait pour citer le nom avec faveur. Souvent c’était parce
qu’un maître, quel qu’il soit, si exclusive que doive être son
école, juge d’après son sentiment original, rend justice au
talent partout où il se trouve, et même moins qu’au talent, à
quelque agréable inspiration qu’il a goûtée autrefois, qui se
rattache à un moment aimé de son adolescence. D’autres
fois parce que certains artistes d’une autre époque ont, dans
un simple morceau, réalisé quelque chose qui ressemble à ce
que le maître peu à peu s’est rendu compte que lui-même
avait voulu faire. Alors il voit en cet ancien comme un
précurseur ; il aime chez lui, sous une tout autre forme, un
effort momentanément, partiellement fraternel. Il y a des
morceaux de Turner dans l’œuvre de Poussin, une phrase de
Flaubert dans Montesquieu. Et quelquefois aussi ce bruit de
la prédilection du Maître était le résultat d’une erreur, née on
ne sait où et colportée dans l’école. Mais le nom cité
bénéficiait alors de la firme sous la protection de laquelle il
était entré juste à temps, car s’il y a quelque liberté, un goût
vrai, dans le choix du maître, les écoles, elles, ne se dirigent
plus que suivant la théorie. C’est ainsi que l’esprit, suivant
son cours habituel qui s’avance par digression, en obliquant
une fois dans un sens, la fois suivante dans le sens contraire,
avait ramené la lumière d’en haut sur un certain nombre
d’œuvres auxquelles le besoin de justice, ou de
renouvellement, ou le goût de Debussy, ou son caprice, ou
quelque propos qu’il n’avait peut-être pas tenu, avaient
ajouté celles de Chopin. Prônées par les juges en qui on avait
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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toute confiance, bénéficiant de l’admiration qu’excitait
Pelléas, elles avaient retrouvé un éclat nouveau, et ceux
mêmes qui ne les avaient pas réentendues étaient si désireux
de les aimer qu’ils le faisaient malgré eux, quoique avec
l’illusion de la liberté. Mais Mme de Cambremer-Legrandin
restait une partie de l’année en province. Même à Paris,
malade, elle vivait beaucoup dans sa chambre. Il est vrai que
l’inconvénient pouvait surtout s’en faire sentir dans le choix
des expressions que Mme de Cambremer croyait à la mode
et qui eussent convenu plutôt au langage écrit, nuance qu’elle
ne discernait pas, car elle les tenait plus de la lecture que de
la conversation. Celle-ci n’est pas aussi nécessaire pour la
connaissance exacte des opinions que des expressions
nouvelles. Pourtant ce rajeunissement des « nocturnes »
n’avait pas encore été annoncé par la critique. La nouvelle
s’en était transmise seulement par des causeries de « jeunes ».
Il restait ignoré de Mme de Cambremer-Legrandin. Je me fis
un plaisir de lui apprendre, mais en m’adressant pour cela à
sa belle-mère, comme quand, au billard, pour atteindre une
boule on joue par la bande, que Chopin, bien loin d’être
démodé, était le musicien préféré de Debussy. « Tiens, c’est
amusant », me dit en souriant finement la belle-fille, comme
si ce n’avait été là qu’un paradoxe lancé par l’auteur de
Pelléas. Néanmoins il était bien certain maintenant qu’elle
n’écouterait plus Chopin qu’avec respect et même avec
plaisir. Aussi mes paroles, qui venaient de sonner l’heure de
la délivrance pour la douairière, mirent-elles dans sa figure
une expression de gratitude pour moi, et surtout de joie. Ses
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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yeux brillèrent comme ceux de Latude dans la pièce appelée
Latude ou Trente-cinq ans de captivité et sa poitrine huma
l’air de la mer avec cette dilatation que Beethoven a si bien
marquée dans Fidelio, quand ses prisonniers respirent enfin «
cet air qui vivifie ». Quant à la douairière, je crus qu’elle allait
poser sur ma joue ses lèvres moustachues. « Comment, vous
aimez Chopin ? Il aime Chopin, il aime Chopin », s’écria-telle dans un nasonnement passionné ; elle aurait dit : «
Comment, vous connaissez aussi Mme de Franquetot ? »
avec cette différence que mes relations avec Mme de
Franquetot lui eussent été profondément indifférentes,
tandis que ma connaissance de Chopin la jeta dans une sorte
de délire artistique. L’hyper-sécrétion salivaire ne suffit plus.
N’ayant même pas essayé de comprendre le rôle de Debussy
dans la réinvention de Chopin, elle sentit seulement que mon
jugement était favorable. L’enthousiasme musical la saisit. «
Élodie ! Élodie ! il aime Chopin » ; ses seins se soulevèrent et
elle battit l’air de ses bras. « Ah ! j’avais bien senti que vous
étiez musicien, s’écria-t-elle. Je comprends, artiste comme
vous êtes, que vous aimiez cela. C’est si beau ! » Et sa voix
était aussi caillouteuse que si, pour m’exprimer son ardeur
pour Chopin, elle eût, imitant Démosthène, rempli sa
bouche avec tous les galets de la plage. Enfin le reflux vint,
atteignant jusqu’à la voilette qu’elle n’eut pas le temps de
mettre à l’abri et qui fut transpercée, enfin la marquise essuya
avec son mouchoir brodé la bave d’écume dont le souvenir
de Chopin venait de tremper ses moustaches.
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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« Mon Dieu, me dit Mme de Cambremer-Legrandin, je crois
que ma belle-mère s’attarde un peu trop, elle oublie que nous
avons à dîner mon oncle de Ch’nouville. Et puis Cancan
n’aime pas attendre. » Cancan me resta incompréhensible, et
je pensai qu’il s’agissait peut-être d’un chien. Mais pour les
cousins de Ch’nouville, voilà. Avec l’âge s’était amorti chez
la jeune marquise le plaisir qu’elle avait à prononcer leur
nom de cette manière. Et cependant c’était pour le goûter
qu’elle avait jadis décidé son mariage. Dans d’autres groupes
mondains, quand on parlait des Chenouville, l’habitude était
(du moins chaque fois que la particule était précédée d’un
nom finissant par une voyelle, car dans le cas contraire on
était bien obligé de prendre appui sur le de, la langue se
refusant à prononcer Madam’ d’ Ch’nonceaux) que ce fût l’e
muet de la particule qu’on sacrifiât. On disait : « Monsieur
d’Chenouville ». Chez les Cambremer la tradition était
inverse, mais aussi impérieuse. C’était l’e muet de
Chenouville que, dans tous les cas, on supprimait. Que le
nom fût précédé de mon cousin ou de ma cousine, c’était
toujours de « Ch’nouville » et jamais de Chenouville. (Pour le
père de ces Chenouville on disait notre oncle, car on n’était
pas assez gratin à Féterne pour prononcer notre « onk »,
comme eussent fait les Guermantes, dont le baragouin
voulu, supprimant les consonnes et nationalisant les noms
étrangers, était aussi difficile à comprendre que le vieux
français ou un moderne patois.) Toute personne qui entrait
dans la famille recevait aussitôt, sur ce point des Ch’nouville,
un avertissement dont Mlle Legrandin-Cambremer n’avait
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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pas eu besoin. Un jour, en visite, entendant une jeune fille
dire : « ma tante d’Uzai », « mon onk de Rouan », elle n’avait
pas reconnu immédiatement les noms illustres qu’elle avait
l’habitude de prononcer : Uzès et Rohan ; elle avait eu
l’étonnement, l’embarras et la honte de quelqu’un qui a
devant lui à table un instrument nouvellement inventé dont
il ne sait pas l’usage et dont il n’ose pas commencer à
manger. Mais, la nuit suivante et le lendemain, elle avait
répété avec ravissement : « ma tante d’Uzai » avec cette
suppression de l’s finale, suppression qui l’avait stupéfaite la
veille, mais qu’il lui semblait maintenant si vulgaire de ne pas
connaître qu’une de ses amies lui ayant parlé d’un buste de la
duchesse d’Uzès, Mlle Legrandin lui avait répondu avec
mauvaise humeur, et d’un ton hautain : « Vous pourriez au
moins prononcer comme il faut : Mame d’Uzai. » Dès lors
elle avait compris qu’en vertu de la transmutation des
matières consistantes en éléments de plus en plus subtils, la
fortune considérable et si honorablement acquise qu’elle
tenait de son père, l’éducation complète qu’elle avait reçue,
son assiduité à la Sorbonne, tant aux cours de Caro qu’à ceux
de Brunetière, et aux concerts Lamoureux, tout cela devait se
volatiliser, trouver sa sublimation dernière dans le plaisir de
dire un jour : « ma tante d’Uzai ». Il n’excluait pas de son
esprit qu’elle continuerait à fréquenter, au moins dans les
premiers temps qui suivraient son mariage, non pas certaines
amies qu’elle aimait et qu’elle était résignée à sacrifier, mais
certaines autres qu’elle n’aimait pas et à qui elle voulait
pouvoir dire (puisqu’elle se marierait pour cela) : « Je vais
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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vous présenter à ma tante d’Uzai », et quand elle vit que cette
alliance était trop difficile : « Je vais vous présenter à ma
tante de Ch’nouville » et : « Je vous ferai dîner avec les Uzai.
» Son mariage avec M. de Cambremer avait procuré à Mlle
Legrandin l’occasion de dire la première de ces phrases mais
non la seconde, le monde que fréquentaient ses beauxparents n’étant pas celui qu’elle avait cru et duquel elle
continuait à rêver. Aussi, après m’avoir dit de Saint-Loup (en
adoptant pour cela une expression de Robert, car si, pour
causer, j’employais avec elle ces expressions de Legrandin,
par une suggestion inverse elle me répondait dans le dialecte
de Robert, qu’elle ne savait pas emprunté à Rachel), en
rapprochant le pouce de l’index et en fermant à demi les
yeux comme si elle regardait quelque chose d’infiniment
délicat qu’elle était parvenue à capter : « Il a une jolie qualité
d’esprit » ; elle fit son éloge avec tant de chaleur qu’on aurait
pu croire qu’elle était amoureuse de lui (on avait d’ailleurs
prétendu qu’autrefois, quand il était à Doncières, Robert
avait été son amant), en réalité simplement pour que je le lui
répétasse et pour aboutir à : « Vous êtes très lié avec la
duchesse de Guerrnantes. Je suis souffrante, je ne sors guère,
et je sais qu’elle reste confinée dans un cercle d’amis choisis,
ce que je trouve très bien, aussi je la connais très peu, mais je
sais que c’est une femme absolument supérieure. » Sachant
que Mme de Cambremer la connaissait à peine, et pour me
faire aussi petit qu’elle, je glissai sur ce sujet et répondis à la
marquise que j’avais connu surtout son frère, M. Legrandin.
À ce nom, elle prit le même air évasif que j’avais eu pour
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Mme de Guermantes, mais en y joignant une expression de
mécontentement, car elle pensa que j’avais dit cela pour
humilier non pas moi, mais elle. Était-elle rongée par le
désespoir d’être née Legrandin ? C’est du moins ce que
prétendaient les sœurs et belles-sœurs de son mari, dames
nobles de province qui ne connaissaient personne et ne
savaient rien, jalousaient l’intelligence de Mme de
Cambremer, son instruction, sa fortune, les agréments
physiques qu’elle avait eus avant de tomber malade. « Elle ne
pense pas à autre chose, c’est cela qui la tue », disaient ces
méchantes dès qu’elles parlaient de Mme de Cambremer à
n’importe qui, mais de préférence à un roturier, soit, s’il était
fat et stupide, pour donner plus de valeur, par cette
affirmation de ce qu’a de honteux la roture, à l’amabilité
qu’elles marquaient pour lui, soit, s’il était timide et fin et
s’appliquait le propos à soi-même, pour avoir le plaisir, tout
en le recevant bien, de lui faire indirectement une insolence.
Mais si ces dames croyaient dire vrai pour leur belle-sœur,
elles se trompaient. Celle-ci souffrait d’autant moins d’être
née Legrandin qu’elle en avait perdu le souvenir. Elle fut
froissée que je le lui rendisse et se tut comme si elle n’avait
pas compris, ne jugeant pas nécessaire d’apporter une
précision, ni même une confirmation aux miens.
« Nos parents ne sont pas la principale cause de
l’écourtement de notre visite, me dit Mme de Cambremer
douairière, qui était probablement plus blasée que sa bellefille sur le plaisir qu’il y a à dire : « Ch’nouville ». Mais, pour
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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ne pas vous fatiguer de trop de monde, Monsieur, dit-elle en
montrant l’avocat, n’a pas osé faire venir jusqu’ici sa femme
et son fils. Ils se promènent sur la plage en nous attendant et
doivent commencer à s’ennuyer. » Je me les fis désigner
exactement et courus les chercher. La femme avait une
figure ronde comme certaines fleurs de la famille des
renonculacées, et au coin de l’œil un assez large signe végétal.
Et les générations des hommes gardant leurs caractères
comme une famille de plantes, de même que sur la figure
flétrie de la mère, le même signe, qui eût pu aider au
classement d’une variété, se gonflait sous l’œil du fils. Mon
empressement auprès de sa femme et de son fils toucha
l’avocat. Il montra de l’intérêt au sujet de mon séjour à
Balbec. « Vous devez vous trouver un peu dépaysé, car il y a
ici, en majeure partie, des étrangers. » Et il me regardait tout
en me parlant, car n’aimant pas les étrangers, bien que
beaucoup fussent de ses clients, il voulait s’assurer que je
n’étais pas hostile à sa xénophobie, auquel cas il eût battu en
retraite en disant : « Naturellement, Mme X... peut être une
femme charmante. C’est une question de principes. »
Comme je n’avais, à cette époque, aucune opinion sur les
étrangers, je ne témoignai pas de désapprobation, il se sentit
en terrain sûr. Il alla jusqu’à me demander de venir un jour
chez lui, à Paris, voir sa collection de Le Sidaner, et
d’entraîner avec moi les Cambremer, avec lesquels il me
croyait évidemment intime. « Je vous inviterai avec Le
Sidaner, me dit-il, persuadé que je ne vivrais plus que dans
l’attente de ce jour béni. Vous verrez quel homme exquis. Et
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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ses tableaux vous enchanteront. Bien entendu, je ne puis pas
rivaliser avec les grands collectionneurs, mais je crois que
c’est moi qui ai le plus grand nombre de ses toiles préférées.
Cela vous intéressera d’autant plus, venant de Balbec, que ce
sont des marines, du moins en majeure partie. » La femme et
le fils, pourvus du caractère végétal, écoutaient avec
recueillement. On sentait qu’à Paris leur hôtel était une sorte
de temple du Le Sidaner. Ces sortes de temples ne sont pas
inutiles. Quand le dieu a des doutes sur lui-même, il bouche
aisément les fissures de son opinion sur lui-même par les
témoignages irrécusables d’êtres qui ont voué leur vie à son
œuvre.
Sur un signe de sa belle-fille, Mme de Cambremer allait se
lever et me disait : « Puisque vous ne voulez pas vous
installer à Féterne, ne voulez-vous pas au moins venir
déjeuner, un jour de la semaine, demain par exemple ? » Et,
dans sa bienveillance, pour me décider elle ajouta : « Vous
retrouverez le comte de Crisenoy » que je n’avais nullement
perdu, pour la raison que je ne le connaissais pas. Elle
commençait à faire luire à mes yeux d’autres tentations
encore, mais elle s’arrêta net. Le premier président, qui, en
rentrant, avait appris qu’elle était à l’hôtel, l’avait
sournoisement cherchée partout, attendue ensuite et,
feignant de la rencontrer par hasard, il vint lui présenter ses
hommages. Je compris que Mme de Cambremer ne tenait
pas à étendre à lui l’invitation à déjeuner qu’elle venait de
m’adresser. Il la connaissait pourtant depuis bien plus
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longtemps que moi, étant depuis des années un de ces
habitués des matinées de Féterne que j’enviais tant durant
mon premier séjour à Balbec. Mais l’ancienneté ne fait pas
tout pour les gens du monde. Et ils réservent plus volontiers
les déjeuners aux relations nouvelles qui piquent encore leur
curiosité, surtout quand elles arrivent précédées d’une
prestigieuse et chaude recommandation comme celle de
Saint-Loup. Mme de Cambremer supputa que le premier
président n’avait pas entendu ce qu’elle m’avait dit, mais
pour calmer les remords qu’elle éprouvait, elle lui tint les
plus aimables propos. Dans l’ensoleillement qui noyait à
l’horizon la côte dorée, habituellement invisible, de
Rivebelle, nous discernâmes, à peine séparées du lumineux
azur, sortant des eaux, roses, argentines, imperceptibles, les
petites cloches de l’angélus qui sonnaient aux environs de
Féterne. « Ceci est encore assez Pelléas, fis-je remarquer à
Mme de Cambremer-Legrandin. Vous savez la scène que je
veux dire. – Je crois bien que je sais » ; mais « je ne sais pas
du tout » était proclamé par sa voix et son visage, qui ne se
moulaient à aucun souvenir, et par son sourire sans appui, en
l’air. La douairière ne revenait pas de ce que les cloches
portassent jusqu’ici et se leva en pensant à l’heure : « Mais en
effet, dis-je, d’habitude, de Balbec, on ne voit pas cette côte,
et on ne l’entend pas non plus. Il faut que le temps ait
changé et ait doublement élargi l’horizon. À moins qu’elles
ne viennent vous chercher puisque je vois qu’elles vous font
partir ; elles sont pour vous la cloche du dîner. » Le premier
président, peu sensible aux cloches, regardait furtivement la
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digue qu’il se désolait de voir ce soir aussi dépeuplée. « Vous
êtes un vrai poète, me dit Mme de Cambremer. On vous
sent si vibrant, si artiste ; venez, je vous jouerai du Chopin »,
ajouta-t-elle en levant les bras d’un air extasié et en
prononçant les mots d’une voix rauque qui avait l’air de
déplacer des galets. Puis vint la déglutition de la salive, et la
vieille dame essuya instinctivement la légère brosse, dite à
l’américaine, de sa moustache avec son mouchoir. Le
premier président me rendit sans le vouloir un très grand
service en empoignant la marquise par le bras pour la
conduire à sa voiture, une certaine dose de vulgarité, de
hardiesse et de goût pour l’ostentation dictant une conduite
que d’autres hésiteraient à assurer, et qui est loin de déplaire
dans le monde. Il en avait d’ailleurs, depuis tant d’années,
bien plus l’habitude que moi. Tout en le bénissant je n’osai
l’imiter et marchai à côté de Mme de Cambremer-Legrandin,
laquelle voulut voir le livre que je tenais à la main. Le nom
de Mme de Sévigné lui fit faire la moue ; et, usant d’un mot
qu’elle avait lu dans certains journaux, mais qui, parlé et mis
au féminin, et appliqué à un écrivain du XVIIe siècle, faisait
un effet bizarre, elle me demanda : « La trouvez-vous
vraiment talentueuse ? » La marquise donna au valet de pied
l’adresse d’un pâtissier où elle avait à s’en aller avant de
repartir sur la route, rose de la poussière du soir, où
bleuissaient en forme de croupes les falaises échelonnées.
Elle demanda à son vieux cocher si un de ses chevaux, qui
était frileux, avait eu assez chaud, si le sabot de l’autre ne lui
faisait pas mal. « Je vous écrirai pour ce que nous devons
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convenir, me dit-elle à mi-voix. J’ai vu que vous causiez
littérature avec ma belle-fille, elle est adorable », ajouta-t-elle,
bien qu’elle ne le pensât pas, mais elle avait pris l’habitude –
gardée par bonté – de le dire pour que son fils n’eût pas l’air
d’avoir fait un mariage d’argent. « Et puis, ajouta-t-elle dans
un dernier mâchonnement enthousiaste, elle est si
hartthhisstte ! » Puis elle monta en voiture, balançant la tête,
levant la crosse de son ombrelle, et repartit par les rues de
Balbec, surchargée des ornements de son sacerdoce, comme
un vieil évêque en tournée de confirmation.
« Elle vous a invité à déjeuner, me dit sévèrement le premier
président quand la voiture se fut éloignée et que je rentrai
avec mes amies. Nous sommes en froid. Elle trouve que je la
néglige. Dame, je suis facile à vivre. Qu’on ait besoin de moi,
je suis toujours là pour répondre : « Présent. » Mais ils ont
voulu jeter le grappin sur moi. Ah ! alors, cela, ajouta-t-il
d’un air fin et en levant le doigt comme quelqu’un qui
distingue et argumente, je ne permets pas ça. C’est attenter à
la liberté de mes vacances. J’ai été obligé de dire : « Halte-là
». Vous paraissez fort bien avec elle. Quand vous aurez mon
âge, vous verrez que c’est bien peu de chose, le monde, et
vous regretterez d’avoir attaché tant d’importance à ces
riens. Allons, je vais faire un tour avant dîner. Adieu les
enfants », cria-t-il à la cantonade, comme s’il était déjà
éloigné de cinquante pas.
Quand j’eus dit au revoir à Rosemonde et à Gisèle, elles
virent avec étonnement Albertine arrêtée qui ne les suivait
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pas. « Hé bien, Albertine, qu’est-ce que tu fais, tu sais l’heure
? – Rentrez, leur répondit-t-elle avec autorité. J’ai à causer
avec lui », ajouta-t-elle en me montrant d’un air soumis.
Rosemonde et Gisèle me regardaient, pénétrées pour moi
d’un respect nouveau. Je jouissais de sentir que, pour un
moment du moins, aux yeux mêmes de Rosemonde et de
Gisèle, j’étais pour Albertine quelque chose de plus
important que l’heure de rentrer, que ses amies, et pouvais
même avoir avec elle de graves secrets auxquels il était
impossible qu’on les mêlât. « Est-ce que nous ne te verrons
pas ce soir ? – Je ne sais pas, ça dépendra de celui-ci. En tout
cas à demain. – Montons dans ma chambre », lui dis-je,
quand ses amies se furent éloignées. Nous prîmes l’ascenseur
; elle garda le silence devant le lift. L’habitude d’être obligé
de recourir à l’observation personnelle et à la déduction pour
connaître les petites affaires des maîtres, ces gens étranges
qui causent entre eux et ne leur parlent pas, développe chez
les « employés » (comme le lift appelle les domestiques) un
plus grand pouvoir de divination que chez les « patrons ».
Les organes s’atrophient ou deviennent plus forts ou plus
subtils selon que le besoin qu’on a d’eux croît ou diminue.
Depuis qu’il existe des chemins de fer, la nécessité de ne pas
manquer le train nous a appris à tenir compte des minutes,
alors que chez les anciens Romains, dont l’astronomie n’était
pas seulement plus sommaire mais aussi la vie moins
pressée, la notion, non pas de minutes, mais même d’heures
fixes, existait à peine. Aussi le lift avait-il compris et
comptait-il raconter à ses camarades que nous étions
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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préoccupés, Albertine et moi. Mais il nous parlait sans
arrêter parce qu’il n’avait pas de tact. Cependant je voyais se
peindre sur son visage, substitué à l’impression habituelle
d’amitié et de joie de me faire monter dans son ascenseur, un
air d’abattement et d’inquiétude extraordinaires. Comme j’en
ignorais la cause, pour tâcher de l’en distraire, et quoique
plus préoccupé d’Albertine, je lui dis que la dame qui venait
de partir s’appelait la marquise de Cambremer et non de
Camembert. À l’étage devant lequel nous posions alors,
j’aperçus, portant un traversin, une femme de chambre
affreuse qui me salua avec respect, espérant un pourboire au
départ. J’aurais voulu savoir si c’était celle que j’avais tant
désirée le soir de ma première arrivée à Balbec, mais je ne
pus jamais arriver à une certitude. Le lift me jura, avec la
sincérité de la plupart des faux témoins, mais sans quitter
son air désespéré, que c’était bien sous le nom de
Camembert que la marquise lui avait demandé de l’annoncer.
Et, à vrai dire, il était bien naturel qu’il eût entendu un nom
qu’il connaissait déjà. Puis, ayant sur la noblesse et la nature
des noms avec lesquels se font les titres les notions fort
vagues qui sont celles de beaucoup de gens qui ne sont pas
liftiers, le nom de Camembert lui avait paru d’autant plus
vraisemblable que, ce fromage étant universellement connu,
il ne fallait point s’étonner qu’on eût tiré un marquisat d’une
renommée aussi glorieuse, à moins que ce ne fût celle du
marquisat qui eût donné sa célébrité au fromage.
Néanmoins, comme il voyait que je ne voulais pas avoir l’air
de m’être trompé et qu’il savait que les maîtres aiment à voir
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obéis leurs caprices les plus futiles et acceptés leurs
mensonges les plus évidents, il me promit, en bon
domestique, de dire désormais Cambremer. Il est vrai
qu’aucun boutiquier de la ville ni aucun paysan des environs,
où le nom et la personne des Cambremer étaient
parfaitement connus, n’auraient jamais pu commettre
l’erreur du lift. Mais le personnel du « grand hôtel de Balbec
» n’était nullement du pays. Il venait de droite ligne, avec
tout le matériel, de Biarritz, Nice et Monte-Carlo, une partie
ayant été dirigée sur Deauville, une autre sur Dinard et la
troisième réservée à Balbec.
Mais la douleur anxieuse du lift ne fit que grandir. Pour qu’il
oubliât ainsi de me témoigner son dévouement par ses
habituels sourires, il fallait qu’il lui fût arrivé quelque
malheur. Peut-être avait-il été « envoyé ». Je me promis dans
ce cas de tâcher d’obtenir qu’il restât, le directeur m’ayant
promis de ratifier tout ce que je déciderais concernant son
personnel. « Vous pouvez toujours faire ce que vous voulez,
je rectifie d’avance. » Tout à coup, comme je venais de
quitter l’ascenseur, je compris la détresse, l’air atterré du lift.
À cause de la présence d’Albertine je ne lui avais pas donné
les cent sous que j’avais l’habitude de lui remettre en
montant. Et cet imbécile, au lieu de comprendre que je ne
voulais pas faire devant des tiers étalage de pourboires, avait
commencé à trembler, supposant que c’était fini une fois
pour toutes, que je ne lui donnerais plus jamais rien. Il
s’imaginait que j’étais tombé dans la « dèche » (comme eût
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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dit le duc de Guermantes), et sa supposition ne lui inspirait
aucune pitié pour moi, mais une terrible déception égoïste. Je
me dis que j’étais moins déraisonnable que ne trouvait ma
mère quand je n’osais pas ne pas donner un jour la somme
exagérée mais fiévreusement attendue que j’avais donnée la
veille. Mais aussi la signification donnée jusque-là par moi, et
sans aucun doute, à l’air habituel de joie, où je n’hésitais pas
à voir un signe d’attachement, me parut d’un sens moins
assuré. En voyant le liftier prêt, dans son désespoir, à se jeter
des cinq étages, je me demandais si, nos conditions sociales
se trouvant respectivement changées, du fait par exemple
d’une révolution, au lieu de manœuvrer gentiment pour moi
l’ascenseur, le lift, devenu bourgeois, ne m’en eût pas
précipité, et s’il n’y a pas, dans certaines classes du peuple,
plus de duplicité que dans le monde où, sans doute, l’on
réserve pour notre absence les propos désobligeants, mais
où l’attitude à notre égard ne serait pas insultante si nous
étions malheureux.
On ne peut pourtant pas dire qu’à l’hôtel de Balbec, le lift fût
le plus intéressé. À ce point de vue le personnel se divisait en
deux catégories : d’une part ceux qui faisaient des différences
entre les clients, plus sensibles au pourboire raisonnable d’un
vieux noble (d’ailleurs en mesure de leur éviter 28 jours en
les recommandant au général de Beautreillis) qu’aux largesses
inconsidérées d’un rasta qui décelait par là même un manque
d’usage que, seulement devant lui, on appelait de la bonté.
D’autre part ceux pour qui noblesse, intelligence, célébrité,
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situation, manières, étaient inexistantes, recouvertes par un
chiffre. Il n’y avait pour ceux-là qu’une hiérarchie, l’argent
qu’on a, ou plutôt celui qu’on donne. Peut-être Aimé luimême, bien que prétendant, à cause du grand nombre
d’hôtels où il avait servi, à un grand savoir mondain,
appartenait-il à cette catégorie-là. Tout au plus donnait-il un
tour social et de connaissance des familles à ce genre
d’appréciation, en disant de la princesse de Luxembourg par
exemple : « Il y a beaucoup d’argent là dedans ? » (le point
d’interrogation étant afin de se renseigner, ou de contrôler
définitivement les renseignements qu’il avait pris, avant de
procurer à un client un « chef » pour Paris, ou de lui assurer
une table à gauche, à l’entrée, avec vue sur la mer, à Balbec).
Malgré cela, sans être dépourvu d’intérêt, il ne l’eût pas
exhibé avec le sot désespoir du lift. Au reste, la naïveté de
celui-ci simplifiait peut-être les choses. C’est la commodité
d’un grand hôtel, d’une maison comme était autrefois celle
de Rachel ; c’est que, sans intermédiaires, sur la face jusquelà glacée d’un employé ou d’une femme, la vue d’un billet de
cent francs, à plus forte raison de mille, même donné, pour
cette fois-là, à un autre, amène un sourire et des offres. Au
contraire, dans la politique, dans les relations d’amant à
maîtresse, il y a trop de choses placées entre l’argent et la
docilité. Tant de choses que ceux-là mêmes chez qui l’argent
éveille finalement le sourire sont souvent incapables de
suivre le processus interne qui les relie, se croient, sont plus
délicats. Et puis cela décante la conversation polie des « Je
sais ce qui me reste à faire, demain on me trouvera à la
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Morgue. » Aussi rencontre-t-on dans la société polie peu de
romanciers, de poètes, de tous ces êtres sublimes qui parlent
justement de ce qu’il ne faut pas dire.
Aussitôt seuls et engagés dans le corridor, Albertine me dit :
« Qu’est-ce que vous avez contre moi ? » Ma dureté avec elle
m’avait-elle été pénible à moi-même ? N’était-elle de ma part
qu’une ruse inconsciente se proposant d’amener vis-à-vis de
moi mon amie à cette attitude de crainte et de prière qui me
permettrait de l’interroger, et peut-être d’apprendre laquelle
des deux hypothèses que je formais depuis longtemps sur
elle était la vraie ? Toujours est-il que, quand j’entendis sa
question, je me sentis soudain heureux comme quelqu’un qui
touche à un but longtemps désiré. Avant de lui répondre je
la conduisis jusqu’à ma porte. Celle-ci en s’ouvrant fit refluer
la lumière rose qui remplissait la chambre et changeait la
mousseline blanche des rideaux tendus sur le soir en lampas
aurore. J’allai jusqu’à la fenêtre ; les mouettes étaient posées
de nouveau sur les flots ; mais maintenant elles étaient roses.
Je le fis remarquer à Albertine : « Ne détournez pas la
conversation, me dit-elle, soyez franc comme moi. » Je
mentis. Je lui déclarai qu’il lui fallait écouter un aveu
préalable, celui d’une grande passion que j’avais depuis
quelque temps pour Andrée, et je le lui fis avec une
simplicité et une franchise dignes du théâtre, mais qu’on n’a
guère dans la vie que pour les amours qu’on ne ressent pas.
Reprenant le mensonge dont j’avais usé avec Gilberte avant
mon premier séjour à Balbec, mais le variant, j’allai, pour me
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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faire mieux croire d’elle quand je lui disais maintenant que je
ne l’aimais pas, jusqu’à laisser échapper qu’autrefois j’avais
été sur le point d’être amoureux d’elle, mais que trop de
temps avait passé, qu’elle n’était plus pour moi qu’une bonne
camarade et que, l’eussé-je voulu, il ne m’eût plus été
possible d’éprouver de nouveau à son égard des sentiments
plus ardents. D’ailleurs, en appuyant ainsi devant Albertine
sur ces protestations de froideur pour elle, je ne faisais – à
cause d’une circonstance et en vue d’un but particuliers –
que rendre plus sensible, marquer avec plus de force, ce
rythme binaire qu’adopte l’amour chez tous ceux qui doutent
trop d’eux-mêmes pour croire qu’une femme puisse jamais
les aimer, et aussi qu’eux-mêmes puissent l’aimer
véritablement. Ils se connaissent assez pour savoir qu’auprès
des plus différentes, ils éprouvaient les mêmes espoirs, les
mêmes angoisses, inventaient les mêmes romans,
prononçaient les mêmes paroles, pour s’être rendu ainsi
compte que leurs sentiments, leurs actions, ne sont pas en
rapport étroit et nécessaire avec la femme aimée, mais
passent à côté d’elle, l’éclaboussent, la circonviennent
comme le flux qui se jette le long des rochers, et le sentiment
de leur propre instabilité augmente encore chez eux la
défiance que cette femme, dont ils voudraient tant être
aimés, ne les aime pas. Pourquoi le hasard aurait-il fait,
puisqu’elle n’est qu’un simple accident placé devant le
jaillissement de nos désirs, que nous fussions nous-mêmes le
but de ceux qu’elle a ? Aussi, tout en ayant besoin
d’épancher vers elle tous ces sentiments, si différents des
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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sentiments simplement humains que notre prochain nous
inspire, ces sentiments si spéciaux que sont les sentiments
amoureux, après avoir fait un pas en avant, en avouant à
celle que nous aimons notre tendresse pour elle, nos espoirs,
aussitôt craignant de lui déplaire, confus aussi de sentir que
le langage que nous lui avons tenu n’a pas été formé
expressément pour elle, qu’il nous a servi, nous servira pour
d’autres, que si elle ne nous aime pas elle ne peut pas nous
comprendre, et que nous avons parlé alors avec le manque
de goût, l’impudeur du pédant adressant à des ignorants des
phrases subtiles qui ne sont pas pour eux, cette crainte, cette
honte, amènent le contre-rythme, le reflux, le besoin, fût-ce
en reculant d’abord, en retirant vivement la sympathie
précédemment confessée, de reprendre l’offensive et de
ressaisir l’estime, la domination ; le rythme double est
perceptible dans les diverses périodes d’un même amour,
dans toutes les périodes correspondantes d’amours
similaires, chez tous les êtres qui s’analysent mieux qu’ils ne
se prisent haut. S’il était pourtant un peu plus
vigoureusement accentué qu’il n’est d’habitude, dans ce
discours que j’étais en train de faire à Albertine, c’était
simplement pour me permettre de passer plus vite et plus
énergiquement au rythme opposé que scanderait ma
tendresse.
Comme si Albertine avait dû avoir de la peine à croire ce que
je lui disais de mon impossibilité de l’aimer de nouveau, à
cause du trop long intervalle, j’étayais ce que j’appelais une
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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bizarrerie de mon caractère d’exemples tirés de personnes
avec qui j’avais, par leur faute ou la mienne, laissé passer
l’heure de les aimer, sans pouvoir, quelque désir que j’en
eusse, la retrouver après. J’avais ainsi l’air à la fois de
m’excuser auprès d’elle, comme d’une impolitesse, de cette
incapacité de recommencer à l’aimer, et de chercher à lui en
faire comprendre les raisons psychologiques comme si elles
m’eussent été particulières. Mais en m’expliquant de la sorte,
en m’étendant sur le cas de Gilberte, vis-à-vis de laquelle en
effet avait été rigoureusement vrai ce qui le devenait si peu,
appliqué à Albertine, je ne faisais que rendre mes assertions
aussi plausibles que je feignais de croire qu’elles le fussent
peu. Sentant qu’Albertine appréciait ce qu’elle croyait mon «
franc parler » et reconnaissait dans mes déductions la clarté
de l’évidence, je m’excusai du premier, lui disant que je savais
bien qu’on déplaisait toujours en disant la vérité et que celleci d’ailleurs devait lui paraître incompréhensible. Elle me
remercia, au contraire, de ma sincérité et ajouta qu’au surplus
elle comprenait à merveille un état d’esprit si fréquent et si
naturel.
Cet aveu fait à Albertine d’un sentiment imaginaire pour
Andrée, et pour elle-même d’une indifférence que, pour
paraître tout à fait sincère et sans exagération, je lui assurai
incidemment, comme par un scrupule de politesse, ne pas
devoir être prise trop à la lettre, je pus enfin, sans crainte,
qu’Albertine y soupçonnât de l’amour, lui parler avec une
douceur que je me refusais depuis si longtemps et qui me
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parut délicieuse. Je caressais presque ma confidente ; en lui
parlant de son amie que j’aimais, les larmes me venaient aux
yeux. Mais, venant au fait, je lui dis enfin qu’elle savait ce
qu’était l’amour, ses susceptibilités, ses souffrances, et que
peut-être, en amie déjà ancienne pour moi, elle aurait à cœur
de faire cesser les grands chagrins qu’elle me causait, non
directement puisque ce n’était pas elle que j’aimais, si j’osais
le redire sans la froisser, mais indirectement en m’atteignant
dans mon amour pour Andrée. Je m’interrompis pour
regarder et montrer à Albertine un grand oiseau solitaire et
hâtif qui, loin devant nous, fouettant l’air du battement
régulier de ses ailes, passait à toute vitesse au-dessus de la
plage tachée çà et là de reflets pareils à des petits morceaux
de papier rouge déchirés et la traversait dans toute sa
longueur, sans ralentir son allure, sans détourner son
attention, sans dévier de son chemin, comme un émissaire
qui va porter bien loin un message urgent et capital. « Lui, du
moins, va droit au but ! me dit Albertine d’un air de
reproche. – Vous me dites cela parce que vous ne savez pas
ce que j’aurais voulu vous dire. Mais c’est tellement difficile
que j’aime mieux y renoncer ; je suis certain que je vous
fâcherais ; alors cela n’aboutira qu’à ceci : je ne serai en rien
plus heureux avec celle que j’aime d’amour et j’aurai perdu
une bonne camarade. – Mais puisque je vous jure que je ne
me fâcherai pas. » Elle avait l’air si doux, si tristement docile
et d’attendre de moi son bonheur, que j’avais peine à me
contenir et à ne pas embrasser, presque avec le même genre
de plaisir que j’aurais eu à embrasser ma mère, ce visage
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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nouveau qui n’offrait plus la mine éveillée et rougissante
d’une chatte mutine et perverse au petit nez rose et levé,
mais semblait dans la plénitude de sa tristesse accablée,
fondu, à larges coulées aplaties et retombantes, dans de la
bonté. Faisant abstraction de mon amour comme d’une folie
chronique sans rapport avec elle, me mettant à sa place, je
m’attendrissais devant cette brave fille habituée à ce qu’on
eût pour elle des procédés aimables et loyaux, et que le bon
camarade qu’elle avait pu croire que j’étais pour elle
poursuivait, depuis des semaines, de persécutions qui étaient
enfin arrivées à leur point culminant. C’est parce que je me
plaçais à un point de vue purement humain, extérieur à nous
deux et d’où mon amour jaloux s’évanouissait, que
j’éprouvais pour Albertine cette pitié profonde, qui l’eût
moins été si je ne l’avais pas aimée. Du reste, dans cette
oscillation rythmée qui va de la déclaration à la brouille (le
plus sûr moyen, le plus efficacement dangereux pour former,
par mouvements opposés et successifs, un nœud qui ne se
défasse pas et nous attache solidement à une personne), au
sein du mouvement de retrait qui constitue l’un des deux
éléments du rythme, à quoi bon distinguer encore les reflux
de la pitié humaine, qui, opposés à l’amour, quoique ayant
peut-être inconsciemment la même cause, produisent en tout
cas les mêmes effets ? En se rappelant plus tard le total de
tout ce qu’on a fait pour une femme, on se rend compte
souvent que les actes inspirés par le désir de montrer qu’on
aime, de se faire aimer, de gagner des faveurs, ne tiennent
guère plus de place que ceux dus au besoin humain de
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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réparer les torts envers l’être qu’on aime, par simple devoir
moral, comme si on ne l’aimait pas. « Mais enfin qu’est-ce
que j’ai pu faire ? » me demanda Albertine. On frappa ;
c’était le lift ; la tante d’Albertine, qui passait devant l’hôtel
en voiture, s’était arrêtée à tout hasard pour voir si elle n’y
était pas et la ramener. Albertine fit répondre qu’elle ne
pouvait pas descendre, qu’on dînât sans l’attendre, qu’elle ne
savait pas à quelle heure elle rentrerait. « Mais votre tante
sera fâchée ? – Pensez-vous ! Elle comprendra très bien. »
Ainsi donc, en ce moment, du moins, tel qu’il n’en
reviendrait peut-être pas, un entretien avec moi se trouvait,
par suite des circonstances, être aux yeux d’Albertine une
chose d’une importance si évidente qu’on dût le faire passer
avant tout, et à laquelle, se reportant sans doute
instinctivement à une jurisprudence familiale, énumérant
telles conjonctures où, quand la carrière de M. Bontemps
était en jeu, on n’avait pas regardé à un voyage, mon amie ne
doutait pas que sa tante trouvât tout naturel de voir sacrifier
l’heure du dîner. Cette heure lointaine qu’elle passait sans
moi, chez les siens, Albertine l’ayant fait glisser jusqu’à moi
me la donnait ; j’en pouvais user à ma guise. Je finis par oser
lui dire ce qu’on m’avait raconté de son genre de vie, et que,
malgré le profond dégoût que m’inspiraient les femmes
atteintes du même vice, je ne m’en étais pas soucié jusqu’à ce
qu’on m’eût nommé sa complice, et qu’elle pouvait
comprendre facilement, au point où j’aimais Andrée, quelle
douleur j’en avais ressentie. Il eût peut-être été plus habile de
dire qu’on m’avait cité aussi d’autres femmes, mais qui
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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m’étaient indifférentes. Mais la brusque et terrible révélation
que m’avait faite Cottard était entrée en moi me déchirer,
telle quelle, tout entière, mais sans plus. Et de même
qu’auparavant je n’aurais jamais eu de moi-même l’idée
qu’Albertine aimait Andrée, ou du moins pût avoir des jeux
caressants avec elle, si Cottard ne m’avait pas fait remarquer
leur pose en valsant, de même je n’avais pas su passer de
cette idée à celle, pour moi tellement différente, qu’Albertine
pût avoir avec d’autres femmes qu’Andrée des relations dont
l’affection n’eût même pas été l’excuse. Albertine, avant
même de me jurer que ce n’était pas vrai, manifesta, comme
toute personne à qui on vient d’apprendre qu’on a ainsi parlé
d’elle, de la colère, du chagrin et, à l’endroit du calomniateur
inconnu, la curiosité rageuse de savoir qui il était et le désir
d’être confrontée avec lui pour pouvoir le confondre. Mais
elle m’assura qu’à moi du moins, elle n’en voulait pas. « Si
cela avait été vrai, je vous l’aurais avoué. Mais Andrée et moi
nous avons aussi horreur l’une que l’autre de ces choses-là.
Nous ne sommes pas arrivées à notre âge sans voir des
femmes aux cheveux courts, qui ont des manières d’hommes
et le genre que vous dites, et rien ne nous révolte autant. »
Albertine ne me donnait que sa parole, une parole
péremptoire et non appuyée de preuves. Mais c’est justement
ce qui pouvait le mieux me calmer, la jalousie appartenant à
cette famille de doutes maladifs que lève bien plus l’énergie
d’une affirmation que sa vraisemblance. C’est d’ailleurs le
propre de l’amour de nous rendre à la fois plus défiants et
plus crédules, de nous faire soupçonner, plus vite que nous
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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n’aurions fait une autre, celle que nous aimons, et d’ajouter
foi plus aisément à ses dénégations. Il faut aimer pour
prendre souci qu’il n’y ait pas que des honnêtes femmes,
autant dire pour s’en aviser, et il faut aimer aussi pour
souhaiter, c’est-à-dire pour s’assurer qu’il y en a. Il est
humain de chercher la douleur et aussitôt à s’en délivrer. Les
propositions qui sont capables d’y réussir nous semblent
facilement vraies, on ne chicane pas beaucoup sur un
calmant qui agit. Et puis, si multiple que soit l’être que nous
aimons, il peut en tout cas nous présenter deux personnalités
essentielles, selon qu’il nous apparaît comme nôtre ou
comme tournant ses désirs ailleurs que vers nous. La
première de ces personnalités possède la puissance
particulière qui nous empêche de croire à la réalité de la
seconde, le secret spécifique pour apaiser les souffrances que
cette dernière a causées. L’être aimé est successivement le
mal et le remède qui suspend et aggrave le mal. Sans doute
j’avais été depuis longtemps, par la puissance qu’exerçait sur
mon imagination et ma faculté d’être ému l’exemple de
Swann, préparé à croire vrai ce que je craignais au lieu de ce
que j’aurais souhaité. Aussi la douceur apportée par les
affirmations d’Albertine faillit-elle en être compromise un
moment parce que je me rappelai l’histoire d’Odette. Mais je
me dis que, s’il était juste de faire sa part au pire, non
seulement quand, pour comprendre les souffrances de
Swann, j’avais essayé de me mettre à la place de celui-ci, mais
maintenant qu’il s’agissait de moi-même, en cherchant la
vérité comme s’il se fût agi d’un autre, il ne fallait cependant
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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pas que, par cruauté pour moi-même, soldat qui choisit le
poste non pas où il peut être le plus utile mais où il est le
plus exposé, j’aboutisse à l’erreur de tenir une supposition
pour plus vraie que les autres, à cause de cela seul qu’elle
était la plus douloureuse. N’y avait-il pas un abîme entre
Albertine, jeune fille d’assez bonne famille bourgeoise, et
Odette, cocotte vendue par sa mère dès son enfance ? La
parole de l’une ne pouvait être mise en comparaison avec
celle de l’autre. D’ailleurs Albertine n’avait en rien à me
mentir le même intérêt qu’Odette à Swann. Et encore à
celui-ci Odette avait avoué ce qu’Albertine venait de nier.
J’aurais donc commis une faute de raisonnement aussi grave
– quoique inverse – que celle qui m’eût incliné vers une
hypothèse parce que celle-ci m’eût fait moins souffrir que les
autres, en ne tenant pas compte de ces différences de fait
dans les situations, et en reconstituant la vie réelle de mon
amie uniquement d’après ce que j’avais appris de celle
d’Odette. J’avais devant moi une nouvelle Albertine, déjà
entrevue plusieurs fois, il est vrai, vers la fin de mon premier
séjour à Balbec, franche, bonne, une Albertine qui venait,
par affection pour moi, de me pardonner mes soupçons et
de tâcher à les dissiper. Elle me fit asseoir à côté d’elle sur
mon lit. Je la remerciai de ce qu’elle m’avait dit, je l’assurai
que notre réconciliation était faite et que je ne serais plus
jamais dur avec elle. Je dis à Albertine qu’elle devrait tout de
même rentrer dîner. Elle me demanda si je n’étais pas bien
comme cela. Et attirant ma tête pour une caresse qu’elle ne
m’avait encore jamais faite et que je devais peut-être à notre
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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brouille finie, elle passa légèrement sa langue sur mes lèvres,
qu’elle essayait d’entr’ouvrir. Pour commencer je ne les
desserrai pas. « Quel grand méchant vous faites ! » me ditelle.
J’aurais dû partir ce soir-là sans jamais la revoir. Je
pressentais dès lors que, dans l’amour non partagé – autant
dire dans l’amour, car il est des êtres pour qui il n’est pas
d’amour partagé – on peut goûter du bonheur seulement ce
simulacre qui m’en était donné à un de ces moments uniques
dans lesquels la bonté d’une femme, ou son caprice, ou le
hasard, appliquent sur nos désirs, en une coïncidence
parfaite, les mêmes paroles, les mêmes actions, que si nous
étions vraiment aimés. La sagesse eût été de considérer avec
curiosité, de posséder avec délices cette petite parcelle de
bonheur, à défaut de laquelle je serais mort sans avoir
soupçonné ce qu’il peut être pour des cœurs moins difficiles
ou plus favorisés ; de supposer qu’elle faisait partie d’un
bonheur vaste et durable qui m’apparaissait en ce point
seulement ; et, pour que le lendemain n’inflige pas un
démenti à cette feinte, de ne pas chercher à demander une
faveur de plus après celle qui n’avait été due qu’à l’artifice
d’une minute d’exception. J’aurais dû quitter Balbec,
m’enfermer dans la solitude, y rester en harmonie avec les
dernières vibrations de la voix que j’avais su rendre un
instant amoureuse, et de qui je n’aurais plus rien exigé que de
ne pas s’adresser davantage à moi ; de peur que, par une
parole nouvelle qui n’eût pu désormais être que différente,
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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elle vînt blesser d’une dissonance le silence sensitif où,
comme grâce à quelque pédale, aurait pu survivre longtemps
en moi la tonalité du bonheur.
Tranquillisé par mon explication avec Albertine, je
recommençai à vivre davantage auprès de ma mère. Elle
aimait à me parler doucement du temps où ma grand’mère
était plus jeune. Craignant que je ne me fisse des reproches
sur les tristesses dont j’avais pu assombrir la fin de cette vie,
elle revenait volontiers aux années où mes premières études
avaient causé à ma grand’mère des satisfactions que jusqu’ici
on m’avait toujours cachées. Nous reparlions de Combray.
Ma mère me dit que là-bas du moins je lisais, et qu’à Balbec
je devrais bien faire de même, si je ne travaillais pas. Je
répondis que, pour m’entourer justement des souvenirs de
Combray et des jolies assiettes peintes, j’aimerais relire les
Mille et une Nuits. Comme jadis à Combray, quand elle me
donnait des livres pour ma fête, c’est en cachette, pour me
faire une surprise, que ma mère me fit venir à la fois les Mille
et une Nuits de Galland et les Mille et une Nuits de Mardrus.
Mais, après avoir jeté un coup d’œil sur les deux traductions,
ma mère aurait bien voulu que je m’en tinsse à celle de
Galland, tout en craignant de m’influencer, à cause du
respect qu’elle avait de la liberté intellectuelle, de la peur
d’intervenir maladroitement dans la vie de ma pensée, et du
sentiment qu’étant une femme, d’une part elle manquait,
croyait-elle, de la compétence littéraire qu’il fallait, d’autre
part qu’elle ne devait pas juger d’après ce qui la choquait les
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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lectures d’un jeune homme. En tombant sur certains contes,
elle avait été révoltée par l’immoralité du sujet et la crudité
de l’expression. Mais surtout, conservant précieusement
comme des reliques, non pas seulement la broche, l’en-toutcas, le manteau, le volume de Mme de Sévigné, mais aussi les
habitudes de pensée et de langage de sa mère, cherchant en
toute occasion quelle opinion celle-ci eût émise, ma mère ne
pouvait douter de la condamnation que ma grand’mère eût
prononcée contre le livre de Mardrus. Elle se rappelait qu’à
Combray, tandis qu’avant de partir marcher du côté de
Méséglise je lisais Augustin Thierry, ma grand’mère, contente
de mes lectures, de mes promenades, s’indignait pourtant de
voir celui dont le nom restait attaché à cet hémistiche : « Puis
règne Mérovée » appelé Merowig, refusait de dire
Carolingiens pour les Carlovingiens, auxquels elle restait
fidèle. Enfin je lui avais raconté ce que ma grand’mère avait
pensé des noms grecs que Bloch, d’après Leconte de Lisle,
donnait aux dieux d’Homère, allant même, pour les choses
les plus simples, à se faire un devoir religieux, en lequel il
croyait que consistait le talent littéraire, d’adopter une
orthographe grecque. Ayant, par exemple, à dire dans une
lettre que le vin qu’on buvait chez lui était un vrai nectar, il
écrivait un vrai nektar, avec un k, ce qui lui permettait de
ricaner au nom de Lamartine. Or si une Odyssée d’où étaient
absents les noms d’Ulysse et de Minerve n’était plus pour
elle l’Odyssée, qu’aurait-elle dit en voyant déjà déformé sur la
couverture le titre de ses Mille et Une Nuits, en ne
retrouvant plus, exactement transcrits comme elle avait été
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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de tout temps habituée à les dire, les noms immortellement
familiers de Sheherazade, de Dinarzade, où, débaptisés euxmêmes, si l’on ose employer le mot pour des contes
musulmans, le charmant Calife et les puissants Génies se
reconnaissaient à peine, étant appelés l’un le « Khalifat », les
autres les « Gennis » ? Pourtant ma mère me remit les deux
ouvrages, et je lui dis que je les lirais les jours où je serais
trop fatigué pour me promener.
Ces jours-là n’étaient pas très fréquents d’ailleurs. Nous
allions goûter comme autrefois « en bande », Albertine, ses
amies et moi, sur la falaise ou à la ferme Marie-Antoinette.
Mais il y avait des fois où Albertine me donnait ce grand
plaisir. Elle me disait : « Aujourd’hui je veux être un peu
seule avec vous, ce sera plus gentil de se voir tous les deux. »
Alors elle disait qu’elle avait à faire, que d’ailleurs elle n’avait
pas de comptes à rendre, et pour que les autres, si elles
allaient tout de même sans nous se promener et goûter, ne
pussent pas nous retrouver, nous allions, comme deux
amants, tout seuls à Bagatelle ou à la Croix d’Heulan,
pendant que la bande, qui n’aurait jamais eu l’idée de nous
chercher là et n’y allait jamais, restait indéfiniment, dans
l’espoir de nous voir arriver, à Marie-Antoinette. Je me
rappelle les temps chauds qu’il faisait alors, où du front des
garçons de ferme travaillant au soleil une goutte de sueur
tombait verticale, régulière, intermittente, comme la goutte
d’eau d’un réservoir, et alternait avec la chute du fruit mûr
qui se détachait de l’arbre dans les « clos » voisins ; ils sont
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restés, aujourd’hui encore, avec ce mystère d’une femme
cachée, la part la plus consistante de tout amour qui se
présente pour moi. Une femme dont on me parle et à
laquelle je ne songerais pas un instant, je dérange tous les
rendez-vous de ma semaine pour la connaître, si c’est une
semaine où il fait un de ces temps-là, et si je dois la voir dans
quelque ferme isolée. J’ai beau savoir que ce genre de temps
et de rendez-vous n’est pas d’elle, c’est l’appât, pourtant bien
connu de moi, auquel je me laisse prendre et qui suffit pour
m’accrocher. Je sais que cette femme, par un temps froid,
dans une ville, j’aurais pu la désirer, mais sans
accompagnement de sentiment romanesque, sans devenir
amoureux ; l’amour n’en est pas moins fort une fois que,
grâce à des circonstances, il m’a enchaîné – il est seulement
plus mélancolique, comme le deviennent dans la vie nos
sentiments pour des personnes, au fur et à mesure que nous
nous apercevons davantage de la part de plus en plus petite
qu’elles y tiennent et que l’amour nouveau que nous
souhaiterions si durable, abrégé en même temps que notre
vie même, sera le dernier.
Il y avait encore peu de monde à Balbec, peu de jeunes filles.
Quelquefois j’en voyais telle ou telle arrêtée sur la plage, sans
agrément, et que pourtant bien des coïncidences semblaient
certifier être la même que j’avais été désespéré de ne pouvoir
approcher au moment où elle sortait avec ses amies du
manège ou de l’école de gymnastique. Si c’était la même (et
je me gardais d’en parler à Albertine), la jeune fille que j’avais
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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crue enivrante n’existait pas. Mais je ne pouvais arriver à une
certitude, car le visage de ces jeunes filles n’occupait pas sur
la plage une grandeur, n’offrait pas une forme permanente,
contracté, dilaté, transformé qu’il était par ma propre attente,
l’inquiétude de mon désir ou un bien-être qui se suffit à luimême, les toilettes différentes qu’elles portaient, la rapidité
de leur marche ou leur immobilité. De tout près pourtant,
deux ou trois me semblaient adorables. Chaque fois que je
voyais une de celles-là, j’avais envie de l’emmener dans
l’avenue des Tamaris, ou dans les dunes, mieux encore sur la
falaise. Mais bien que dans le désir, par comparaison avec
l’indifférence, il entre déjà cette audace qu’est un
commencement, même unilatéral, de réalisation, tout de
même, entre mon désir et l’action que serait ma demande de
l’embrasser, il y avait tout le « blanc » indéfini de l’hésitation,
de la timidité. Alors j’entrais chez le pâtissier-limonadier, je
buvais l’un après l’autre sept à huit verres de porto. Aussitôt,
au lieu de l’intervalle impossible à combler entre mon désir
et l’action, l’effet de l’alcool traçait une ligne qui les
conjoignait tous deux. Plus de place pour l’hésitation ou la
crainte. Il me semblait que la jeune fille allait voler jusqu’à
moi. J’allais jusqu’à elle, d’eux-mêmes sortaient de mes lèvres
: « J’aimerais me promener avec vous. Vous ne voulez pas
qu’on aille sur la falaise, on n’y est dérangé par personne
derrière le petit bois qui protège du vent la maison
démontable actuellement inhabitée ? » Toutes les difficultés
de la vie étaient aplanies, il n’y avait plus d’obstacles à
l’enlacement de nos deux corps. Plus d’obstacles pour moi
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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du moins. Car ils n’avaient pas été volatilisés pour elle qui
n’avait pas bu de porto. L’eût-elle fait, et l’univers eût-il
perdu quelque réalité à ses yeux, le rêve longtemps chéri qui
lui aurait alors paru soudain réalisable n’eût peut-être pas été
du tout de tomber dans mes bras.
Non seulement les jeunes filles étaient peu nombreuses,
mais, en cette saison qui n’était pas encore « la saison », elles
restaient peu. Je me souviens d’une au teint roux de colaeus,
aux yeux verts, aux deux joues rousses et dont la figure
double et légère ressemblait aux graines ailées de certains
arbres. Je ne sais quelle brise l’amena à Balbec et quelle autre
la remporta. Ce fut si brusquement que j’en eus pendant
plusieurs jours un chagrin que j’osai avouer à Albertine
quand je compris qu’elle était partie pour toujours.
Il faut dire que plusieurs étaient ou des jeunes filles que je ne
connaissais pas du tout, ou que je n’avais pas vues depuis des
années. Souvent, avant de les rencontrer, je leur écrivais. Si
leur réponse me faisait croire à un amour possible, quelle
joie ! On ne peut pas, au début d’une amitié pour une
femme, et même si elle ne doit pas se réaliser par la suite, se
séparer de ces premières lettres reçues. On les veut avoir
tout le temps auprès de soi, comme de belles fleurs reçues,
encore toutes fraîches, et qu’on ne s’interrompt de regarder
que pour les respirer de plus près. La phrase qu’on sait par
cœur est agréable à relire et, dans celles moins littéralement
apprises, on veut vérifier le degré de tendresse d’une
expression. A-t-elle écrit : « Votre chère lettre ? » Petite
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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déception dans la douceur qu’on respire, et qui doit être
attribuée soit à ce qu’on a lu trop vite, soit à l’écriture illisible
de la correspondante ; elle n’a pas mis : « Et votre chère
lettre », mais : « En voyant cette lettre ». Mais le reste est si
tendre. Oh ! que de pareilles fleurs viennent demain. Puis
cela ne suffit plus, il faudrait aux mots écrits confronter les
regards, la voix. On prend rendez-vous, et – sans qu’elle ait
changé peut-être – là où on croyait, sur la description faite
ou le souvenir personnel, rencontrer la fée Viviane, on
trouve le Chat botté. On lui donne rendez-vous pour le
lendemain quand même, car c’est tout de même elle et ce
qu’on désirait, c’est elle. Or ces désirs pour une femme dont
on a rêvé ne rendent pas absolument nécessaire la beauté de
tel trait précis. Ces désirs sont seulement le désir de tel être ;
vagues comme des parfums, comme le styrax était le désir de
Prothyraïa, le safran le désir éthéré, les aromates le désir
d’Héra, la myrrhe le parfum des mages, la manne le désir de
Nikè, l’encens le parfum de la mer. Mais ces parfums que
chantent les Hymnes orphiques sont bien moins nombreux
que les divinités qu’ils chérissent. La myrrhe est le parfum
des mages, mais aussi de Protogonos, de Neptune, de Nérée,
de Leto ; l’encens est le parfum de la mer, mais aussi de la
belle Diké, de Thémis, de Circé, des neuf Muses, d’Eos, de
Mnémosyne, du Jour, de Dikaïosunè. Pour le styrax, la
manne et les aromates, on n’en finirait pas de dire les
divinités qui les inspirent, tant elles sont nombreuses.
Amphiétès a tous les parfums excepté l’encens, et Gaïa
rejette uniquement les fèves et les aromates. Ainsi en était-il
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de ces désirs de jeunes filles que j’avais. Moins nombreux
qu’elles n’étaient, ils se changeaient en des déceptions et des
tristesses assez semblables les unes aux autres. Je n’ai jamais
voulu de la myrrhe. Je l’ai réservée pour Jupien et pour la
princesse de Guermantes, car elle est le désir de Protogonos
« aux deux sexes, ayant le mugissement du taureau, aux
nombreuses orgies, mémorable, inénarrable, descendant,
joyeux, vers les sacrifices des Orgiophantes ».
Mais bientôt la saison battit son plein ; c’était tous les jours
une arrivée nouvelle, et à la fréquence subitement croissante
de mes promenades, remplaçant la lecture charmante des
Mille et Une Nuits, il y avait une cause dépourvue de plaisir
et qui les empoisonnait tous. La plage était maintenant
peuplée de jeunes filles, et l’idée que m’avait suggérée
Cottard m’ayant, non pas fourni de nouveaux soupçons,
mais rendu sensible et fragile de ce côté, et prudent à ne pas
en laisser se former en moi, dès qu’une jeune femme arrivait
à Balbec, je me sentais mal à l’aise, je proposais à Albertine
les excursions les plus éloignées, afin qu’elle ne pût faire la
connaissance et même, si c’était possible, pût ne pas recevoir
la nouvelle venue. Je redoutais naturellement davantage
encore celles dont on remarquait le mauvais genre ou
connaissait la mauvaise réputation ; je tâchais de persuader à
mon amie que cette mauvaise réputation n’était fondée sur
rien, était calomnieuse, peut-être sans me l’avouer par une
peur, encore inconsciente, qu’elle cherchât à se lier avec la
dépravée ou qu’elle regrettât de ne pouvoir la chercher, à
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cause de moi, ou qu’elle crût, par le nombre des exemples,
qu’un vice si répandu n’est pas condamnable. En le niant de
chaque coupable je ne tendais pas à moins qu’à prétendre
que le saphisme n’existe pas. Albertine adoptait mon
incrédulité pour le vice de telle et telle : « Non, je crois que
c’est seulement un genre qu’elle cherche à se donner, c’est
pour faire du genre. » Mais alors je regrettais presque d’avoir
plaidé l’innocence, car il me déplaisait qu’Albertine, si sévère
autrefois, pût croire que ce « genre » fût quelque chose
d’assez flatteur, d’assez avantageux, pour qu’une femme
exempte de ces goûts eût cherché à s’en donner l’apparence.
J’aurais voulu qu’aucune femme ne vînt plus à Balbec ; je
tremblais en pensant que, comme c’était à peu près l’époque
où Mme Putbus devait arriver chez les Verdurin, sa femme
de chambre, dont Saint-Loup ne m’avait pas caché les
préférences, pourrait venir excursionner jusqu’à la plage, et,
si c’était un jour où je n’étais pas auprès d’Albertine, essayer
de la corrompre. J’arrivais à me demander, comme Cottard
ne m’avait pas caché que les Verdurin tenaient beaucoup à
moi, et, tout en ne voulant pas avoir l’air, comme il disait, de
me courir après, auraient donné beaucoup pour que j’allasse
chez eux, si je ne pourrais pas, moyennant les promesses de
leur amener à Paris tous les Guermantes du monde, obtenir
de Mme Verdurin que, sous un prétexte quelconque, elle
prévînt Mme Putbus qu’il lui était impossible de la garder
chez elle et la fît repartir au plus vite. Malgré ces pensées, et
comme c’était surtout la présence d’Andrée qui m’inquiétait,
l’apaisement que m’avaient procuré les paroles d’Albertine
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persistait encore un peu ; – je savais d’ailleurs que bientôt
j’aurais moins besoin de lui, Andrée devant partir avec
Rosemonde et Gisèle presque au moment où tout le monde
arrivait, et n’ayant plus à rester auprès d’Albertine que
quelques semaines. Pendant celles-ci d’ailleurs, Albertine
sembla combiner tout ce qu’elle faisait, tout ce qu’elle disait,
en vue de détruire mes soupçons s’il m’en restait, ou de les
empêcher de renaître. Elle s’arrangeait à ne jamais rester
seule avec Andrée, et insistait, quand nous rentrions, pour
que je l’accompagnasse jusqu’à sa porte, pour que je vinsse
l’y chercher quand nous devions sortir. Andrée cependant
prenait de son côté une peine égale, semblait éviter de voir
Albertine. Et cette apparente entente entre elles n’était pas le
seul indice qu’Albertine avait dû mettre son amie au courant
de notre entretien et lui demander d’avoir la gentillesse de
calmer mes absurdes soupçons.
Vers cette époque se produisit au Grand-Hôtel de Balbec un
scandale qui ne fut pas pour changer la pente de mes
tourments. La sœur de Bloch avait depuis quelque temps,
avec une ancienne actrice, des relations secrètes qui bientôt
ne leur suffirent plus. Être vues leur semblait ajouter de la
perversité à leur plaisir, elles voulaient faire baigner leurs
dangereux ébats dans les regards de tous. Cela commença
par des caresses, qu’on pouvait en somme attribuer à une
intimité amicale, dans le salon de jeu, autour de la table de
baccara. Puis elles s’enhardirent. Et enfin un soir, dans un
coin pas même obscur de la grande salle de danses, sur un
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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canapé, elles ne se gênèrent pas plus que si elles avaient été
dans leur lit. Deux officiers, qui étaient non loin de là avec
leurs femmes, se plaignirent au directeur. On crut un
moment que leur protestation aurait quelque efficacité. Mais
ils avaient contre eux que, venus pour un soir de
Netteholme, où ils habitaient, à Balbec, ils ne pouvaient en
rien être utiles au directeur. Tandis que, même à son insu, et
quelque observation que lui fît le directeur, planait sur Mlle
Bloch la protection de M. Nissim Bernard. Il faut dire
pourquoi. M. Nissim Bernard pratiquait au plus haut point
les vertus de famille. Tous les ans il louait à Balbec une
magnifique villa pour son neveu, et aucune invitation n’aurait
pu le détourner de rentrer dîner dans son chez lui, qui était
en réalité leur chez eux. Mais jamais il ne déjeunait chez lui.
Tous les jours il était à midi au Grand-Hôtel. C’est qu’il
entretenait, comme d’autres, un rat d’opéra, un « commis »,
assez pareil à ces chasseurs dont nous avons parlé, et qui
nous faisaient penser aux jeunes israélites d’Esther et
d’Athalie. À vrai dire, les quarante années qui séparaient M.
Nissim Bernard du jeune commis auraient dû préserver
celui-ci d’un contact peu aimable. Mais, comme le dit Racine
avec tant de sagesse dans les mêmes chœurs :
Mon Dieu, qu’une vertu naissante,
Parmi tant de périls marche à pas incertains !
Qu’une âme qui te cherche et veut être innocente,
Trouve d’obstacle à ses desseins.
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Le jeune commis avait eu beau être « loin du monde élevé »,
dans le Temple-Palace de Balbec, il n’avait pas suivi le
conseil de Joad :
Sur la richesse et l’or ne mets point ton appui.
Il s’était peut-être fait une raison en disant : « Les pécheurs
couvrent la terre. » Quoi qu’il en fût, et bien que M. Nissim
Bernard n’espérât pas un délai aussi court, dès le premier
jour,
Et soit frayeur encor ou pour le caresser,
De ses bras innocents il se sentit presser.
Et dès le deuxième jour, M. Nissim Bernard promenant le
commis, « l’abord contagieux altérait son innocence ». Dès
lors la vie du jeune enfant avait changé. Il avait beau porter
le pain et le sel, comme son chef de rang le lui commandait,
tout son visage chantait :
De fleurs en fleurs, de plaisirs en plaisirs
Promenons nos désirs.
De nos ans passagers le nombre est incertain
Hâtons-nous aujourd’hui de jouir de la vie !
...L’honneur et les emplois
Sont le prix d’une aveugle et basse obéissance.
Pour la triste innocence
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Qui voudrait élever la voix !
Depuis ce jour-là, M. Nissim Bernard n’avait jamais manqué
de venir occuper sa place au déjeuner (comme l’eût fait à
l’orchestre quelqu’un qui entretient une figurante, une
figurante celle-là d’un genre fortement caractérisé, et qui
attend encore son Degas). C’était le plaisir de M. Nissim
Bernard de suivre dans la salle à manger, et jusque dans les
perspectives lointaines où, sous son palmier, trônait la
caissière, les évolutions de l’adolescent empressé au service,
au service de tous, et moins de M. Nissim Bernard depuis
que celui-ci l’entretenait, soit que le jeune enfant de chœur
ne crût pas nécessaire de témoigner la même amabilité à
quelqu’un de qui il se croyait suffisamment aimé, soit que cet
amour l’irritât ou qu’il craignît que, découvert, il lui fît
manquer d’autres occasions. Mais cette froideur même
plaisait à M. Nissim Bernard par tout ce qu’elle dissimulait ;
que ce fût par atavisme hébraïque ou par profanation du
sentiment chrétien, il se plaisait singulièrement, qu’elle fût
juive ou catholique, à la cérémonie racinienne. Si elle eût été
une véritable représentation d’Esther ou d’Athalie, M.
Bernard eût regretté que la différence des siècles ne lui eût
pas permis de connaître l’auteur, Jean Racine, afin d’obtenir
pour son protégé un rôle plus considérable. Mais la
cérémonie du déjeuner n’émanant d’aucun écrivain, il se
contentait d’être en bons termes avec le directeur et avec
Aimé pour que le « jeune Israélite » fût promu aux fonctions
souhaitées, ou de demi-chef, ou même de chef de rang.
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Celles du sommelier lui avaient été offertes. Mais M. Bernard
l’obligea à les refuser, car il n’aurait plus pu venir chaque jour
le voir courir dans la salle à manger verte et se faire servir par
lui comme un étranger. Or ce plaisir était si fort que tous les
ans M. Bernard revenait à Balbec et y prenait son déjeuner
hors de chez lui, habitudes où M. Bloch voyait, dans la
première un goût poétique pour la belle lumière, les couchers
de soleil de cette côte préférée à toute autre ; dans la
seconde, une manie invétérée de vieux célibataire.
À vrai dire, cette erreur des parents de M. Nissim Bernard,
lesquels ne soupçonnaient pas la vraie raison de son retour
annuel à Balbec et ce que la pédante Mme Bloch appelait ses
découchages en cuisine, cette erreur était une vérité plus
profonde et du second degré. Car M. Nissim Bernard
ignorait lui-même ce qu’il pouvait entrer d’amour de la plage
de Balbec, de la vue qu’on avait, du restaurant, sur la mer, et
d’habitudes maniaques, dans le goût qu’il avait d’entretenir
comme un rat d’opéra d’une autre sorte, à laquelle il manque
encore un Degas, l’un de ses servants qui étaient encore des
filles. Aussi M. Nissim Bernard entretenait-il avec le
directeur de ce théâtre qu’était l’hôtel de Balbec, et avec le
metteur en scène et régisseur Aimé – desquels le rôle en
toute cette affaire n’était pas des plus limpides –
d’excellentes relations. On intriguerait un jour pour obtenir
un grand rôle, peut-être une place de maître d’hôtel. En
attendant, le plaisir de M. Nissim Bernard, si poétique et
calmement contemplatif qu’il fût, avait un peu le caractère de
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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ces hommes à femmes qui savent toujours – Swann jadis,
par exemple – qu’en allant dans le monde ils vont retrouver
leur maîtresse. À peine M. Nissim Bernard serait-il assis qu’il
verrait l’objet de ses vœux s’avancer sur la scène portant à la
main des fruits ou des cigares sur un plateau. Aussi tous les
matins, après avoir embrassé sa nièce, s’être inquiété des
travaux de mon ami Bloch et donné à manger à ses chevaux
des morceaux de sucre posés dans sa paume tendue, avait-il
une hâte fébrile d’arriver pour le déjeuner au Grand-Hôtel. Il
y eût eu le feu chez lui, sa nièce eût eu une attaque, qu’il fût
sans doute parti tout de même. Aussi craignait-il comme la
peste un rhume pour lequel il eût gardé le lit – car il était
hypocondriaque – et qui eût nécessité qu’il fît demander à
Aimé de lui envoyer chez lui, avant l’heure du goûter, son
jeune ami.
Il aimait d’ailleurs tout le labyrinthe de couloirs, de cabinets
secrets, de salons, de vestiaires, de garde-manger, de galeries
qu’était l’hôtel de Balbec. Par atavisme d’Oriental il aimait les
sérails et, quand il sortait le soir, on le voyait en explorer
furtivement les détours.
Tandis que, se risquant jusqu’aux sous-sols et cherchant
malgré tout à ne pas être vu et à éviter le scandale, M.
Nissim Bernard, dans sa recherche des jeunes lévites, faisait
penser à ces vers de la Juive :
Ô Dieu de nos pères,
Parmi nous descends,
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Cache nos mystères
À l’œil des méchants !
je montais au contraire dans la chambre de deux sœurs qui
avaient accompagné à Balbec, comme femmes de chambre,
une vieille dame étrangère. C’était ce que le langage des
hôtels appelait deux courrières et celui de Françoise, laquelle
s’imaginait qu’un courrier ou une courrière sont là pour faire
des courses, deux « coursières ». Les hôtels, eux, en sont
restés, plus noblement, au temps où l’on chantait : « C’est un
courrier de cabinet. »
Malgré la difficulté qu’il y avait pour un client à aller dans
des chambres de courrières, et réciproquement, je m’étais
très vite lié d’une amitié très vive, quoique très pure, avec ces
deux jeunes personnes, Mlle Marie Gineste et Mme Céleste
Albaret. Nées au pied des hautes montagnes du centre de la
France, au bord de ruisseaux et de torrents (l’eau passait
même sous leur maison de famille où tournait un moulin et
qui avait été dévastée plusieurs fois par l’inondation), elles
semblaient en avoir gardé la nature. Marie Gineste était plus
régulièrement rapide et saccadée, Céleste Albaret plus molle
et languissante, étalée comme un lac, mais avec de terribles
retours de bouillonnement où sa fureur rappelait le danger
des crues et des tourbillons liquides qui entraînent tout,
saccagent tout. Elles venaient souvent, le matin, me voir
quand j’étais encore couché. Je n’ai jamais connu de
personnes aussi volontairement ignorantes, qui n’avaient
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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absolument rien appris à l’école, et dont le langage eût
pourtant quelque chose de si littéraire que, sans le naturel
presque sauvage de leur ton, on aurait cru leurs paroles
affectées. Avec une familiarité que je ne retouche pas, malgré
les éloges (qui ne sont pas ici pour me louer, mais pour louer
le génie étrange de Céleste) et les critiques, également
fausses, mais très sincères, que ces propos semblent
comporter à mon égard, tandis que je trempais des croissants
dans mon lait, Céleste me disait : « Oh ! petit diable noir aux
cheveux de geai, ô profonde malice ! je ne sais pas à quoi
pensait votre mère quand elle vous a fait, car vous avez tout
d’un oiseau. Regarde, Marie, est-ce qu’on ne dirait pas qu’il
se lisse ses plumes, et tourne son cou avec une souplesse, il a
l’air tout léger, on dirait qu’il est en train d’apprendre à voler.
Ah ! vous avez de la chance que ceux qui vous ont créé vous
aient fait naître dans le rang des riches ; qu’est-ce que vous
seriez devenu, gaspilleur comme vous êtes. Voilà qu’il jette
son croissant parce qu’il a touché le lit. Allons bon, voilà
qu’il répand son lait, attendez que je vous mette une serviette
car vous ne sauriez pas vous y prendre, je n’ai jamais vu
quelqu’un de si bête et de si maladroit que vous. » On
entendait alors le bruit plus régulier de torrent de Marie
Gineste qui, furieuse, faisait des réprimandes à sa sœur : «
Allons, Céleste, veux-tu te taire ? Es-tu pas folle de parler à
Monsieur comme cela ? » Céleste n’en faisait que sourire ; et
comme je détestais qu’on m’attachât une serviette : « Mais
non, Marie, regarde-le, bing, voilà qu’il s’est dressé tout droit
comme un serpent. Un vrai serpent, je te dis. » Elle
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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prodiguait, du reste, les comparaisons zoologiques, car, selon
elle, on ne savait pas quand je dormais, je voltigeais toute la
nuit comme un papillon, et le jour j’étais aussi rapide que ces
écureuils, « tu sais, Marie, comme on voit chez nous, si agiles
que même avec les yeux on ne peut pas les suivre. – Mais,
Céleste, tu sais qu’il n’aime pas avoir une serviette quand il
mange. – Ce n’est pas qu’il n’aime pas ça, c’est pour bien
dire qu’on ne peut pas lui changer sa volonté. C’est un
seigneur et il veut montrer qu’il est un seigneur. On changera
les draps dix fois s’il le faut, mais il n’aura pas cédé. Ceux
d’hier avaient fait leur course, mais aujourd’hui ils viennent
seulement d’être mis, et déjà il faudra les changer. Ah ! j’avais
raison de dire qu’il n’était pas fait pour naître parmi les
pauvres. Regarde, ses cheveux se hérissent, ils se
boursouflent par la colère comme les plumes des oiseaux.
Pauvre ploumissou ! » Ici ce n’était pas seulement Marie qui
protestait, mais moi, car je ne me sentais pas seigneur du
tout. Mais Céleste ne croyait jamais à la sincérité de ma
modestie et, me coupant la parole : « Ah ! sac à ficelles, ah !
douceur, ah ! perfidie ! rusé entre les rusés, rosse des rosses !
Ah ! Molière ! » (C’était le seul nom d’écrivain qu’elle connût,
mais elle me l’appliquait, entendant par là quelqu’un qui
serait capable à la fois de composer des pièces et de les
jouer.) « Céleste ! » criait impérieusement Marie qui, ignorant
le nom de Molière, craignait que ce ne fût une injure
nouvelle. Céleste se remettait à sourire : « Tu n’as donc pas
vu dans son tiroir sa photographie quand il était enfant ? Il
avait voulu nous faire croire qu’on l’habillait toujours très
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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simplement. Et là, avec sa petite canne, il n’est que fourrures
et dentelles, comme jamais prince n’a eues. Mais ce n’est rien
à côté de son immense majesté et de sa bonté encore plus
profonde. – Alors, grondait le torrent Marie, voilà que tu
fouilles dans ses tiroirs maintenant. » Pour apaiser les
craintes de Marie je lui demandais ce qu’elle pensait de ce
que M. Nissim Bernard faisait. « Ah ! Monsieur, c’est des
choses que je n’aurais pas pu croire que ça existait : il a fallu
venir ici » et, damant pour une fois le pion à Céleste par une
parole plus profonde : « Ah ! voyez-vous, Monsieur, on ne
peut jamais savoir ce qu’il peut y avoir dans une vie. » Pour
changer le sujet, je lui parlais de celle de mon père, qui
travaillait nuit et jour. « Ah ! Monsieur, ce sont des vies dont
on ne garde rien pour soi, pas une minute, pas un plaisir ;
tout, entièrement tout est un sacrifice pour les autres, ce sont
des vies données. – Regarde, Céleste, rien que pour poser sa
main sur la couverture et prendre son croissant, quelle
distinction ! il peut faire les choses les plus insignifiantes, on
dirait que toute la noblesse de France, jusqu’aux Pyrénées, se
déplace dans chacun de ses mouvements. »
Anéanti par ce portrait si peu véridique, je me taisais ;
Céleste voyait là une ruse nouvelle : « Ah ! front qui as l’air si
pur et qui caches tant de choses, joues amies et fraîches
comme l’intérieur d’une amande, petites mains de satin tout
pelucheux, ongles comme des griffes », etc. « Tiens, Marie,
regarde-le boire son lait avec un recueillement qui me donne
envie de faire ma prière. Quel air sérieux ! On devrait bien
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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tirer son portrait en ce moment. Il a tout des enfants. Est-ce
de boire du lait comme eux qui vous a conservé leur teint
clair ? Ah ! jeunesse ! ah ! jolie peau ! Vous ne vieillirez
jamais. Vous avez de la chance, vous n’aurez jamais à lever la
main sur personne car vous avez des yeux qui savent
imposer leur volonté. Et puis le voilà en colère maintenant.
Il se tient debout, tout droit comme une évidence. »
Françoise n’aimait pas du tout que celles qu’elle appelait les
deux enjôleuses vinssent ainsi tenir conversation avec moi.
Le directeur, qui faisait guetter par ses employés tout ce qui
se passait, me fit même observer gravement qu’il n’était pas
digne d’un client de causer avec des courrières. Moi qui
trouvais les « enjôleuses » supérieures à toutes les clientes de
l’hôtel, je me contentai de lui éclater de rire au nez,
convaincu qu’il ne comprendrait pas mes explications. Et les
deux sœurs revenaient. « Regarde, Marie, ses traits si fins. Ô
miniature parfaite, plus belle que la plus précieuse qu’on
verrait sous une vitrine, car il a les mouvements, et des
paroles à l’écouter des jours et des nuits. »
C’est miracle qu’une dame étrangère ait pu les emmener, car,
sans savoir l’histoire ni la géographie, elles détestaient de
confiance les Anglais, les Allemands, les Russes, les Italiens,
la « vermine » des étrangers et n’aimaient, avec des
exceptions, que les Français. Leur figure avait tellement
gardé l’humidité de la glaise malléable de leurs rivières, que,
dès qu’on parlait d’un étranger qui était dans l’hôtel, pour
répéter ce qu’il avait dit Céleste et Marie appliquaient sur
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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leurs figures sa figure, leur bouche devenait sa bouche, leurs
yeux ses yeux, on aurait voulu garder ces admirables
masques de théâtre. Céleste même, en faisant semblant de ne
redire que ce qu’avait dit le directeur, ou tel de mes amis,
insérait dans son petit récit des propos feints où étaient
peints malicieusement tous les défauts de Bloch, ou du
premier président, etc., sans en avoir l’air. C’était, sous la
forme de compte rendu d’une simple commission dont elle
s’était obligeamment chargée, un portrait inimitable. Elles ne
lisaient jamais rien, pas même un journal. Un jour pourtant,
elles trouvèrent sur mon lit un volume. C’étaient des poèmes
admirables mais obscurs de Saint-Léger Léger. Céleste lut
quelques pages et me dit : « Mais êtes-vous bien sûr que ce
sont des vers, est-ce que ce ne serait pas plutôt des
devinettes ? » Évidemment pour une personne qui avait
appris dans son enfance une seule poésie : Ici-bas tous les
lilas meurent, il y avait manque de transition. Je crois que
leur obstination à ne rien apprendre tenait un peu à leur pays
malsain. Elles étaient pourtant aussi douées qu’un poète,
avec plus de modestie qu’ils n’en ont généralement. Car si
Céleste avait dit quelque chose de remarquable et que, ne me
souvenant pas bien, je lui demandais de me le rappeler, elle
assurait avoir oublié. Elles ne liront jamais de livres, mais
n’en feront jamais non plus.
Françoise fut assez impressionnée en apprenant que les deux
frères de ces femmes si simples avaient épousé, l’un la nièce
de l’archevêque de Tours, l’autre une parente de l’évêque de
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Rodez. Au directeur, cela n’eût rien dit. Céleste reprochait
quelquefois à son mari de ne pas la comprendre, et moi je
m’étonnais qu’il pût la supporter. Car à certains moments,
frémissante, furieuse, détruisant tout, elle était détestable. On
prétend que le liquide salé qu’est notre sang n’est que la
survivance intérieure de l’élément marin primitif. Je crois de
même que Céleste, non seulement dans ses fureurs, mais
aussi dans ses heures de dépression, gardait le rythme des
ruisseaux de son pays. Quand elle était épuisée, c’était à leur
manière ; elle était vraiment à sec. Rien n’aurait pu alors la
revivifier. Puis tout d’un coup la circulation reprenait dans
son grand corps magnifique et léger. L’eau coulait dans la
transparence opaline de sa peau bleuâtre. Elle souriait au
soleil et devenait plus bleue encore. Dans ces moments-là
elle était vraiment céleste.
La famille de Bloch avait beau n’avoir jamais soupçonné la
raison pour laquelle son oncle ne déjeunait jamais à la
maison et avoir accepté cela dès le début comme une manie
de vieux célibataire, peut-être pour les exigences d’une
liaison avec quelque actrice, tout ce qui touchait à M. Nissim
Bernard était « tabou » pour le directeur de l’hôtel de Balbec.
Et voilà pourquoi, sans en avoir même référé à l’oncle, il
n’avait finalement pas osé donner tort à la nièce, tout en lui
recommandant quelque circonspection. Or la jeune fille et
son amie qui, pendant quelques jours, s’étaient figurées être
exclues du Casino et du Grand-Hôtel, voyant que tout
s’arrangeait, furent heureuses de montrer à ceux des pères de
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famille qui les tenaient à l’écart qu’elles pouvaient
impunément tout se permettre. Sans doute n’allèrent-elles
pas jusqu’à renouveler la scène publique qui avait révolté
tout le monde. Mais peu à peu leurs façons reprirent
insensiblement. Et un soir où je sortais du Casino à demi
éteint, avec Albertine, et Bloch que nous avions rencontré,
elles passèrent enlacées, ne cessant de s’embrasser, et,
arrivées à notre hauteur, poussèrent des gloussements, des
rires, des cris indécents. Bloch baissa les yeux pour ne pas
avoir l’air de reconnaître sa sœur, et moi j’étais torturé en
pensant que ce langage particulier et atroce s’adressait peutêtre à Albertine.
Un autre incident fixa davantage encore mes préoccupations
du côté de Gomorrhe. J’avais vu sur la plage une belle jeune
femme élancée et pâle de laquelle les yeux, autour de leur
centre, disposaient des rayons si géométriquement lumineux
qu’on pensait, devant son regard, à quelque constellation. Je
songeais combien cette jeune femme était plus belle
qu’Albertine et comme il était plus sage de renoncer à l’autre.
Tout au plus le visage de cette belle jeune femme était-il
passé au rabot invisible d’une grande bassesse de vie, de
l’acceptation constante d’expédients vulgaires, si bien que ses
yeux, plus nobles pourtant que le reste du visage, ne devaient
rayonner que d’appétits et de désirs. Or, le lendemain, cette
jeune femme étant placée très loin de nous au Casino, je vis
qu’elle ne cessait de poser sur Albertine les feux alternés et
tournants de ses regards. On eût dit qu’elle lui faisait des
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signes comme à l’aide d’un phare. Je souffrais que mon amie
vît qu’on faisait si attention à elle, je craignais que ces regards
incessamment
allumés
n’eussent
la
signification
conventionnelle d’un rendez-vous d’amour pour le
lendemain. Qui sait ? ce rendez-vous n’était peut-être pas le
premier. La jeune femme aux yeux rayonnants avait pu venir
une autre année à Balbec. C’était peut-être parce
qu’Albertine avait déjà cédé à ses désirs ou à ceux d’une amie
que celle-ci se permettait de lui adresser ces brillants signaux.
Ils faisaient alors plus que réclamer quelque chose pour le
présent, ils s’autorisaient pour cela des bonnes heures du
passé.
Ce rendez-vous, en ce cas, ne devait pas être le premier, mais
la suite de parties faites ensemble d’autres années. Et, en
effet, les regards ne disaient pas : « Veux-tu ? » Dès que la
jeune femme avait aperçu Albertine, elle avait tourné tout à
fait la tête et fait luire vers elle des regards chargés de
mémoire, comme si elle avait eu peur et stupéfaction que
mon amie ne se souvînt pas. Albertine, qui la voyait très
bien, resta flegmatiquement immobile, de sorte que l’autre,
avec le même genre de discrétion qu’un homme qui voit son
ancienne maîtresse avec un autre amant, cessa de la regarder
et de s’occuper plus d’elle que si elle n’avait pas existé.
Mais quelques jours après, j’eus la preuve des goûts de cette
jeune femme et aussi de la probabilité qu’elle avait connu
Albertine autrefois. Souvent, quand, dans la salle du Casino,
deux jeunes filles se désiraient, il se produisait comme un
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phénomène lumineux, une sorte de traînée phosphorescente
allant de l’une à l’autre. Disons en passant que c’est à l’aide
de telles matérialisations, fussent-elles impondérables, par
ces signes astraux enflammant toute une partie de
l’atmosphère, que Gomorrhe, dispersée, tend, dans chaque
ville, dans chaque village, à rejoindre ses membres séparés, à
reformer la cité biblique tandis que, partout, les mêmes
efforts sont poursuivis, fût-ce en vue d’une reconstruction
intermittente, par les nostalgiques, par les hypocrites,
quelquefois par les courageux exilés de Sodome.
Une fois je vis l’inconnue qu’Albertine avait eu l’air de ne pas
reconnaître, juste à un moment où passait la cousine de
Bloch. Les yeux de la jeune femme s’étoilèrent, mais on
voyait bien qu’elle ne connaissait pas la demoiselle israélite.
Elle la voyait pour la première fois, éprouvait un désir, guère
de doutes, nullement la même certitude qu’à l’égard
d’Albertine, Albertine sur la camaraderie de qui elle avait dû
tellement compter que, devant sa froideur, elle avait ressenti
la surprise d’un étranger habitué de Paris mais qui ne l’habite
pas et qui, étant revenu y passer quelques semaines, à la
place du petit théâtre où il avait l’habitude de passer de
bonnes soirées, voit qu’on a construit une banque.
La cousine de Bloch alla s’asseoir à une table où elle regarda
un magazine. Bientôt la jeune femme vint s’asseoir d’un air
distrait à côté d’elle. Mais sous la table on aurait pu voir
bientôt se tourmenter leurs pieds, puis leurs jambes et leurs
mains qui étaient confondues. Les paroles suivirent, la
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conversation s’engagea, et le naïf mari de la jeune femme, qui
la cherchait partout, fut étonné de la trouver faisant des
projets pour le soir même avec une jeune fille qu’il ne
connaissait pas. Sa femme lui présenta comme une amie
d’enfance la cousine de Bloch, sous un nom inintelligible, car
elle avait oublié de lui demander comment elle s’appelait.
Mais la présence du mari fit faire un pas de plus à leur
intimité, car elles se tutoyèrent, s’étant connues au couvent,
incident dont elles rirent fort plus tard, ainsi que du mari
berné, avec une gaieté qui fut une occasion de nouvelles
tendresses.
Quant à Albertine, je ne peux pas dire que nulle part, au
Casino, sur la plage, elle eût avec une jeune fille des manières
trop libres. Je leur trouvais même un excès de froideur et
d’insignifiance qui semblait plus que de la bonne éducation,
une ruse destinée à dépister les soupçons. À telle jeune fille,
elle avait une façon rapide, glacée et décente, de répondre à
très haute voix : « Oui, j’irai vers cinq heures au tennis. Je
prendrai mon bain demain matin vers huit heures », et de
quitter immédiatement la personne à qui elle venait de dire
cela – qui avait un terrible air de vouloir donner le change, et
soit de donner un rendez-vous, soit plutôt, après l’avoir
donné bas, de dire fort cette phrase, en effet insignifiante,
pour ne pas « se faire remarquer ». Et quand ensuite je la
voyais prendre sa bicyclette et filer à toute vitesse, je ne
pouvais m’empêcher de penser qu’elle allait rejoindre celle à
qui elle avait à peine parlé.
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Tout au plus, lorsque quelque belle jeune femme descendait
d’automobile au coin de la plage, Albertine ne pouvait-elle
s’empêcher de se retourner. Et elle expliquait aussitôt : « Je
regardais le nouveau drapeau qu’ils ont mis devant les bains.
Ils auraient pu faire plus de frais. L’autre était assez miteux.
Mais je crois vraiment que celui-ci est encore plus moche. »
Une fois Albertine ne se contenta pas de la froideur et je
n’en fus que plus malheureux. Elle me savait ennuyé qu’elle
pût quelquefois rencontrer une amie de sa tante, qui avait «
mauvais genre » et venait quelquefois passer deux ou trois
jours chez Mme Bontemps. Gentiment, Albertine m’avait dit
qu’elle ne la saluerait plus. Et quand cette femme venait à
Incarville, Albertine disait : À propos, vous savez qu’elle est
ici. Est-ce qu’on vous l’a dit ? » comme pour me montrer
qu’elle ne la voyait pas en cachette. Un jour qu’elle me disait
cela elle ajouta : « Oui je l’ai rencontrée sur la plage et exprès,
par grossièreté, je l’ai presque frôlée en passant, je l’ai
bousculée. » Quand Albertine me dit cela il me revint à la
mémoire une phrase de Mme Bontemps à laquelle je n’avais
jamais repensé, celle où elle avait dit devant moi à Mme
Swann combien sa nièce Albertine était effrontée, comme si
c’était une qualité, et comment elle avait dit à je ne sais plus
quelle femme de fonctionnaire que le père de celle-ci avait
été marmiton. Mais une parole de celle que nous aimons ne
se conserve pas longtemps dans sa pureté ; elle se gâte, elle
se pourrit. Un ou deux soirs après, je repensai à la phrase
d’Albertine, et ce ne fut plus la mauvaise éducation dont elle
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s’enorgueillissait – et qui ne pouvait que me faire sourire –
qu’elle me sembla signifier, c’était autre chose, et
qu’Albertine, même peut-être sans but précis, pour irriter les
sens de cette dame ou lui rappeler méchamment d’anciennes
propositions, peut-être acceptées autrefois, l’avait frôlée
rapidement, pensait que je l’avais appris peut-être, comme
c’était en public, et avait voulu d’avance prévenir une
interprétation défavorable.
Au reste, ma jalousie causée par les femmes qu’aimait peutêtre Albertine allait brusquement cesser.
***
Nous étions, Albertine et moi, devant la station Balbec du
petit train d’intérêt local. Nous nous étions fait conduire par
l’omnibus de l’hôtel, à cause du mauvais temps. Non loin de
nous était M. Nissim Bernard, lequel avait un œil poché. Il
trompait depuis peu l’enfant des chœurs d’Athalie avec le
garçon d’une ferme assez achalandée du voisinage, « Aux
Cerisiers ». Ce garçon rouge, aux traits abrupts, avait
absolument l’air d’avoir comme tête une tomate. Une tomate
exactement semblable servait de tête à son frère jumeau.
Pour le contemplateur désintéressé, il y a cela d’assez beau,
dans ces ressemblances parfaites de deux jumeaux, que la
nature, comme si elle s’était momentanément industrialisée,
semble débiter des produits pareils. Malheureusement, le
point de vue de M. Nissim Bernard était autre et cette
ressemblance n’était qu’extérieure. La tomate n° 2 se plaisait
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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avec frénésie à faire exclusivement les délices des dames, la
tomate n° 1 ne détestait pas condescendre aux goûts de
certains messieurs. Or chaque fois que, secoué, ainsi que par
un réflexe, par le souvenir des bonnes heures passées avec la
tomate n° 1, M. Bernard se présentait « Aux Cerisiers »,
myope (et du reste la myopie n’était pas nécessaire pour les
confondre), le vieil Israélite, jouant sans le savoir
Amphitryon, s’adressait au frère jumeau et lui disait : « Veuxtu me donner rendez-vous pour ce soir. » Il recevait aussitôt
une solide « tournée ». Elle vint même à se renouveler au
cours d’un même repas, où il continuait avec l’autre les
propos commencés avec le premier. À la longue elle le
dégoûta tellement, par association d’idées, des tomates,
même de celles comestibles, que chaque fois qu’il entendait
un voyageur en commander à côté de lui, au Grand-Hôtel, il
lui chuchotait : « Excusez-moi, Monsieur, de m’adresser à
vous, sans vous connaître. Mais j’ai entendu que vous
commandiez des tomates. Elles sont pourries aujourd’hui. Je
vous le dis dans votre intérêt car pour moi cela m’est égal, je
n’en prends jamais. » L’étranger remerciait avec effusion ce
voisin philanthrope et désintéressé, rappelait le garçon,
feignait de se raviser : « Non, décidément, pas de tomates. »
Aimé, qui connaissait la scène, en riait tout seul et pensait : «
C’est un vieux malin que Monsieur Bernard, il a encore
trouvé le moyen de faire changer la commande. » M.
Bernard, en attendant le tram en retard, ne tenait pas à nous
dire bonjour, à Albertine et à moi, à cause de son œil poché.
Nous tenions encore moins à lui parler. C’eût été pourtant
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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presque inévitable si, à ce moment-là, une bicyclette n’avait
fondu à toute vitesse sur nous ; le lift en sauta, hors
d’haleine. Mme Verdurin avait téléphoné un peu après notre
départ pour que je vinsse dîner, le surlendemain ; on verra
bientôt pourquoi. Puis après m’avoir donné les détails du
téléphonage, le lift nous quitta, et comme ces « employés »
démocrates, qui affectent l’indépendance à l’égard des
bourgeois, et entre eux rétablissent le principe d’autorité,
voulant dire que le concierge et le voiturier pourraient être
mécontents s’il était en retard, il ajouta : « Je me sauve à
cause de mes chefs. »
Les amies d’Albertine étaient parties pour quelque temps. Je
voulais la distraire. À supposer qu’elle eût éprouvé du
bonheur à passer les après-midi rien qu’avec moi, à Balbec,
je savais qu’il ne se laisse jamais posséder complètement et
qu’Albertine, encore à l’âge (que certains ne dépassent pas)
où on n’a pas découvert que cette imperfection tient à celui
qui éprouve le bonheur non à celui qui le donne, eût pu être
tentée de faire remonter à moi la cause de sa déception.
J’aimais mieux qu’elle l’imputât aux circonstances qui, par
moi combinées, ne nous laisseraient pas la facilité d’être seuls
ensemble, tout en l’empêchant de rester au Casino et sur la
digue sans moi. Aussi je lui avais demandé ce jour-là de
m’accompagner à Doncières où j’irais voir Saint-Loup. Dans
ce même but de l’occuper, je lui conseillais la peinture,
qu’elle avait apprise autrefois. En travaillant elle ne se
demanderait pas si elle était heureuse ou malheureuse. Je
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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l’eusse volontiers emmenée aussi dîner de temps en temps
chez les Verdurin et chez les Cambremer qui, certainement,
les uns et les autres, eussent volontiers reçu une amie
présentée par moi, mais il fallait d’abord que je fusse certain
que Mme Putbus n’était pas encore à la Raspelière. Ce n’était
guère que sur place que je pouvais m’en rendre compte, et
comme je savais d’avance que, le surlendemain, Albertine
était obligée d’aller aux environs avec sa tante, j’en avais
profité pour envoyer une dépêche à Mme Verdurin lui
demandant si elle pourrait me recevoir le mercredi. Si Mme
Putbus était là, je m’arrangerais pour voir sa femme de
chambre, m’assurer s’il y avait un risque qu’elle vînt à Balbec,
en ce cas savoir quand, pour emmener Albertine au loin ce
jour-là. Le petit chemin de fer d’intérêt local, faisant une
boucle qui n’existait pas quand je l’avais pris avec ma
grand’mère, passait maintenant à Doncières-la-Goupil,
grande station d’où partaient des trains importants, et
notamment l’express par lequel j’étais venu voir Saint-Loup,
de Paris, et y étais rentré. Et à cause du mauvais temps,
l’omnibus du Grand-Hôtel nous conduisit, Albertine et moi,
à la station de petit tram, Balbec-plage.
Le petit chemin de fer n’était pas encore là, mais on voyait,
oisif et lent, le panache de fumée qu’il avait laissé en route, et
qui maintenant, réduit à ses seuls moyens de nuage peu
mobile, gravissait lentement les pentes vertes de la falaise de
Criquetot. Enfin le petit tram, qu’il avait précédé pour
prendre une direction verticale, arriva à son tour, lentement.
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Les voyageurs qui allaient le prendre s’écartèrent pour lui
faire place, mais sans se presser, sachant qu’ils avaient affaire
à un marcheur débonnaire, presque humain et qui, guidé
comme la bicyclette d’un débutant, par les signaux
complaisants du chef de gare, sous la tutelle puissante du
mécanicien, ne risquait de renverser personne et se serait
arrêté où on aurait voulu.
Ma dépêche expliquait le téléphonage des Verdurin et elle
tombait d’autant mieux que le mercredi (le surlendemain se
trouvait être un mercredi) était jour de grand dîner pour
Mme Verdurin, à la Raspelière comme à Paris, ce que
j’ignorais. Mme Verdurin ne donnait pas de « dîners », mais
elle avait des « mercredis ». Les mercredis étaient des œuvres
d’art. Tout en sachant qu’ils n’avaient leurs pareils nulle part,
Mme Verdurin introduisait entre eux des nuances. « Ce
dernier mercredi ne valait pas le précédent, disait-elle. Mais
je crois que le prochain sera un des plus réussis que j’aie
jamais donnés. » Elle allait parfois jusqu’à avouer : « Ce
mercredi-ci n’était pas digne des autres. En revanche, je vous
réserve une grosse surprise pour le suivant. » Dans les
dernières semaines de la saison de Paris, avant de partir pour
la campagne, la Patronne annonçait la fin des mercredis.
C’était une occasion de stimuler les fidèles : « Il n’y a plus
que trois mercredis, il n’y en a plus que deux, disait-elle du
même ton que si le monde était sur le point de finir. Vous
n’allez pas lâcher mercredi prochain pour la clôture. » Mais
cette clôture était factice, car elle avertissait : « Maintenant,
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officiellement il n’y a plus de mercredis. C’était le dernier
pour cette année. Mais je serai tout de même là le mercredi.
Nous ferons mercredi entre nous ; qui sait ? ces petits
mercredis intimes, ce seront peut-être les plus agréables. » À
la Raspelière, les mercredis étaient forcément restreints, et
comme, selon qu’on avait rencontré un ami de passage, on
l’avait invité tel ou tel soir, c’était presque tous les jours
mercredi. « Je ne me rappelle pas bien le nom des invités,
mais je sais qu’il y a Madame la marquise de Camembert »,
m’avait dit le lift ; le souvenir de nos explications relatives
aux Cambremer n’était pas arrivé à supplanter définitivement
celui du mot ancien, dont les syllabes familières et pleines de
sens venaient au secours du jeune employé quand il était
embarrassé pour ce nom difficile, et étaient immédiatement
préférées et réadoptées par lui, non pas paresseusement et
comme un vieil usage indéracinable, mais à cause du besoin
de logique et de clarté qu’elles satisfaisaient.
Nous nous hâtâmes pour gagner un wagon vide où je pusse
embrasser Albertine tout le long du trajet. N’ayant rien
trouvé nous montâmes dans un compartiment où était déjà
installée une dame à figure énorme, laide et vieille, à
l’expression masculine, très endimanchée, et qui lisait la
Revue des Deux-Mondes. Malgré sa vulgarité, elle était
prétentieuse dans ses goûts, et je m’amusai à me demander à
quelle catégorie sociale elle pouvait appartenir ; je conclus
immédiatement que ce devait être quelque tenancière de
grande maison de filles, une maquerelle en voyage. Sa figure,
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ses manières le criaient. J’avais ignoré seulement jusque-là
que ces dames lussent la Revue des Deux-Mondes. Albertine
me la montra, non sans cligner de l’œil en me souriant. La
dame avait l’air extrêmement digne ; et comme, de mon côté,
je portais en moi la conscience que j’étais invité pour le
lendemain, au point terminus de la ligne du petit chemin de
fer, chez la célèbre Mme Verdurin, qu’à une station
intermédiaire j’étais attendu par Robert de Saint-Loup, et
qu’un peu plus loin j’aurais fait grand plaisir à Mme de
Cambremer en venant habiter Féterne, mes yeux pétillaient
d’ironie en considérant cette dame importante qui semblait
croire qu’à cause de sa mise recherchée, des plumes de son
chapeau, de sa Revue des Deux-Mondes, elle était un
personnage plus considérable que moi. J’espérais que la
dame ne resterait pas beaucoup plus que M. Nissim Bernard
et qu’elle descendrait au moins à Toutainville, mais non. Le
train s’arrêta à Evreville, elle resta assise. De même à
Montmartin-sur-Mer, à Parville-la-Bingard, à Incarville, de
sorte que, de désespoir, quand le train eut quitté SaintFrichoux, qui était la dernière station avant Doncières, je
commençai à enlacer Albertine sans m’occuper de la dame.
À Doncières, Saint-Loup était venu m’attendre à la gare,
avec les plus grandes difficultés, me dit-il, car, habitant chez
sa tante, mon télégramme ne lui était parvenu qu’à l’instant
et il ne pourrait, n’ayant pu arranger son temps d’avance, me
consacrer qu’une heure. Cette heure me parut, hélas ! bien
trop longue car, à peine descendus du wagon, Albertine ne
fit plus attention qu’à Saint-Loup. Elle ne causait pas avec
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moi, me répondait à peine si je lui adressais la parole, me
repoussa quand je m’approchai d’elle. En revanche, avec
Robert, elle riait de son rire tentateur, elle lui parlait avec
volubilité, jouait avec le chien qu’il avait, et, tout en agaçant
la bête, frôlait exprès son maître. Je me rappelai que, le jour
où Albertine s’était laissé embrasser par moi pour la
première fois, j’avais eu un sourire de gratitude pour le
séducteur inconnu qui avait amené en elle une modification
si profonde et m’avait tellement simplifié la tâche. Je pensais
à lui maintenant avec horreur. Robert avait dû se rendre
compte qu’Albertine ne m’était pas indifférente, car il ne
répondit pas à ses agaceries, ce qui la mit de mauvaise
humeur contre moi ; puis il me parla comme si j’étais seul, ce
qui, quand elle l’eût remarqué, me fit remonter dans son
estime. Robert me demanda si je ne voulais pas essayer de
trouver, parmi les amis avec lesquels il me faisait dîner
chaque soir à Doncières quand j’y avais séjourné, ceux qui y
étaient encore. Et comme il donnait lui-même dans le genre
de prétention agaçante qu’il réprouvait : « À quoi ça te sert-il
d’avoir fait du charme pour eux avec tant de persévérance si
tu ne veux pas les revoir ? » je déclinai sa proposition, car je
ne voulais pas risquer de m’éloigner d’Albertine, mais aussi
parce que maintenant j’étais détaché d’eux. D’eux, c’est-àdire de moi. Nous désirons passionnément qu’il y ait une
autre vie où nous serions pareils à ce que nous sommes icibas. Mais nous ne réfléchissons pas que, même sans attendre
cette autre vie, dans celle-ci, au bout de quelques années,
nous sommes infidèles à ce que nous avons été, à ce que
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nous voulions rester immortellement. Même sans supposer
que la mort nous modifiât plus que ces changements qui se
produisent au cours de la vie, si, dans cette autre vie, nous
rencontrions le moi que nous avons été, nous nous
détournerions de nous comme de ces personnes avec qui on
a été lié mais qu’on n’a pas vues depuis longtemps – par
exemple les amis de Saint-Loup qu’il me plaisait tant chaque
soir de retrouver au Faisan Doré et dont la conversation ne
serait plus maintenant pour moi qu’importunité et que gêne.
À cet égard, parce que je préférais ne pas aller y retrouver ce
qui m’y avait plu, une promenade dans Doncières aurait pu
me paraître préfigurer l’arrivée au paradis. On rêve beaucoup
du paradis, ou plutôt de nombreux paradis successifs, mais
ce sont tous, bien avant qu’on ne meure, des paradis perdus,
et où l’on se sentirait perdu.
Il nous laissa à la gare. « Mais tu peux avoir près d’une heure
à attendre, me dit-il. Si tu la passes ici tu verras sans doute
mon oncle Charlus qui reprend tantôt le train pour Paris, dix
minutes avant le tien. Je lui ai déjà fait mes adieux parce que
je suis obligé d’être rentré avant l’heure de son train. Je n’ai
pu lui parler de toi puisque je n’avais pas encore eu ton
télégramme. » Aux reproches que je fis à Albertine quand
Saint-Loup nous eut quittés, elle me répondit qu’elle avait
voulu, par sa froideur avec moi, effacer à tout hasard l’idée
qu’il avait pu se faire si, au moment de l’arrêt du train, il
m’avait vu penché contre elle et mon bras passé autour de sa
taille. Il avait, en effet, remarqué cette pose (je ne l’avais pas
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aperçu, sans cela je me fusse placé plus correctement à côté
d’Albertine) et avait eu le temps de me dire à l’oreille : « C’est
cela, ces jeunes filles si pimbêches dont tu m’as parlé et qui
ne voulaient pas fréquenter Mlle de Stermaria parce qu’elles
lui trouvaient mauvaise façon ? » J’avais dit, en effet, à
Robert, et très sincèrement, quand j’étais allé de Paris le voir
à Doncières et comme nous reparlions de Balbec, qu’il n’y
avait rien à faire avec Albertine, qu’elle était la vertu même.
Et maintenant que, depuis longtemps, j’avais, par moimême, appris que c’était faux, je désirais encore plus que
Robert crût que c’était vrai. Il m’eût suffi de dire à Robert
que j’aimais Albertine. Il était de ces êtres qui savent se
refuser un plaisir pour épargner à leur ami des souffrances
qu’ils ressentiraient encore si elles étaient les leurs. « Oui, elle
est très enfant. Mais tu ne sais rien sur elle ? ajoutai-je avec
inquiétude. – Rien, sinon que je vous ai vus posés comme
deux amoureux. »
« Votre attitude n’effaçait rien du tout, dis-je à Albertine
quand Saint-Loup nous eut quittés. – C’est vrai, me dit-elle,
j’ai été maladroite, je vous ai fait de la peine, j’en suis bien
plus malheureuse que vous. Vous verrez que jamais je ne
serai plus comme cela ; pardonnez-moi », me dit-elle en me
tendant la main d’un air triste. À ce moment, du fond de la
salle d’attente où nous étions assis, je vis passer lentement,
suivi à quelque distance d’un employé qui portait ses valises,
M. de Charlus.
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À Paris, où je ne le rencontrais qu’en soirée, immobile,
sanglé dans un habit noir, maintenu dans le sens de la
verticale par son fier redressement, son élan pour plaire, la
fusée de sa conversation, je ne me rendais pas compte à quel
point il avait vieilli. Maintenant, dans un complet de voyage
clair qui le faisait paraître plus gros, en marche et se
dandinant, balançant un ventre qui bedonnait et un derrière
presque symbolique, la cruauté du grand jour décomposait
sur les lèvres, en fard, en poudre de riz fixée par le cold
cream, sur le bout du nez, en noir sur les moustaches teintes
dont la couleur d’ébène contrastait avec les cheveux
grisonnants, tout ce qui aux lumières eût semblé l’animation
du teint chez un être encore jeune.
Tout en causant avec lui, mais brièvement, à cause de son
train, je regardais le wagon d’Albertine pour lui faire signe
que je venais. Quand je détournai la tête vers M. de Charlus,
il me demanda de vouloir bien appeler un militaire, parent à
lui, qui était de l’autre côté de la voie exactement comme s’il
allait monter dans notre train, mais en sens inverse, dans la
direction qui s’éloignait de Balbec. « Il est dans la musique
du régiment, me dit M. de Charlus. Vous avez la chance
d’être assez jeune, moi, l’ennui d’être assez vieux pour que
vous puissiez m’éviter de traverser et d’aller jusque-là. » Je
me fis un devoir d’aller vers le militaire désigné, et je vis, en
effet, aux lyres brodées sur son col qu’il était de la musique.
Mais au moment où j’allais m’acquitter de ma commission,
quelle ne fut pas ma surprise, et je peux dire mon plaisir, en
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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reconnaissant Morel, le fils du valet de chambre de mon
oncle et qui me rappelait tant de choses. J’en oubliai de faire
la commission de M. de Charlus. « Comment, vous êtes à
Doncières ? – Oui et on m’a incorporé dans la musique, au
service des batteries. » Mais il me répondit cela d’un ton sec
et hautain. Il était devenu très « poseur » et évidemment ma
vue, en lui rappelant la profession de son père, ne lui était
pas agréable. Tout d’un coup je vis M. de Charlus fondre sur
nous. Mon retard l’avait évidemment impatienté. « Je
désirerais entendre ce soir un peu de musique, dit-il à Morel
sans aucune entrée en matière, je donne 500 francs pour la
soirée, cela pourrait peut-être avoir quelque intérêt pour un
de vos amis, si vous en avez dans la musique. » J’avais beau
connaître l’insolence de M. de Charlus, je fus stupéfait qu’il
ne dît même pas bonjour à son jeune ami. Le baron ne me
laissa pas, du reste, le temps de la réflexion. Me tendant
affectueusement la main : « Au revoir, mon cher », me dit-il
pour me signifier que je n’avais qu’à m’en aller. Je n’avais, du
reste, laissé que trop longtemps seule ma chère Albertine. «
Voyez-vous, lui dis-je en remontant dans le wagon, la vie de
bains de mer et la vie de voyage me font comprendre que le
théâtre du monde dispose de moins de décors que d’acteurs
et de moins d’acteurs que de « situations ». – À quel propos
me dites-vous cela ? – Parce que M. de Charlus vient de me
demander de lui envoyer un de ses amis, que juste, à
l’instant, sur le quai de cette gare, je viens de reconnaître
pour l’un des miens. » Mais, tout en disant cela, je cherchais
comment le baron pouvait connaître la disproportion sociale
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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à quoi je n’avais pas pensé. L’idée me vint d’abord que c’était
par Jupien, dont la fille, on s’en souvient, avait semblé
s’éprendre du violoniste. Ce qui me stupéfiait pourtant, c’est
que, avant de partir pour Paris dans cinq minutes, le baron
demandât à entendre de la musique. Mais revoyant la fille de
Jupien dans mon souvenir, je commençais à trouver que les «
reconnaissances » exprimeraient au contraire une part
importante de la vie, si on savait aller jusqu’au romanesque
vrai, quand tout d’un coup j’eus un éclair et compris que
j’avais été bien naïf. M. de Charlus ne connaissait pas le
moins du monde Morel, ni Morel M. de Charlus, lequel,
ébloui mais aussi intimidé par un militaire qui ne portait
pourtant que des lyres, m’avait requis, dans son émotion,
pour lui amener celui qu’il ne soupçonnait pas que je
connusse. En tout cas l’offre des 500 francs avait dû
remplacer pour Morel l’absence de relations antérieures, car
je les vis qui continuaient à causer sans penser qu’ils étaient à
côté de notre tram. Et me rappelant la façon dont M. de
Charlus était venu vers Morel et moi, je saisissais sa
ressemblance avec certains de ses parents quand ils levaient
une femme dans la rue. Seulement l’objet visé avait changé
de sexe. À partir d’un certain âge, et même si des évolutions
différentes s’accomplissent en nous, plus on devient soi, plus
les traits familiaux s’accentuent. Car la nature, tout en
continuant harmonieusement le dessin de sa tapisserie,
interrompt la monotonie de la composition grâce à la variété
des figures interceptées. Au reste, la hauteur avec laquelle M.
de Charlus avait toisé le violoniste est relative selon le point
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de vue auquel on se place. Elle eût été reconnue par les trois
quarts des gens du monde, qui s’inclinaient, non pas par le
préfet de police qui, quelques années plus tard, le faisait
surveiller.
« Le train de Paris est signalé, Monsieur », dit l’employé qui
portait les valises. « Mais je ne prends pas le train, mettez
tout cela en consigne, que diable ! » dit M. de Charlus en
donnant vingt francs à l’employé stupéfait du revirement et
charmé du pourboire. Cette générosité attira aussitôt une
marchande de fleurs. « Prenez ces œillets, tenez, cette belle
rose, mon bon Monsieur, cela vous portera bonheur. » M. de
Charlus, impatienté, lui tendit quarante sous, en échange de
quoi la femme offrit ses bénédictions et derechef ses fleurs. «
Mon Dieu, si elle pouvait nous laisser tranquilles, dit M. de
Charlus en s’adressant d’un ton ironique et gémissant, et
comme un homme énervé, à Morel à qui il trouvait quelque
douceur de demander appui, ce que nous avons à dire est
déjà assez compliqué. » Peut-être, l’employé de chemin de
fer n’étant pas encore très loin, M. de Charlus ne tenait-il pas
à avoir une nombreuse audience, peut-être ces phrases
incidentes permettaient-elles à sa timidité hautaine de ne pas
aborder trop directement la demande de rendez-vous. Le
musicien, se tournant d’un air franc, impératif et décidé vers
la marchande de fleurs, leva vers elle une paume qui la
repoussait et lui signifiait qu’on ne voulait pas de ses fleurs et
qu’elle eût à fiche le camp au plus vite. M. de Charlus vit
avec ravissement ce geste autoritaire et viril, manié par la
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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main gracieuse pour qui il aurait dû être encore trop lourd,
trop massivement brutal, avec une fermeté et une souplesse
précoces qui donnaient à cet adolescent encore imberbe l’air
d’un jeune David capable d’assumer un combat contre
Goliath. L’admiration du baron était involontairement mêlée
de ce sourire que nous éprouvons à voir chez un enfant une
expression d’une gravité au-dessus de son âge. « Voilà
quelqu’un par qui j’aimerais être accompagné dans mes
voyages et aidé dans mes affaires. Comme il simplifierait ma
vie », se dit M. de Charlus.
Le train de Paris (que le baron ne prit pas) partit. Puis nous
montâmes dans le nôtre, Albertine et moi, sans que j’eusse
su ce qu’étaient devenus M. de Charlus et Morel. « Il ne faut
plus jamais nous fâcher, je vous demande encore pardon, me
redit Albertine en faisant allusion à l’incident Saint-Loup. Il
faut que nous soyons toujours gentils tous les deux, me ditelle tendrement. Quant à votre ami Saint-Loup, si vous
croyez qu’il m’intéresse en quoi que ce soit vous vous
trompez bien. Ce qui me plaît seulement en lui, c’est qu’il a
l’air de tellement vous aimer. – C’est un très bon garçon, disje en me gardant de prêter à Robert des qualités supérieures
imaginaires, comme je n’aurais pas manqué de faire par
amitié pour lui si j’avais été avec toute autre personne
qu’Albertine. C’est un être excellent, franc, dévoué, loyal, sur
qui on peut compter pour tout. » En disant cela je me
bornais, retenu par ma jalousie, à dire au sujet de Saint-Loup
la vérité, mais aussi c’était bien la vérité que je disais. Or elle
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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s’exprimait exactement dans les mêmes termes dont s’était
servie pour me parler de lui Mme de Villeparisis, quand je ne
le connaissais pas encore, l’imaginais si différent, si hautain
et me disais : « On le trouve bon parce que c’est un grand
seigneur. » De même quand elle m’avait dit : « Il serait si
heureux », je me figurai, après l’avoir aperçu devant l’hôtel,
prêt à mener, que les paroles de sa tante étaient pure banalité
mondaine, destinées à me flatter. Et je m’étais rendu compte
ensuite qu’elle l’avait dit sincèrement, en pensant à ce qui
m’intéressait, à mes lectures, et parce qu’elle savait que c’était
cela qu’aimait Saint-Loup, comme il devait m’arriver de dire
sincèrement à quelqu’un faisant une histoire de son ancêtre
La Rochefoucauld, l’auteur des Maximes, et qui eût voulu
aller demander des conseils à Robert : « Il sera si heureux. »
C’est que j’avais appris à le connaître. Mais, en le voyant la
première fois, je n’avais pas cru qu’une intelligence parente
de la mienne pût s’envelopper de tant d’élégance extérieure
de vêtements et d’attitude. Sur son plumage je l’avais jugé
d’une autre espèce. C’était Albertine maintenant qui, peutêtre un peu parce que Saint-Loup, par bonté pour moi, avait
été si froid avec elle, me dit ce que j’avais pensé autrefois : «
Ah ! il est si dévoué que cela ! Je remarque qu’on trouve
toujours toutes les vertus aux gens quand ils sont du
faubourg Saint-Germain. » Or, que Saint-Loup fût du
faubourg Saint-Germain, c’est à quoi je n’avais plus songé
une seule fois au cours de ces années où, se dépouillant de
son prestige, il m’avait manifesté ses vertus. Changement de
perspective pour regarder les êtres, déjà plus frappant dans
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l’amitié que dans les simples relations sociales, mais combien
plus encore dans l’amour, où le désir a une échelle si vaste,
grandit à des proportions telles les moindres signes de
froideur, qu’il m’en avait fallu bien moins que celle qu’avait
au premier abord Saint-Loup pour que je me crusse tout
d’abord dédaigné d’Albertine, que je m’imaginasse ses amies
comme des êtres merveilleusement inhumains, et que je
n’attachasse qu’à l’indulgence qu’on a pour la beauté et pour
une certaine élégance le jugement d’Elstir quand il me disait
de la petite bande, tout à fait dans le même sentiment que
Mme de Villeparisis de Saint-Loup : « Ce sont de bonnes
filles. » Or ce jugement, n’est-ce pas celui que j’eusse
volontiers porté quand j’entendais Albertine dire : « En tout
cas, dévoué ou non, j’espère bien ne plus le revoir puisqu’il a
amené de la brouille entre nous. Il ne faut plus se fâcher tous
les deux. Ce n’est pas gentil ? » Je me sentais, puisqu’elle
avait paru désirer Saint-Loup, à peu près guéri pour quelque
temps de l’idée qu’elle aimait les femmes, ce que je me
figurais inconciliable. Et, devant le caoutchouc d’Albertine,
dans lequel elle semblait devenue une autre personne,
l’infatigable errante des jours pluvieux, et qui, collé,
malléable et gris en ce moment, semblait moins devoir
protéger son vêtement contre l’eau qu’avoir été trempé par
elle et s’attacher au corps de mon amie comme afin de
prendre l’empreinte de ses formes pour un sculpteur,
j’arrachai cette tunique qui épousait jalousement une poitrine
désirée, et attirant Albertine à moi : « Mais toi, ne veux-tu
pas, voyageuse indolente, rêver sur mon épaule en y posant
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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ton front ? » dis-je en prenant sa tête dans mes mains et en
lui montrant les grandes prairies inondées et muettes qui
s’étendaient dans le soir tombant jusqu’à l’horizon fermé sur
les chaînes parallèles de vallonnements lointains et bleuâtres.
Le lendemain, le fameux mercredi, dans ce même petit
chemin de fer que je venais de prendre à Balbec, pour aller
dîner à la Raspelière, je tenais beaucoup à ne pas manquer
Cottard à Graincourt-Saint-Vast où un nouveau téléphonage
de Mme Verdurin m’avait dit que je le retrouverais. Il devait
monter dans mon train et m’indiquerait où il fallait
descendre pour trouver les voitures qu’on envoyait de la
Raspelière à la gare. Aussi, le petit train ne s’arrêtant qu’un
instant à Graincourt, première station après Doncières,
d’avance je m’étais mis à la portière tant j’avais peur de ne
pas voir Cottard ou de ne pas être vu de lui. Craintes bien
vaines ! Je ne m’étais pas rendu compte à quel point le petit
clan ayant façonné tous les « habitués » sur le même type,
ceux-ci, par surcroît en grande tenue de dîner, attendant sur
le quai, se laissaient tout de suite reconnaître à un certain air
d’assurance, d’élégance et de familiarité, à des regards qui
franchissaient comme un espace vide, où rien n’arrête
l’attention, les rangs pressés du vulgaire public, guettaient
l’arrivée de quelque habitué qui avait pris le train à une
station précédente et pétillaient déjà de la causerie prochaine.
Ce signe d’élection, dont l’habitude de dîner ensemble avait
marqué les membres du petit groupe, ne les distinguait pas
seulement quand, nombreux, en force, ils étaient massés,
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faisant une tache plus brillante au milieu du troupeau des
voyageurs – ce que Brichot appelait le « pecus » – sur les
ternes visages desquels ne pouvait se lire aucune notion
relative aux Verdurin, aucun espoir de jamais dîner à la
Raspelière. D’ailleurs ces voyageurs vulgaires eussent été
moins intéressés que moi si devant eux on eût prononcé – et
malgré la notoriété acquise par certains – les noms de ces
fidèles que je m’étonnais de voir continuer à dîner en ville,
alors que plusieurs le faisaient déjà, d’après les récits que
j’avais entendus, avant ma naissance, à une époque à la fois
assez distante et assez vague pour que je fusse tenté de m’en
exagérer l’éloignement. Le contraste entre la continuation
non seulement de leur existence, mais du plein de leurs
forces, et l’anéantissement de tant d’amis que j’avais déjà vus,
ici ou là, disparaître, me donnait ce même sentiment que
nous éprouvons quand, à la dernière heure des journaux,
nous lisons précisément la nouvelle que nous attendions le
moins, par exemple celle d’un décès prématuré et qui nous
semble fortuit parce que les causes dont il est l’aboutissant
nous sont restées inconnues. Ce sentiment est celui que la
mort n’atteint pas uniformément tous les hommes, mais
qu’une lame plus avancée de sa montée tragique emporte
une existence située au niveau d’autres que longtemps
encore les lames suivantes épargneront. Nous verrons, du
reste, plus tard la diversité des morts qui circulent
invisiblement être la cause de l’inattendu spécial que
présentent, dans les journaux, les nécrologies. Puis je voyais
qu’avec le temps, non seulement des dons réels, qui peuvent
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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coexister avec la pire vulgarité de conversation, se dévoilent
et s’imposent, mais encore que des individus médiocres
arrivent à ces hautes places, attachées dans l’imagination de
notre enfance à quelques vieillards célèbres, sans songer que
le seraient, un certain nombre d’années plus tard, leurs
disciples devenus maîtres et inspirant maintenant le respect
et la crainte qu’ils éprouvaient jadis. Mais si les noms des
fidèles n’étaient pas connus du « pecus », leur aspect
pourtant les désignait à ses yeux. Même dans le train (lorsque
le hasard de ce que les uns et les autres d’entre eux avaient
eu à faire dans la journée les y réunissait tous ensemble),
n’ayant plus à cueillir à une station suivante qu’un isolé, le
wagon dans lequel ils se trouvaient assemblés, désigné par le
coude du sculpteur Ski, pavoisé par le « Temps » de Cottard,
fleurissait de loin comme une voiture de luxe et ralliait, à la
gare voulue, le camarade retardataire. Le seul à qui eussent
pu échapper, à cause de sa demi-cécité, ces signes de
promission était Brichot. Mais aussi l’un des habitués assurait
volontairement à l’égard de l’aveugle les fonctions de
guetteur et, dès qu’on avait aperçu son chapeau de paille, son
parapluie vert et ses lunettes bleues, on le dirigeait avec
douceur et hâte vers le compartiment d’élection. De sorte
qu’il était sans exemple qu’un des fidèles, à moins d’exciter
les plus graves soupçons de bamboche, ou même de ne pas
être venu « par le train », n’eût pas retrouvé les autres en
cours de route. Quelquefois l’inverse se produisait : un fidèle
avait dû aller assez loin dans l’après-midi et, en conséquence,
devait faire une partie du parcours seul avant d’être rejoint
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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par le groupe ; mais, même ainsi isolé, seul de son espèce, il
ne manquait pas le plus souvent de produire quelque effet.
Le Futur vers lequel il se dirigeait le désignait à la personne
assise sur la banquette d’en face, laquelle se disait : « Ce doit
être quelqu’un », discernait, fût-ce autour du chapeau mou
de Cottard ou du sculpteur Ski, une vague auréole, et n’était
qu’à demi étonnée quand, à la station suivante, une foule
élégante, si c’était leur point terminus, accueillait le fidèle à la
portière et s’en allait avec lui vers l’une des voitures qui
attendaient, salués tous très bas par l’employé de Doville, ou
bien, si c’était à une station intermédiaire, envahissait le
compartiment. C’est ce que fit, et avec précipitation, car
plusieurs étaient arrivés en retard, juste au moment où le
train déjà en gare allait repartir, la troupe que Cottard mena
au pas de course vers le wagon à la fenêtre duquel il avait vu
mes signaux. Brichot, qui se trouvait parmi ces fidèles, l’était
devenu davantage au cours de ces années qui, pour d’autres,
avaient diminué leur assiduité. Sa vue baissant
progressivement l’avait obligé, même à Paris, à diminuer de
plus en plus les travaux du soir. D’ailleurs il avait peu de
sympathie pour la Nouvelle Sorbonne où les idées
d’exactitude scientifique, à l’allemande, commençaient à
l’emporter sur l’humanisme. Il se bornait exclusivement
maintenant à son cours et aux jurys d’examen ; aussi avait-il
beaucoup plus de temps à donner à la mondanité. C’est-àdire aux soirées chez les Verdurin, ou à celles qu’offrait
parfois aux Verdurin tel ou tel fidèle, tremblant d’émotion. Il
est vrai qu’à deux reprises l’amour avait manqué de faire ce
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que les travaux ne pouvaient plus : détacher Brichot du petit
clan. Mais Mme Verdurin, qui « veillait au grain », et
d’ailleurs, en ayant pris l’habitude dans l’intérêt de son salon,
avait fini par trouver un plaisir désintéressé dans ce genre de
drames et d’exécutions, l’avait irrémédiablement brouillé
avec la personne dangereuse, sachant, comme elle le disait, «
mettre bon ordre à tout » et « porter le fer rouge dans la plaie
». Cela lui avait été d’autant plus aisé pour l’une des
personnes dangereuses que c’était simplement la
blanchisseuse de Brichot, et Mme Verdurin, ayant ses petites
entrées dans le cinquième du professeur, écarlate d’orgueil
quand elle daignait monter ses étages, n’avait eu qu’à mettre
à la porte cette femme de rien. « Comment, avait dit la
Patronne à Brichot, une femme comme moi vous fait
l’honneur de venir chez vous, et vous recevez une telle
créature ? » Brichot n’avait jamais oublié le service que Mme
Verdurin lui avait rendu en empêchant sa vieillesse de
sombrer dans la fange, et lui était de plus en plus attaché,
alors qu’en contraste avec ce regain d’affection, et peut-être à
cause de lui, la Patronne commençait à se dégoûter d’un
fidèle par trop docile et de l’obéissance de qui elle était sûre
d’avance. Mais Brichot tirait de son intimité chez les
Verdurin un éclat qui le distinguait entre tous ses collègues
de la Sorbonne. Ils étaient éblouis par les récits qu’il leur
faisait de dîners auxquels on ne les inviterait jamais, par la
mention, dans des revues, ou par le portrait exposé au Salon,
qu’avaient fait de lui tel écrivain ou tel peintre réputés dont
les titulaires des autres chaires de la Faculté des Lettres
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prisaient le talent mais n’avaient aucune chance d’attirer
l’attention, enfin par l’élégance vestimentaire elle-même du
philosophe mondain, élégance qu’ils avaient prise d’abord
pour du laisser-aller jusqu’à ce que leur collègue leur eût
bienveillamment expliqué que le chapeau haute forme se
laisse volontiers poser par terre, au cours d’une visite, et
n’est pas de mise pour les dîners à la campagne, si élégants
soient-ils, où il doit être remplacé par le chapeau mou, fort
bien porté avec le smoking. Pendant les premières secondes
où le petit groupe se fut engouffré dans le wagon, je ne pus
même pas parler à Cottard, car il était suffoqué, moins
d’avoir couru pour ne pas manquer le train, que par
l’émerveillement de l’avoir attrapé si juste. Il en éprouvait
plus que la joie d’une réussite, presque l’hilarité d’une joyeuse
farce. « Ah ! elle est bien bonne ! dit-il quand il se fut remis.
Un peu plus ! nom d’une pipe, c’est ce qui s’appelle arriver à
pic ! » ajouta-t-il en clignant de l’œil, non pas pour demander
si l’expression était juste, car il débordait maintenant
d’assurance, mais par satisfaction. Enfin il put me nommer
aux autres membres du petit clan. Je fus ennuyé de voir
qu’ils étaient presque tous dans la tenue qu’on appelle à Paris
smoking. J’avais oublié que les Verdurin commençaient vers
le monde une évolution timide, ralentie par l’affaire Dreyfus,
accélérée par la musique « nouvelle », évolution d’ailleurs
démentie par eux, et qu’ils continueraient de démentir
jusqu’à ce qu’elle eût abouti, comme ces objectifs militaires
qu’un général n’annonce que lorsqu’il les a atteints, de façon
à ne pas avoir l’air battu s’il les manque. Le monde était
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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d’ailleurs, de son côté, tout préparé à aller vers eux. Il en
était encore à les considérer comme des gens chez qui n’allait
personne de la société mais qui n’en éprouvent aucun regret.
Le salon Verdurin passait pour un Temple de la Musique.
C’était là, assurait-on, que Vinteuil avait trouvé inspiration,
encouragement. Or si la Sonate de Vinteuil restait
entièrement incomprise et à peu près inconnue, son nom,
prononcé comme celui du plus grand musicien
contemporain, exerçait un prestige extraordinaire. Enfin
certains jeunes gens du faubourg s’étant avisés qu’ils
devaient être aussi instruits que des bourgeois, il y en avait
trois parmi eux qui avaient appris la musique et auprès
desquels la Sonate de Vinteuil jouissait d’une réputation
énorme. Ils en parlaient, rentrés chez eux, à la mère
intelligente qui les avait poussés à se cultiver. Et s’intéressant
aux études de leurs fils, au concert les mères regardaient avec
un certain respect Mme Verdurin, dans sa première loge, qui
suivait la partition. Jusqu’ici cette mondanité latente des
Verdurin ne se traduisait que par deux faits. D’une part,
Mme Verdurin disait de la princesse de Caprarola : « Ah !
celle-là est intelligente, c’est une femme agréable. Ce que je
ne peux pas supporter, ce sont les imbéciles, les gens qui
m’ennuient, ça me rend folle. » Ce qui eût donné à penser à
quelqu’un d’un peu fin que la princesse de Caprarola, femme
du plus grand monde, avait fait une visite à Mme Verdurin.
Elle avait même prononcé son nom au cours d’une visite de
condoléances qu’elle avait faite à Mme Swann après la mort
du mari de celle-ci, et lui avait demandé si elle les connaissait.
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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« Comment dites-vous ? avait répondu Odette d’un air
subitement triste. – Verdurin. – Ah ! alors je sais, avait-elle
repris avec désolation, je ne les connais pas, ou plutôt je les
connais sans les connaître, ce sont des gens que j’ai vus
autrefois chez des amis, il y a longtemps, ils sont agréables. »
La princesse de Caprarola partie, Odette aurait bien voulu
avoir dit simplement la vérité. Mais le mensonge immédiat
était non le produit de ses calculs, mais la révélation de ses
craintes, de ses désirs. Elle niait non ce qu’il eût été adroit de
nier, mais ce qu’elle aurait voulu qui ne fût pas, même si
l’interlocuteur devait apprendre dans une heure que cela était
en effet. Peu après elle avait repris son assurance et avait
même été au-devant des questions en disant, pour ne pas
avoir l’air de les craindre : « Mme Verdurin, mais comment,
je l’ai énormément connue », avec une affectation d’humilité
comme une grande dame qui raconte qu’elle a pris le
tramway. « On parle beaucoup des Verdurin depuis quelque
temps », disait Mme de Souvré. Odette, avec un dédain
souriant de duchesse, répondait : « Mais oui, il me semble en
effet qu’on en parle beaucoup. De temps en temps il y a
comme cela des gens nouveaux qui arrivent dans la société »,
sans penser qu’elle était elle-même une des plus nouvelles. «
La princesse de Caprarola y a dîné, reprit Mme de Souvré. –
Ah ! répondit Odette en accentuant son sourire, cela ne
m’étonne pas. C’est toujours par la princesse de Caprarola
que ces choses-là commencent, et puis il en vient une autre,
par exemple la comtesse Molé. » Odette, en disant cela, avait
l’air d’avoir un profond dédain pour les deux grandes dames
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qui avaient l’habitude d’essuyer les plâtres dans les salons
nouvellement ouverts. On sentait à son ton que cela voulait
dire qu’elle, Odette, comme Mme de Souvré, on ne réussirait
pas à les embarquer dans ces galères-là.
Après l’aveu qu’avait fait Mme Verdurin de l’intelligence de
la princesse de Caprarola, le second signe que les Verdurin
avaient conscience du destin futur était que (sans l’avoir
formellement demandé, bien entendu) ils souhaitaient
vivement qu’on vînt maintenant dîner chez eux en habit du
soir ; M. Verdurin eût pu maintenant être salué sans honte
par son neveu, celui qui était « dans les choux ».
Parmi ceux qui montèrent dans mon wagon à Graincourt se
trouvait Saniette, qui jadis avait été chassé de chez les
Verdurin par son cousin Forcheville, mais était revenu. Ses
défauts, au point de vue de la vie mondaine, étaient autrefois
– malgré des qualités supérieures – un peu du même genre
que ceux de Cottard, timidité, désir de plaire, efforts
infructueux pour y réussir. Mais si la vie, en faisant revêtir à
Cottard (sinon chez les Verdurin, où il était, par la
suggestion que les minutes anciennes exercent sur nous
quand nous nous retrouvons dans un milieu accoutumé,
resté quelque peu le même, du moins dans sa clientèle, dans
son service d’hôpital, à l’Académie de Médecine) des dehors
de froideur, de dédain, de gravité qui s’accentuaient pendant
qu’il débitait devant ses élèves complaisants ses calembours,
avait creusé une véritable coupure entre le Cottard actuel et
l’ancien, les mêmes défauts s’étaient au contraire exagérés
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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chez Saniette, au fur et à mesure qu’il cherchait à s’en
corriger. Sentant qu’il ennuyait souvent, qu’on ne l’écoutait
pas, au lieu de ralentir alors, comme l’eût fait Cottard, de
forcer l’attention par l’air d’autorité, non seulement il tâchait,
par un ton badin, de se faire pardonner le tour trop sérieux
de sa conversation, mais pressait son débit, déblayait, usait
d’abréviations pour paraître moins long, plus familier avec
les choses dont il parlait, et parvenait seulement, en les
rendant inintelligibles, à sembler interminable. Son assurance
n’était pas comme celle de Cottard qui glaçait ses malades,
lesquels aux gens qui vantaient son aménité dans le monde
répondaient : « Ce n’est plus le même homme quand il vous
reçoit dans son cabinet, vous dans la lumière, lui à contrejour et les yeux perçants. » Elle n’imposait pas, on sentait
qu’elle cachait trop de timidité, qu’un rien suffirait à la
mettre en fuite. Saniette, à qui ses amis avaient toujours dit
qu’il se défiait trop de lui-même, et qui, en effet, voyait des
gens qu’il jugeait avec raison fort inférieurs obtenir aisément
les succès qui lui étaient refusés, ne commençait plus une
histoire sans sourire de la drôlerie de celle-ci, de peur qu’un
air sérieux ne fît pas suffisamment valoir sa marchandise.
Quelquefois, faisant crédit au comique que lui-même avait
l’air de trouver à ce qu’il allait dire, on lui faisait la faveur
d’un silence général. Mais le récit tombait à plat. Un convive
doué d’un bon cœur glissait parfois à Saniette
l’encouragement, privé, presque secret, d’un sourire
d’approbation, le lui faisant parvenir furtivement, sans
éveiller l’attention, comme on vous glisse un billet. Mais
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personne n’allait jusqu’à assumer la responsabilité, à risquer
l’adhésion publique d’un éclat de rire. Longtemps après
l’histoire finie et tombée, Saniette, désolé, restait seul à se
sourire à lui-même, comme goûtant en elle et pour soi la
délectation qu’il feignait de trouver suffisante et que les
autres n’avaient pas éprouvée. Quant au sculpteur Ski, appelé
ainsi à cause de la difficulté qu’on trouvait à prononcer son
nom polonais, et parce que lui-même affectait, depuis qu’il
vivait dans une certaine société, de ne pas vouloir être
confondu avec des parents fort bien posés, mais un peu
ennuyeux et très nombreux, il avait, à quarante-cinq ans et
fort laid, une espèce de gaminerie, de fantaisie rêveuse qu’il
avait gardée pour avoir été jusqu’à dix ans le plus ravissant
enfant prodige du monde, coqueluche de toutes les dames.
Mme Verdurin prétendait qu’il était plus artiste qu’Elstir. Il
n’avait d’ailleurs avec celui-ci que des ressemblances
purement extérieures. Elles suffisaient pour qu’Elstir, qui
avait une fois rencontré Ski, eût pour lui la répulsion
profonde que nous inspirent, plus encore que les êtres tout à
fait opposés à nous, ceux qui nous ressemblent en moins
bien, en qui s’étale ce que nous avons de moins bon, les
défauts dont nous nous sommes guéris, nous rappelant
fâcheusement ce que nous avons pu paraître à certains avant
que nous fussions devenus ce que nous sommes. Mais Mme
Verdurin croyait que Ski avait plus de tempérament qu’Elstir
parce qu’il n’y avait aucun art pour lequel il n’eût de la
facilité, et elle était persuadée que cette facilité il l’eût
poussée jusqu’au talent s’il avait eu moins de paresse. Celle-ci
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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paraissait même à la Patronne un don de plus, étant le
contraire du travail, qu’elle croyait le lot des êtres sans génie.
Ski peignait tout ce qu’on voulait, sur des boutons de
manchette ou sur des dessus de porte. Il chantait avec une
voix de compositeur, jouait de mémoire, en donnant au
piano l’impression de l’orchestre, moins par sa virtuosité que
par ses fausses basses signifiant l’impuissance des doigts à
indiquer qu’ici il y a un piston que, du reste, il imitait avec la
bouche. Cherchant ses mots en parlant pour faire croire à
une impression curieuse, de la même façon qu’il retardait un
accord plaqué ensuite en disant : « Ping », pour faire sentir
les cuivres, il passait pour merveilleusement intelligent, mais
ses idées se ramenaient en réalité à deux ou trois,
extrêmement courtes. Ennuyé de sa réputation de fantaisiste,
il s’était mis en tête de montrer qu’il était un être pratique,
positif, d’où chez lui une triomphante affectation de fausse
précision, de faux bon sens, aggravés parce qu’il n’avait
aucune mémoire et des informations toujours inexactes. Ses
mouvements de tête, de cou, de jambes, eussent été gracieux
s’il eût eu encore neuf ans, des boucles blondes, un grand col
de dentelles et de petites bottes de cuir rouge. Arrivés en
avance avec Cottard et Brichot à la gare de Graincourt, ils
avaient laissé Brichot dans la salle d’attente et étaient allés
faire un tour. Quand Cottard avait voulu revenir, Ski avait
répondu : « Mais rien ne presse. Aujourd’hui ce n’est pas le
train local, c’est le train départemental ». Ravi de voir l’effet
que cette nuance dans la précision produisait sur Cottard, il
ajouta, parlant de lui-même : « Oui, parce que Ski aime les
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arts, parce qu’il modèle la glaise, on croit qu’il n’est pas
pratique. Personne ne connaît la ligne mieux que moi ».
Néanmoins ils étaient revenus vers la gare, quand tout d’un
coup, apercevant la fumée du petit train qui arrivait, Cottard,
poussant un hurlement, avait crié : « Nous n’avons qu’à
prendre nos jambes à notre cou. » Ils étaient en effet arrivés
juste, la distinction entre le train local et départemental
n’ayant jamais existé que dans l’esprit de Ski. « Mais est-ce
que la princesse n’est pas dans le train ? » demanda d’une
voix vibrante Brichot, dont les lunettes énormes,
resplendissantes comme ces réflecteurs que les laryngologues
s’attachent au front pour éclairer la gorge de leurs malades,
semblaient avoir emprunté leur vie aux yeux du professeur,
et, peut-être à cause de l’effort qu’il faisait pour accommoder
sa vision avec elles, semblaient, même dans les moments les
plus insignifiants, regarder elles-mêmes avec une attention
soutenue et une fixité extraordinaire. D’ailleurs la maladie, en
retirant peu à peu la vue à Brichot, lui avait révélé les beautés
de ce sens, comme il faut souvent que nous nous décidions à
nous séparer d’un objet, à en faire cadeau par exemple, pour
le regarder, le regretter, l’admirer. « Non, non, la princesse a
été reconduire jusqu’à Maineville des invités de Mme
Verdurin qui prenaient le train de Paris. Il ne serait même
pas impossible que Mme Verdurin, qui avait affaire à SaintMars, fût avec elle ! Comme cela elle voyagerait avec nous et
nous ferions route tous ensemble, ce serait charmant. Il
s’agira d’ouvrir l’œil à Maineville, et le bon ! Ah ! ça ne fait
rien, on peut dire que nous avons bien failli manquer le
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coche. Quand j’ai vu le train j’ai été sidéré. C’est ce qui
s’appelle arriver au moment psychologique. Voyez-vous ça
que nous ayions manqué le train ? Mme Verdurin
s’apercevant que les voitures revenaient sans nous ? Tableau
! ajouta le docteur qui n’était pas encore remis de son émoi.
Voilà une équipée qui n’est pas banale. Dites donc, Brichot,
qu’est-ce que vous dites de notre petite escapade ? demanda
le docteur avec une certaine fierté. – Par ma foi, répondit
Brichot, en effet, si vous n’aviez plus trouvé le train, c’eût
été, comme eût parlé feu Villemain, un sale coup pour la
fanfare ! » Mais moi, distrait dès les premiers instants par ces
gens que je ne connaissais pas, je me rappelai tout d’un coup
ce que Cottard m’avait dit dans la salle de danse du petit
Casino, et, comme si un chaînon invisible eût pu relier un
organe et les images du souvenir, celle d’Albertine appuyant
ses seins contre ceux d’Andrée me faisait un mal terrible au
cœur. Ce mal ne dura pas : l’idée de relations possibles entre
Albertine et des femmes ne me semblait plus possible depuis
l’avant-veille, où les avances que mon amie avait faites à
Saint-Loup avaient excité en moi une nouvelle jalousie qui
m’avait fait oublier la première. J’avais la naïveté des gens qui
croient qu’un goût en exclut forcément un autre. À
Harambouville, comme le tram était bondé, un fermier en
blouse bleue, qui n’avait qu’un billet de troisième, monta
dans notre compartiment. Le docteur, trouvant qu’on ne
pourrait pas laisser voyager la princesse avec lui, appela un
employé, exhiba sa carte de médecin d’une grande
compagnie de chemin de fer et força le chef de gare à faire
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descendre le fermier. Cette scène peina et alarma à un tel
point la timidité de Saniette que, dès qu’il la vit commencer,
craignant déjà, à cause de la quantité de paysans qui étaient
sur le quai, qu’elle ne prît les proportions d’une jacquerie, il
feignit d’avoir mal au ventre, et pour qu’on ne pût l’accuser
d’avoir sa part de responsabilité dans la violence du docteur,
il enfila le couloir en feignant de chercher ce que Cottard
appelait les « water ». N’en trouvant pas, il regarda le paysage
de l’autre extrémité du tortillard. « Si ce sont vos débuts chez
Mme Verdurin, Monsieur, me dit Brichot, qui tenait à
montrer ses talents à un « nouveau », vous verrez qu’il n’y a
pas de milieu où l’on sente mieux la « douceur de vivre »,
comme disait un des inventeurs du dilettantisme, du je
m’enfichisme, de beaucoup de mots en « isme » à la mode
chez nos snobinettes, je veux dire M. le prince de Talleyrand.
» Car, quand il parlait de ces grands seigneurs du passé, il
trouvait spirituel, et « couleur de l’époque » de faire précéder
leur titre de Monsieur et disait Monsieur le duc de La
Rochefoucauld, Monsieur le cardinal de Retz, qu’il appelait
aussi de temps en temps : « Ce struggle for lifer de Gondi, ce
« boulangiste » de Marsillac. » Et il ne manquait jamais, avec
un sourire, d’appeler Montesquieu, quand il parlait de lui : «
Monsieur le Président Secondat de Montesquieu. » Un
homme du monde spirituel eût été agacé de ce pédantisme,
qui sent l’école. Mais, dans les parfaites manières de l’homme
du monde, en parlant d’un prince, il y a un pédantisme aussi
qui trahit une autre caste, celle où l’on fait précéder le nom
Guillaume de « l’Empereur » et où l’on parle à la troisième
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personne à une Altesse. « Ah ! celui-là, reprit Brichot, en
parlant de « Monsieur le prince de Talleyrand », il faut le
saluer chapeau bas. C’est un ancêtre. – C’est un milieu
charmant, me dit Cottard, vous trouverez un peu de tout, car
Mme Verdurin n’est pas exclusive : des savants illustres
comme Brichot de la haute noblesse comme, par exemple, la
princesse Sherbatoff, une grande dame russe, amie de la
grande-duchesse Eudoxie qui même la voit seule aux heures
où personne n’est admis. » En effet, la grande-duchesse
Eudoxie, ne se souciant pas que la princesse Sherbatoff, qui
depuis longtemps n’était plus reçue par personne, vînt chez
elle quand elle eût pu y avoir du monde, ne la laissait venir
que de très bonne heure, quand l’Altesse n’avait auprès d’elle
aucun des amis à qui il eût été aussi désagréable de
rencontrer la princesse que cela eût été gênant pour celle-ci.
Comme depuis trois ans, aussitôt après avoir quitté, comme
une manucure, la grande-duchesse, Mme Sherbatoff partait
chez Mme Verdurin, qui venait seulement de s’éveiller, et ne
la quittait plus, on peut dire que la fidélité de la princesse
passait infiniment celle même de Brichot, si assidu pourtant
à ces mercredis, où il avait le plaisir de se croire, à Paris, une
sorte de Chateaubriand à l’Abbaye-aux-Bois et où, à la
campagne, il se faisait l’effet de devenir l’équivalent de ce
que pouvait être chez Mme du Châtelet celui qu’il nommait
toujours (avec une malice et une satisfaction de lettré) : « M.
de Voltaire. »
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Son absence de relations avait permis à la princesse
Sherbatoff de montrer, depuis quelques années, aux
Verdurin une fidélité qui faisait d’elle plus qu’une « fidèle »
ordinaire, la fidèle type, l’idéal que Mme Verdurin avait
longtemps cru inaccessible et, qu’arrivée au retour d’âge, elle
trouvait enfin incarné en cette nouvelle recrue féminine. De
quelque jalousie qu’en eût été torturée la Patronne, il était
sans exemple que les plus assidus de ses fidèles ne l’eussent «
lâchée » une fois. Les plus casaniers se laissaient tenter par
un voyage ; les plus continents avaient eu une bonne fortune
; les plus robustes pouvaient attraper la grippe, les plus oisifs
être pris par leurs vingt-huit jours, les plus indifférents aller
fermer les yeux à leur mère mourante. Et c’était en vain que
Mme Verdurin leur disait alors, comme l’impératrice
romaine, qu’elle était le seul général à qui dût obéir sa légion,
comme le Christ ou le Kaiser, que celui qui aimait son père
et sa mère autant qu’elle et n’était pas prêt à les quitter pour
la suivre n’était pas digne d’elle, qu’au lieu de s’affaiblir au lit
ou de se laisser berner par une grue, ils feraient mieux de
rester près d’elle, elle, seul remède et seule volupté. Mais la
destinée, qui se plaît parfois à embellir la fin des existences
qui se prolongent tard, avait fait rencontrer à Mme Verdurin
la princesse Sherbatoff. Brouillée avec sa famille, exilée de
son pays, ne connaissant plus que la baronne Putbus et la
grande-duchesse Eudoxie, chez lesquelles, parce qu’elle
n’avait pas envie de rencontrer les amies de la première, et
parce que la seconde n’avait pas envie que ses amies
rencontrassent la princesse, elle n’allait qu’aux heures
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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matinales où Mme Verdurin dormait encore, ne se
souvenant pas d’avoir gardé la chambre une seule fois depuis
l’âge de douze ans, où elle avait eu la rougeole, ayant
répondu, le 31 décembre, à Mme Verdurin qui, inquiète
d’être seule, lui avait demandé si elle ne pourrait pas rester
coucher à l’improviste, malgré le jour de l’an : « Mais qu’estce qui pourrait m’en empêcher n’importe quel jour ?
D’ailleurs, ce jour-là, on reste en famille et vous êtes ma
famille », vivant dans une pension et changeant de « pension
» quand les Verdurin déménageaient, les suivant dans leurs
villégiatures, la princesse avait si bien réalisé pour Mme
Verdurin le vers de Vigny :
Toi seule me parus ce qu’on cherche toujours
que la Présidente du petit cercle, désireuse de s’assurer une «
fidèle » jusque dans la mort, lui avait demandé que celle des
deux qui mourrait la dernière se fît enterrer à côté de l’autre.
Vis-à-vis des étrangers – parmi lesquels il faut toujours
compter celui à qui nous mentons le plus parce que c’est
celui par qui il nous serait le plus pénible d’être méprisé :
nous-même, – la princesse Sherbatoff avait soin de
représenter ses trois seules amitiés – avec la grandeduchesse, avec les Verdurin, avec la baronne Putbus –
comme les seules, non que des cataclysmes indépendant de
sa volonté eussent laissé émerger au milieu de la destruction
de tout le reste, mais qu’un libre choix lui avait fait élire de
préférence à toute autre, et auxquelles un certain goût de
solitude et de simplicité l’avait fait se borner. « Je ne vois
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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personne d’autre », disait-elle en insistant sur le caractère
inflexible de ce qui avait plutôt l’air d’une règle qu’on
s’impose que d’une nécessité qu’on subit. Elle ajoutait : « Je
ne fréquente que trois maisons », comme les auteurs qui,
craignant de ne pouvoir aller jusqu’à la quatrième, annoncent
que leur pièce n’aura que trois représentations. Que M. et
Mme Verdurin ajoutassent foi ou non à cette fiction, ils
avaient aidé la princesse à l’inculquer dans l’esprit des fidèles.
Et ceux-ci étaient persuadés à la fois que la princesse, entre
des milliers de relations qui s’offraient à elle, avait choisi les
seuls Verdurin, et que les Verdurin, sollicités en vain par
toute la haute aristocratie, n’avaient consenti à faire qu’une
exception, en faveur de la princesse.
À leurs yeux, la princesse, trop supérieure à son milieu
d’origine pour ne pas s’y ennuyer, entre tant de gens qu’elle
eût pu fréquenter ne trouvait agréables que les seuls
Verdurin, et réciproquement ceux-ci, sourds aux avances de
toute l’aristocratie qui s’offrait à eux, n’avaient consenti à
faire qu’une seule exception, en faveur d’une grande dame
plus intelligente que ses pareilles, la princesse Sherbatoff.
La princesse était fort riche ; elle avait à toutes les premières
une grande baignoire où, avec l’autorisation de Mme
Verdurin, elle emmenait les fidèles et jamais personne
d’autre. On se montrait cette personne énigmatique et pâle,
qui avait vieilli sans blanchir, et plutôt en rougissant comme
certains fruits durables et ratatinés des haies. On admirait à
la fois sa puissance et son humilité, car, ayant toujours avec
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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elle un académicien, Brichot, un célèbre savant, Cottard, le
premier pianiste du temps, plus tard M. de Charlus, elle
s’efforçait pourtant de retenir exprès la baignoire la plus
obscure, restait au fond, ne s’occupait en rien de la salle,
vivait exclusivement pour le petit groupe, qui, un peu avant
la fin de la représentation, se retirait en suivant cette
souveraine étrange et non dépourvue d’une beauté timide,
fascinante et usée. Or, si Mme Sherbatoff ne regardait pas la
salle, restait dans l’ombre, c’était pour tâcher d’oublier qu’il
existait un monde vivant qu’elle désirait passionnément et ne
pouvait pas connaître ; la « coterie » dans une « baignoire »
était pour elle ce qu’est pour certains animaux l’immobilité
quasi cadavérique en présence du danger. Néanmoins, le
goût de nouveauté et de curiosité qui travaille les gens du
monde faisait qu’ils prêtaient peut-être plus d’attention à
cette mystérieuse inconnue qu’aux célébrités des premières
loges, chez qui chacun venait en visite. On s’imaginait qu’elle
était autrement que les personnes qu’on connaissait ; qu’une
merveilleuse intelligence, jointe à une bonté divinatrice,
retenaient autour d’elle ce petit milieu de gens éminents. La
princesse était forcée, si on lui parlait de quelqu’un ou si on
lui présentait quelqu’un, de feindre une grande froideur pour
maintenir la fiction de son horreur du monde. Néanmoins,
avec l’appui de Cottard ou de Mme Verdurin, quelques
nouveaux réussissaient à la connaître, et son ivresse d’en
connaître un était telle qu’elle en oubliait la fable de
l’isolement voulu et se dépensait follement pour le nouveau
venu. S’il était fort médiocre, chacun s’étonnait. « Quelle
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chose singulière que la princesse, qui ne veut connaître
personne, aille faire une exception pour cet être si peu
caractéristique. » Mais ces fécondantes connaissances étaient
rares, et la princesse vivait étroitement confinée au milieu
des fidèles.
Cottard disait beaucoup plus souvent : « Je le verrai mercredi
chez les Verdurin », que : « Je le verrai mardi à l’Académie. »
Il parlait aussi des mercredis comme d’une occupation aussi
importante et aussi inéluctable. D’ailleurs Cottard était de ces
gens peu recherchés qui se font un devoir aussi impérieux de
se rendre à une invitation que si elle constituait un ordre,
comme une convocation militaire ou judiciaire. Il fallait qu’il
fût appelé par une visite bien importante pour qu’il « lâchât »
les Verdurin le mercredi, l’importance ayant trait, d’ailleurs,
plutôt à la qualité du malade qu’à la gravité de la maladie. Car
Cottard, quoique bon homme, renonçait aux douceurs du
mercredi non pour un ouvrier frappé d’une attaque, mais
pour le coryza d’un ministre. Encore, dans ce cas, disait-il à
sa femme : « Excuse-moi bien auprès de Mme Verdurin.
Préviens que j’arriverai en retard. Cette Excellence aurait
bien pu choisir un autre jour pour être enrhumée. » Un
mercredi, leur vieille cuisinière s’étant coupé la veine du bras,
Cottard, déjà en smoking pour aller chez les Verdurin, avait
haussé les épaules quand sa femme lui avait timidement
demandé s’il ne pourrait pas panser la blessée : « Mais je ne
peux pas, Léontine, s’était-il écrié en gémissant ; tu vois bien
que j’ai mon gilet blanc. » Pour ne pas impatienter son mari,
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Mme Cottard avait fait chercher au plus vite le chef de
clinique. Celui-ci, pour aller plus vite, avait pris une voiture,
de sorte que la sienne entrant dans la cour au moment où
celle de Cottard allait sortir pour le mener chez les Verdurin,
on avait perdu cinq minutes à avancer, à reculer. Mme
Cottard était gênée que le chef de clinique vît son maître en
tenue de soirée. Cottard pestait du retard, peut-être par
remords, et partit avec une humeur exécrable qu’il fallut tous
les plaisirs du mercredi pour arriver à dissiper.
Si un client de Cottard lui demandait : « Rencontrez-vous
quelquefois les Guermantes ? » c’est de la meilleure foi du
monde que le professeur répondait : « Peut-être pas
justement les Guermantes, je ne sais pas. Mais je vois tout ce
monde-là chez des amis à moi. Vous avez certainement
entendu parler des Verdurin. Ils connaissent tout le monde.
Et puis eux, du moins, ce ne sont pas des gens chics décatis.
Il y a du répondant. On évalue généralement que Mme
Verdurin est riche à trente-cinq millions. Dame, trente-cinq
millions, c’est un chiffre. Aussi elle n’y va pas avec le dos de
la cuiller. Vous me parliez de la duchesse de Guermantes. Je
vais vous dire la différence : Mme Verdurin c’est une grande
dame, la duchesse de Guermantes est probablement une
purée. Vous saisissez bien la nuance, n’est-ce pas ? En tout
cas, que les Guermantes aillent ou non chez Mme Verdurin,
elle reçoit, ce qui vaut mieux, les d’Sherbatoff, les
d’Forcheville, et tutti quanti, des gens de la plus haute volée,
toute la noblesse de France et de Navarre, à qui vous me
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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verriez parler de pair à compagnon. D’ailleurs ce genre
d’individus recherche volontiers les princes de la science »,
ajoutait-il avec un sourire d’amour-propre béat, amené à ses
lèvres par la satisfaction orgueilleuse, non pas tellement que
l’expression jadis réservée aux Potain, aux Charcot,
s’appliquât maintenant à lui, mais qu’il sût enfin user comme
il convenait de toutes celles que l’usage autorise et, qu’après
les avoir longtemps piochées, il possédait à fond. Aussi,
après m’avoir cité la princesse Sherbatoff parmi les
personnes que recevait Mme Verdurin, Cottard ajoutait en
clignant de l’œil : « Vous voyez le genre de la maison, vous
comprenez ce que je veux dire ? » Il voulait dire ce qu’il y a
de plus chic. Or, recevoir une dame russe qui ne connaissait
que la grande-duchesse Eudoxie, c’était peu. Mais la
princesse Sherbatoff eût même pu ne pas la connaître sans
qu’eussent été amoindries l’opinion que Cottard avait
relativement à la suprême élégance du salon Verdurin et sa
joie d’y être reçu. La splendeur dont nous semblent revêtus
les gens que nous fréquentons n’est pas plus intrinsèque que
celle de ces personnages de théâtre pour l’habillement
desquels il est bien inutile qu’un directeur dépense des
centaines de mille francs à acheter des costumes
authentiques et des bijoux vrais qui ne feront aucun effet,
quand un grand décorateur donnera une impression de luxe
mille fois plus somptueuse en dirigeant un rayon factice sur
un pourpoint de grosse toile semé de bouchons de verre et
sur un manteau en papier. Tel homme a passé sa vie au
milieu des grands de la terre qui n’étaient pour lui que
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d’ennuyeux parents ou de fastidieuses connaissances, parce
qu’une habitude contractée dès le berceau les avait dépouillés
à ses yeux de tout prestige. Mais, en revanche, il a suffi que
celui-ci vînt, par quelque hasard, s’ajouter aux personnes les
plus obscures, pour que d’innombrables Cottard aient vécu
éblouis par des femmes titrées dont ils s’imaginaient que le
salon était le centre des élégances aristocratiques, et qui
n’étaient même pas ce qu’étaient Mme de Villeparisis et ses
amies (des grandes dames déchues que l’aristocratie qui avait
été élevée avec elles ne fréquentait plus) ; non, celles dont
l’amitié a été l’orgueil de tant de gens, si ceux-ci publiaient
leurs mémoires et y donnaient les noms de ces femmes et de
celles qu’elles recevaient, personne, pas plus Mme de
Cambremer que Mme de Guermantes, ne pourrait les
identifier. Mais qu’importe ! Un Cottard a ainsi sa marquise,
laquelle est pour lui la « baronne », comme, dans Marivaux,
la baronne dont on ne dit jamais le nom et dont on n’a
même pas l’idée qu’elle en a jamais eu un. Cottard croit
d’autant plus y trouver résumée l’aristocratie – laquelle
ignore cette dame – que plus les titres sont douteux plus les
couronnes tiennent de place sur les verres, sur l’argenterie,
sur le papier à lettres, sur les malles. De nombreux Cottard,
qui ont cru passer leur vie au cœur du faubourg SaintGermain, ont eu leur imagination peut-être plus enchantée
de rêves féodaux que ceux qui avaient effectivement vécu
parmi des princes, de même que, pour le petit commerçant
qui, le dimanche, va parfois visiter des édifices « du vieux
temps », c’est quelquefois dans ceux dont toutes les pierres
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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sont du nôtre, et dont les voûtes ont été, par des élèves de
Viollet-le-Duc, peintes en bleu et semées d’étoiles d’or, qu’ils
ont le plus la sensation du moyen âge. « La princesse sera à
Maineville. Elle voyagera avec nous. Mais je ne vous
présenterai pas tout de suite. Il vaudra mieux que ce soit
Mme Verdurin qui fasse cela. À moins que je ne trouve un
joint. Comptez alors que je sauterai dessus. – De quoi
parliez-vous, dit Saniette, qui fit semblant d’avoir été prendre
l’air. – Je citai à Monsieur, dit Brichot, un mot que vous
connaissez bien de celui qui est à mon avis le premier des
fins de siècle (du siècle 18 s’entend), le prénommé CharlesMaurice, abbé de Périgord. Il avait commencé par promettre
d’être un très bon journaliste. Mais il tourna mal, je veux dire
qu’il devint ministre ! La vie a de ces disgrâces. Politicien peu
scrupuleux au demeurant, qui, avec des dédains de grand
seigneur racé, ne se gênait pas de travailler à ses heures pour
le roi de Prusse, c’est le cas de le dire, et mourut dans la peau
d’un centre gauche. »
À Saint-Pierre-des-Ifs monta une splendide jeune fille qui,
malheureusement, ne faisait pas partie du petit groupe. Je ne
pouvais détacher mes yeux de sa chair de magnolia, de ses
yeux noirs, de la construction admirable et haute de ses
formes. Au bout d’une seconde elle voulut ouvrir une glace,
car il faisait un peu chaud dans le compartiment, et ne
voulant pas demander la permission à tout le monde, comme
seul je n’avais pas de manteau, elle me dit d’une voix rapide,
fraîche et rieuse : « Ça ne vous est pas désagréable,
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Monsieur, l’air ? » J’aurais voulu lui dire : « Venez avec nous
chez les Verdurin », ou : « Dites-moi votre nom et votre
adresse. » Je répondis : « Non, l’air ne me gêne pas,
Mademoiselle. » Et après, sans se déranger de sa place : « La
fumée, ça ne gêne pas vos amis ? » et elle alluma une
cigarette. À la troisième station elle descendit d’un saut. Le
lendemain, je demandai à Albertine qui cela pouvait être.
Car, stupidement, croyant qu’on ne peut aimer qu’une chose,
jaloux de l’attitude d’Albertine à l’égard de Robert, j’étais
rassuré quant aux femmes. Albertine me dit, je crois très
sincèrement, qu’elle ne savait pas. « Je voudrais tant la
retrouver, m’écriai-je. – Tranquillisez-vous, on se retrouve
toujours », répondit Albertine. Dans le cas particulier elle se
trompait ; je n’ai jamais retrouvé ni identifié la belle fille à la
cigarette. On verra du reste pourquoi, pendant longtemps, je
dus cesser de la chercher. Mais je ne l’ai pas oubliée. Il
m’arrive souvent en pensant à elle d’être pris d’une folle
envie. Mais ces retours du désir nous forcent à réfléchir que,
si on voulait retrouver ces jeunes filles-là avec le même
plaisir, il faudrait revenir aussi à l’année, qui a été suivie
depuis de dix autres pendant lesquelles la jeune fille s’est
fanée. On peut quelquefois retrouver un être, mais non
abolir le temps. Tout cela jusqu’au jour imprévu et triste
comme une nuit d’hiver, où on ne cherche plus cette jeune
fille-là, ni aucune autre, où trouver vous effraierait même.
Car on ne se sent plus assez d’attraits pour plaire, ni de force
pour aimer. Non pas, bien entendu, qu’on soit, au sens
propre du mot, impuissant. Et quant à aimer, on aimerait
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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plus que jamais. Mais on sent que c’est une trop grande
entreprise pour le peu de forces qu’on garde. Le repos
éternel a déjà mis des intervalles où l’on ne peut sortir, ni
parler. Mettre un pied sur la marche qu’il faut, c’est une
réussite comme de ne pas manquer le saut périlleux. Être vu
dans cet état par une jeune fille qu’on aime, même si l’on a
gardé son visage et tous ses cheveux blonds de jeune homme
! On ne peut plus assumer la fatigue de se mettre au pas de la
jeunesse. Tant pis si le désir charnel redouble au lieu de
s’amortir ! On fait venir pour lui une femme à qui l’on ne se
souciera pas de plaire, qui ne partagera qu’un soir votre
couche et qu’on ne reverra jamais.
« On doit être toujours sans nouvelles du violoniste », dit
Cottard. L’événement du jour, dans le petit clan, était en
effet le lâchage du violoniste favori de Mme Verdurin. Celuici, qui faisait son service militaire près de Doncières, venait
trois fois par semaine dîner à la Raspelière, car il avait la
permission de minuit. Or, l’avant-veille, pour la première
fois, les fidèles n’avaient pu arriver à le découvrir dans le
tram. On avait supposé qu’il l’avait manqué. Mais Mme
Verdurin avait eu beau envoyer au tram suivant, enfin au
dernier, la voiture était revenue vide. « Il a été sûrement
fourré au bloc, il n’y a pas d’autre explication de sa fugue. Ah
! dame, vous savez, dans le métier militaire, avec ces
gaillards-là, il suffit d’un adjudant grincheux. – Ce sera
d’autant plus mortifiant pour Mme Verdurin, dit Brichot, s’il
lâche encore ce soir, que notre aimable hôtesse reçoit
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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justement à dîner pour la première fois les voisins qui lui ont
loué la Raspelière, le marquis et la marquise de Cambremer.
– Ce soir, le marquis et la marquise de Cambremer ! s’écria
Cottard. Mais je n’en savais absolument rien. Naturellement
je savais comme vous tous qu’ils devaient venir un jour, mais
je ne savais pas que ce fût si proche. Sapristi, dit-il en se
tournant vers moi, qu’est-ce que je vous ai dit : la princesse
Sherbatoff, le marquis et la marquise de Cambremer. » Et
après avoir répété ces noms en se berçant de leur mélodie : «
Vous voyez que nous nous mettons bien, me dit-il.
N’importe, pour vos débuts, vous mettez dans le mille. Cela
va être une chambrée exceptionnellement brillante. » Et se
tournant vers Brichot, il ajouta : « La Patronne doit être
furieuse. Il n’est que temps que nous arrivions lui prêter
main forte. » Depuis que Mme Verdurin était à la Raspelière,
elle affectait vis-à-vis des fidèles d’être, en effet, dans
l’obligation, et au désespoir d’inviter une fois ses
propriétaires. Elle aurait ainsi de meilleures conditions pour
l’année suivante, disait-elle, et ne le faisait que par intérêt.
Mais elle prétendait avoir une telle terreur, se faire un tel
monstre d’un dîner avec des gens qui n’étaient pas du petit
groupe, qu’elle le remettait toujours. Il l’effrayait, du reste, un
peu pour les motifs qu’elle proclamait, tout en les exagérant,
si par un autre côté il l’enchantait pour des raisons de
snobisme qu’elle préférait taire. Elle était donc à demi
sincère, elle croyait le petit clan quelque chose de si unique
au monde, un de ces ensembles comme il faut des siècles
pour en constituer un pareil, qu’elle tremblait à la pensée d’y
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voir introduits ces gens de province, ignorants de la
Tétralogie et des « Maîtres », qui ne sauraient pas tenir leur
partie dans le concert de la conversation générale et étaient
capables, en venant chez Mme Verdurin, de détruire un des
fameux mercredis, chefs-d’œuvre incomparables et fragiles,
pareils à ces verreries de Venise qu’une fausse note suffit à
briser. « De plus, ils doivent être tout ce qu’il y a de plus anti,
et galonnards, avait dit M. Verdurin. – Ah ! ça, par exemple,
ça m’est égal, voilà assez longtemps qu’on en parle de cette
histoire-là », avait répondu Mme Verdurin qui, sincèrement
dreyfusarde, eût cependant voulu trouver dans la
prépondérance de son salon dreyfusiste une récompense
mondaine. Or le dreyfusisme triomphait politiquement, mais
non pas mondainement. Labori, Reinach, Picquart, Zola,
restaient, pour les gens du monde, des espèces de traîtres qui
ne pouvaient que les éloigner du petit noyau. Aussi, après
cette incursion dans la politique, Mme Verdurin tenait-elle à
rentrer dans l’art. D’ailleurs d’Indy, Debussy, n’étaient-ils pas
« mal » dans l’Affaire ? « Pour ce qui est de l’Affaire, nous
n’aurions qu’à les mettre à côté de Brichot, dit-elle
(l’universitaire étant le seul des fidèles qui avait pris le parti
de l’État-Major, ce qui l’avait fait beaucoup baisser dans
l’estime de Mme Verdurin). On n’est pas obligé de parler
éternellement de l’affaire Dreyfus. Non, la vérité, c’est que
les Cambremer m’embêtent. » Quant aux fidèles, aussi
excités par le désir inavoué qu’ils avaient de connaître les
Cambremer, que dupes de l’ennui affecté que Mme Verdurin
disait éprouver à les recevoir, ils reprenaient chaque jour, en
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causant avec elle, les vils arguments qu’elle donnait ellemême en faveur de cette invitation, tâchaient de les rendre
irrésistibles. « Décidez-vous une bonne fois, répétait Cottard,
et vous aurez les concessions pour le loyer, ce sont eux qui
paieront le jardinier, vous aurez la jouissance du pré. Tout
cela vaut bien de s’ennuyer une soirée. Je n’en parle que pour
vous », ajoutait-il, bien que le cœur lui eût battu une fois que,
dans la voiture de Mme Verdurin, il avait croisé celle de la
vieille Mme de Cambremer sur la route, et surtout qu’il fût
humilié pour les employés du chemin de fer, quand, à la
gare, il se trouvait près du marquis. De leur côté, les
Cambremer, vivant bien trop loin du mouvement mondain
pour pouvoir même se douter que certaines femmes
élégantes parlaient avec quelque considération de Mme
Verdurin, s’imaginaient que celle-ci était une personne qui ne
pouvait connaître que des bohèmes, n’était même peut-être
pas légitimement mariée, et, en fait de gens « nés », ne verrait
jamais qu’eux. Ils ne s’étaient résignés à y dîner que pour être
en bons termes avec une locataire dont ils espéraient le
retour pour de nombreuses saisons, surtout depuis qu’ils
avaient, le mois précédent, appris qu’elle venait d’hériter de
tant de millions. C’est en silence et sans plaisanteries de
mauvais goût qu’ils se préparaient au jour fatal. Les fidèles
n’espéraient plus qu’il vînt jamais, tant de fois Mme Verdurin
en avait déjà fixé devant eux la date, toujours changée. Ces
fausses résolutions avaient pour but, non seulement de faire
ostentation de l’ennui que lui causait ce dîner, mais de tenir
en haleine les membres du petit groupe qui habitaient dans le
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voisinage et étaient parfois enclins à lâcher. Non que la
Patronne devinât que le « grand jour » leur était aussi
agréable qu’à elle-même, mais parce que, les ayant persuadés
que ce dîner était pour elle la plus terrible des corvées, elle
pouvait faire appel à leur dévouement. « Vous n’allez pas me
laisser seule en tête à tête avec ces Chinois-là ! Il faut au
contraire que nous soyons en nombre pour supporter
l’ennui. Naturellement nous ne pourrons parler de rien de ce
qui nous intéresse. Ce sera un mercredi de raté, que voulezvous ! »
– En effet, répondit Brichot, en s’adressant à moi, je crois
que Mme Verdurin, qui est très intelligente et apporte une
grande coquetterie à l’élaboration de ses mercredis, ne tenait
guère à recevoir ces hobereaux de grande lignée mais sans
esprit. Elle n’a pu se résoudre à inviter la marquise
douairière, mais s’est résignée au fils et à la belle-fille.
– Ah ! nous verrons la marquise de Cambremer ? dit Cottard
avec un sourire où il crut devoir mettre de la paillardise et du
marivaudage, bien qu’il ignorât si Mme de Cambremer était
jolie ou non. Mais le titre de marquise éveillait en lui des
images prestigieuses et galantes. « Ah ! je la connais, dit Ski,
qui l’avait rencontrée, une fois qu’il se promenait avec Mme
Verdurin. – Vous ne la connaissez pas au sens biblique, dit,
en coulant un regard louche sous son lorgnon, le docteur,
dont c’était une des plaisanteries favorites. – Elle est
intelligente, me dit Ski. Naturellement, reprit-il en voyant
que je ne disais rien et appuyant en souriant sur chaque mot,
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elle est intelligente et elle ne l’est pas, il lui manque
l’instruction, elle est frivole, mais elle a l’instinct des jolies
choses. Elle se taira, mais elle ne dira jamais une bêtise. Et
puis elle est d’une jolie coloration. Ce serait un portrait qui
serait amusant à peindre », ajouta-t-il en fermant à demi les
yeux comme s’il la regardait posant devant lui. Comme je
pensais tout le contraire de ce que Ski exprimait avec tant de
nuances, je me contentai de dire qu’elle était la sœur d’un
ingénieur très distingué, M. Legrandin. « Hé bien, vous
voyez, vous serez présenté à une jolie femme, me dit
Brichot, et on ne sait jamais ce qui peut en résulter.
Cléopâtre n’était même pas une grande dame, c’était la petite
femme, la petite femme inconsciente et terrible de notre
Meilhac, et voyez les conséquences, non seulement pour ce
jobard d’Antoine, mais pour le monde antique. – J’ai déjà été
présenté à Mme de Cambremer, répondis-je. – Ah ! mais
alors vous allez vous trouver en pays de connaissance. – Je
serai d’autant plus heureux de la voir, répondis-je, qu’elle
m’avait promis un ouvrage de l’ancien curé de Combray sur
les noms de lieux de cette région-ci, et je vais pouvoir lui
rappeler sa promesse. Je m’intéresse à ce prêtre et aussi aux
étymologies. – Ne vous fiez pas trop à celles qu’il indique,
me répondit Brichot ; l’ouvrage, qui est à la Raspelière et que
je me suis amusé à feuilleter, ne me dit rien qui vaille ; il
fourmille d’erreurs. Je vais vous en donner un exemple. Le
mot Bricq entre dans la formation d’une quantité de noms
de lieux de nos environs. Le brave ecclésiastique a eu l’idée
passablement biscornue qu’il vient de Briga, hauteur, lieu
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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fortifié. Il le voit déjà dans les peuplades celtiques,
Latobriges, Nemetobriges, etc., et le suit jusque dans les
noms comme Briand, Brion, etc... Pour en revenir au pays
que nous avons le plaisir de traverser en ce moment avec
vous, Bricquebosc signifierait le bois de la hauteur,
Bricqueville l’habitation de la hauteur, Bricquebec, où nous
nous arrêterons dans un instant avant d’arriver à Maineville,
la hauteur près du ruisseau. Or ce n’est pas du tout cela,
pour la raison que bricq est le vieux mot norois qui signifie
tout simplement : un pont. De même que fleur, que le
protégé de Mme de Cambremer se donne une peine infinie
pour rattacher tantôt aux mots scandinaves floi, flo, tantôt
au mot irlandais ae et aer, est au contraire, à n’en point
douter, le fiord des Danois et signifie : port. De même
l’excellent prêtre croit que la station de Saint-Martin-le-Vêtu,
qui avoisine la Raspelière, signifie Saint-Martin-le-Vieux
(vetus). Il est certain que le mot de vieux a joué un grand
rôle dans la toponymie de cette région. Vieux vient
généralement de vadum et signifie un gué, comme au lieu dit
: les Vieux. C’est ce que les Anglais appelaient « ford »
(Oxford, Hereford). Mais, dans le cas particulier, vieux vient
non pas de vetus, mais de vastatus, lieu dévasté et nu. Vous
avez près d’ici Sottevast, le vast de Setold ; Brillevast, le vast
de Berold. Je suis d’autant plus certain de l’erreur du curé,
que Saint-Martin-le-Vieux s’est appelé autrefois SaintMartin-du-Gast et même Saint-Martin-de-Terregate. Or le v
et le g dans ces mots sont la même lettre. On dit : dévaster
mais aussi : gâcher. Jachères et gâtines (du haut allemand
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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wastinna) ont ce même sens : Terregate c’est donc terra
vastata. Quant à Saint-Mars, jadis (honni soit qui mal y
pense) Saint-Merd, c’est Saint-Medardus, qui est tantôt SaintMédard, Saint-Mard, Saint-Marc, Cinq-Mars, et jusqu’à
Dammas. Il ne faut du reste pas oublier que, tout près d’ici,
des lieux, portant ce même nom de Mars, attestent
simplement une origine païenne (le dieu Mars) restée vivace
en ce pays, mais que le saint homme se refuse à reconnaître.
Les hauteurs dédiées aux dieux sont en particulier fort
nombreuses, comme la montagne de Jupiter (Jeumont).
Votre curé n’en veut rien voir et, en revanche, partout où le
christianisme a laissé des traces, elles lui échappent. Il a
poussé son voyage jusqu’à Loctudy, nom barbare, dit-il, alors
que c’est Locus sancti Tudeni, et n’a pas davantage, dans
Sammarçoles, deviné Sanctus Martialis. Votre curé, continua
Brichot, en voyant qu’il m’intéressait, fait venir les mots en
hon, home, holm, du mot holl (hullus), colline, alors qu’il
vient du norois holm, île, que vous connaissez bien dans
Stockholm, et qui dans tout ce pays-ci est si répandu, la
Houlme. Engohomme, Tahoume, Robehomme, Néhomme,
Quettehon, etc. » Ces noms me firent penser au jour où
Albertine avait voulu aller à Amfreville-la-Bigot (du nom de
deux de ses seigneurs successifs, me dit Brichot), et où elle
m’avait ensuite proposé de dîner ensemble à Robehomme.
Quant à Montmartin, nous allions y passer dans un instant. «
Est-ce que Néhomme, demandai-je, n’est pas près de
Carquethuit et de Clitourps ? – Parfaitement, Néhomme
c’est le holm, l’île ou presqu’île du fameux vicomte Nigel
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dont le nom est resté aussi dans Néville. Carquethuit et
Clitourps, dont vous me parlez, sont, pour le protégé de
Mme de Cambremer, l’occasion d’autres erreurs. Sans doute
il voit bien que carque, c’est une église, la Kirche des
Allemands. Vous connaissez Querqueville, sans parler de
Dunkerque. Car mieux vaudrait alors nous arrêter à ce
fameux mot de Dun qui, pour les Celtes, signifiait une
élévation. Et cela vous le retrouverez dans toute la France.
Votre abbé s’hypnotisait devant Duneville repris dans
l’Eure-et-Loir ; il eût trouvé Châteaudun, Dun-le-Roi dans le
Cher ; Duneau dans la Sarthe ; Dun dans l’Ariège ; Dune-lesPlaces dans la Nièvre, etc., etc. Ce Dun lui fait commettre
une curieuse erreur en ce qui concerne Doville, où nous
descendrons et où nous attendent les confortables voitures
de Mme Verdurin. Doville, en latin donvilla, dit-il. En effet
Doville est au pied de grandes hauteurs. Votre curé, qui sait
tout, sent tout de même qu’il a fait une bévue. Il a lu, en
effet, dans un ancien Fouillé Domvilla. Alors il se rétracte ;
Douville, selon lui, est un fief de l’Abbé, Domino Abbati, du
mont Saint-Michel. Il s’en réjouit, ce qui est assez bizarre
quand on pense à la vie scandaleuse que, depuis le
Capitulaire de Saint-Clair-sur-Epte, on menait au mont
Saint-Michel, et ce qui ne serait pas plus extraordinaire que
de voir le roi de Danemark suzerain de toute cette côte où il
faisait célébrer beaucoup plus le culte d’Odin que celui du
Christ. D’autre part, la supposition que l’n a été changée en
m ne me choque pas et exige moins d’altération que le très
correct Lyon qui, lui aussi, vient de Dun (Lugdunum). Mais
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enfin l’abbé se trompe. Douville n’a jamais été Douville,
mais Doville, Eudonis Villa, le village d’Eudes. Douville
s’appelait autrefois Escalecliff, l’escalier de la pente. Vers
1233, Eudes le Bouteiller, seigneur d’Escalecliff, partit pour
la Terre-Sainte ; au moment de partir il fit remise de l’église à
l’abbaye de Blanchelande. Échange de bons procédés : le
village prit son nom, d’où actuellement Douville. Mais
j’ajoute que la toponymie, où je suis d’ailleurs fort ignare,
n’est pas une science exacte ; si nous n’avions ce témoignage
historique, Douville pourrait fort bien venir d’Ouville, c’està-dire : les Eaux. Les formes en ai (Aigues-Mortes), de aqua,
se changent fort souvent en eu, en ou. Or il y avait tout près
de Douville des eaux renommées, Carquebut. Vous pensez
que le curé était trop content de trouver là quelque trace
chrétienne, encore que ce pays semble avoir été assez
difficile à évangéliser, puisqu’il a fallu que s’y reprissent
successivement saint Ursal, saint Gofroi, saint Barsanore,
saint Laurent de Brèvedent, lequel passa enfin la main aux
moines de Beaubec. Mais pour tuit l’auteur se trompe, il y
voit une forme de toft, masure, comme dans Criquetot,
Ectot, Yvetot, alors que c’est le thveit, essart, défrichement,
comme dans Braquetuit, le Thuit, Regnetuit, etc. De même,
s’il reconnaît dans Clitourps le thorp normand, qui veut dire
: village, il veut que la première partie du nom dérive de
clivus, pente, alors qu’elle vient de cliff, rocher. Mais ses plus
grosses bévues viennent moins de son ignorance que de ses
préjugés. Si bon Français qu’on soit, faut-il nier l’évidence et
prendre Saint-Laurent-en-Bray pour le prêtre romain si
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connu, alors qu’il s’agit de saint Lawrence Toot, archevêque
de Dublin ? Mais plus que le sentiment patriotique, le parti
pris religieux de votre ami lui fait commettre des erreurs
grossières. Ainsi vous avez non loin de chez nos hôtes de la
Raspelière deux Montmartin, Montmartin-sur-Mer et
Montmartin-en-Graignes. Pour Graignes, le bon curé n’a pas
commis d’erreur, il a bien vu que Graignes, en latin Grania,
en grec crêné, signifie : étangs, marais ; combien de
Cresmays, de Croen, de Gremeville, de Lengronne, ne
pourrait-on pas citer ? Mais pour Montmartin, votre
prétendu linguiste veut absolument qu’il s’agisse de paroisses
dédiées à saint Martin. Il s’autorise de ce que le saint est leur
patron, mais ne se rend pas compte qu’il n’a été pris pour tel
qu’après coup ; ou plutôt il est aveuglé par sa haine du
paganisme ; il ne veut pas voir qu’on aurait dit Mont-SaintMartin comme on dit le mont Saint-Michel, s’il s’était agi de
saint Martin, tandis que le nom de Montmartin s’applique, de
façon beaucoup plus païenne, à des temples consacrés au
dieu Mars, temples dont nous ne possédons pas, il est vrai,
d’autres vestiges, mais que la présence incontestée, dans le
voisinage, de vastes camps romains rendrait des plus
vraisemblables même sans le nom de Montmartin qui
tranche le doute. Vous voyez que le petit livre que vous allez
trouver à la Raspelière n’est pas des mieux faits. » J’objectai
qu’à Combray le curé nous avait appris souvent des
étymologies intéressantes. « Il était probablement mieux sur
son terrain, le voyage en Normandie l’aura dépaysé. – Et ne
l’aura pas guéri, ajoutai-je, car il était arrivé neurasthénique et
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est reparti rhumatisant. – Ah ! c’est la faute à la neurasthénie.
Il est tombé de la neurasthénie dans la philologie, comme
eût dit mon bon maître Pocquelin. Dites donc, Cottard, vous
semble-t-il que la neurasthénie puisse avoir une influence
fâcheuse sur la philologie, la philologie une influence
calmante sur la neurasthénie, et la guérison de la
neurasthénie conduire au rhumatisme ? – Parfaitement, le
rhumatisme et la neurasthénie sont deux formes vicariantes
du neuro-arthritisme. On peut passer de l’une à l’autre par
métastase. – L’éminent professeur, dit Brichot, s’exprime,
Dieu me pardonne, dans un français aussi mêlé de latin et de
grec qu’eut pu le faire M. Purgon lui-même, de moliéresque
mémoire ! À moi, mon oncle, je veux dire notre Sarcey
national... » Mais il ne put achever sa phrase. Le professeur
venait de sursauter et de pousser un hurlement : « Nom de
d’là, s’écria-t-il en passant enfin au langage articulé, nous
avons passé Maineville (hé ! hé !) et même Renneville. » Il
venait de voir que le train s’arrêtait à Saint-Mars-le-Vieux, où
presque tous les voyageurs descendaient. « Ils n’ont pas dû
pourtant brûler l’arrêt. Nous n’aurons pas fait attention en
parlant des Cambremer. – Écoutez-moi, Ski, attendez, je vais
vous dire « une bonne chose », dit Cottard qui avait pris en
affection cette expression usitée dans certains milieux
médicaux. La princesse doit être dans le train, elle ne nous
aura pas vus et sera montée dans un autre compartiment.
Allons à sa recherche. Pourvu que tout cela n’aille pas
amener de grabuge ! » Et il nous emmena tous à la recherche
de la princesse Sherbatoff. Il la trouva dans le coin d’un
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wagon vide, en train de lire la Revue des Deux-Mondes. Elle
avait pris depuis de longues années, par peur des rebuffades,
l’habitude de se tenir à sa place, de rester dans son coin, dans
la vie comme dans le train, et d’attendre pour donner la main
qu’on lui eût dit bonjour. Elle continua à lire quand les
fidèles entrèrent dans son wagon. Je la reconnus aussitôt ;
cette femme, qui pouvait avoir perdu sa situation mais n’en
était pas moins d’une grande naissance, qui en tout cas était
la perle d’un salon comme celui des Verdurin, c’était la dame
que, dans le même train, j’avais cru, l’avant-veille, pouvoir
être une tenancière de maison publique. Sa personnalité
sociale, si incertaine, me devint claire aussitôt quand je sus
son nom, comme quand, après avoir peiné sur une devinette,
on apprend enfin le mot qui rend clair tout ce qui était resté
obscur et qui, pour les personnes, est le nom. Apprendre le
surlendemain quelle était la personne à côté de qui on a
voyagé dans le train sans parvenir à trouver son rang social
est une surprise beaucoup plus amusante que de lire dans la
livraison nouvelle d’une revue le mot de l’énigme proposée
dans la précédente livraison. Les grands restaurants, les
casinos, les « tortillards » sont le musée des familles de ces
énigmes sociales. « Princesse, nous vous aurons manquée à
Maineville ! Vous permettez que nous prenions place dans
votre compartiment ? – Mais comment donc », fit la
princesse qui, en entendant Cottard lui parler, leva seulement
alors de sur sa revue des yeux qui, comme ceux de M. de
Charlus, quoique plus doux, voyaient très bien les personnes
de la présence de qui elle faisait semblant de ne pas
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s’apercevoir. Cottard, réfléchissant à ce que le fait d’être
invité avec les Cambremer était pour moi une
recommandation suffisante, prit, au bout d’un moment, la
décision de me présenter à la princesse, laquelle s’inclina
avec une grande politesse, mais eut l’air d’entendre mon nom
pour la première fois. « Cré nom, s’écria le docteur, ma
femme a oublié de faire changer les boutons de mon gilet
blanc. Ah ! les femmes, ça ne pense à rien. Ne vous mariez
jamais, voyez-vous », me dit-il. Et comme c’était une des
plaisanteries qu’il jugeait convenables quand on n’avait rien à
dire, il regarda du coin de l’œil la princesse et les autres
fidèles, qui, parce qu’il était professeur et académicien,
sourirent en admirant sa bonne humeur et son absence de
morgue. La princesse nous apprit que le jeune violoniste
était retrouvé. Il avait gardé le lit la veille à cause d’une
migraine, mais viendrait ce soir et amènerait un vieil ami de
son père qu’il avait retrouvé à Doncières. Elle l’avait su par
Mme Verdurin avec qui elle avait déjeuné le matin, nous ditelle d’une voix rapide où le roulement des r, de l’accent
russe, était doucement marmonné au fond de la gorge,
comme si c’étaient non des r mais des l. « Ah ! vous avez
déjeuné ce matin avec elle, dit Cottard à la princesse ; mais
en me regardant, car ces paroles avaient pour but de me
montrer combien la princesse était intime avec la Patronne.
Vous êtes une fidèle, vous ! – Oui, j’aime ce petit celcle
intelligent, agléable, pas méchant, tout simple, pas snob et où
on a de l’esplit jusqu’au bout des ongles. – Nom d’une pipe,
j’ai dû perdre mon billet, je ne le retrouve pas », s’écria
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Cottard sans s’inquiéter d’ailleurs outre mesure. Il savait qu’à
Douville, où deux landaus allaient nous attendre, l’employé
le laisserait passer sans billet et ne s’en découvrirait que plus
bas afin de donner par ce salut l’explication de son
indulgence, à savoir qu’il avait bien reconnu en Cottard un
habitué des Verdurin. « On ne me mettra pas à la salle de
police pour cela, conclut le docteur. – Vous disiez, Monsieur,
demandai-je à Brichot, qu’il y avait près d’ici des eaux
renommées ; comment le sait-on ? – Le nom de la station
suivante l’atteste entre bien d’autres témoignages. Elle
s’appelle Fervaches. – Je ne complends pas ce qu’il veut dil »,
grommela la princesse, d’un ton dont elle m’aurait dit par
gentillesse : « Il nous embête, n’est-ce pas ? » « Mais,
princesse, Fervaches veut dire, eaux chaudes, fervidae
aquae... Mais à propos du jeune violoniste, continua Brichot,
j’oubliais, Cottard, de vous parler de la grande nouvelle.
Saviez-vous que notre pauvre ami Dechambre, l’ancien
pianiste favori de Mme Verdurin, vient de mourir ? C’est
effrayant. – Il était encore jeune, répondit Cottard, mais il
devait faire quelque chose du côté du foie, il devait avoir
quelque saleté de ce côté, il avait une fichue tête depuis
quelque temps. – Mais il n’était pas si jeune, dit Brichot ; du
temps où Elstir et Swann allaient chez Mme Verdurin,
Dechambre était déjà une notoriété parisienne, et, chose
admirable, sans avoir reçu à l’étranger le baptême du succès.
Ah ! il n’était pas un adepte de l’Évangile selon saint
Barnum, celui-là. – Vous confondez, il ne pouvait aller chez
Mme Verdurin à ce moment-là, il était encore en nourrice. –
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Mais, à moins que ma vieille mémoire ne soit infidèle, il me
semblait que Dechambre jouait la sonate de Vinteuil pour
Swann quand ce cercleux, en rupture d’aristocratie, ne se
doutait guère qu’il serait un jour le prince consort
embourgeoisé de notre Odette nationale. – C’est impossible,
la sonate de Vinteuil a été jouée chez Mme Verdurin
longtemps après que Swann n’y allait plus », dit le docteur
qui, comme les gens qui travaillent beaucoup et croient
retenir beaucoup de choses qu’ils se figurent être utiles, en
oublient beaucoup d’autres, ce qui leur permet de s’extasier
devant la mémoire de gens qui n’ont rien à faire. « Vous
faites tort à vos connaissances, vous n’êtes pourtant pas
ramolli », dit en souriant le docteur. Brichot convint de son
erreur. Le train s’arrêta. C’était la Sogne. Ce nom
m’intriguait. « Comme j’aimerais savoir ce que veulent dire
tous ces noms, dis-je à Cottard. – Mais demandez à M.
Brichot, il le sait peut-être. – Mais la Sogne, c’est la Cicogne,
Siconia », répondit Brichot que je brûlais d’interroger sur
bien d’autres noms.
Oubliant qu’elle tenait à son « coin », Mme Sherbatoff
m’offrit aimablement de changer de place avec moi pour que
je pusse mieux causer avec Brichot à qui je voulais demander
d’autres étymologies qui m’intéressaient, et elle assura qu’il
lui était indifférent de voyager en avant, en arrière, debout,
etc... Elle restait sur la défensive tant qu’elle ignorait les
intentions des nouveaux venus, mais quand elle avait
reconnu que celles-ci étaient aimables, elle cherchait de
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toutes manières à faire plaisir à chacun. Enfin le train s’arrêta
à la station de Doville-Féterne, laquelle étant située à peu
près à égale distance du village de Féterne et de celui de
Doville, portait, à cause de cette particularité, leurs deux
noms. « Saperlipopette, s’écria le docteur Cottard, quand
nous fûmes devant la barrière où on prenait les billets et
feignant seulement de s’en apercevoir, je ne peux pas
retrouver mon ticket, j’ai dû le perdre. » Mais l’employé,
ôtant sa casquette, assura que cela ne faisait rien et sourit
respectueusement. La princesse (donnant des explications au
cocher, comme eût fait une espèce de dame d’honneur de
Mme Verdurin, laquelle, à cause des Cambremer, n’avait pu
venir à la gare, ce qu’elle faisait du reste rarement) me prit,
ainsi que Brichot, avec elle dans une des voitures. Dans
l’autre montèrent le docteur, Saniette et Ski.
Le cocher, bien que tout jeune, était le premier cocher des
Verdurin, le seul qui fût vraiment cocher en titre ; il leur
faisait faire, dans le jour, toutes leurs promenades car il
connaissait tous les chemins, et le soir allait chercher et
reconduire ensuite les fidèles. Il était accompagné d’extras
(qu’il choisissait) en cas de nécessité. C’était un excellent
garçon, sobre et adroit, mais avec une de ces figures
mélancoliques où le regard, trop fixe, signifie qu’on se fait
pour un rien de la bile, même des idées noires. Mais il était
en ce moment fort heureux car il avait réussi à placer son
frère, autre excellente pâte d’homme, chez les Verdurin.
Nous traversâmes d’abord Doville. Des mamelons herbus y
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descendaient jusqu’à la mer en amples pâtés auxquels la
saturation de l’humidité et du sel donnent une épaisseur, un
mœlleux, une vivacité de tons extrêmes. Les îlots et les
découpures de Rivebelle, beaucoup plus rapprochés ici qu’à
Balbec, donnaient à cette partie de la mer l’aspect nouveau
pour moi d’un plan en relief. Nous passâmes devant de
petits chalets loués presque tous par des peintres ; nous
prîmes un sentier où des vaches en liberté, aussi effrayées
que nos chevaux, nous barrèrent dix minutes le passage, et
nous nous engageâmes dans la route de la corniche. « Mais,
par les dieux immortels, demanda tout à coup Brichot,
revenons à ce pauvre Dechambre ; croyez-vous que Mme
Verdurin sache ? Lui a-t-on dit ? » Mme Verdurin, comme
presque tous les gens du monde, justement parce qu’elle
avait besoin de la société des autres, ne pensait plus un seul
jour à eux après qu’étant morts, ils ne pouvaient plus venir
aux mercredis, ni aux samedis, ni dîner en robe de chambre.
Et on ne pouvait pas dire du petit clan, image en cela de tous
les salons, qu’il se composait de plus de morts que de
vivants, vu que, dès qu’on était mort, c’était comme si on
n’avait jamais existé. Mais pour éviter l’ennui d’avoir à parler
des défunts, voire de suspendre les dîners, chose impossible
à la Patronne, à cause d’un deuil, M. Verdurin feignait que la
mort des fidèles affectât tellement sa femme que, dans
l’intérêt de sa santé, il ne fallait pas en parler. D’ailleurs, et
peut-être justement parce que la mort des autres lui semblait
un accident si définitif et si vulgaire, la pensée de la sienne
propre lui faisait horreur et il fuyait toute réflexion pouvant
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s’y rapporter. Quant à Brichot, comme il était très brave
homme et parfaitement dupe de ce que M. Verdurin disait
de sa femme, il redoutait pour son amie les émotions d’un
pareil chagrin. « Oui, elle sait tout depuis ce matin, dit la
princesse, on n’a pas pu lui cacher. – Ah ! mille tonnerres de
Zeus, s’écria Brichot, ah ! ça a dû être un coup terrible, un
ami de vingt-cinq ans ! En voilà un qui était des nôtres ! –
Évidemment, évidemment, que voulez-vous, dit Cottard. Ce
sont des circonstances toujours pénibles ; mais Mme
Verdurin est une femme forte, c’est une cérébrale encore
plus qu’une émotive. – Je ne suis pas tout à fait de l’avis du
docteur, dit la princesse, à qui décidément son parler rapide,
son accent murmuré, donnait l’air à la fois boudeur et mutin.
Mme Verdurin, sous une apparence froide, cache des trésors
de sensibilité. M. Verdurin m’a dit qu’il avait eu beaucoup de
peine à l’empêcher d’aller à Paris pour la cérémonie ; il a été
obligé de lui faire croire que tout se ferait à la campagne. –
Ah ! diable, elle voulait aller à Paris. Mais je sais bien que
c’est une femme de cœur, peut-être de trop de cœur même.
Pauvre Dechambre ! Comme le disait Mme Verdurin il n’y a
pas deux mois : « À côté de lui Planté, Paderewski, Risler
même, rien ne tient. » Ah ! il a pu dire plus justement que ce
m’as-tu vu de Néron, qui a trouvé le moyen de rouler la
science allemande elle-même : « Qualis artifex pereo ! » Mais
lui, du moins, Dechambre, a dû mourir dans
l’accomplissement du sacerdoce, en odeur de dévotion
beethovenienne ; et bravement, je n’en doute pas ; en bonne
justice, cet officiant de la musique allemande aurait mérité de
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trépasser en célébrant la messe en ré. Mais il était, au
demeurant, homme à accueillir la camarde avec un trille, car
cet exécutant de génie retrouvait parfois, dans son
ascendance de Champenois parisianisé, des crâneries et des
élégances de garde-française. »
De la hauteur où nous étions déjà, la mer n’apparaissait plus,
ainsi que de Balbec, pareille aux ondulations de montagnes
soulevées, mais, au contraire, comme apparaît d’un pic, ou
d’une route qui contourne la montagne, un glacier bleuâtre,
ou une plaine éblouissante, situés à une moindre altitude. Le
déchiquetage des remous y semblait immobilisé et avoir
dessiné pour toujours leurs cercles concentriques ; l’émail
même de la mer, qui changeait insensiblement de couleur,
prenait vers le fond de la baie, où se creusait un estuaire, la
blancheur bleue d’un lait où de petits bacs noirs qui
n’avançaient pas semblaient empêtrés comme des mouches.
Il ne me semblait pas qu’on pût découvrir de nulle part un
tableau plus vaste. Mais à chaque tournant une partie
nouvelle s’y ajoutait, et quand nous arrivâmes à l’octroi de
Doville, l’éperon de falaise qui nous avait caché jusque-là
une moitié de la baie rentra, et je vis tout à coup à ma gauche
un golfe aussi profond que celui que j’avais eu jusque-là
devant moi, mais dont il changeait les proportions et
doublait la beauté. L’air à ce point si élevé devenait d’une
vivacité et d’une pureté qui m’enivraient. J’aimais les
Verdurin ; qu’ils nous eussent envoyé une voiture me
semblait d’une bonté attendrissante. J’aurais voulu embrasser
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la princesse. Je lui dis que je n’avais jamais rien vu d’aussi
beau. Elle fit profession d’aimer aussi ce pays plus que tout
autre. Mais je sentais bien que, pour elle comme pour les
Verdurin, la grande affaire était non de le contempler en
touristes, mais d’y faire de bons repas, d’y recevoir une
société qui leur plaisait, d’y écrire des lettres, d’y lire, bref d’y
vivre, laissant passivement sa beauté les baigner plutôt qu’ils
n’en faisaient l’objet de leur préoccupation.
De l’octroi, la voiture s’étant arrêtée pour un instant à une
telle hauteur au-dessus de la mer que, comme d’un sommet,
la vue du gouffre bleuâtre donnait presque le vertige, j’ouvris
le carreau ; le bruit distinctement perçu de chaque flot qui se
brisait avait, dans sa douceur et dans sa netteté, quelque
chose de sublime. N’était-il pas comme un indice de
mensuration qui, renversant nos impressions habituelles,
nous montre que les distances verticales peuvent être
assimilées aux distances horizontales, au contraire de la
représentation que notre esprit s’en fait d’habitude ; et que,
rapprochant ainsi de nous le ciel, elles ne sont pas grandes ;
qu’elles sont même moins grandes pour un bruit qui les
franchit, comme faisait celui de ces petits flots, car le milieu
qu’il a à traverser est plus pur ? Et, en effet, si on reculait
seulement de deux mètres en arrière de l’octroi, on ne
distinguait plus ce bruit de vagues auquel deux cents mètres
de falaise n’avaient pas enlevé sa délicate, minutieuse et
douce précision. Je me disais que ma grand’mère aurait eu
pour lui cette admiration que lui inspiraient toutes les
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manifestations de la nature ou de l’art dans la simplicité
desquelles on lit la grandeur. Mon exaltation était à son
comble et soulevait tout ce qui m’entourait. J’étais attendri
que les Verdurin nous eussent envoyé chercher à la gare. Je
le dis à la princesse, qui parut trouver que j’exagérais
beaucoup une si simple politesse. Je sais qu’elle avoua plus
tard à Cottard qu’elle me trouvait bien enthousiaste ; il lui
répondit que j’étais trop émotif et que j’aurais eu besoin de
calmants et de faire du tricot. Je faisais remarquer à la
princesse chaque arbre, chaque petite maison croulant sous
ses roses, je lui faisais tout admirer, j’aurais voulu la serrer
elle-même contre mon cœur. Elle me dit qu’elle voyait que
j’étais doué pour la peinture, que je devrais dessiner, qu’elle
était surprise qu’on ne me l’eût pas encore dit. Et elle
confessa qu’en effet ce pays était pittoresque. Nous
traversâmes, perché sur la hauteur, le petit village
d’Englesqueville (Engleberti Villa), nous dit Brichot. « Mais
êtes-vous bien sûr que le dîner de ce soir a lieu, malgré la
mort de Dechambre, princesse ? ajouta-t-il sans réfléchir que
la venue à la gare des voitures dans lesquelles nous étions
était déjà une réponse. – Oui, dit la princesse, M. Verdurin a
tenu à ce qu’il ne soit pas remis, justement pour empêcher sa
femme de « penser ». Et puis, après tant d’années qu’elle n’a
jamais manqué de recevoir un mercredi, ce changement dans
ses habitudes aurait pu l’impressionner. Elle est très nerveuse
ces temps-ci. M. Verdurin était particulièrement heureux que
vous veniez dîner ce soir parce qu’il savait que ce serait une
grande distraction pour Mme Verdurin, dit la princesse,
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oubliant sa feinte de ne pas avoir entendu parler de moi. Je
crois que vous ferez bien de ne parler de rien devant Mme
Verdurin, ajouta la princesse. – Ah ! vous faites bien de me
le dire, répondit naïvement Brichot. Je transmettrai la
recommandation à Cottard. » La voiture s’arrêta un instant.
Elle repartit, mais le bruit que faisaient les roues dans le
village avait cessé. Nous étions entrés dans l’allée d’honneur
de la Raspelière où M. Verdurin nous attendait au perron. «
J’ai bien fait de mettre un smoking, dit-il, en constatant avec
plaisir que les fidèles avaient le leur, puisque j’ai des hommes
si chics. » Et comme je m’excusais de mon veston : « Mais,
voyons, c’est parfait. Ici ce sont des dîners de camarades. Je
vous offrirais bien de vous prêter un des mes smokings mais
il ne vous irait pas. » Le shake hand plein d’émotion que, en
pénétrant dans le vestibule de la Raspelière, et en manière de
condoléances pour la mort du pianiste, Brichot donna au
Patron ne provoqua de la part de celui-ci aucun
commentaire. Je lui dis mon admiration pour ce pays. « Ah !
tant mieux, et vous n’avez rien vu, nous vous le montrerons.
Pourquoi ne viendriez-vous pas habiter quelques semaines
ici ? l’air est excellent. » Brichot craignait que sa poignée de
mains n’eût pas été comprise. « Hé bien ! ce pauvre
Dechambre ! dit-il, mais à mi-voix, dans la crainte que Mme
Verdurin ne fût pas loin. – C’est affreux, répondit
allègrement M. Verdurin. – Si jeune », reprit Brichot. Agacé
de s’attarder à ces inutilités, M. Verdurin répliqua d’un ton
pressé et avec un gémissement suraigu, non de chagrin, mais
d’impatience irritée : « Hé bien oui, mais qu’est-ce que vous
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voulez, nous n’y pouvons rien, ce ne sont pas nos paroles
qui le ressusciteront, n’est-ce pas ? » Et la douceur lui
revenant avec la jovialité : « Allons, mon brave Brichot,
posez vite vos affaires. Nous avons une bouillabaisse qui
n’attend pas. Surtout, au nom du ciel, n’allez pas parler de
Dechambre à Mme Verdurin ! Vous savez qu’elle cache
beaucoup ce qu’elle ressent, mais elle a une véritable maladie
de la sensibilité. Non, mais je vous jure, quand elle a appris
que Dechambre était mort, elle a presque pleuré », dit M.
Verdurin d’un ton profondément ironique. À l’entendre on
aurait dit qu’il fallait une espèce de démence pour regretter
un ami de trente ans, et d’autre part on devinait que l’union
perpétuelle de M. Verdurin avec sa femme n’allait pas, de la
part de celui-ci, sans qu’il la jugeât toujours et qu’elle l’agaçât
souvent. « Si vous lui en parlez elle va encore se rendre
malade. C’est déplorable, trois semaines après sa bronchite.
Dans ces cas-là, c’est moi qui suis le garde-malade. Vous
comprenez que je sors d’en prendre. Affligez-vous sur le sort
de Dechambre dans votre cœur tant que vous voudrez.
Pensez-y, mais n’en parlez pas. J’aimais bien Dechambre,
mais vous ne pouvez pas m’en vouloir d’aimer encore plus
ma femme. Tenez, voilà Cottard, vous allez pouvoir lui
demander. » Et en effet, il savait qu’un médecin de la famille
sait rendre bien des petits services, comme de prescrire par
exemple qu’il ne faut pas avoir de chagrin.
Cottard, docile, avait dit à la Patronne : « Bouleversez-vous
comme ça et vous me ferez demain 39 de fièvre », comme il
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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aurait dit à la cuisinière : « Vous me ferez demain du ris de
veau. » La médecine, faute de guérir, s’occupe à changer le
sens des verbes et des pronoms.
M. Verdurin fut heureux de constater que Saniette, malgré
les rebuffades que celui-ci avait essuyées l’avant-veille, n’avait
pas déserté le petit noyau. En effet, Mme Verdurin et son
mari avaient contracté dans l’oisiveté des instincts cruels à
qui les grandes circonstances, trop rares, ne suffisaient plus.
On avait bien pu brouiller Odette avec Swann, Brichot avec
sa maîtresse. On recommencerait avec d’autres, c’était
entendu. Mais l’occasion ne s’en présentait pas tous les jours.
Tandis que, grâce à sa sensibilité frémissante, à sa timidité
craintive et vite affolée, Saniette leur offrait un souffredouleur quotidien. Aussi, de peur qu’il lâchât, avait-on soin
de l’inviter avec des paroles aimables et persuasives comme
en ont au lycée les vétérans, au régiment les anciens pour un
bleu qu’on veut amadouer afin de pouvoir s’en saisir, à
seules fins alors de le chatouiller et de lui faire des brimades
quand il ne pourra plus s’échapper. « Surtout, rappela
Cottard à Brichot qui n’avait pas entendu M. Verdurin,
motus devant Mme Verdurin. – Soyez sans crainte, ô
Cottard, vous avez affaire à un sage, comme dit Théocrite.
D’ailleurs M. Verdurin a raison, à quoi servent nos plaintes,
ajouta-t-il, car, capable d’assimiler des formes verbales et les
idées qu’elles amenaient en lui, mais n’ayant pas de finesse, il
avait admiré dans les paroles de M. Verdurin le plus
courageux stoïcisme. N’importe, c’est un grand talent qui
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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disparaît. – Comment, vous parlez encore de Dechambre ?
dit M. Verdurin qui nous avait précédés et qui, voyant que
nous ne le suivions pas, était revenu en arrière. Écoutez, ditil à Brichot, il ne faut d’exagération en rien. Ce n’est pas une
raison parce qu’il est mort pour en faire un génie qu’il n’était
pas. Il jouait bien, c’est entendu, il était surtout bien encadré
ici ; transplanté, il n’existait plus. Ma femme s’en était
engouée et avait fait sa réputation. Vous savez comme elle
est. Je dirai plus, dans l’intérêt même de sa réputation il est
mort au bon moment, à point, comme les demoiselles de
Caen, grillées selon les recettes incomparables de Pampille,
vont l’être, j’espère (à moins que vous ne vous éternisiez par
vos jérémiades dans cette kasbah ouverte à tous les vents).
Vous ne voulez tout de même pas nous faire crever tous
parce que Dechambre est mort et quand, depuis un an, il
était obligé de faire des gammes avant de donner un concert,
pour retrouver momentanément, bien momentanément, sa
souplesse. Du reste, vous allez entendre ce soir, ou du moins
rencontrer, car ce mâtin-là délaisse trop souvent après dîner
l’art pour les cartes, quelqu’un qui est un autre artiste que
Dechambre, un petit que ma femme a découvert (comme
elle avait découvert Dechambre, et Paderewski et le reste) :
Morel. Il n’est pas encore arrivé, ce bougre-là. Je vais être
obligé d’envoyer une voiture au dernier train. Il vient avec un
vieil ami de sa famille qu’il a retrouvé et qui l’embête à
crever, mais sans qui il aurait été obligé, pour ne pas avoir de
plaintes de son père, de rester sans cela à Doncières à lui
tenir compagnie : le baron de Charlus. » Les fidèles
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entrèrent. M. Verdurin, resté en arrière avec moi pendant
que j’ôtais mes affaires, me prit le bras en plaisantant,
comme fait à un dîner un maître de maison qui n’a pas
d’invitée à vous donner à conduire. « Vous avez fait bon
voyage ? – Oui, M. Brichot m’a appris des choses qui m’ont
beaucoup intéressé », dis-je en pensant aux étymologies et
parce que j’avais entendu dire que les Verdurin admiraient
beaucoup Brichot. « Cela m’aurait étonné qu’il ne vous eût
rien appris, me dit M. Verdurin, c’est un homme si effacé,
qui parle si peu des choses qu’il sait. » Ce compliment ne me
parut pas très juste. « Il a l’air charmant, dis-je. – Exquis,
délicieux, pas pion pour un sou, fantaisiste, léger, ma femme
l’adore, moi aussi ! » répondit M. Verdurin sur un ton
d’exagération et de réciter une leçon. Alors seulement je
compris que ce qu’il m’avait dit de Brichot était ironique. Et
je me demandai si M. Verdurin, depuis le temps lointain
dont j’avais entendu parler, n’avait pas secoué la tutelle de sa
femme.
Le sculpteur fut très étonné d’apprendre que les Verdurin
consentaient à recevoir M. de Charlus. Alors que dans le
faubourg Saint-Germain, où M. de Charlus était si connu, on
ne parlait jamais de ses mœurs (ignorées du plus grand
nombre, objet de doute pour d’autres, qui croyaient plutôt à
des amitiés exaltées, mais platoniques, à des imprudences, et
enfin soigneusement dissimulées par les seuls renseignés, qui
haussaient les épaules quand quelque malveillante Gallardon
risquait une insinuation), ces mœurs, connues à peine de
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quelques intimes, étaient au contraire journellement décriées
loin du milieu où il vivait, comme certains coups de canon
qu’on n’entend qu’après l’interférence d’une zone
silencieuse. D’ailleurs dans ces milieux bourgeois et artistes
où il passait pour l’incarnation même de l’inversion, sa
grande situation mondaine, sa haute origine, étaient
entièrement ignorées, par un phénomène analogue à celui
qui, dans le peuple roumain, fait que le nom de Ronsard est
connu comme celui d’un grand seigneur, tandis que son
œuvre poétique y est inconnue. Bien plus, la noblesse de
Ronsard repose en Roumanie sur une erreur. De même, si
dans le monde des peintres, des comédiens, M. de Charlus
avait si mauvaise réputation, cela tenait à ce qu’on le
confondait avec un comte Leblois de Charlus, qui n’avait
même pas la moindre parenté avec lui, ou extrêmement
lointaine, et qui avait été arrêté, peut-être par erreur, dans
une descente de police restée fameuse. En somme, toutes les
histoires qu’on racontait sur M. de Charlus s’appliquaient au
faux. Beaucoup de professionnels juraient avoir eu des
relations avec M. de Charlus et étaient de bonne foi, croyant
que le faux Charlus était le vrai, et le faux peut-être
favorisant, moitié par ostentation de noblesse, moitié par
dissimulation de vice, une confusion qui, pour le vrai (le
baron que nous connaissons), fut longtemps préjudiciable, et
ensuite, quand il eut glissé sur sa pente, devint commode, car
à lui aussi elle permit de dire : « Ce n’est pas moi. »
Actuellement, en effet, ce n’était pas de lui qu’on parlait.
Enfin, ce qui ajoutait, à la fausseté des commentaires d’un
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fait vrai (les goûts du baron), il avait été l’ami intime et
parfaitement pur d’un auteur qui, dans le monde des
théâtres, avait, on ne sait pourquoi, cette réputation et ne la
méritait nullement. Quand on les apercevait à une première
ensemble, on disait : « Vous savez », de même qu’on croyait
que la duchesse de Guermantes avait des relations immorales
avec la princesse de Parme ; légende indestructible, car elle
ne se serait évanouie qu’à une proximité de ces deux grandes
dames où les gens qui la répétaient n’atteindraient
vraisemblablement jamais qu’en les lorgnant au théâtre et en
les calomniant auprès du titulaire du fauteuil voisin. Des
mœurs de M. de Charlus le sculpteur concluait, avec d’autant
moins d’hésitation, que la situation mondaine du baron
devait être aussi mauvaise, qu’il ne possédait sur la famille à
laquelle appartenait M. de Charlus, sur son titre, sur son
nom, aucune espèce de renseignement. De même que
Cottard croyait que tout le monde sait que le titre de docteur
en médecine n’est rien, celui d’interne des hôpitaux quelque
chose, les gens du monde se trompent en se figurant que
tout le monde possède sur l’importance sociale de leur nom
les mêmes notions qu’eux-mêmes et les personnes de leur
milieu.
Le prince d’Agrigente passait pour un « rasta » aux yeux d’un
chasseur de cercle à qui il devait vingt-cinq louis, et ne
reprenait son importance que dans le faubourg SaintGermain où il avait trois sœurs duchesses, car ce ne sont pas
sur les gens modestes, aux yeux de qui il compte peu, mais
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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sur les gens brillants, au courant de ce qu’il est, que fait
quelque effet le grand seigneur. M. de Charlus allait, du reste,
pouvoir se rendre compte, dès le soir même, que le Patron
avait sur les plus illustres familles ducales des notions peu
approfondies. Persuadé que les Verdurin allaient faire un pas
de clerc en laissant s’introduire dans leur salon si « select » un
individu taré, le sculpteur crut devoir prendre à part la
Patronne. « Vous faites entièrement erreur, d’ailleurs je ne
crois jamais ces choses-là, et puis, quand ce serait vrai, je
vous dirai que ce ne serait pas très compromettant pour moi
! » lui répondit Mme Verdurin, furieuse, car, Morel étant le
principal élément des mercredis, elle tenait avant tout à ne
pas le mécontenter. Quant à Cottard il ne put donner d’avis,
car il avait demandé à monter un instant « faire une petite
commission » dans le « buen retiro » et à écrire ensuite dans
la chambre de M. Verdurin une lettre très pressée pour un
malade.
Un grand éditeur de Paris venu en visite, et qui avait pensé
qu’on le retiendrait, s’en alla brutalement, avec rapidité,
comprenant qu’il n’était pas assez élégant pour le petit clan.
C’était un homme grand et fort, très brun, studieux, avec
quelque chose de tranchant. Il avait l’air d’un couteau à
papier en ébène.
Mme Verdurin qui, pour nous recevoir dans son immense
salon, où des trophées de graminées, de coquelicots, de
fleurs des champs, cueillis le jour même, alternaient avec le
même motif peint en camaïeu, deux siècles auparavant, par
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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un artiste d’un goût exquis, s’était levée un instant d’une
partie qu’elle faisait avec un vieil ami, nous demanda la
permission de la finir en deux minutes et tout en causant
avec nous. D’ailleurs, ce que je lui dis de mes impressions ne
lui fut qu’à demi agréable. D’abord j’étais scandalisé de voir
qu’elle et son mari rentraient tous les jours longtemps avant
l’heure de ces couchers de soleil qui passaient pour si beaux,
vus de cette falaise, plus encore de la terrasse de la
Raspelière, et pour lesquels j’aurais fait des lieues. « Oui, c’est
incomparable, dit légèrement Mme Verdurin en jetant un
coup d’œil sur les immenses croisées qui faisaient porte
vitrée. Nous avons beau voir cela tout le temps, nous ne
nous en lassons pas », et elle ramena ses regards vers ses
cartes. Or, mon enthousiasme même me rendait exigeant. Je
me plaignais de ne pas voir du salon les rochers de Darnetal
qu’Elstir m’avait dit adorables à ce moment où ils
réfractaient tant de couleurs. « Ah ! vous ne pouvez pas les
voir d’ici, il faudrait aller au bout du parc, à la « Vue de la
baie ». Du banc qui est là-bas vous embrassez tout le
panorama. Mais vous ne pouvez pas y aller tout seul, vous
vous perdriez. Je vais vous y conduire, si vous voulez,
ajouta-t-elle mollement. – Mais non, voyons, tu n’as pas
assez des douleurs que tu as prises l’autre jour, tu veux en
prendre de nouvelles. Il reviendra, il verra la vue de la baie
une autre fois. » Je n’insistai pas, et je compris qu’il suffisait
aux Verdurin de savoir que ce soleil couchant était, jusque
dans leur salon ou dans leur salle à manger, comme une
magnifique peinture, comme un précieux émail japonais,
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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justifiant le prix élevé auquel ils louaient la Raspelière toute
meublée, mais vers lequel ils levaient rarement les yeux ; leur
grande affaire ici était de vivre agréablement, de se
promener, de bien manger, de causer, de recevoir d’agréables
amis à qui ils faisaient faire d’amusantes parties de billard, de
bons repas, de joyeux goûters. Je vis cependant plus tard
avec quelle intelligence ils avaient appris à connaître ce pays,
faisant faire à leurs hôtes des promenades aussi « inédites »
que la musique qu’ils leur faisaient écouter. Le rôle que les
fleurs de la Raspelière, les chemins le long de la mer, les
vieilles maisons, les églises inconnues, jouaient dans la vie de
M. Verdurin était si grand, que ceux qui ne le voyaient qu’à
Paris et qui, eux, remplaçaient la vie au bord de la mer et à la
campagne par des luxes citadins, pouvaient à peine
comprendre l’idée que lui-même se faisait de sa propre vie,
et l’importance que ses joies lui donnaient à ses propres
yeux. Cette importance était encore accrue du fait que les
Verdurin étaient persuadés que la Raspelière, qu’ils
comptaient acheter, était une propriété unique au monde.
Cette supériorité que leur amour-propre leur faisait attribuer
à la Raspelière justifia à leurs yeux mon enthousiasme qui,
sans cela, les eût agacés un peu, à cause des déceptions qu’il
comportait (comme celles que l’audition de la Berma m’avait
jadis causées) et dont je leur faisais l’aveu sincère.
« J’entends la voiture qui revient », murmura tout à coup la
Patronne. Disons en un mot que Mme Verdurin, en dehors
même des changements inévitables de l’âge, ne ressemblait
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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plus à ce qu’elle était au temps où Swann et Odette
écoutaient chez elle la petite phrase. Même quand on la
jouait, elle n’était plus obligée à l’air exténué d’admiration
qu’elle prenait autrefois, car celui-ci était devenu sa figure.
Sous l’action des innombrables névralgies que la musique de
Bach, de Wagner, de Vinteuil, de Debussy lui avait
occasionnées, le front de Mme Verdurin avait pris des
proportions énormes, comme les membres qu’un
rhumatisme finit par déformer. Ses tempes, pareilles à deux
belles sphères brûlantes, endolories et laiteuses, où roule
immortellement l’Harmonie, rejetaient, de chaque côté, des
mèches argentées, et proclamaient, pour le compte de la
Patronne, sans que celle-ci eût besoin de parler : « Je sais ce
qui m’attend ce soir. » Ses traits ne prenaient plus la peine de
formuler successivement des impressions esthétiques trop
fortes, car ils étaient eux-mêmes comme leur expression
permanente dans un visage ravagé et superbe. Cette attitude
de résignation aux souffrances toujours prochaines infligées
par le Beau, et du courage qu’il y avait eu à mettre une robe
quand on relevait à peine de la dernière sonate, faisait que
Mme Verdurin, même pour écouter la plus cruelle musique,
gardait un visage dédaigneusement impassible et se cachait
même pour avaler les deux cuillerées d’aspirine.
« Ah ! oui, les voici », s’écria M. Verdurin avec soulagement
en voyant la porte s’ouvrir sur Morel suivi de M. de Charlus.
Celui-ci, pour qui dîner chez les Verdurin n’était nullement
aller dans le monde, mais dans un mauvais lieu, était intimidé
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comme un collégien qui entre pour la première fois dans une
maison publique et a mille respects pour la patronne. Aussi
le désir habituel qu’avait M. de Charlus de paraître viril et
froid fut-il dominé (quand il apparut dans la porte ouverte)
par ces idées de politesse traditionnelles qui se réveillent dès
que la timidité détruit une attitude factice et fait appel aux
ressources de l’inconscient. Quand c’est dans un Charlus,
qu’il soit d’ailleurs noble ou bourgeois, qu’agit un tel
sentiment de politesse instinctive et atavique envers des
inconnus, c’est toujours l’âme d’une parente du sexe féminin,
auxiliatrice comme une déesse ou incarnée comme un
double, qui se charge de l’introduire dans un salon nouveau
et de modeler son attitude jusqu’à ce qu’il soit arrivé devant
la maîtresse de maison. Tel jeune peintre, élevé par une
sainte cousine protestante, entrera la tête oblique et
chevrotante, les yeux au ciel, les mains cramponnées à un
manchon invisible, dont la forme évoquée et la présence
réelle et tutélaire aideront l’artiste intimidé à franchir sans
agoraphobie l’espace creusé d’abîmes qui va de l’antichambre
au petit salon. Ainsi la pieuse parente dont le souvenir le
guide aujourd’hui entrait il y a bien des années, et d’un air si
gémissant qu’on se demandait quel malheur elle venait
annoncer quand, à ses premières paroles, on comprenait,
comme maintenant pour le peintre, qu’elle venait faire une
visite de digestion. En vertu de cette même loi, qui veut que
la vie, dans l’intérêt de l’acte encore inaccompli, fasse servir,
utilise, dénature, dans une perpétuelle prostitution, les legs
les plus respectables, parfois les plus saints, quelquefois
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seulement les plus innocents du passé, et bien qu’elle
engendrât alors un aspect différent, celui des neveux de
Mme Cottard qui affligeait sa famille par ses manières
efféminées et ses fréquentations faisait toujours une entrée
joyeuse, comme s’il venait vous faire une surprise ou vous
annoncer un héritage, illuminé d’un bonheur dont il eût été
vain de lui demander la cause qui tenait à son hérédité
inconsciente et à son sexe déplacé. Il marchait sur les
pointes, était sans doute lui-même étonné de ne pas tenir à la
main un carnet de cartes de visites, tendait la main en
ouvrant la bouche en cœur comme il avait vu sa tante le
faire, et son seul regard inquiet était pour la glace où il
semblait vouloir vérifier, bien qu’il fût nu-tête, si son
chapeau, comme avait un jour demandé Mme Cottard à
Swann, n’était pas de travers. Quant à M. de Charlus, à qui la
société où il avait vécu fournissait, à cette minute critique,
des exemples différents, d’autres arabesques d’amabilité, et
enfin la maxime qu’on doit savoir dans certains cas, pour de
simples petits bourgeois, mettre au jour et faire servir ses
grâces les plus rares et habituellement gardées en réserve,
c’est en se trémoussant, avec mièvrerie et la même ampleur
dont un enjuponnement eût élargi et gêné ses dandinements,
qu’il se dirigea vers Mme Verdurin, avec un air si flatté et si
honoré qu’on eût dit qu’être présenté chez elle était pour lui
une suprême faveur. Son visage à demi incliné, où la
satisfaction le disputait au comme il faut, se plissait de petites
rides d’affabilité. On aurait cru voir s’avancer Mme de
Marsantes, tant ressortait à ce moment la femme qu’une
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erreur de la nature avait mise dans le corps de M. de Charlus.
Certes cette erreur, le baron avait durement peiné pour la
dissimuler et prendre une apparence masculine. Mais à peine
y était-il parvenu que, ayant pendant le même temps gardé
les mêmes goûts, cette habitude de sentir en femme lui
donnait une nouvelle apparence féminine, née celle-là non
de l’hérédité, mais de la vie individuelle. Et comme il arrivait
peu à peu à penser, même les choses sociales, au féminin, et
cela sans s’en apercevoir, car ce n’est pas qu’à force de
mentir aux autres, mais aussi de se mentir à soi-même, qu’on
cesse de s’apercevoir qu’on ment, bien qu’il eût demandé à
son corps de rendre manifeste (au moment où il entrait chez
les Verdurin) toute la courtoisie d’un grand seigneur, ce
corps, qui avait bien compris ce que M. de Charlus avait
cessé d’entendre, déploya, au point que le baron eût mérité
l’épithète de lady-like, toutes les séductions d’une grande
dame. Au reste, peut-on séparer entièrement l’aspect de M.
de Charlus du fait que les fils, n’ayant pas toujours la
ressemblance paternelle, même sans être invertis et en
recherchant des femmes, consomment dans leur visage la
profanation de leur mère ? Mais laissons ici ce qui mériterait
un chapitre à part : les mères profanées.
Bien que d’autres raisons présidassent à cette transformation
de M. de Charlus et que des ferments purement physiques
fissent « travailler chez lui » la matière, et passer peu à peu
son corps dans la catégorie des corps de femme, pourtant le
changement que nous marquons ici était d’origine spirituelle.
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À force de se croire malade, on le devient, on maigrit, on n’a
plus la force de se lever, on a des entérites nerveuses. À
force de penser tendrement aux hommes on devient femme,
et une robe postiche entrave vos pas. L’idée fixe peut
modifier (aussi bien que, dans d’autres cas, la santé) dans
ceux-là le sexe. Morel, qui le suivait, vint me dire bonjour.
Dès ce moment-là, à cause d’un double changement qui se
produisit en lui, il me donna (hélas ! je ne sus pas assez tôt
en tenir compte) une mauvaise impression. Voici pourquoi.
J’ai dit que Morel, échappé de la servitude de son père, se
complaisait en général à une familiarité fort dédaigneuse. Il
m’avait parlé, le jour où il m’avait apporté les photographies,
sans même me dire une seule fois Monsieur, me traitant de
haut en bas. Quelle fut ma surprise chez Mme Verdurin de le
voir s’incliner très bas devant moi, et devant moi seul, et
d’entendre, avant même qu’il eût prononcé d’autre parole,
les mots de respect, de très respectueux – ces mots que je
croyais impossibles à amener sous sa plume ou sur ses lèvres
– à moi adressés. J’eus aussitôt l’impression qu’il avait
quelque chose à me demander. Me prenant à part au bout
d’une minute : « Monsieur me rendrait bien grand service,
me dit-il, allant cette fois jusqu’à me parler à la troisième
personne, en cachant entièrement à Mme Verdurin et à ses
invités le genre de profession que mon père a exercé chez
son oncle. Il vaudrait mieux dire qu’il était, dans votre
famille, l’intendant de domaines si vastes, que cela le faisait
presque l’égal de vos parents. » La demande de Morel me
contrariait infiniment, non pas en ce qu’elle me forçait à
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grandir la situation de son père, ce qui m’était tout à fait égal,
mais la fortune au moins apparente du mien, ce que je
trouvais ridicule. Mais son air était si malheureux, si urgent
que je ne refusai pas. « Non, avant dîner, dit-il d’un ton
suppliant, Monsieur a mille prétextes pour prendre à part
Mme Verdurin. » C’est ce que je fis en effet, en tâchant de
rehausser de mon mieux l’éclat du père de Morel, sans trop
exagérer le « train » ni les « biens au soleil » de mes parents.
Cela passa comme une lettre à la poste, malgré l’étonnement
de Mme Verdurin qui avait connu vaguement mon grandpère. Et comme elle n’avait pas de tact, haïssait les familles
(ce dissolvant du petit noyau), après m’avoir dit qu’elle avait
autrefois aperçu mon arrière-grand-père et m’en avoir parlé
comme de quelqu’un d’à peu près idiot qui n’eût rien
compris au petit groupe et qui, selon son expression, « n’en
était pas », elle me dit : « C’est, du reste, si ennuyeux les
familles, on n’aspire qu’à en sortir » ; et aussitôt elle me
raconta sur le père de mon grand-père ce trait que j’ignorais,
bien qu’à la maison j’eusse soupçonné (je ne l’avais pas
connu, mais on parlait beaucoup de lui) sa rare avarice
(opposée à la générosité un peu trop fastueuse de mon
grand-oncle, l’ami de la dame en rose et le patron du père de
Morel) : « Du moment que vos grands-parents avaient un
intendant si chic, cela prouve qu’il y a des gens de toutes les
couleurs dans les familles. Le père de votre grand-père était
si avare que, presque gâteux à la fin de sa vie – entre nous il
n’a jamais été bien fort, vous les rachetez tous, – il ne se
résignait pas à dépenser trois sous pour son omnibus. De
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sorte qu’on avait été obligé de le faire suivre, de payer
séparément le conducteur, et de faire croire au vieux grigou
que son ami, M. de Persigny, ministre d’État, avait obtenu
qu’il circulât pour rien dans les omnibus. Du reste, je suis
très contente que le père de notre Morel ait été si bien.
J’avais compris qu’il était professeur de lycée, ça ne fait rien,
j’avais mal compris. Mais c’est de peu d’importance car je
vous dirai qu’ici nous n’apprécions que la valeur propre, la
contribution personnelle, ce que j’appelle la participation.
Pourvu qu’on soit d’art, pourvu en un mot qu’on soit de la
confrérie, le reste importe peu. » La façon dont Morel en
était – autant que j’ai pu l’apprendre – était qu’il aimait assez
les femmes et les hommes pour faire plaisir à chaque sexe à
l’aide de ce qu’il avait expérimenté sur l’autre – c’est ce qu’on
verra plus tard. Mais ce qui est essentiel à dire ici, c’est que,
dès que je lui eus donné ma parole d’intervenir auprès de
Mme Verdurin, dès que je l’eus fait surtout, et sans retour
possible en arrière, le « respect » de Morel à mon égard
s’envola comme par enchantement, les formules
respectueuses disparurent, et même pendant quelque temps
il m’évita, s’arrangeant pour avoir l’air de me dédaigner, de
sorte que, si Mme Verdurin voulait que je lui disse quelque
chose, lui demandasse tel morceau de musique, il continuait
à parler avec un fidèle, puis passait à un autre, changeait de
place si j’allais à lui. On était obligé de lui dire jusqu’à trois
ou quatre fois que je lui avais adressé la parole, après quoi il
me répondait, l’air contraint, brièvement, à moins que nous
ne fussions seuls. Dans ce cas-là il était expansif, amical, car
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il avait des parties de caractère charmantes. Je n’en conclus
pas moins de cette première soirée que sa nature devait être
vile, qu’il ne reculait quand il le fallait devant aucune
platitude, ignorait la reconnaissance. En quoi il ressemblait
au commun des hommes. Mais comme j’avais en moi un peu
de ma grand’mère et me plaisais à la diversité des hommes
sans rien attendre d’eux ou leur en vouloir, je négligeai sa
bassesse, je me plus à sa gaieté quand cela se présenta, même
à ce que je crois avoir été une sincère amitié de sa part
quand, ayant fait tout le tour de ses fausses connaissances de
la nature humaine, il s’aperçut (par à-coups, car il avait
d’étranges retours à sa sauvagerie primitive et aveugle) que
ma douceur avec lui était désintéressée, que mon indulgence
ne venait pas d’un manque de clairvoyance, mais de ce qu’il
appela bonté, et surtout je m’enchantai à son art, qui n’était
guère qu’une virtuosité admirable mais me faisait (sans qu’il
fût au sens intellectuel du mot un vrai musicien) réentendre
ou connaître tant de belle musique. D’ailleurs un manager,
M. de Charlus (chez qui j’ignorais ces talents, bien que Mme
de Guermantes, qui l’avait connu fort différent dans leur
jeunesse, prétendît qu’il lui avait fait une sonate, peint un
éventail, etc...), modeste en ce qui concernait ses vraies
supériorités, mais de tout premier ordre, sut mettre cette
virtuosité au service d’un sens artistique multiple et qu’il
décupla. Qu’on imagine quelque artiste, purement adroit, des
ballets russes, stylé, instruit, développé en tous sens par M.
de Diaghilew.
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Je venais de transmettre à Mme Verdurin le message dont
m’avait chargé Morel, et je parlais de Saint-Loup avec M. de
Charlus, quand Cottard entra au salon en annonçant, comme
s’il y avait le feu, que les Cambremer arrivaient. Mme
Verdurin, pour ne pas avoir l’air, vis-à-vis de nouveaux
comme M. de Charlus (que Cottard n’avait pas vu) et
comme moi, d’attacher tant d’importance à l’arrivée des
Cambremer, ne bougea pas, ne répondit pas à l’annonce de
cette nouvelle et se contenta de dire au docteur, en
s’éventant avec grâce, et du même ton factice qu’une
marquise du Théâtre-Français : « Le baron nous disait
justement... » C’en était trop pour Cottard ! Moins vivement
qu’il n’eût fait autrefois, car l’étude et les hautes situations
avaient ralenti son débit, mais avec cette émotion tout de
même qu’il retrouvait chez les Verdurin : « Un baron ! Où
ça, un baron ? Où ça, un baron ? » s’écria-t-il en le cherchant
des yeux avec un étonnement qui frisait l’incrédulité. Mme
Verdurin, avec l’indifférence affectée d’une maîtresse de
maison à qui un domestique vient, devant les invités, de
casser un verre de prix, et avec l’intonation artificielle et
surélevée d’un premier prix du Conservatoire jouant du
Dumas fils, répondit, en désignant avec son éventail le
protecteur de Morel : « Mais, le baron de Charlus, à qui je
vais vous nommer... Monsieur le professeur Cottard. » Il ne
déplaisait d’ailleurs pas à Mme Verdurin d’avoir l’occasion de
jouer à la dame. M. de Charlus tendit deux doigts que le
professeur serra avec le sourire bénévole d’un « prince de la
science ». Mais il s’arrêta net en voyant entrer les
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Cambremer, tandis que M. de Charlus m’entraînait dans un
coin pour me dire un mot, non sans palper mes muscles, ce
qui est une manière allemande. M. de Cambremer ne
ressemblait guère à la vieille marquise. Il était, comme elle le
disait avec tendresse, « tout à fait du côté de son papa ».
Pour qui n’avait entendu que parler de lui, ou même de
lettres de lui, vives et convenablement tournées, son
physique étonnait. Sans doute devait-on s’y habituer. Mais
son nez avait choisi, pour venir se placer de travers audessus de sa bouche, peut-être la seule ligne oblique, entre
tant d’autres, qu’on n’eût eu l’idée de tracer sur ce visage, et
qui signifiait une bêtise vulgaire, aggravée encore par le
voisinage d’un teint normand à la rougeur de pommes. Il est
possible que les yeux de M. de Cambremer gardassent dans
leurs paupières un peu de ce ciel du Cotentin, si doux par les
beaux jours ensoleillés, où le promeneur s’amuse à voir,
arrêtées au bord de la route, et à compter par centaines les
ombres des peupliers, mais ces paupières lourdes,
chassieuses et mal rabattues, eussent empêché l’intelligence
elle-même de passer. Aussi, décontenancé par la minceur de
ce regard bleu, se reportait-on au grand nez de travers. Par
une transposition de sens, M. de Cambremer vous regardait
avec son nez. Ce nez de M. de Cambremer n’était pas laid,
plutôt un peu trop beau, trop fort, trop fier de son
importance. Busqué, astiqué, luisant, flambant neuf, il était
tout disposé à compenser l’insuffisance spirituelle du regard ;
malheureusement, si les yeux sont quelquefois l’organe où se
révèle l’intelligence, le nez (quelle que soit d’ailleurs l’intime
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solidarité et la répercussion insoupçonnée des traits les uns
sur les autres), le nez est généralement l’organe où s’étale le
plus aisément la bêtise.
La convenance de vêtements sombres que portait toujours,
même le matin, M. de Cambremer, avait beau rassurer ceux
qu’éblouissait et exaspérait l’insolent éclat des costumes de
plage des gens qu’ils ne connaissaient pas, on ne pouvait
comprendre que la femme du premier président déclarât
d’un air de flair et d’autorité, en personne qui a plus que
vous l’expérience de la haute société d’Alençon, que devant
M. de Cambremer on se sentait tout de suite, même avant de
savoir qui il était, en présence d’un homme de haute
distinction, d’un homme parfaitement bien élevé, qui
changeait du genre de Balbec, un homme enfin auprès de qui
on pouvait respirer. Il était pour elle, asphyxiée par tant de
touristes de Balbec, qui ne connaissaient pas son monde,
comme un flacon de sels. Il me sembla au contraire qu’il
était des gens que ma grand’mère eût trouvés tout de suite «
très mal », et, comme elle ne comprenait pas le snobisme,
elle eût sans doute été stupéfaite qu’il eût réussi à être épousé
par Mlle Legrandin qui devait être difficile en fait de
distinction, elle dont le frère était « si bien ». Tout au plus
pouvait-on dire de la laideur vulgaire de M. de Cambremer
qu’elle était un peu du pays et avait quelque chose de très
anciennement local ; on pensait, devant ses traits fautifs et
qu’on eût voulu rectifier, à ces noms de petites villes
normandes sur l’étymologie desquels mon curé se trompait
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parce que les paysans, articulant mal ou ayant compris de
travers le mot normand ou latin qui les désigne, ont fini par
fixer dans un barbarisme qu’on trouve déjà dans les
cartulaires, comme eût dit Brichot, un contre-sens et un vice
de prononciation. La vie dans ces vieilles petites villes peut
d’ailleurs se passer agréablement, et M. de Cambremer devait
avoir des qualités, car, s’il était d’une mère que la vieille
marquise préférât son fils à sa belle-fille, en revanche, elle qui
avait plusieurs enfants, dont deux au moins n’étaient pas
sans mérites, déclarait souvent que le marquis était à son avis
le meilleur de la famille. Pendant le peu de temps qu’il avait
passé dans l’armée, ses camarades, trouvant trop long de dire
Cambremer, lui avaient donné le surnom de Cancan, qu’il
n’avait d’ailleurs mérité en rien. Il savait orner un dîner où
on l’invitait en disant au moment du poisson (le poisson fûtil pourri) ou à l’entrée : « Mais dites donc, il me semble que
voilà une belle bête. » Et sa femme, ayant adopté en entrant
dans la famille tout ce qu’elle avait cru faire partie du genre
de ce monde-là, se mettait à la hauteur des amis de son mari
et peut-être cherchait à lui plaire comme une maîtresse et
comme si elle avait jadis été mêlée à sa vie de garçon, en
disant d’un air dégagé, quand elle parlait de lui à des officiers
: « Vous allez voir Cancan. Cancan est allé à Balbec, mais il
reviendra ce soir. » Elle était furieuse de se compromettre ce
soir chez les Verdurin et ne le faisait qu’à la prière de sa
belle-mère et de son mari, dans l’intérêt de la location. Mais,
moins bien élevée qu’eux, elle ne se cachait pas du motif et
depuis quinze jours faisait avec ses amies des gorges chaudes
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de ce dîner. « Vous savez que nous dînons chez nos
locataires. Cela vaudra bien une augmentation. Au fond, je
suis assez curieuse de savoir ce qu’ils ont pu faire de notre
pauvre vieille Raspelière (comme si elle y fût née, et y
retrouvât tous les souvenirs des siens). Notre vieux garde
m’a encore dit hier qu’on ne reconnaissait plus rien. Je n’ose
pas penser à tout ce qui doit se passer là dedans. Je crois que
nous ferons bien de faire désinfecter tout, avant de nous
réinstaller. » Elle arriva hautaine et morose, de l’air d’une
grande dame dont le château, du fait d’une guerre, est
occupé par les ennemis, mais qui se sent tout de même chez
elle et tient à montrer aux vainqueurs qu’ils sont des intrus.
Mme de Cambremer ne put me voir d’abord, car j’étais dans
une baie latérale avec M. de Charlus, lequel me disait avoir
appris par Morel que son père avait été « intendant » dans
ma famille, et qu’il comptait suffisamment, lui Charlus, sur
mon intelligence et ma magnanimité (terme commun à lui et
à Swann) pour me refuser l’ignoble et mesquin plaisir que de
vulgaires petits imbéciles (j’étais prévenu) ne manqueraient
pas, à ma place, de prendre en révélant à nos hôtes des
détails que ceux-ci pourraient croire amoindrissants. « Le
seul fait que je m’intéresse à lui et étende sur lui ma
protection a quelque chose de suréminent et abolit le passé »,
conclut le baron. Tout en l’écoutant et en lui promettant le
silence, que j’aurais gardé même sans l’espoir de passer en
échange pour intelligent et magnanime, je regardais Mme de
Cambremer. Et j’eus peine à reconnaître la chose fondante et
savoureuse que j’avais eue l’autre jour auprès de moi à
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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l’heure du goûter, sur la terrasse de Balbec, dans la galette
normande que je voyais, dure comme un galet, où les fidèles
eussent en vain essayé de mettre la dent. Irritée d’avance du
côté bonasse que son mari tenait de sa mère et qui lui ferait
prendre un air honoré quand on lui présenterait l’assistance
des fidèles, désireuse pourtant de remplir ses fonctions de
femme du monde, quand on lui eut nommé Brichot, elle
voulut lui faire faire la connaissance de son mari parce
qu’elle avait vu ses amies plus élégantes faire ainsi, mais la
rage ou l’orgueil l’emportant sur l’ostentation du savoirvivre, elle dit, non comme elle aurait dû : « Permettez-moi de
vous présenter mon mari », mais : « Je vous présente à mon
mari », tenant haut ainsi le drapeau des Cambremer, en dépit
d’eux-mêmes, car le marquis s’inclina devant Brichot aussi
bas qu’elle avait prévu. Mais toute cette humeur de Mme de
Cambremer changea soudain quand elle aperçut M. de
Charlus, qu’elle connaissait de vue. Jamais elle n’avait réussi à
se le faire présenter, même au temps de la liaison qu’elle
avait eue avec Swann. Car M. de Charlus, prenant toujours le
parti des femmes, de sa belle-sœur contre les maîtresses de
M. de Guermantes, d’Odette, pas encore mariée alors, mais
vieille liaison de Swann, contre les nouvelles, avait, sévère
défenseur de la morale et protecteur fidèle des ménages,
donné à Odette – et tenu – la promesse de ne pas se laisser
nommer à Mme de Cambremer. Celle-ci ne s’était certes pas
doutée que c’était chez les Verdurin qu’elle connaîtrait enfin
cet homme inapprochable. M. de Cambremer savait que
c’était une si grande joie pour elle qu’il en était lui-même
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attendri, et qu’il regarda sa femme d’un air qui signifiait : «
Vous êtes contente de vous être décidée à venir, n’est-ce pas
? » Il parlait du reste fort peu, sachant qu’il avait épousé une
femme supérieure. « Moi, indigne », disait-il à tout moment,
et citait volontiers une fable de La Fontaine et une de
Florian qui lui paraissaient s’appliquer à son ignorance, et,
d’autre part, lui permettre, sous les formes d’une
dédaigneuse flatterie, de montrer aux hommes de science qui
n’étaient pas du Jockey qu’on pouvait chasser et avoir lu des
fables. Le malheur est qu’il n’en connaissait guère que deux.
Aussi revenaient-elles souvent. Mme de Cambremer n’était
pas bête, mais elle avait diverses habitudes fort agaçantes.
Chez elle la déformation des noms n’avait absolument rien
du dédain aristocratique. Ce n’est pas elle qui, comme la
duchesse de Guermantes (laquelle par sa naissance eût dû
être, plus que Mme de Cambremer, à l’abri de ce ridicule),
eût dit, pour ne pas avoir l’air de savoir le nom peu élégant
(alors qu’il est maintenant celui d’une des femmes les plus
difficiles à approcher) de Julien de Monchâteau : « une petite
Madame... Pic de la Mirandole ». Non, quand Mme de
Cambremer citait à faux un nom, c’était par bienveillance,
pour ne pas avoir l’air de savoir quelque chose et quand, par
sincérité, pourtant elle l’avouait, croyant le cacher en le
démarquant. Si, par exemple, elle défendait une femme, elle
cherchait à dissimuler, tout en voulant ne pas mentir à qui la
suppliait de dire la vérité, que Madame une telle était
actuellement la maîtresse de M. Sylvain Lévy, et elle disait : «
Non... je ne sais absolument rien sur elle, je crois qu’on lui a
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reproché d’avoir inspiré une passion à un monsieur dont je
ne sais pas le nom, quelque chose comme Cahn, Kohn,
Kuhn ; du reste, je crois que ce monsieur est mort depuis
fort longtemps et qu’il n’y a jamais rien eu entre eux. » C’est
le procédé semblable à celui des menteurs – et inverse du
leur – qui, en altérant ce qu’ils ont fait quand ils le racontent
à une maîtresse ou simplement à un ami, se figurent que
l’une ou l’autre ne verra pas immédiatement que la phrase
dite (de même que Cahn, Kohn, Kuhn) est interpolée, est
d’une autre espèce que celles qui composent la conversation,
est à double fond.
Mme Verdurin demanda à l’oreille de son mari : « Est-ce que
je donne le bras au baron de Charlus ? Comme tu auras à ta
droite Mme de Cambremer, on aurait pu croiser les
politesses. – Non, dit M. Verdurin, puisque l’autre est plus
élevé en grade (voulant dire que M. de Cambremer était
marquis), M. de Charlus est en somme son inférieur. – Eh
bien, je le mettrai à côté de la princesse. » Et Mme Verdurin
présenta à M. de Charlus Mme Sherbatoff ; ils s’inclinèrent
en silence tous deux, de l’air d’en savoir long l’un sur l’autre
et de se promettre un mutuel secret. M. Verdurin me
présenta à M. de Cambremer. Avant même qu’il n’eût parlé
de sa voix forte et légèrement bégayante, sa haute taille et sa
figure colorée manifestaient dans leur oscillation l’hésitation
martiale d’un chef qui cherche à vous rassurer et vous dit : «
On m’a parlé, nous arrangerons cela ; je vous ferai lever
votre punition ; nous ne sommes pas des buveurs de sang ;
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tout ira bien. » Puis, me serrant la main : « Je crois que vous
connaissez ma mère », me dit-il. Le verbe « croire » lui
semblait d’ailleurs convenir à la discrétion d’une première
présentation mais nullement exprimer un doute, car il ajouta
: « J’ai du reste une lettre d’elle pour vous. » M. de
Cambremer était naïvement heureux de revoir des lieux où il
avait vécu si longtemps. « Je me retrouve », dit-il à Mme
Verdurin, tandis que son regard s’émerveillait de reconnaître
les peintures de fleurs en trumeaux au-dessus des portes, et
les bustes en marbre sur leurs hauts socles. Il pouvait
pourtant se trouver dépaysé, car Mme Verdurin avait
apporté quantité de vieilles belles choses qu’elle possédait. À
ce point de vue, Mme Verdurin, tout en passant aux yeux
des Cambremer pour tout bouleverser, était non pas
révolutionnaire mais intelligemment conservatrice, dans un
sens qu’ils ne comprenaient pas. Ils l’accusaient aussi à tort
de détester la vieille demeure et de la déshonorer par de
simples toiles au lieu de leur riche peluche, comme un curé
ignorant reprochant à un architecte diocésain de remettre en
place de vieux bois sculptés laissés au rancart et auxquels
l’ecclésiastique avait cru bon de substituer des ornements
achetés place Saint-Sulpice. Enfin, un jardin de curé
commençait à remplacer devant le château les plates-bandes
qui faisaient l’orgueil non seulement des Cambremer mais de
leur jardinier. Celui-ci, qui considérait les Cambremer
comme ses seuls maîtres et gémissait sous le joug des
Verdurin, comme si la terre eût été momentanément
occupée par un envahisseur et une troupe de soudards, allait
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en secret porter ses doléances à la propriétaire dépossédée,
s’indignait du mépris où étaient tenus ses araucarias, ses
bégonias, ses joubarbes, ses dahlias doubles, et qu’on osât
dans une aussi riche demeure faire pousser des fleurs aussi
communes que des anthémis et des cheveux de Vénus. Mme
Verdurin sentait cette sourde opposition et était décidée, si
elle faisait un long bail ou même achetait la Raspelière, à
mettre comme condition le renvoi du jardinier, auquel la
vieille propriétaire au contraire tenait extrêmement. Il l’avait
servie pour rien dans des temps difficiles, l’adorait ; mais par
ce morcellement bizarre de l’opinion des gens du peuple, où
le mépris moral le plus profond s’enclave dans l’estime la
plus passionnée, laquelle chevauche à son tour de vieilles
rancunes inabolies, il disait souvent de Mme de Cambremer
qui, en 70, dans un château qu’elle avait dans l’Est, surprise
par l’invasion, avait dû souffrir pendant un mois le contact
des Allemands : « Ce qu’on a beaucoup reproché à Madame
la marquise, c’est, pendant la guerre, d’avoir pris le parti des
Prussiens et de les avoir même logés chez elle. À un autre
moment, j’aurais compris ; mais en temps de guerre, elle
n’aurait pas dû. C’est pas bien. » De sorte qu’il lui était fidèle
jusqu’à la mort, la vénérait pour sa bonté et accréditait
qu’elle se fût rendue coupable de trahison. Mme Verdurin
fut piquée que M. de Cambremer prétendît reconnaître si
bien la Raspelière. « Vous devez pourtant trouver quelques
changements, répondit-elle. Il y a d’abord de grands diables
de bronze de Barbedienne et de petits coquins de sièges en
peluche que je me suis empressée d’expédier au grenier, qui
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est encore trop bon pour eux. » Après cette acerbe riposte
adressée à M. de Cambremer, elle lui offrit le bras pour aller
à table. Il hésita un instant, se disant : « Je ne peux tout de
même pas passer avant M. de Charlus. » Mais, pensant que
celui-ci était un vieil ami de la maison du moment qu’il
n’avait pas la place d’honneur, il se décida à prendre le bras
qui lui était offert et dit à Mme Verdurin combien il était fier
d’être admis dans le cénacle (c’est ainsi qu’il appela le petit
noyau, non sans rire un peu de la satisfaction de connaître ce
terme). Cottard, qui était assis à côté de M. de Charlus, le
regardait, pour faire connaissance, sous son lorgnon, et pour
rompre la glace, avec des clignements beaucoup plus
insistants qu’ils n’eussent été jadis, et non coupés de
timidités. Et ses regards engageants, accrus par leur sourire,
n’étaient plus contenus par le verre du lorgnon et le
débordaient de tous côtés. Le baron, qui voyait facilement
partout des pareils à lui, ne douta pas que Cottard n’en fût
un et ne lui fît de l’œil. Aussitôt il témoigna au professeur la
dureté des invertis, aussi méprisants pour ceux à qui ils
plaisent qu’ardemment empressés auprès de ceux qui leur
plaisent. Sans doute, bien que chacun parle mensongèrement
de la douceur, toujours refusée par le destin, d’être aimé,
c’est une loi générale, et dont l’empire est bien loin de
s’étendre sur les seuls Charlus, que l’être que nous n’aimons
pas et qui nous aime nous paraisse insupportable. À cet être,
à telle femme dont nous ne dirons pas qu’elle nous aime
mais qu’elle nous cramponne, nous préférons la société de
n’importe quelle autre qui n’aura ni son charme, ni son
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agrément, ni son esprit. Elle ne les recouvrera pour nous que
quand elle aura cessé de nous aimer. En ce sens, on pourrait
ne voir que la transposition, sous une forme cocasse, de
cette règle universelle, dans l’irritation causée chez un inverti
par un homme qui lui déplaît et le recherche. Mais elle est
chez lui bien plus forte. Aussi, tandis que le commun des
hommes cherche à la dissimuler tout en l’éprouvant, l’inverti
la fait implacablement sentir à celui qui la provoque, comme
il ne le ferait certainement pas sentir à une femme, M. de
Charlus, par exemple, à la princesse de Guermantes dont la
passion l’ennuyait, mais le flattait. Mais quand ils voient un
autre homme témoigner envers eux d’un goût particulier,
alors, soit incompréhension que ce soit le même que le leur,
soit fâcheux rappel que ce goût, embelli par eux tant que
c’est eux-mêmes qui l’éprouvent, est considéré comme un
vice, soit désir de se réhabiliter par un éclat dans une
circonstance où cela ne leur coûte pas, soit par une crainte
d’être devinés, qu’ils retrouvent soudain quand le désir ne les
mène plus, les yeux bandés, d’imprudence en imprudence,
soit par la fureur de subir, du fait de l’attitude équivoque
d’un autre, le dommage que par la leur, si cet autre leur
plaisait, ils ne craindraient pas de lui causer, ceux que cela
n’embarrasse pas de suivre un jeune homme pendant des
lieues, de ne pas le quitter des yeux au théâtre même s’il est
avec des amis, risquant par cela de le brouiller avec eux, on
peut les entendre, pour peu qu’un autre qui ne leur plaît pas
les regarde, dire : « Monsieur, pour qui me prenez-vous ?
(simplement parce qu’on les prend pour ce qu’ils sont) ; je ne
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vous comprends pas, inutile d’insister, vous faites erreur »,
aller au besoin jusqu’aux gifles, et, devant quelqu’un qui
connaît l’imprudent, s’indigner : « Comment, vous
connaissez cette horreur ? Elle a une façon de vous regarder
!... En voilà des manières ! » M. de Charlus n’alla pas aussi
loin, mais il prit l’air offensé et glacial qu’ont, lorsqu’on a l’air
de les croire légères, les femmes qui ne le sont pas, et encore
plus celles qui le sont. D’ailleurs, l’inverti, mis en présence
d’un inverti, voit non pas seulement une image déplaisante
de lui-même, qui ne pourrait, purement inanimée, que faire
souffrir son amour-propre, mais un autre lui-même, vivant,
agissant dans le même sens, capable donc de le faire souffrir
dans ses amours. Aussi est-ce dans un sens d’instinct de
conservation qu’il dira du mal du concurrent possible, soit
avec les gens qui peuvent nuire à celui-ci (et sans que l’inverti
nº 1 s’inquiète de passer pour menteur quand il accable ainsi
l’inverti nº 2 aux yeux de personnes qui peuvent être
renseignées sur son propre cas), soit avec le jeune homme
qu’il a « levé », qui va peut-être lui être enlevé et auquel il
s’agit de persuader que les mêmes choses qu’il a tout
avantage à faire avec lui causeraient le malheur de sa vie s’il
se laissait aller à les faire avec l’autre. Pour M. de Charlus, qui
pensait peut-être aux dangers (bien imaginaires) que la
présence de ce Cottard, dont il comprenait à faux le sourire,
ferait courir à Morel, un inverti qui ne lui plaisait pas n’était
pas seulement une caricature de lui-même, c’était aussi un
rival désigné. Un commerçant, et tenant un commerce rare,
en débarquant dans la ville de province où il vient s’installer
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pour la vie, s’il voit que, sur la même place, juste en face, le
même commerce est tenu par un concurrent, il n’est pas plus
déconfit qu’un Charlus allant cacher ses amours dans une
région tranquille et qui, le jour de l’arrivée, aperçoit le
gentilhomme du lieu, ou le coiffeur, desquels l’aspect et les
manières ne lui laissent aucun doute. Le commerçant prend
souvent son concurrent en haine ; cette haine dégénère
parfois en mélancolie, et pour peu qu’il y ait hérédité assez
chargée, on a vu dans des petites villes le commerçant
montrer des commencements de folie qu’on ne guérit qu’en
le décidant à vendre son « fonds » et à s’expatrier. La rage de
l’inverti est plus lancinante encore. Il a compris que, dès la
première seconde, le gentilhomme et le coiffeur ont désiré
son jeune compagnon. Il a beau répéter cent fois par jour à
celui-ci que le coiffeur et le gentilhomme sont des bandits
dont l’approche le déshonorerait, il est obligé, comme
Harpagon, de veiller sur son trésor et se relève la nuit pour
voir si on ne le lui prend pas. Et c’est ce qui fait sans doute,
plus encore que le désir ou la commodité d’habitudes
communes, et presque autant que cette expérience de soimême, qui est la seule vraie, que l’inverti dépiste l’inverti
avec une rapidité et une sûreté presque infaillibles. Il peut se
tromper un moment, mais une divination rapide le remet
dans la vérité. Aussi l’erreur de M. de Charlus fut-elle courte.
Le discernement divin lui montra au bout d’un instant que
Cottard n’était pas de sa sorte et qu’il n’avait à craindre ses
avances ni pour lui-même, ce qui n’eût fait que l’exaspérer, ni
pour Morel, ce qui lui eût paru plus grave. Il reprit son
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calme, et comme il était encore sous l’influence du passage
de Vénus androgyne, par moments il souriait faiblement aux
Verdurin, sans prendre la peine d’ouvrir la bouche, en
déplissant seulement un coin de lèvres, et pour une seconde
allumait câlinement ses yeux, lui si féru de virilité,
exactement comme eût fait sa belle-sœur la duchesse de
Guermantes. « Vous chassez beaucoup, Monsieur ? dit Mme
Verdurin avec mépris à M. de Cambremer. – Est-ce que Ski
vous a raconté qu’il nous en est arrivé une excellente ?
demanda Cottard à la Patronne. – Je chasse surtout dans la
forêt de Chantepie, répondit M. de Cambremer. – Non, je
n’ai rien raconté, dit Ski. – Mérite-t-elle son nom ? »
demanda Brichot à M. de Cambremer, après m’avoir regardé
du coin de l’œil, car il m’avait promis de parler étymologies,
tout en me demandant de dissimuler aux Cambremer le
mépris que lui inspiraient celles du curé de Combray. « C’est
sans doute que je ne suis pas capable de comprendre, mais je
ne saisis pas votre question, dit M. de Cambremer. – Je veux
dire : Est-ce qu’il y chante beaucoup de pies ? » répondit
Brichot. Cottard cependant souffrait que Mme Verdurin
ignorât qu’ils avaient failli manquer le train. « Allons, voyons,
dit Mme Cottard à son mari pour l’encourager, raconte ton
odyssée. – En effet, elle sort de l’ordinaire, dit le docteur qui
recommença son récit. Quand j’ai vu que le train était en
gare, je suis resté médusé. Tout cela par la faute de Ski. Vous
êtes plutôt bizarroïde dans vos renseignements, mon cher !
Et Brichot qui nous attendait à la gare ! – Je croyais, dit
l’universitaire, en jetant autour de lui ce qui lui restait de
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regard et en souriant de ses lèvres minces, que si vous vous
étiez attardé à Graincourt, c’est que vous aviez rencontré
quelque péripatéticienne. – Voulez-vous vous taire ? si ma
femme vous entendait ! dit le professeur. La femme à moâ, il
est jalouse. – Ah ! ce Brichot, s’écria Ski, en qui l’égrillarde
plaisanterie de Brichot éveillait la gaieté de tradition, il est
toujours le même » ; bien qu’il ne sût pas, à vrai dire, si
l’universitaire avait jamais été polisson. Et pour ajouter à ces
paroles consacrées le geste rituel, il fit mine de ne pouvoir
résister au désir de lui pincer la jambe. « Il ne change pas ce
gaillard-là », continua Ski, et, sans penser à ce que la quasicécité de l’universitaire donnait de triste et de comique à ces
mots, il ajouta : « Toujours un petit œil pour les femmes. –
Voyez-vous, dit M. de Cambremer, ce que c’est que de
rencontrer un savant. Voilà quinze ans que je chasse dans la
forêt de Chantepie et jamais je n’avais réfléchi à ce que son
nom voulait dire. » Mme de Cambremer jeta un regard
sévère à son mari ; elle n’aurait pas voulu qu’il s’humiliât
ainsi devant Brichot. Elle fut plus mécontente encore quand,
à chaque expression « toute faite » qu’employait Cancan,
Cottard, qui en connaissait le fort et le faible parce qu’il les
avait laborieusement apprises, démontrait au marquis, lequel
confessait sa bêtise, qu’elles ne voulaient rien dire : «
Pourquoi : bête comme chou ? Croyez-vous que les choux
soient plus bêtes qu’autre chose ? Vous dites : répéter trentesix fois la même chose. Pourquoi particulièrement trente-six
? Pourquoi : dormir comme un pieu ? Pourquoi : Tonnerre
de Brest ? Pourquoi : faire les quatre cents coups ? » Mais
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alors la défense de M. de Cambremer était prise par Brichot,
qui expliquait l’origine de chaque locution. Mais Mme de
Cambremer était surtout occupée à examiner les
changements que les Verdurin avaient apportés à la
Raspelière, afin de pouvoir en critiquer certains, en importer
à Féterne d’autres, ou peut-être les mêmes. « Je me demande
ce que c’est que ce lustre qui s’en va tout de traviole. J’ai
peine à reconnaître ma vieille Raspelière », ajouta-t-elle d’un
air familièrement aristocratique, comme elle eût parlé d’un
serviteur dont elle eût prétendu moins désigner l’âge que dire
qu’il l’avait vu naître. Et comme elle était un peu livresque
dans son langage : « Tout de même, ajouta-t-elle à mi-voix, il
me semble que, si j’habitais chez les autres, j’aurais quelque
vergogne à tout changer ainsi. – C’est malheureux que vous
ne soyez pas venus avec eux », dit Mme Verdurin à M. de
Charlus et à Morel, espérant que M. de Charlus était de «
revue » et se plierait à la règle d’arriver tous par le même
train. « Vous êtes sûr que Chantepie veut dire la pie qui
chante, Chochotte ? » ajouta-t-elle pour montrer qu’en
grande maîtresse de maison elle prenait part à toutes les
conversations à la fois. « Parlez-moi donc un peu de ce
violoniste, me dit Mme de Cambremer, il m’intéresse ;
j’adore la musique, et il me semble que j’ai entendu parler de
lui, faites mon instruction. » Elle avait appris que Morel était
venu avec M. de Charlus et voulait, en faisant venir le
premier, tâcher de se lier avec le second. Elle ajouta
pourtant, pour que je ne pusse deviner cette raison : « M.
Brichot aussi m’intéresse. » Car si elle était fort cultivée, de
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même que certaines personnes prédisposées à l’obésité
mangent à peine et marchent toute la journée sans cesser
d’engraisser à vue d’œil, de même Mme de Cambremer avait
beau approfondir, et surtout à Féterne, une philosophie de
plus en plus ésotérique, une musique de plus en plus savante,
elle ne sortait de ces études que pour machiner des intrigues
qui lui permissent de « couper » les amitiés bourgeoises de sa
jeunesse et de nouer des relations qu’elle avait cru d’abord
faire partie de la société de sa belle-famille et qu’elle s’était
aperçue ensuite être situées beaucoup plus haut et beaucoup
plus loin. Un philosophe qui n’était pas assez moderne pour
elle, Leibnitz, a dit que le trajet est long de l’intelligence au
cœur. Ce trajet, Mme de Cambremer n’avait pas été, plus que
son frère, de force à le parcourir. Ne quittant la lecture de
Stuart Mill que pour celle de Lachelier, au fur et à mesure
qu’elle croyait moins à la réalité du monde extérieur, elle
mettait plus d’acharnement à chercher à s’y faire, avant de
mourir, une bonne position. Éprise d’art réaliste, aucun objet
ne lui paraissait assez humble pour servir de modèle au
peintre ou à l’écrivain. Un tableau ou un roman mondain lui
eussent donné la nausée ; un moujik de Tolstoï, un paysan de
Millet étaient l’extrême limite sociale qu’elle ne permettait
pas à l’artiste de dépasser. Mais franchir celle qui bornait ses
propres relations, s’élever jusqu’à la fréquentation de
duchesses, était le but de tous ses efforts, tant le traitement
spirituel auquel elle se soumettait, par le moyen de l’étude
des chefs-d’œuvre, restait inefficace contre le snobisme
congénital et morbide qui se développait chez elle. Celui-ci
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avait même fini par guérir certains penchants à l’avarice et à
l’adultère, auxquels, étant jeune, elle était encline, pareil en
cela à ces états pathologiques singuliers et permanents qui
semblent immuniser ceux qui en sont atteints contre les
autres maladies. Je ne pouvais, du reste, m’empêcher, en
l’entendant parler, de rendre justice, sans y prendre aucun
plaisir, au raffinement de ses expressions. C’étaient celles
qu’ont, à une époque donnée, toutes les personnes d’une
même envergure intellectuelle, de sorte que l’expression
raffinée fournit aussitôt, comme l’arc de cercle, le moyen de
décrire et de limiter toute la circonférence. Aussi ces
expressions font-elles que les personnes qui les emploient
m’ennuient immédiatement comme déjà connues, mais aussi
passent pour supérieures, et me furent souvent offertes
comme voisines délicieuses et inappréciées. « Vous n’ignorez
pas, Madame, que beaucoup de régions forestières tirent leur
nom des animaux qui les peuplent. À côté de la forêt de
Chantepie, vous avez le bois de Chantereine. – Je ne sais pas
de quelle reine il s’agit, mais vous n’êtes pas galant pour elle,
dit M. de Cambremer. – Attrapez, Chochotte, dit Mme
Verdurin. Et à part cela, le voyage s’est bien passé ? – Nous
n’avons rencontré que de vagues humanités qui
remplissaient le train. Mais je réponds à la question de M. de
Cambremer ; reine n’est pas ici la femme d’un roi, mais la
grenouille. C’est le nom qu’elle a gardé longtemps dans ce
pays, comme en témoigne la station de Renneville, qui
devrait s’écrire Reineville. – Il me semble que vous avez là
une belle bête », dit M. de Cambremer à Mme Verdurin, en
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montrant un poisson. C’était là un de ces compliments à
l’aide desquels il croyait payer son écot à un dîner, et déjà
rendre sa politesse. (« Les inviter est inutile, disait-il souvent
en parlant de tels de leurs amis à sa femme. Ils ont été
enchantés de nous avoir. C’étaient eux qui me remerciaient.
») « D’ailleurs je dois vous dire que je vais presque chaque
jour à Renneville depuis bien des années, et je n’y ai vu pas
plus de grenouilles qu’ailleurs. Mme de Cambremer avait fait
venir ici le curé d’une paroisse où elle a de grands biens et
qui a la même tournure d’esprit que vous, à ce qu’il semble.
Il a écrit un ouvrage. – Je crois bien, je l’ai lu avec infiniment
d’intérêt », répondit hypocritement Brichot. La satisfaction
que son orgueil recevait indirectement de cette réponse fit
rire longuement M. de Cambremer. « Ah ! eh bien, l’auteur,
comment dirais-je, de cette géographie, de ce glossaire,
épilogue longuement sur le nom d’une petite localité dont
nous étions autrefois, si je puis dire, les seigneurs, et qui se
nomme Pont-à-Couleuvre. Or je ne suis évidemment qu’un
vulgaire ignorant à côté de ce puits de science, mais je suis
bien allé mille fois à Pont-à-Couleuvre pour lui une, et du
diable si j’y ai jamais vu un seul de ces vilains serpents, je dis
vilains, malgré l’éloge qu’en fait le bon La Fontaine
(L’Homme et la couleuvre était une des deux fables). – Vous
n’en avez pas vu, et c’est vous qui avez vu juste, répondit
Brichot. Certes, l’écrivain dont vous parlez connaît à fond
son sujet, il a écrit un livre remarquable. – Voire ! s’exclama
Mme de Cambremer, ce livre, c’est bien le cas de le dire, est
un véritable travail de Bénédictin. – Sans doute il a consulté
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quelques pouillés (on entend par là les listes des bénéfices et
des cures de chaque diocèse), ce qui a pu lui fournir le nom
des patrons laïcs et des collateurs ecclésiastiques. Mais il est
d’autres sources. Un de mes plus savants amis y a puisé. Il a
trouvé que le même lieu était dénommé Pont-à-Quileuvre.
Ce nom bizarre l’incita à remonter plus haut encore, à un
texte latin où le pont que votre ami croit infesté de
couleuvres est désigné : Pons cui aperit. Pont fermé qui ne
s’ouvrait que moyennant une honnête rétribution. – Vous
parlez de grenouilles. Moi, en me trouvant au milieu de
personnes si savantes, je me fais l’effet de la grenouille
devant l’aréopage » (c’était la seconde fable), dit Cancan qui
faisait souvent, en riant beaucoup, cette plaisanterie grâce à
laquelle il croyait à la fois, par humilité et avec à-propos, faire
profession d’ignorance et étalage de savoir. Quant à Cottard,
bloqué par le silence de M. de Charlus et essayant de se
donner de l’air des autres côtés, il se tourna vers moi et me
fit une de ces questions qui frappaient ses malades s’il était
tombé juste et montraient ainsi qu’il était pour ainsi dire
dans leur corps ; si, au contraire, il tombait à faux, lui
permettaient de rectifier certaines théories, d’élargir les
points de vue anciens. « Quand vous arrivez à ces sites
relativement élevés comme celui où nous nous trouvons en
ce moment, remarquez-vous que cela augmente votre
tendance aux étouffements ? » me demanda-t-il, certain ou
de faire admirer, ou de compléter son instruction. M. de
Cambremer entendit la question et sourit. « Je ne peux pas
vous dire comme ça m’amuse d’apprendre que vous avez des
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étouffements », me jeta-t-il à travers la table. Il ne voulait pas
dire par cela que cela l’égayait, bien que ce fût vrai aussi. Car
cet homme excellent ne pouvait cependant pas entendre
parler du malheur d’autrui sans un sentiment de bien-être et
un spasme d’hilarité qui faisaient vite place à la pitié d’un
bon cœur. Mais sa phrase avait un autre sens, que précisa
celle qui la suivit : « Ça m’amuse, me dit-il, parce que
justement ma sœur en a aussi. » En somme, cela l’amusait
comme s’il m’avait entendu citer comme un des mes amis
quelqu’un qui eût fréquenté beaucoup chez eux. « Comme le
monde est petit », fut la réflexion qu’il formula mentalement
et que je vis écrite sur son visage souriant quand Cottard me
parla de mes étouffements. Et ceux-ci devinrent, à dater de
ce dîner, comme une sorte de relation commune et dont M.
de Cambremer ne manquait jamais de me demander des
nouvelles, ne fût-ce que pour en donner à sa sœur. Tout en
répondant aux questions que sa femme me posait sur Morel,
je pensais à une conversation que j’avais eue avec ma mère
dans l’après-midi. Comme, tout en ne me déconseillant pas
d’aller chez les Verdurin si cela pouvait me distraire, elle me
rappelait que c’était un milieu qui n’aurait pas plu à mon
grand-père et lui eût fait crier : « À la garde », ma mère avait
ajouté : « Écoute, le président Toureuil et sa femme m’ont
dit qu’ils avaient déjeuné avec Mme Bontemps. On ne m’a
rien demandé. Mais j’ai cru comprendre qu’un mariage entre
Albertine et toi serait le rêve de sa tante. Je crois que la vraie
raison est que tu leur es à tous très sympathique. Tout de
même, le luxe qu’ils croient que tu pourrais lui donner, les
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relations qu’on sait plus ou moins que nous avons, je crois
que tout cela n’y est pas étranger, quoique secondaire. Je ne
t’en aurais pas parlé, parce que je n’y tiens pas, mais comme
je me figure qu’on t’en parlera, j’ai mieux aimé prendre les
devants. – Mais toi, comment la trouves-tu ? avais-je
demandé à ma mère. – Mais moi, ce n’est pas moi qui
l’épouserai. Tu peux certainement faire mille fois mieux
comme mariage. Mais je crois que ta grand’mère n’aurait pas
aimé qu’on t’influence. Actuellement je ne peux pas te dire
comment je trouve Albertine, je ne la trouve pas. Je te dirai
comme Mme de Sévigné : « Elle a de bonnes qualités, du
moins je le crois. Mais, dans ce commencement, je ne sais la
louer que par des négatives. Elle n’est point ceci, elle n’a
point l’accent de Rennes. Avec le temps, je dirai peut-être :
elle est cela. Et je la trouverai toujours bien si elle doit te
rendre heureux. » Mais par ces mots mêmes, qui remettaient
entre mes mains de décider de mon bonheur, ma mère
m’avait mis dans cet état de doute où j’avais déjà été quand,
mon père m’ayant permis d’aller à Phèdre et surtout d’être
homme de lettres, je m’étais senti tout à coup une
responsabilité trop grande, la peur de le peiner, et cette
mélancolie qu’il y a quand on cesse d’obéir à des ordres qui,
au jour le jour, vous cachent l’avenir, de se rendre, compte
qu’on a enfin commencé de vivre pour de bon, comme une
grande personne, la vie, la seule vie qui soit à la disposition
de chacun de nous.
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Peut-être le mieux serait-il d’attendre un peu, de commencer
par voir Albertine comme par le passé pour tâcher
d’apprendre si je l’aimais vraiment. Je pourrais l’amener chez
les Verdurin pour la distraire, et ceci me rappela que je n’y
étais venu moi-même ce soir que pour savoir si Mme Putbus
y habitait ou allait y venir. En tout cas, elle ne dînait pas. « À
propos de votre ami Saint-Loup, me dit Mme de
Cambremer, usant ainsi d’une expression qui marquait plus
de suite dans les idées que ses phrases ne l’eussent laissé
croire, car si elle me parlait de musique elle pensait aux
Guermantes, vous savez que tout le monde parle de son
mariage avec la nièce de la princesse de Guermantes. Je vous
dirai que, pour ma part, de tous ces potins mondains je ne
me préoccupe mie. » Je fus pris de la crainte d’avoir parlé
sans sympathie devant Robert de cette jeune fille faussement
originale, et dont l’esprit était aussi médiocre que le caractère
était violent. Il n’y a presque pas une nouvelle que nous
apprenions qui ne nous fasse regretter un de nos propos. Je
répondis à Mme de Cambremer, ce qui du reste était vrai,
que je n’en savais rien, et que d’ailleurs la fiancée me
paraissait encore bien jeune. « C’est peut-être pour cela que
ce n’est pas encore officiel ; en tout cas on le dit beaucoup. –
J’aime mieux vous prévenir, dit sèchement Mme Verdurin à
Mme de Cambremer, ayant entendu que celle-ci m’avait
parlé de Morel, et, quand elle avait baissé la voix pour me
parler des fiançailles de Saint-Loup, ayant cru qu’elle m’en
parlait encore. Ce n’est pas de la musiquette qu’on fait ici.
En art, vous savez, les fidèles de mes mercredis, mes enfants
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comme je les appelle, c’est effrayant ce qu’ils sont avancés,
ajouta-t-elle avec un air d’orgueilleuse terreur. Je leur dis
quelquefois : « Mes petites bonnes gens, vous marchez plus
vite que votre patronne à qui les audaces ne passent pas
pourtant pour avoir jamais fait peur. » Tous les ans ça va un
peu plus loin ; je vois bientôt le jour où ils ne marcheront
plus pour Wagner et pour d’Indy. – Mais c’est très bien
d’être avancé, on ne l’est jamais assez », dit Mme de
Cambremer, tout en inspectant chaque coin de la salle à
manger, en cherchant à reconnaître les choses qu’avait
laissées sa belle-mère, celles qu’avait apportées Mme
Verdurin, et à prendre celle-ci en flagrant délit de faute de
goût. Cependant, elle cherchait à me parler du sujet qui
l’intéressait le plus, M. de Charlus. Elle trouvait touchant
qu’il protégeât un violoniste. « Il a l’air intelligent. – Même
d’une verve extrême pour un homme déjà un peu âgé, dis-je.
– Âgé ? Mais il n’a pas l’air âgé, regardez, le cheveu est resté
jeune. » (Car depuis trois ou quatre ans le mot « cheveu »
avait été employé au singulier par un de ces inconnus qui
sont les lanceurs des modes littéraires, et toutes les
personnes ayant la longueur de rayon de Mme de
Cambremer disaient « le cheveu », non sans un sourire
affecté. À l’heure actuelle on dit encore « le cheveu », mais
de l’excès du singulier renaîtra le pluriel.) « Ce qui
m’intéresse surtout chez M. de Charlus, ajouta-t-elle, c’est
qu’on sent chez lui le don. Je vous dirai que je fais bon
marché du savoir. Ce qui s’apprend ne m’intéresse pas. » Ces
paroles ne sont pas en contradiction avec la valeur
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particulière de Mme de Cambremer, qui était précisément
imitée et acquise. Mais justement une des choses qu’on
devait savoir à ce moment-là, c’est que le savoir n’est rien et
ne pèse pas un fétu à côté de l’originalité. Mme de
Cambremer avait appris, comme le reste, qu’il ne faut rien
apprendre. « C’est pour cela, me dit-elle, que Brichot, qui a
son côté curieux, car je ne fais pas fi d’une certaine érudition
savoureuse, m’intéresse pourtant beaucoup moins. » Mais
Brichot, à ce moment-là, n’était occupé que d’une chose :
entendant qu’on parlait musique, il tremblait que le sujet ne
rappelât à Mme Verdurin la mort de Dechambre. Il voulait
dire quelque chose pour écarter ce souvenir funeste. M. de
Cambremer lui en fournit l’occasion par cette question : «
Alors, les lieux boisés portent toujours des noms d’animaux
? – Que non pas, répondit Brichot, heureux de déployer son
savoir devant tant de nouveaux, parmi lesquels je lui avais dit
qu’il était sûr d’en intéresser au moins un. Il suffit de voir
combien, dans les noms de personnes elles-mêmes, un arbre
est conservé, comme une fougère dans de la houille. Un de
nos pères conscrits s’appelle M. de Saulces de Freycinet, ce
qui signifie, sauf erreur, lieu planté de saules et de frênes,
salix et fraxinetum ; son neveu M. de Selves réunit plus
d’arbres encore, puisqu’il se nomme de Selves, sylva. »
Saniette voyait avec joie la conversation prendre un tour si
animé. Il pouvait, puisque Brichot parlait tout le temps,
garder un silence qui lui éviterait d’être l’objet des brocards
de M. et Mme Verdurin. Et devenu plus sensible encore
dans sa joie d’être délivré, il avait été attendri d’entendre M.
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Verdurin, malgré la solennité d’un tel dîner, dire au maître
d’hôtel de mettre une carafe d’eau près de M. Saniette qui ne
buvait pas autre chose. (Les généraux qui font tuer le plus de
soldats tiennent à ce qu’ils soient bien nourris.) Enfin Mme
Verdurin avait une fois souri à Saniette. Décidément,
c’étaient de bonnes gens. Il ne serait plus torturé. À ce
moment le repas fut interrompu par un convive que j’ai
oublié de citer, un illustre philosophe norvégien, qui parlait
le français très bien mais très lentement, pour la double
raison, d’abord que, l’ayant appris depuis peu et ne voulant
pas faire de fautes (il en faisait pourtant quelques-unes), il se
reportait pour chaque mot à une sorte de dictionnaire
intérieur ; ensuite parce qu’en tant que métaphysicien, il
pensait toujours ce qu’il voulait dire pendant qu’il le disait, ce
qui, même chez un Français, est une cause de lenteur.
C’était, du reste, un être délicieux, quoique pareil en
apparence à beaucoup d’autres, sauf sur un point. Cet
homme au parler si lent (il y avait un silence entre chaque
mot) devenait d’une rapidité vertigineuse pour s’échapper
dès qu’il avait dit adieu. Sa précipitation faisait croire la
première fois qu’il avait la colique ou encore un besoin plus
pressant.
– Mon cher – collègue, dit-il à Brichot, après avoir délibéré
dans son esprit si « collègue » était le terme qui convenait, j’ai
une sorte de – désir pour savoir s’il y a d’autres arbres dans
la – nomenclature de votre belle langue – française – latine –
normande. Madame (il voulait dire Mme Verdurin quoiqu’il
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n’osât la regarder) m’a dit que vous saviez toutes choses.
N’est-ce pas précisément le moment ? – Non, c’est le
moment de manger », interrompit Mme Verdurin qui voyait
que le dîner n’en finissait pas. « Ah ! bien ; répondit le
Scandinave, baissant la tête dans son assiette, avec un sourire
triste et résigné. Mais je dois faire observer à Madame que, si
je me suis permis ce questionnaire – pardon, ce questation –
c’est que je dois retourner demain à Paris pour dîner chez la
Tour d’Argent ou chez l’Hôtel Meurice. Mon confrère –
français – M. Boutroux, doit nous y parler des séances de
spiritisme – pardon, des évocations spiritueuses – qu’il a
contrôlées. – Ce n’est pas si bon qu’on dit, la Tour d’Argent,
dit Mme Verdurin agacée. J’y ai même fait des dîners
détestables. – Mais est-ce que je me trompe, est-ce que la
nourriture qu’on mange chez Madame n’est pas de la plus
fine cuisine française ? – Mon Dieu, ce n’est pas
positivement mauvais, répondit Mme Verdurin radoucie. Et
si vous venez mercredi prochain ce sera meilleur. – Mais je
pars lundi pour Alger, et de là je vais à Cap. Et quand je serai
à Cap de Bonne-Espérance, je ne pourrai plus rencontrer
mon illustre collègue – pardon, je ne pourrai plus rencontrer
mon confrère. » Et il se mit, par obéissance, après avoir
fourni ces excuses rétrospectives, à manger avec une rapidité
vertigineuse. Mais Brichot était trop heureux de pouvoir
donner d’autres étymologies végétales et il répondit,
intéressant tellement le Norvégien que celui-ci cessa de
nouveau de manger, mais en faisant signe qu’on pouvait ôter
son assiette pleine et passer au plat suivant : « Un des
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Quarante, dit Brichot, a nom Houssaye, ou lieu planté de
houx ; dans celui d’un fin diplomate, d’Ormesson, vous
retrouvez l’orme, l’ulmus cher à Virgile et qui a donné son
nom à la ville d’Ulm ; dans celui de ses collègues, M. de La
Boulaye, le bouleau ; M. d’Aunay, l’aune ; M. de Bussière, le
buis ; M. Albaret, l’aubier (je me promis de le dire à Céleste) ;
M. de Cholet, le chou, et le pommier dans le nom de M. de
La Pommeraye, que nous entendîmes conférencier, Saniette,
vous en souvient-il, du temps que le bon Porel avait été
envoyé aux confins du monde, comme proconsul en
Odéonie ? Au nom de Saniette prononcé par Brichot, M.
Verdurin lança à sa femme et à Cottard un regard ironique
qui démonta le timide. – Vous disiez que Cholet vient de
chou, dis-je à Brichot. Est-ce qu’une station où j’ai passé
avant d’arriver à Doncières, Saint-Frichoux, vient aussi de
chou ? – Non, Saint-Frichoux, c’est Sanctus Fructuosus,
comme Sanctus Ferreolus donna Saint-Fargeau, mais ce n’est
pas normand du tout. – Il sait trop de choses, il nous ennuie,
gloussa doucement la princesse. – Il y a tant d’autres noms
qui m’intéressent, mais je ne peux pas tout vous demander
en une fois. » Et me tournant vers Cottard : « Est-ce que
Mme Putbus est ici ? » lui demandai-je. « Non, Dieu merci,
répondit Mme Verdurin qui avait entendu ma question. J’ai
tâché de dériver ses villégiatures vers Venise, nous en
sommes débarrassés pour cette année. – Je vais avoir moimême droit à deux arbres, dit M. de Charlus, car j’ai à peu
près retenu une petite maison entre Saint-Martin-du-Chêne
et Saint-Pierre-des-Ifs. – Mais c’est très près d’ici, j’espère
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que vous viendrez souvent en compagnie de Charlie Morel.
Vous n’aurez qu’à vous entendre avec notre petit groupe
pour les trains, vous êtes à deux pas de Doncières », dit Mme
Verdurin qui détestait qu’on ne vînt pas par le même train et
aux heures où elle envoyait des voitures. Elle savait combien
la montée à la Raspelière, même en faisant le tour par des
lacis, derrière Féterne, ce qui retardait d’une demi-heure,
était dure, elle craignait que ceux qui feraient bande à part ne
trouvassent pas de voitures pour les conduire, ou même,
étant en réalité restés chez eux, puissent prendre le prétexte
de n’en avoir pas trouvé à Doville-Féterne et de ne pas s’être
senti la force de faire une telle ascension à pied. À cette
invitation M. de Charlus se contenta de répondre par une
muette inclinaison. « Il ne doit pas être commode tous les
jours, il a un air pincé, chuchota à Ski le docteur qui, étant
resté très simple malgré une couche superficielle d’orgueil,
ne cherchait pas à cacher que Charlus le snobait. Il ignore
sans doute que dans toutes les villes d’eau, et même à Paris
dans les cliniques, les médecins, pour qui je suis
naturellement le « grand chef », tiennent à honneur de me
présenter à tous les nobles qui sont là, et qui n’en mènent
pas large. Cela rend même assez agréable pour moi le séjour
des stations balnéaires, ajouta-t-il d’un air léger. Même à
Doncières, le major du régiment, qui est le médecin traitant
du colonel, m’a invité à déjeuner avec lui en me disant que
j’étais en situation de dîner avec le général. Et ce général est
un monsieur de quelque chose. Je ne sais pas si ses
parchemins sont plus ou moins anciens que ceux de ce
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baron. – Ne vous montez pas le bourrichon, c’est une bien
pauvre couronne », répondit Ski à mi-voix, et il ajouta
quelque chose de confus avec un verbe, où je distinguai
seulement les dernières syllabes « arder », occupé que j’étais
d’écouter ce que Brichot disait à M. de Charlus. « Non
probablement, j’ai le regret de vous le dire, vous n’avez
qu’un seul arbre, car si Saint-Martin-du-Chêne est
évidemment Sanctus Martinus juxta quercum, en revanche le
mot if peut être simplement la racine, ave, eve, qui veut dire
humide comme dans Aveyron, Lodève, Yvette, et que vous
voyez subsister dans nos éviers de cuisine. C’est l’« eau », qui
en breton se dit Ster, Stermaria, Sterlaer, Sterbouest, Ster-enDreuchen. » Je n’entendis pas la fin, car, quelque plaisir que
j’eusse eu à réentendre le nom de Stermaria, malgré moi
j’entendais Cottard, près duquel j’étais, qui disait tout bas à
Ski : « Ah ! mais je ne savais pas. Alors c’est un monsieur qui
sait se retourner dans la vie. Comment ! il est de la confrérie !
Pourtant il n’a pas les yeux bordés de jambon. Il faudra que
je fasse attention à mes pieds sous la table, il n’aurait qu’à en
pincer pour moi. Du reste, cela ne m’étonne qu’à moitié. Je
vois plusieurs nobles à la douche, dans le costume d’Adam,
ce sont plus ou moins des dégénérés. Je ne leur parle pas
parce qu’en somme je suis fonctionnaire et que cela pourrait
me faire du tort. Mais ils savent parfaitement qui je suis. »
Saniette, que l’interpellation de Brichot avait effrayé,
commençait à respirer, comme quelqu’un qui a peur de
l’orage et qui voit que l’éclair n’a été suivi d’aucun bruit de
tonnerre, quand il entendit M. Verdurin le questionner, tout
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en attachant sur lui un regard qui ne lâchait pas le
malheureux tant qu’il parlait, de façon à le décontenancer
tout de suite et à ne pas lui permettre de reprendre ses
esprits. « Mais vous nous aviez toujours caché que vous
fréquentiez les matinées de l’Odéon, Saniette ? » Tremblant
comme une recrue devant un sergent tourmenteur, Saniette
répondit, en donnant à sa phrase les plus petites dimensions
qu’il put afin qu’elle eût plus de chance d’échapper aux
coups : « Une fois, à la Chercheuse. – Qu’est-ce qu’il dit »,
hurla M. Verdurin, d’un air à la fois écœuré et furieux, en
fronçant les sourcils comme s’il n’avait pas assez de toute
son attention pour comprendre quelque chose
d’inintelligible. « D’abord on ne comprend pas ce que vous
dites, qu’est-ce que vous avez dans la bouche ? » demanda
M. Verdurin de plus en plus violent, et faisant allusion au
défaut de prononciation de Saniette. « Pauvre Saniette, je ne
veux pas que vous le rendiez malheureux », dit Mme
Verdurin sur un ton de fausse pitié et pour ne laisser un
doute à personne sur l’intention insolente de son mari. «
J’étais à la Ch..., Che... – Che, che, tâchez de parler
clairement, dit M. Verdurin, je ne vous entends même pas. »
Presque aucun des fidèles ne se retenait de s’esclaffer, et ils
avaient l’air d’une bande d’anthropophages chez qui une
blessure faite à un blanc a réveillé le goût du sang. Car
l’instinct d’imitation et l’absence de courage gouvernent les
sociétés comme les foules. Et tout le monde rit de quelqu’un
dont on voit se moquer, quitte à le vénérer dix ans plus tard
dans un cercle où il est admiré. C’est de la même façon que
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le peuple chasse ou acclame les rois. « Voyons, ce n’est pas
sa faute, dit Mme Verdurin. – Ce n’est pas la mienne non
plus, on ne dîne pas en ville quand on ne peut plus articuler.
– J’étais à la Chercheuse d’esprit de Favart. – Quoi ? c’est la
Chercheuse d’esprit que vous appelez la Chercheuse ? Ah !
c’est magnifique, j’aurais pu chercher cent ans sans trouver »,
s’écria M. Verdurin qui pourtant aurait jugé du premier coup
que quelqu’un n’était pas lettré, artiste, « n’en était pas », s’il
l’avait entendu dire le titre complet de certaines œuvres. Par
exemple il fallait dire le Malade, le Bourgeois ; et ceux qui
auraient ajouté « imaginaire » ou « gentilhomme » eussent
témoigné qu’ils n’étaient pas de la « boutique », de même
que, dans un salon, quelqu’un prouve qu’il n’est pas du
monde en disant : M. de Montesquiou-Fezensac pour M. de
Montesquiou. « Mais ce n’est pas si extraordinaire », dit
Saniette essoufflé par l’émotion mais souriant, quoiqu’il n’en
eût pas envie. Mme Verdurin éclata : « Oh ! si, s’écria-t-elle
en ricanant. Soyez convaincu que personne au monde
n’aurait pu deviner qu’il s’agissait de la Chercheuse d’esprit. »
M. Verdurin reprit d’une voix douce et s’adressant à la fois à
Saniette et à Brichot : « C’est une jolie pièce, d’ailleurs, la
Chercheuse d’esprit. » Prononcée sur un ton sérieux, cette
simple phrase, où on ne pouvait trouver trace de
méchanceté, fit à Saniette autant de bien et excita chez lui
autant de gratitude qu’une amabilité. Il ne put proférer une
seule parole et garda un silence heureux. Brichot fut plus
loquace. « Il est vrai, répondit-il à M. Verdurin, et si on la
faisait passer pour l’œuvre de quelque auteur sarmate ou
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scandinave, on pourrait poser la candidature de la
Chercheuse d’esprit à la situation vacante de chef-d’œuvre.
Mais, soit dit sans manquer de respect aux mânes du gentil
Favart, il n’était pas de tempérament ibsénien. (Aussitôt il
rougit jusqu’aux oreilles en pensant au philosophe norvégien,
lequel avait un air malheureux parce qu’il cherchait en vain à
identifier quel végétal pouvait être le buis que Brichot avait
cité tout à l’heure à propos de Bussière.) D’ailleurs, la
satrapie de Porel étant maintenant occupée par un
fonctionnaire qui est un tolstoïsant de rigoureuse
observance, il se pourrait que nous vissions Anna Karénine
ou Résurrection sous l’architrave odéonienne. – Je sais le
portrait de Favart dont vous voulez parler, dit M. de Charlus.
J’en ai vu une très belle épreuve chez la comtesse Molé. » Le
nom de la comtesse Molé produisit une forte impression sur
Mme Verdurin. « Ah ! vous allez chez Mme de Molé »,
s’écria-t-elle. Elle pensait qu’on disait la comtesse Molé,
Madame Molé, simplement par abréviation, comme elle
entendait dire les Rohan, ou, par dédain, comme elle-même
disait : Madame La Trémoïlle. Elle n’avait aucun doute que
la comtesse Molé, connaissant la reine de Grèce et la
princesse de Caprarola, eût autant que personne droit à la
particule, et pour une fois elle était décidée à la donner à une
personne si brillante et qui s’était montrée fort aimable pour
elle. Aussi, pour bien montrer qu’elle avait parlé ainsi à
dessein et ne marchandait pas ce « de » à la comtesse, elle
reprit : « Mais je ne savais pas du tout que vous connaissiez
Madame de Molé ! » comme si ç’avait été doublement
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extraordinaire et que M. de Charlus connût cette dame et
que Mme Verdurin ne sût pas qu’il la connaissait. Or le
monde, ou du moins ce que M. de Charlus appelait ainsi,
forme un tout relativement homogène et clos. Autant il est
compréhensible que, dans l’immensité disparate de la
bourgeoisie, un avocat dise à quelqu’un qui connaît un de ses
camarades de collège : « Mais comment diable connaissezvous un tel ? » en revanche, s’étonner qu’un Français connût,
le sens du mot « temple » ou « forêt » ne serait guère plus
extraordinaire que d’admirer les hasards qui avaient pu
conjoindre M. de Charlus et la comtesse Molé. De plus,
même si une telle connaissance n’eût pas tout naturellement
découlé des lois mondaines, si elle eût été fortuite, comment
eût-il été bizarre que Mme Verdurin l’ignorât puisqu’elle
voyait M. de Charlus pour la première fois, et que ses
relations avec Mme Molé étaient loin d’être la seule chose
qu’elle ne sût pas relativement à lui, de qui, à vrai dire, elle ne
savait rien. « Qu’est-ce qui jouait cette Chercheuse d’esprit,
mon petit Saniette ? » demanda M. Verdurin. Bien que
sentant l’orage passé, l’ancien archiviste hésitait à répondre :
« Mais aussi, dit Mme Verdurin, tu l’intimides, tu te moques
de tout ce qu’il dit, et puis tu veux qu’il réponde. Voyons,
dites, qui jouait ça ? on vous donnera de la galantine à
emporter », dit Mme Verdurin, faisant une méchante allusion
à la ruine où Saniette s’était précipité lui-même en voulant en
tirer un ménage de ses amis. « Je me rappelle seulement que
c’était Mme Samary qui faisait la Zerbine, dit Saniette. – La
Zerbine ? Qu’est-ce que c’est que ça ? cria M. Verdurin
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comme s’il y avait le feu. – C’est un emploi de vieux
répertoire, voir le Capitaine Fracasse, comme qui dirait le
Tranche Montagne, le Pédant. – Ah ! le pédant, c’est vous.
La Zerbine ! Non, mais il est toqué », s’écria M. Verdurin.
Mme Verdurin regarda ses convives en riant comme pour
excuser Saniette. « La Zerbine, il s’imagine que tout le
monde sait aussitôt ce que cela veut dire. Vous êtes comme
M. de Longepierre, l’homme le plus bête que je connaisse,
qui nous disait familièrement l’autre jour « le Banat ».
Personne n’a su de quoi il voulait parler. Finalement on a
appris que c’était une province de Serbie. » Pour mettre fin
au supplice de Saniette, qui me faisait plus de mal qu’à lui, je
demandai à Brichot s’il savait ce que signifiait Balbec. «
Balbec est probablement une corruption de Dalbec, me ditil. Il faudrait pouvoir consulter les chartes des rois
d’Angleterre, suzerains de la Normandie, car Balbec
dépendait de la baronnie de Douvres, à cause de quoi on
disait souvent Balbec d’Outre-Mer, Balbec-en-Terre. Mais la
baronnie de Douvres elle-même relevait de l’évêché de
Bayeux, et malgré des droits qu’eurent momentanément les
Templiers sur l’abbaye, à partir de Louis d’Harcourt,
patriarche de Jérusalem et évêque de Bayeux, ce furent les
évêques de ce diocèse qui furent collateurs aux biens de
Balbec. C’est ce que m’a expliqué le doyen de Doville,
homme chauve, éloquent, chimérique et gourmet, qui vit
dans l’obédience de Brillat-Savarin, et m’a exposé avec des
termes un tantinet sibyllins d’incertaines pédagogies, tout en
me faisant manger d’admirables pommes de terre frites. »
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Tandis que Brichot souriait, pour montrer ce qu’il y avait de
spirituel à unir des choses aussi disparates et à employer
pour des choses communes un langage ironiquement élevé,
Saniette cherchait à placer quelque trait d’esprit qui pût le
relever de son effondrement de tout à l’heure. Le trait
d’esprit était ce qu’on appelait un « à peu près », mais qui
avait changé de forme, car il y a une évolution pour les
calembours comme pour les genres littéraires, les épidémies
qui disparaissent remplacées par d’autres, etc... Jadis la forme
de l’« à peu près » était le « comble ». Mais elle était surannée,
personne ne l’employait plus, il n’y avait plus que Cottard
pour dire encore parfois, au milieu d’une partie de « piquet »
: « Savez-vous quel est le comble de la distraction ? c’est de
prendre l’édit de Nantes pour une Anglaise. » Les combles
avaient été remplacés par les surnoms. Au fond, c’était
toujours le vieil « à peu près », mais, comme le surnom était à
la mode, on ne s’en apercevait pas. Malheureusement pour
Saniette, quand ces « à peu près » n’étaient pas de lui et
d’habitude inconnus au petit noyau, il les débitait si
timidement que, malgré le rire dont il les faisait suivre pour
signaler leur caractère humoristique, personne ne les
comprenait. Et si, au contraire, le mot était de lui, comme il
l’avait généralement trouvé en causant avec un des fidèles,
celui-ci l’avait répété en se l’appropriant, le mot était alors
connu, mais non comme étant de Saniette. Aussi quand il
glissait un de ceux-là on le reconnaissait, mais, parce qu’il en
était l’auteur, on l’accusait de plagiat. « Or donc, continua
Brichot, Bec en normand est ruisseau ; il y a l’abbaye du Bec
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; Mobec, le ruisseau du marais (Mor ou Mer voulait dire
marais, comme dans Morville, ou dans Bricquemar,
Alvimare, Cambremer) ; Bricquebec, le ruisseau de la
hauteur, venant de Briga, lieu fortifié, comme dans
Bricqueville, Bricquebosc, le Bric, Briand, ou bien brice,
pont, qui est le même que bruck en allemand (Innsbruck) et
qu’en anglais bridge qui termine tant de noms de lieux
(Cambridge, etc.). Vous avez encore en Normandie bien
d’autres bec : Caudebec, Bolbec, le Robec, le Bec-Hellouin,
Becquerel. C’est la forme normande du germain Bach,
Offenbach, Anspach ; Varaguebec, du vieux mot varaigne,
équivalent de garenne, bois, étangs réservés. Quant à Dal,
reprit Brichot, c’est une forme de thal, vallée : Darnetal,
Rosendal, et même jusque près de Louviers, Becdal. La
rivière qui a donné son nom à Dalbec est d’ailleurs
charmante. Vue d’une falaise (fels en allemand, vous avez
même non loin d’ici, sur une hauteur, la jolie ville de Falaise),
elle voisine les flèches de l’église, située en réalité à une
grande distance, et a l’air de les refléter. – Je crois bien, disje, c’est un effet qu’Elstir aime beaucoup. J’en ai vu plusieurs
esquisses chez lui. – Elstir ! Vous connaissez Tiche ? s’écria
Mme Verdurin. Mais vous savez que je l’ai connu dans la
dernière intimité. Grâce au ciel je ne le vois plus. Non, mais
demandez à Cottard, à Brichot, il avait son couvert mis chez
moi, il venait tous les jours. En voilà un dont on peut dire
que ça ne lui a pas réussi de quitter notre petit noyau. Je vous
montrerai tout à l’heure des fleurs qu’il a peintes pour moi ;
vous verrez quelle différence avec ce qu’il fait aujourd’hui et
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que je n’aime pas du tout, mais pas du tout ! Mais comment !
je lui avais fait faire un portrait de Cottard, sans compter
tout ce qu’il a fait d’après moi. – Et il avait fait au professeur
des cheveux mauves, dit Mme Cottard, oubliant qu’alors son
mari n’était pas agrégé. Je ne sais, Monsieur, si vous trouvez
que mon mari a des cheveux mauves. – Ça ne fait rien, dit
Mme Verdurin en levant le menton d’un air de dédain pour
Mme Cottard et d’admiration pour celui dont elle parlait,
c’était d’un fier coloriste, d’un beau peintre. Tandis que,
ajouta-t-elle en s’adressant de nouveau à moi, je ne sais pas si
vous appelez cela de la peinture, toutes ces grandes
diablesses de compositions, ces grandes machines qu’il
expose depuis qu’il ne vient plus chez moi. Moi, j’appelle
cela du barbouillé, c’est d’un poncif, et puis ça manque de
relief, de personnalité. Il y a de tout le monde là dedans. – Il
restitue la grâce du XVIIIe, mais moderne, dit
précipitamment Saniette, tonifié et remis en selle par mon
amabilité. Mais j’aime mieux Helleu. – Il n’y a aucun rapport
avec Helleu, dit Mme Verdurin. – Si, c’est du XVIIIe siècle
fébrile. C’est un Watteau à vapeur, et il se mit à rire. – Oh !
connu, archiconnu, il y a des années qu’on me le ressert », dit
M. Verdurin à qui, en effet, Ski l’avait raconté autrefois, mais
comme fait par lui-même. « Ce n’est pas de chance que, pour
une fois que vous prononcez intelligiblement quelque chose
d’assez drôle, ce ne soit pas de vous. – Ça me fait de la
peine, reprit Mme Verdurin, parce que c’était quelqu’un de
doué, il a gâché un joli tempérament de peintre. Ah ! s’il était
resté ici ! Mais il serait devenu le premier paysagiste de notre
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temps. Et c’est une femme qui l’a conduit si bas ! Ça ne
m’étonne pas d’ailleurs, car l’homme était agréable, mais
vulgaire. Au fond c’était un médiocre. Je vous dirai que je l’ai
senti tout de suite. Dans le fond, il ne m’a jamais intéressée.
Je l’aimais bien, c’était tout. D’abord, il était d’un sale. Vous
aimez beaucoup ça, vous, les gens qui ne se lavent jamais ? –
Qu’est-ce que c’est que cette chose si jolie de ton que nous
mangeons ? demanda Ski. – Cela s’appelle de la mousse à la
fraise, dit Mme Verdurin. – Mais c’est ra-vis-sant. Il faudrait
faire déboucher des bouteilles de Château-Margaux, de
Château-Lafite, de Porto. – Je ne peux pas vous dire comme
il m’amuse, il ne boit que de l’eau, dit Mme Verdurin pour
dissimuler sous l’agrément qu’elle trouvait à cette fantaisie
l’effroi que lui causait cette prodigalité. – Mais ce n’est pas
pour boire, reprit Ski, vous en remplirez tous nos verres, on
apportera de merveilleuses pêches, d’énormes brugnons, là,
en face du soleil couché ; ça sera luxuriant comme un beau
Véronèse. – Ça coûtera presque aussi cher, murmura M.
Verdurin. – Mais enlevez ces fromages si vilains de ton, dit-il
en essayant de retirer l’assiette du Patron, qui défendit son
gruyère de toutes ses forces. – Vous comprenez que je ne
regrette pas Elstir, me dit Mme Verdurin, celui-ci est
autrement doué. Elstir, c’est le travail, l’homme qui ne sait
pas lâcher sa peinture quand il en a envie. C’est le bon élève,
la bête à concours. Ski, lui, ne connaît que sa fantaisie. Vous
le verrez allumer sa cigarette au milieu du dîner. – Au fait, je
ne sais pas pourquoi vous n’avez pas voulu recevoir sa
femme, dit Cottard, il serait ici comme autrefois. – Dites
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donc, voulez-vous être poli, vous ? Je ne reçois pas de
gourgandines, Monsieur le Professeur », dit Mme Verdurin,
qui avait, au contraire, fait tout ce qu’elle avait pu pour faire
revenir Elstir, même avec sa femme. Mais avant qu’ils
fussent mariés elle avait cherché à les brouiller, elle avait dit à
Elstir que la femme qu’il aimait était bête, sale, légère, avait
volé. Pour une fois elle n’avait pas réussi la rupture. C’est
avec le salon Verdurin qu’Elstir avait rompu ; et il s’en
félicitait comme les convertis bénissent la maladie ou le
revers qui les a jetés dans la retraite et leur a fait connaître la
voie du salut. « Il est magnifique, le Professeur, dit-elle.
Déclarez plutôt que mon salon est une maison de rendezvous. Mais on dirait que vous ne savez pas ce que c’est que
Mme Elstir. J’aimerais mieux recevoir la dernière des filles !
Ah ! non, je ne mange pas de ce pain-là. D’ailleurs je vous
dirai que j’aurais été d’autant plus bête de passer sur la
femme que le mari ne m’intéresse plus, c’est démodé, ce
n’est même plus dessiné. – C’est extraordinaire pour un
homme d’une pareille intelligence, dit Cottard. – Oh ! non,
répondit Mme Verdurin, même à l’époque où il avait du
talent, car il en a eu, le gredin, et à revendre, ce qui agaçait
chez lui c’est qu’il n’était aucunement intelligent. » Mme
Verdurin, pour porter ce jugement sur Elstir, n’avait pas
attendu leur brouille et qu’elle n’aimât plus sa peinture. C’est
que, même au temps où il faisait partie du petit groupe, il
arrivait qu’Elstir passait des journées entières avec telle
femme qu’à tort ou à raison Mme Verdurin trouvait «
bécasse », ce qui, à son avis, n’était pas le fait d’un homme
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intelligent. « Non, dit-elle d’un air d’équité, je crois que sa
femme et lui sont très bien faits pour aller ensemble. Dieu
sait que je ne connais pas de créature plus ennuyeuse sur la
terre et que je deviendrais enragée s’il me fallait passer deux
heures avec elle. Mais on dit qu’il la trouve très intelligente.
C’est qu’il faut bien l’avouer, notre Tiche était surtout
excessivement bête ! Je l’ai vu épaté par des personnes que
vous n’imaginez pas, par de braves idiotes dont on n’aurait
jamais voulu dans notre petit clan. Hé bien ! il leur écrivait, il
discutait avec elles, lui, Elstir ! Ça n’empêche pas des côtés
charmants, ah ! charmants, charmants et délicieusement
absurdes, naturellement. » Car Mme Verdurin était persuadée
que les hommes vraiment remarquables font mille folies.
Idée fausse où il y a pourtant quelque vérité. Certes les «
folies » des gens sont insupportables. Mais un déséquilibre
qu’on ne découvre qu’à la longue est la conséquence de
l’entrée dans un cerveau humain de délicatesses pour
lesquelles il n’est pas habituellement fait. En sorte que les
étrangetés des gens charmants exaspèrent, mais qu’il n’y a
guère de gens charmants qui ne soient, par ailleurs, étranges.
« Tenez, je vais pouvoir vous montrer tout de suite ses fleurs
», me dit-elle en voyant que son mari lui faisait signe qu’on
pouvait se lever de table. Et elle reprit le bras de M. de
Cambremer. M. Verdurin voulut s’en excuser auprès de M.
de Charlus, dès qu’il eut quitté Mme de Cambremer, et lui
donner ses raisons, surtout pour le plaisir de causer de ces
nuances mondaines avec un homme titré, momentanément
l’inférieur de ceux qui lui assignaient la place à laquelle ils
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jugeaient qu’il avait droit. Mais d’abord il tint à montrer à M.
de Charlus qu’intellectuellement il l’estimait trop pour penser
qu’il pût faire attention à ces bagatelles : « Excusez-moi de
vous parler de ces riens, commença-t-il, car je suppose bien
le peu de cas que vous en faites. Les esprits bourgeois y font
attention, mais les autres, les artistes, les gens qui « en sont »
vraiment, s’en fichent. Or dès les premiers mots que nous
avons échangés, j’ai compris que vous « en étiez » ! M. de
Charlus, qui donnait à cette locution un sens fort différent,
eut un haut-le-corps. Après les œillades du docteur,
l’injurieuse franchise du Patron le suffoquait. « Ne protestez
pas, cher Monsieur, vous « en êtes », c’est clair comme le
jour, reprit M. Verdurin. Remarquez que je ne sais pas si
vous exercez un art quelconque, mais ce n’est pas nécessaire.
Ce n’est pas toujours suffisant. Degrange, qui vient de
mourir, jouait parfaitement avec le plus robuste mécanisme,
mais « n’en était » pas, on sentait tout de suite qu’il « n’en
était » pas. Brichot n’en est pas. Morel en est, ma femme en
est, je sens que vous en êtes... – Qu’alliez-vous me dire ? »
interrompit M. de Charlus, qui commençait à être rassuré sur
ce que voulait signifier M. Verdurin, mais qui préférait qu’il
criât moins haut ces paroles à double sens. « Nous vous
avons mis seulement à gauche », répondit M. Verdurin. M.
de Charlus, avec un sourire compréhensif, bonhomme et
insolent, répondit : « Mais voyons ! Cela n’a aucune
importance, ici ! » Et il eut un petit rire qui lui était spécial –
un rire qui lui venait probablement de quelque grand’mère
bavaroise ou lorraine, qui le tenait elle-même, tout identique,
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d’une aïeule, de sorte qu’il sonnait ainsi, inchangé, depuis pas
mal de siècles, dans de vieilles petites cours de l’Europe, et
qu’on goûtait sa qualité précieuse comme celle de certains
instruments anciens devenus rarissimes. Il y a des moments
où, pour peindre complètement quelqu’un, il faudrait que
l’imitation phonétique se joignît à la description, et celle du
personnage que faisait M. de Charlus risque d’être
incomplète par le manque de ce petit rire si fin, si léger,
comme certaines œuvres de Bach ne sont jamais rendues
exactement parce que les orchestres manquent de ces «
petites trompettes » au son si particulier, pour lesquelles
l’auteur a écrit telle ou telle partie. « Mais, expliqua M.
Verdurin, blessé, c’est à dessein. Je n’attache aucune
importance aux titres de noblesse, ajouta-t-il, avec ce sourire
dédaigneux que j’ai vu tant de personnes que j’ai connues, à
l’encontre de ma grand’mère et de ma mère, avoir pour
toutes les choses qu’elles ne possèdent pas, devant ceux qui
ainsi, pensent-ils, ne pourront pas se faire, à l’aide d’elles,
une supériorité sur eux. Mais enfin puisqu’il y avait
justement M. de Cambremer et qu’il est marquis, comme
vous n’êtes que baron... – Permettez, répondit M. de
Charlus, avec un air de hauteur, à M. Verdurin étonné, je suis
aussi duc de Brabant, damoiseau de Montargis, prince
d’Oléron, de Carency, de Viazeggio et des Dunes. D’ailleurs,
cela ne fait absolument rien. Ne vous tourmentez pas,
ajouta-t-il en reprenant son fin sourire, qui s’épanouit sur ces
derniers mots : J’ai tout de suite vu que vous n’aviez pas
l’habitude. »
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Mme Verdurin vint à moi pour me montrer les fleurs
d’Elstir. Si cet acte, devenu depuis longtemps si indifférent
pour moi, aller dîner en ville, m’avait au contraire, sous la
forme, qui le renouvelait entièrement, d’un voyage le long de
la côte, suivi d’une montée en voiture jusqu’à deux cents
mètres au-dessus de la mer, procuré une sorte d’ivresse,
celle-ci ne s’était pas dissipée à la Raspelière. « Tenez,
regardez-moi ça, me dit la Patronne, en me montrant de
grosses et magnifiques roses d’Elstir, mais dont l’onctueux
écarlate et la blancheur fouettée s’enlevaient avec un relief un
peu trop crémeux sur la jardinière où elles étaient posées.
Croyez-vous qu’il aurait encore assez de patte pour attraper
ça ? Est-ce assez fort ! Et puis, c’est beau comme matière, ça
serait amusant à tripoter. Je ne peux pas vous dire comme
c’était amusant de les lui voir peindre. On sentait que ça
l’intéressait de chercher cet effet-là. » Et le regard de la
Patronne s’arrêta rêveusement sur ce présent de l’artiste où
se trouvaient résumés, non seulement son grand talent, mais
leur longue amitié qui ne survivait plus qu’en ces souvenirs
qu’il lui en avait laissés ; derrière les fleurs autrefois cueillies
par lui pour elle-même, elle croyait revoir la belle main qui
les avait peintes, en une matinée, dans leur fraîcheur, si bien
que, les unes sur la table, l’autre adossé à un fauteuil de la
salle à manger, avaient pu figurer en tête à tête, pour le
déjeuner de la Patronne, les roses encore vivantes et leur
portrait à demi ressemblant. À demi seulement, Elstir ne
pouvant regarder une fleur qu’en la transplantant d’abord
dans ce jardin intérieur où nous sommes forcés de rester
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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toujours. Il avait montré dans cette aquarelle l’apparition des
roses qu’il avait vues et que sans lui on n’eût connues jamais
; de sorte qu’on peut dire que c’était une variété nouvelle
dont ce peintre, comme un ingénieux horticulteur, avait
enrichi la famille des Roses. « Du jour où il a quitté le petit
noyau, ça a été un homme fini. Il paraît que mes dîners lui
faisaient perdre du temps, que je nuisais au développement
de son génie, dit-elle sur un ton d’ironie. Comme si la
fréquentation d’une femme comme moi pouvait ne pas être
salutaire à un artiste », s’écria-t-elle dans un mouvement
d’orgueil. Tout près de nous, M. de Cambremer, qui était
déjà assis, esquissa, en voyant M. de Charlus debout, le
mouvement de se lever et de lui donner sa chaise. Cette offre
ne correspondait peut-être, dans la pensée du marquis, qu’à
une intention de vague politesse. M. de Charlus préféra y
attacher la signification d’un devoir que le simple
gentilhomme savait qu’il avait à rendre à un prince, et ne crut
pas pouvoir mieux établir son droit à cette préséance qu’en
la déclinant. Aussi s’écria-t-il : « Mais comment donc ! Je
vous en prie ! Par exemple ! » Le ton astucieusement
véhément de cette protestation avait déjà quelque chose de
fort « Guermantes », qui s’accusa davantage dans le geste
impératif, inutile et familier avec lequel M. de Charlus pesa
de ses deux mains, et comme pour le forcer à se rasseoir, sur
les épaules de M. de Cambremer, qui ne s’était pas levé : «
Ah ! voyons, mon cher, insista le baron, il ne manquerait
plus que ça ! Il n’y a pas de raison ! de notre temps on
réserve ça aux princes du sang. » Je ne touchai pas plus les
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Cambremer que Mme Verdurin par mon enthousiasme pour
leur maison. Car j’étais froid devant des beautés qu’ils me
signalaient et m’exaltais de réminiscences confuses ;
quelquefois même je leur avouais ma déception, ne trouvant
pas quelque chose conforme à ce que son nom m’avait fait
imaginer. J’indignai Mme de Cambremer en lui disant que
j’avais cru que c’était plus campagne. En revanche, je
m’arrêtai avec extase à renifler l’odeur d’un vent coulis qui
passait par la porte. « Je vois que vous aimez les courants
d’air », me dirent-ils. Mon éloge du morceau de lustrine verte
bouchant un carreau cassé n’eut pas plus de succès : « Mais
quelle horreur ! » s’écria la marquise. Le comble fut quand je
dis : « Ma plus grande joie a été quand je suis arrivé. Quand
j’ai entendu résonner mes pas dans la galerie, je ne sais pas
dans quel bureau de mairie de village, où il y a la carte du
canton, je me crus entré. » Cette fois Mme de Cambremer
me tourna résolument le dos. « Vous n’avez pas trouvé tout
cela trop mal arrangé ? lui demanda son mari avec la même
sollicitude apitoyée que s’il se fût informé comment sa
femme avait supporté une triste cérémonie. Il y a de belles
choses. » Mais comme la malveillance, quand les règles fixes
d’un goût sûr ne lui imposent pas de bornes inévitables,
trouve tout à critiquer, de leur personne ou de leur maison,
chez les gens qui vous ont supplantés : « Oui, mais elles ne
sont pas à leur place. Et voire, sont-elles si belles que ça ? –
Vous avez remarqué, dit M. de Cambremer avec une
tristesse que contenait quelque fermeté, il y a des toiles de
Jouy qui montrent la corde, des choses tout usées dans ce
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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salon ! – Et cette pièce d’étoffe avec ses grosses roses,
comme un couvre-pied de paysanne », dit Mme de
Cambremer, dont la culture toute postiche s’appliquait
exclusivement à la philosophie idéaliste, à la peinture
impressionniste et à la musique de Debussy. Et pour ne pas
requérir uniquement au nom du luxe mais aussi du goût : «
Et ils ont mis des brise-bise ! Quelle faute de style ! Que
voulez-vous, ces gens, ils ne savent pas, où auraient-ils appris
? ça doit être de gros commerçants retirés. C’est déjà pas mal
pour eux. – Les chandeliers m’ont paru beaux », dit le
marquis, sans qu’on sût pourquoi il exceptait les chandeliers,
de même qu’inévitablement, chaque fois qu’on parlait d’une
église, que ce fût la cathédrale de Chartres, de Reims,
d’Amiens, ou l’église de Balbec, ce qu’il s’empressait toujours
de citer comme admirable c’était : « le buffet d’orgue, la
chaire et les œuvres de miséricorde ». « Quant au jardin, n’en
parlons pas, dit Mme de Cambremer. C’est un massacre. Ces
allées qui s’en vont tout de guingois ! » Je profitai de ce que
Mme Verdurin servait le café pour aller jeter un coup d’œil
sur la lettre que M. de Cambremer m’avait remise, et où sa
mère m’invitait à dîner. Avec ce rien d’encre, l’écriture
traduisait une individualité désormais pour moi
reconnaissable entre toutes, sans qu’il y eût plus besoin de
recourir à l’hypothèse de plumes spéciales que des couleurs
rares et mystérieusement fabriquées ne sont nécessaires au
peintre pour exprimer sa vision originale. Même un paralysé,
atteint d’agraphie après une attaque et réduit à regarder les
caractères comme un dessin, sans savoir les lire, aurait
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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compris que Mme de Cambremer appartenait à une vieille
famille où la culture enthousiaste des lettres et des arts avait
donné un peu d’air aux traditions aristocratiques. Il aurait
deviné aussi vers quelles années la marquise avait appris
simultanément à écrire et à jouer Chopin. C’était l’époque où
les gens bien élevés observaient la règle d’être aimables et
celle dite des trois adjectifs. Mme de Cambremer les
combinait toutes les deux. Un adjectif louangeux ne lui
suffisait pas, elle le faisait suivre (après un petit tiret) d’un
second, puis (après un deuxième tiret) d’un troisième. Mais
ce qui lui était particulier, c’est que, contrairement au but
social et littéraire qu’elle se proposait, la succession des trois
épithètes revêtait, dans les billets de Mme de Cambremer,
l’aspect non d’une progression, mais d’un diminuendo. Mme
de Cambremer me dit, dans cette première lettre, qu’elle
avait vu Saint-Loup et avait encore plus apprécié que jamais
ses qualités « uniques – rares – réelles », et qu’il devait
revenir avec un de ses amis (précisément celui qui aimait la
belle-fille), et que, si je voulais venir, avec ou sans eux, dîner
à Féterne, elle en serait « ravie – heureuse – contente ». Peutêtre était-ce parce que le désir d’amabilité n’était pas égalé
chez elle par la fertilité de l’imagination et la richesse du
vocabulaire que cette dame tenait à pousser trois
exclamations, n’avait la force de donner dans la deuxième et
la troisième qu’un écho affaibli de la première. Qu’il y eût eu
seulement un quatrième adjectif, et de l’amabilité initiale il ne
serait rien resté. Enfin, par une certaine simplicité raffinée
qui n’avait pas dû être sans produire une impression
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considérable dans la famille et même le cercle des relations,
Mme de Cambremer avait pris l’habitude de substituer au
mot, qui pouvait finir par avoir l’air mensonger, de « sincère
», celui de « vrai ». Et pour bien montrer qu’il s’agissait en
effet de quelque chose de sincère, elle rompait l’alliance
conventionnelle qui eût mis « vrai » avant le substantif, et le
plantait bravement après. Ses lettres finissaient par : « Croyez
à mon amitié vraie. » « Croyez à ma sympathie vraie. »
Malheureusement c’était tellement devenu une formule que
cette affectation de franchise donnait plus l’impression de la
politesse menteuse que les antiques formules au sens
desquelles on ne songe plus. J’étais d’ailleurs gêné pour lire
par le bruit confus des conversations que dominait la voix
plus haute de M. de Charlus n’ayant pas lâché son sujet et
disant à M. de Cambremer : « Vous me faisiez penser, en
voulant que je prisse votre place, à un Monsieur qui m’a
envoyé ce matin une lettre en mettant comme adresse : « À
son Altesse, le Baron de Charlus », et qui la commençait par :
« Monseigneur ». – En effet, votre correspondant exagérait
un peu », répondit M. de Cambremer en se livrant à une
discrète hilarité. M. de Charlus l’avait provoquée ; il ne la
partagea pas. « Mais dans le fond, mon cher, dit-il,
remarquez que, héraldiquement parlant, c’est lui qui est dans
le vrai ; je n’en fais pas une question de personne, vous
pensez bien. J’en parle comme s’il s’agissait d’un autre. Mais
que voulez-vous, l’histoire est l’histoire, nous n’y pouvons
rien et il ne dépend pas de nous de la refaire. Je ne vous
citerai pas l’empereur Guillaume qui, à Kiel, n’a jamais cessé
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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de me donner du Monseigneur. J’ai ouï dire qu’il appelait
ainsi tous les ducs français, ce qui est abusif, et ce qui est
peut-être simplement une délicate attention qui, par-dessus
notre tête, vise la France. – Délicate et plus ou moins
sincère, dit M. de Cambremer. Ah ! je ne suis pas de votre
avis. Remarquez que, personnellement, un seigneur de
dernier ordre comme ce Hohenzollern, de plus protestant, et
qui a dépossédé mon cousin le roi de Hanovre, n’est pas
pour me plaire, ajouta M. de Charlus, auquel le Hanovre
semblait tenir plus à cœur que l’Alsace-Lorraine. Mais je
crois le penchant qui porte l’Empereur vers nous
profondément sincère. Les imbéciles vous diront que c’est
un Empereur de théâtre. Il est au contraire merveilleusement
intelligent, il ne s’y connaît pas en peinture, et il a forcé M.
Tschudi de retirer les Elstir des musées nationaux. Mais
Louis XIV n’aimait pas les maîtres hollandais, avait aussi le
goût de l’apparat, et a été, somme toute, un grand souverain.
Encore Guillaume II a-t-il armé son pays, au point de vue
militaire et naval, comme Louis XIV n’avait pas fait, et
j’espère que son règne ne connaîtra jamais les revers qui ont
assombri, sur la fin, le règne de celui qu’on appelle
banalement le Roi Soleil. La République a commis une
grande faute, à mon avis, en repoussant les amabilités du
Hohenzollern ou en ne les lui rendant qu’au compte-gouttes.
Il s’en rend lui-même très bien compte et dit, avec ce don
d’expression qu’il a : « Ce que je veux, c’est une poignée de
mains, ce n’est pas un coup de chapeau. » Comme homme, il
est vil ; il a abandonné, livré, renié ses meilleurs amis dans
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des circonstances où son silence a été aussi misérable que le
leur a été grand, continua M. de Charlus qui, emporté
toujours sur sa pente, glissait vers l’affaire Eulenbourg et se
rappelait le mot que lui avait dit l’un des inculpés les plus
haut placés : « Faut-il que l’Empereur ait confiance en notre
délicatesse pour avoir osé permettre un pareil procès. Mais,
d’ailleurs, il ne s’est pas trompé en ayant eu foi dans notre
discrétion. Jusque sur l’échafaud nous aurions fermé la
bouche. » Du reste, tout cela n’a rien à voir avec ce que je
voulais dire, à savoir qu’en Allemagne, princes médiatisés,
nous sommes Durchlaucht, et qu’en France notre rang
d’Altesse était publiquement reconnu. Saint-Simon prétend
que nous l’avions pris par abus, ce en quoi il se trompe
parfaitement. La raison qu’il en donne, à savoir que Louis
XIV nous fit faire défense de l’appeler le Roi très chrétien, et
nous ordonna de l’appeler le Roi tout court, prouve
simplement que nous relevions de lui et nullement que nous
n’avions pas la qualité de prince. Sans quoi, il aurait fallu le
dénier au duc de Lorraine et à combien d’autres. D’ailleurs,
plusieurs de nos titres viennent de la Maison de Lorraine par
Thérèse d’Espinoy, ma bisaïeule, qui était la fille du
damoiseau de Commercy. » S’étant aperçu que Morel
l’écoutait, M. de Charlus développa plus amplement les
raisons de sa prétention. « J’ai fait observer à mon frère que
ce n’est pas dans la troisième partie du Gotha, mais dans la
deuxième, pour ne pas dire dans la première, que la notice
sur notre famille devrait se trouver, dit-il sans se rendre
compte que Morel ne savait pas ce qu’était le Gotha. Mais
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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c’est lui que ça regarde, il est mon chef d’armes, et du
moment qu’il le trouve bon ainsi et qu’il laisse passer la
chose, je n’ai qu’à fermer les yeux. – M. Brichot m’a
beaucoup intéressé, dis-je à Mme Verdurin qui venait à moi,
et tout en mettant la lettre de Mme de Cambremer dans ma
poche. – C’est un esprit cultivé et un brave homme, me
répondit-elle froidement. Il manque évidemment
d’originalité et de goût, il a une terrible mémoire. On disait
des « aïeux » des gens que nous avons ce soir, les émigrés,
qu’ils n’avaient rien oublié. Mais ils avaient du moins
l’excuse, dit-elle en prenant à son compte un mot de Swann,
qu’ils n’avaient rien appris. Tandis que Brichot sait tout, et
nous jette à la tête, pendant le dîner, des piles de
dictionnaires. Je crois que vous n’ignorez plus rien de ce que
veut dire le nom de telle ville, de tel village. » Pendant que
Mme Verdurin parlait, je pensais que je m’étais promis de lui
demander quelque chose, mais je ne pouvais me rappeler ce
que c’était. « Je suis sûr que vous parlez de Brichot. Hein,
Chantepie, et Freycinet, il ne vous a fait grâce de rien. Je
vous ai regardée, ma petite Patronne. – Je vous ai bien vu,
j’ai failli éclater. » Je ne saurais dire aujourd’hui comment
Mme Verdurin était habillée ce soir-là. Peut-être, au
moment, ne le savais-je pas davantage, car je n’ai pas l’esprit
d’observation. Mais, sentant que sa toilette n’était pas sans
prétention, je lui dis quelque chose d’aimable et même
d’admiratif. Elle était comme presque toutes les femmes,
lesquelles s’imaginent qu’un compliment qu’on leur fait est la
stricte expression de la vérité, et que c’est un jugement qu’on
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porte impartialement, irrésistiblement, comme s’il s’agissait
d’un objet d’art ne se rattachant pas à une personne. Aussi
fut-ce avec un sérieux qui me fit rougir de mon hypocrisie
qu’elle me posa cette orgueilleuse et naïve question,
habituelle en pareilles circonstances : « Cela vous plaît ? –
Vous parlez de Chantepie, je suis sûr », dit M. Verdurin
s’approchant de nous. J’avais été seul, pensant à ma lustrine
verte et à une odeur de bois, à ne pas remarquer qu’en
énumérant ces étymologies, Brichot avait fait rire de lui. Et
comme les impressions qui donnaient pour moi leur valeur
aux choses étaient de celles que les autres personnes ou
n’éprouvent pas, ou refoulent sans y penser, comme
insignifiantes, et que, par conséquent, si j’avais pu les
communiquer elles fussent restées incomprises ou auraient
été dédaignées, elles étaient entièrement inutilisables pour
moi et avaient de plus l’inconvénient de me faire passer pour
stupide aux yeux de Mme Verdurin, qui voyait que j’avais «
gobé » Brichot, comme je l’avais déjà paru à Mme de
Guermantes parce que je me plaisais chez Mme d’Arpajon.
Pour Brichot pourtant il y avait une autre raison. Je n’étais
pas du petit clan. Et dans tout clan, qu’il soit mondain,
politique, littéraire, on contracte une facilité perverse à
découvrir dans une conversation, dans un discours officiel,
dans une nouvelle, dans un sonnet, tout ce que l’honnête
lecteur n’aurait jamais songé à y voir. Que de fois il m’est
arrivé, lisant avec une certaine émotion un conte habilement
filé par un académicien disert et un peu vieillot, d’être sur le
point de dire à Bloch ou à Mme de Guermantes : « Comme
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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c’est joli ! » quand, avant que j’eusse ouvert la bouche, ils
s’écriaient, chacun dans un langage différent : « Si vous
voulez passer un bon moment, lisez un conte de un tel. La
stupidité humaine n’a jamais été aussi loin. » Le mépris de
Bloch provenait surtout de ce que certains effets de style,
agréables du reste, étaient un peu fanés ; celui de Mme de
Guermantes de ce que le conte semblait prouver justement
le contraire de ce que voulait dire l’auteur, pour des raisons
de fait qu’elle avait l’ingéniosité de déduire mais auxquelles je
n’eusse jamais pensé. Je fus aussi surpris de voir l’ironie que
cachait l’amabilité apparente des Verdurin pour Brichot que
d’entendre, quelques jours plus tard, à Féterne, les
Cambremer me dire, devant l’éloge enthousiaste que je
faisais de la Raspelière : « Ce n’est pas possible que vous
soyez sincère, après ce qu’ils en ont fait. » Il est vrai qu’ils
avouèrent que la vaisselle était belle. Pas plus que les
choquants brise-bise, je ne l’avais vue. « Enfin, maintenant,
quand vous retournerez à Balbec, vous saurez ce que Balbec
signifie », dit ironiquement M. Verdurin. C’était justement les
choses que m’apprenait Brichot qui m’intéressaient. Quant à
ce qu’on appelait son esprit, il était exactement le même qui
avait été si goûté autrefois dans le petit clan. Il parlait avec la
même irritante facilité, mais ses paroles ne portaient plus,
avaient à vaincre un silence hostile ou de désagréables échos
; ce qui avait changé était, non ce qu’il débitait, mais
l’acoustique du salon et les dispositions du public. « Gare »,
dit à mi-voix Mme Verdurin en montrant Brichot. Celui-ci,
ayant gardé l’ouïe plus perçante que la vue, jeta sur la
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Patronne un regard, vite détourné, de myope et de
philosophe. Si ses yeux étaient moins bons, ceux de son
esprit jetaient en revanche sur les choses un plus large
regard. Il voyait le peu qu’on pouvait attendre des affections
humaines, il s’y était résigné. Certes il en souffrait. Il arrive
que, même celui qui un seul soir, dans un milieu où il a
l’habitude de plaire, devine qu’on l’a trouvé ou trop frivole,
ou trop pédant, ou trop gauche, ou trop cavalier, etc..., rentre
chez lui malheureux. Souvent c’est à cause d’une question
d’opinions, de système, qu’il a paru à d’autres absurde ou
vieux-jeu. Souvent il sait à merveille que ces autres ne le
valent pas. Il pourrait aisément disséquer les sophismes à
l’aide desquels on l’a condamné tacitement, il veut aller faire
une visite, écrire une lettre : plus sage, il ne fait rien, attend
l’invitation de la semaine suivante. Parfois aussi ces
disgrâces, au lieu de finir en une soirée, durent des mois.
Dues à l’instabilité des jugements mondains, elles
l’augmentent encore. Car celui qui sait que Mme X... le
méprise, sentant qu’on l’estime chez Mme Y..., la déclare
bien supérieure et émigre dans son salon. Au reste, ce n’est
pas le lieu de peindre ici ces hommes, supérieurs à la vie
mondaine mais n’ayant pas su se réaliser en dehors d’elle,
heureux d’être reçus, aigris d’être méconnus, découvrant
chaque année les tares de la maîtresse de maison qu’ils
encensaient, et le génie de celle qu’ils n’avaient pas appréciée
à sa valeur, quitte à revenir à leurs premières amours quand
ils auront souffert des inconvénients qu’avaient aussi les
secondes, et que ceux des premières seront un peu oubliés.
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On peut juger, par ces courtes disgrâces, du chagrin que
causait à Brichot celle qu’il savait définitive. Il n’ignorait pas
que Mme Verdurin riait parfois publiquement de lui, même
de ses infirmités, et sachant le peu qu’il faut attendre des
affections humaines, s’y étant soumis, il ne considérait pas
moins la Patronne comme sa meilleure amie. Mais à la
rougeur qui couvrit le visage de l’universitaire, Mme
Verdurin comprit qu’il l’avait entendue et se promit d’être
aimable pour lui pendant la soirée. Je ne pus m’empêcher de
lui dire qu’elle l’était bien peu pour Saniette. « Comment, pas
gentille ! Mais il nous adore, vous ne savez pas ce que nous
sommes pour lui ! Mon mari est quelquefois un peu agacé de
sa stupidité, et il faut avouer qu’il y a de quoi, mais dans ces
moments-là, pourquoi ne se rebiffe-t-il pas davantage, au lieu
de prendre ces airs de chien couchant ? Ce n’est pas franc. Je
n’aime pas cela. Ça n’empêche pas que je tâche toujours de
calmer mon mari parce que, s’il allait trop loin, Saniette
n’aurait qu’à ne pas revenir ; et cela je ne le voudrais pas
parce que je vous dirai qu’il n’a plus un sou, il a besoin de ses
dîners. Et puis, après tout, si il se froisse, qu’il ne revienne
pas, moi ce n’est pas mon affaire, quand on a besoin des
autres on tâche de ne pas être aussi idiot. – Le duché
d’Aumale a été longtemps dans notre famille avant d’entrer
dans la Maison de France, expliquait M. de Charlus à M. de
Cambremer, devant Morel ébahi et auquel, à vrai dire, toute
cette dissertation était sinon adressée du moins destinée.
Nous avions le pas sur tous les princes étrangers ; je pourrais
vous en donner cent exemples. La princesse de Croy ayant
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voulu, à l’enterrement de Monsieur, se mettre à genoux après
ma trisaïeule, celle-ci lui fit vertement remarquer qu’elle
n’avait pas droit au carreau, le fit retirer par l’officier de
service et porta la chose au Roi, qui ordonna à Mme de Croy
d’aller faire des excuses à Mme de Guermantes chez elle. Le
duc de Bourgogne étant venu chez nous avec les huissiers, la
baguette levée, nous obtînmes du Roi de la faire abaisser. Je
sais qu’il y a mauvaise grâce à parler des vertus des siens.
Mais il est bien connu que les nôtres ont toujours été de
l’avant à l’heure du danger. Notre cri d’armes, quand nous
avons quitté celui des ducs de Brabant, a été « Passavant ».
De sorte qu’il est, en somme, assez légitime que ce droit
d’être partout les premiers, que nous avions revendiqué
pendant tant de siècles à la guerre, nous l’ayons obtenu
ensuite à la Cour. Et dame, il nous y a toujours été reconnu.
Je vous citerai encore comme preuve la princesse de Baden.
Comme elle s’était oubliée jusqu’à vouloir disputer son rang
à cette même duchesse de Guermantes de laquelle je vous
parlais tout à l’heure, et avait voulu entrer la première chez le
Roi en profitant d’un mouvement d’hésitation qu’avait peutêtre eu ma parente (bien qu’il n’y en eût pas à avoir), le Roi
cria vivement : « Entrez, entrez, ma cousine, Madame de
Baden sait trop ce qu’elle vous doit. » Et c’est comme
duchesse de Guermantes qu’elle avait ce rang, bien que par
elle-même elle fût d’assez grande naissance puisqu’elle était
par sa mère nièce de la Reine de Pologne, de la Reine
d’Hongrie, de l’Électeur Palatin, du prince de SavoieCarignan et du prince d’Hanovre, ensuite Roi d’Angleterre. –
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Mæcenas atavis edite regibus ! dit Brichot en s’adressant à M.
de Charlus, qui répondit par une légère inclinaison de tête à
cette politesse. – Qu’est-ce que vous dites ? demanda Mme
Verdurin à Brichot, envers qui elle aurait voulu tâcher de
réparer ses paroles de tout à l’heure. Je parlais, Dieu m’en
pardonne, d’un dandy qui était la fleur du gratin (Mme
Verdurin fronça les sourcils), environ le siècle d’Auguste
(Mme Verdurin, rassurée par l’éloignement de ce gratin, prit
une expression plus sereine), d’un ami de Virgile et d’Horace
qui poussaient la flagornerie jusqu’à lui envoyer en pleine
figure ses ascendances plus qu’aristocratiques, royales, en un
mot je parlais de Mécène, d’un rat de bibliothèque qui était
ami d’Horace, de Virgile, d’Auguste. Je suis sûr que M. de
Charlus sait très bien à tous égards qui était Mécène. »
Regardant gracieusement Mme Verdurin du coin de l’œil,
parce qu’il l’avait entendue donner rendez-vous à Morel
pour le surlendemain et qu’il craignait de ne pas être invité : «
Je crois, dit M. de Charlus, que Mécène, c’était quelque
chose comme le Verdurin de l’antiquité. » Mme Verdurin ne
put réprimer qu’à moitié un sourire de satisfaction. Elle alla
vers Morel. « Il est agréable l’ami de vos parents, lui dit-elle.
On voit que c’est un homme instruit, bien élevé. Il fera bien
dans notre petit noyau. Où donc demeure-t-il à Paris ? »
Morel garda un silence hautain et demanda seulement à faire
une partie de cartes. Mme Verdurin exigea d’abord un peu
de violon. À l’étonnement général, M. de Charlus, qui ne
parlait jamais des grands dons qu’il avait, accompagna, avec
le style le plus pur, le dernier morceau (inquiet, tourmenté,
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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schumanesque, mais enfin antérieur à la Sonate de Franck)
de la Sonate pour piano et violon de Fauré. Je sentis qu’il
donnerait à Morel, merveilleusement doué pour le son et la
virtuosité, précisément ce qui lui manquait, la culture et le
style. Mais je songeai avec curiosité à ce qui unit chez un
même homme une tare physique et un don spirituel. M. de
Charlus n’était pas très différent de son frère, le duc de
Guermantes. Même, tout à l’heure (et cela était rare), il avait
parlé un aussi mauvais français que lui. Me reprochant (sans
doute pour que je parlasse en termes chaleureux de Morel à
Mme Verdurin) de n’aller jamais le voir, et moi invoquant la
discrétion, il m’avait répondu : « Mais puisque c’est moi qui
vous le demande, il n’y a que moi qui pourrais m’en
formaliser. » Cela aurait pu être dit par le duc de
Guermantes. M. de Charlus n’était, en somme, qu’un
Guermantes. Mais il avait suffi que la nature déséquilibrât
suffisamment en lui le système nerveux pour qu’au lieu d’une
femme, comme eût fait son frère le duc, il préférât un berger
de Virgile ou un élève de Platon, et aussitôt des qualités
inconnues au duc de Guermantes, et souvent liées à ce
déséquilibre, avaient fait de M. de Charlus un pianiste
délicieux, un peintre amateur qui n’était pas sans goût, un
éloquent discoureur. Le style rapide, anxieux, charmant avec
lequel M. de Charlus jouait le morceau schumanesque de la
Sonate de Fauré, qui aurait pu discerner que ce style avait
son correspondant – on n’ose dire sa cause – dans des
parties toutes physiques, dans les défectuosités de M. de
Charlus ? Nous expliquerons plus tard ce mot de
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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défectuosités nerveuses et pour quelles raisons un Grec du
temps de Socrate, un Romain du temps d’Auguste,
pouvaient être ce qu’on sait tout en restant des hommes
absolument normaux, et non des hommes-femmes comme
on en voit aujourd’hui. De même qu’il avait de réelles
dispositions artistiques, non venues à terme, M. de Charlus
avait, bien plus que le duc, aimé leur mère, aimé sa femme, et
même des années après, quand on lui en parlait, il avait des
larmes, mais superficielles, comme la transpiration d’un
homme trop gros, dont le front pour un rien s’humecte de
sueur. Avec la différence qu’à ceux-ci on dit : « Comme vous
avez chaud », tandis qu’on fait semblant de ne pas voir les
pleurs des autres. On, c’est-à-dire le monde ; car le peuple
s’inquiète de voir pleurer, comme si un sanglot était plus
grave qu’une hémorragie. La tristesse qui suivit la mort de sa
femme, grâce à l’habitude de mentir, n’excluait pas chez M.
de Charlus une vie qui n’y était pas conforme. Plus tard
même, il eut l’ignominie de laisser entendre que, pendant la
cérémonie funèbre, il avait trouvé le moyen de demander
son nom et son adresse à l’enfant de chœur. Et c’était peutêtre vrai.
Le morceau fini, je me permis de réclamer du Franck, ce qui
eut l’air de faire tellement souffrir Mme de Cambremer que
je n’insistai pas. « Vous ne pouvez pas aimer cela », me ditelle. Elle demanda à la place Fêtes de Debussy, ce qui fit
crier : « Ah ! c’est sublime ! » dès la première note. Mais
Morel s’aperçut qu’il ne savait que les premières mesures et,
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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par gaminerie, sans aucune intention de mystifier, il
commença une marche de Meyerbeer. Malheureusement,
comme il laissa peu de transitions et ne fit pas d’annonce,
tout le monde crut que c’était encore du Debussy, et on
continua à crier : « Sublime ! » Morel, en révélant que l’auteur
n’était pas celui de Pelléas, mais de Robert le Diable, jeta un
certain froid. Mme de Cambremer n’eut guère le temps de le
ressentir pour elle-même, car elle venait de découvrir un
cahier de Scarlatti et elle s’était jetée dessus avec une
impulsion d’hystérique. « Oh ! jouez ça, tenez, ça, c’est divin
», criait-elle. Et pourtant de cet auteur longtemps dédaigné,
promu depuis peu aux plus grands honneurs, ce qu’elle
élisait, dans son impatience fébrile, c’était un de ces
morceaux maudits qui vous ont si souvent empêché de
dormir et qu’une élève sans pitié recommence indéfiniment à
l’étage contigu au vôtre. Mais Morel avait assez de musique,
et comme il tenait à jouer aux cartes, M. de Charlus, pour
participer à la partie, aurait voulu un whist. « Il a dit tout à
l’heure au Patron qu’il était prince, dit Ski à Mme Verdurin,
mais ce n’est pas vrai, il est d’une simple bourgeoisie de
petits architectes. – Je veux savoir ce que vous disiez de
Mécène. Ça m’amuse, moi, na ! » redit Mme Verdurin à
Brichot, par une amabilité qui grisa celui-ci. Aussi pour
briller aux yeux de la Patronne et peut-être aux miens : «
Mais à vrai dire, Madame, Mécène m’intéresse surtout parce
qu’il est le premier apôtre de marque de ce Dieu chinois qui
compte aujourd’hui en France plus de sectateurs que
Brahma, que le Christ lui-même, le très puissant Dieu
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Jemenfou. » Mme Verdurin ne se contentait plus, dans ces
cas-là, de plonger sa tête dans sa main. Elle s’abattait, avec la
brusquerie des insectes appelés éphémères, sur la princesse
Sherbatoff ; si celle-ci était à peu de distance, la Patronne
s’accrochait à l’aisselle de la princesse, y enfonçait ses ongles,
et cachait pendant quelques instants sa tête comme un
enfant qui joue à cache-cache. Dissimulée par cet écran
protecteur, elle était censée rire aux larmes et pouvait aussi
bien ne penser à rien du tout que les gens qui, pendant qu’ils
font une prière un peu longue, ont la sage précaution
d’ensevelir leur visage dans leurs mains. Mme Verdurin les
imitait en écoutant les quatuors de Beethoven pour montrer
à la fois qu’elle les considérait comme une prière et pour ne
pas laisser voir qu’elle dormait. « Je parle fort sérieusement,
Madame, dit Brichot. Je crois que trop grand est aujourd’hui
le nombre des gens qui passent leur temps à considérer leur
nombril comme s’il était le centre du monde. En bonne
doctrine, je n’ai rien à objecter à je ne sais quel nirvana qui
tend à nous dissoudre dans le grand Tout (lequel, comme
Munich et Oxford, est beaucoup plus près de Paris
qu’Asnières ou Bois-Colombes), mais il n’est ni d’un bon
Français, ni même d’un bon Européen, quand les Japonais
sont peut-être aux portes de notre Byzance, que des
antimilitaristes socialisés discutent gravement sur les vertus
cardinales du vers libre. » Mme Verdurin crut pouvoir lâcher
l’épaule meurtrie de la princesse et elle laissa réapparaître sa
figure, non sans feindre de s’essuyer les yeux et sans
reprendre deux ou trois fois haleine. Mais Brichot voulait
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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que j’eusse ma part de festin, et ayant retenu des soutenances
de thèses, qu’il présidait comme personne, qu’on ne flatte
jamais tant la jeunesse qu’en la morigénant, en lui donnant
de l’importance, en se faisant traiter par elle de réactionnaire
: « Je ne voudrais pas blasphémer les Dieux de la Jeunesse,
dit-il en jetant sur moi ce regard furtif qu’un orateur accorde
à la dérobée à quelqu’un présent dans l’assistance et dont il
cite le nom. Je ne voudrais pas être damné comme hérétique
et relaps dans la chapelle mallarméenne, où notre nouvel
ami, comme tous ceux de son âge, a dû servir la messe
ésotérique, au moins comme enfant de chœur, et se montrer
déliquescent ou Rose-Croix. Mais vraiment, nous en avons
trop vu de ces intellectuels adorant l’Art, avec un grand A, et
qui, quand il ne leur suffit plus de s’alcooliser avec du Zola,
se font des piqûres de Verlaine. Devenus éthéromanes par
dévotion baudelairienne, ils ne seraient plus capables de
l’effort viril que la patrie peut un jour ou l’autre leur
demander, anesthésiés qu’ils sont par la grande névrose
littéraire, dans l’atmosphère chaude, énervante, lourde de
relents malsains, d’un symbolisme de fumerie d’opium. »
Incapable de feindre l’ombre d’admiration pour le couplet
inepte et bigarré de Brichot, je me détournai vers Ski et lui
assurai qu’il se trompait absolument sur la famille à laquelle
appartenait M. de Charlus ; il me répondit qu’il était sûr de
son fait et ajouta que je lui avais même dit que son vrai nom
était Gandin, Le Gandin. « Je vous ai dit, lui répondis-je, que
Mme de Cambremer était la sœur d’un ingénieur, M.
Legrandin. Je ne vous ai jamais parlé de M. de Charlus. Il y a
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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autant de rapport de naissance entre lui et Mme de
Cambremer qu’entre le Grand Condé et Racine. – Ah ! je
croyais », dit Ski légèrement sans plus s’excuser de son erreur
que, quelques heures avant, de celle qui avait failli nous faire
manquer le train. « Est-ce que vous comptez rester
longtemps sur la côte ? demanda Mme Verdurin à M. de
Charlus, en qui elle pressentait un fidèle et qu’elle tremblait
de voir rentrer trop tôt à Paris. – Mon Dieu, on ne sait
jamais, répondit d’un ton nasillard et traînant M. de Charlus.
J’aimerais rester jusqu’à la fin de septembre. – Vous avez
raison, dit Mme Verdurin ; c’est le moment des belles
tempêtes. – À bien vrai dire ce n’est pas ce qui me
déterminerait. J’ai trop négligé depuis quelque temps
l’Archange saint Michel, mon patron, et je voudrais le
dédommager en restant jusqu’à sa fête, le 29 septembre, à
l’Abbaye du Mont. – Ça vous intéresse beaucoup, ces
affaires-là ? » demanda Mme Verdurin, qui eût peut-être
réussi à faire taire son anticléricalisme blessé si elle n’avait
craint qu’une excursion aussi longue ne fit « lâcher » pendant
quarante-huit heures le violoniste et le baron. « Vous êtes
peut-être affligée de surdité intermittente, répondit
insolemment M. de Charlus. Je vous ai dit que saint Michel
était un de mes glorieux patrons. » Puis, souriant avec une
bienveillante extase, les yeux fixés au loin, la voix accrue par
une exaltation qui me sembla plus qu’esthétique, religieuse : «
C’est si beau à l’offertoire, quand Michel se tient debout près
de l’autel, en robe blanche, balançant un encensoir d’or, et
avec un tel amas de parfums que l’odeur en monte jusqu’à
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Dieu. – On pourrait y aller en bande, suggéra Mme
Verdurin, malgré son horreur de la calotte. – À ce momentlà, dès l’offertoire, reprit M. de Charlus qui, pour d’autres
raisons mais de la même manière que les bons orateurs à la
Chambre, ne répondait jamais à une interruption et feignait
de ne pas l’avoir entendue, ce serait ravissant de voir notre
jeune ami palestrinisant et exécutant même une Aria de
Bach. Il serait fou de joie, le bon Abbé aussi, et c’est le plus
grand hommage, du moins le plus grand hommage public,
que je puisse rendre à mon Saint Patron. Quelle édification
pour les fidèles ! Nous en parlerons tout à l’heure au jeune
Angelico musical, militaire comme saint Michel. »
Saniette, appelé pour faire le mort, déclara qu’il ne savait pas
jouer au whist. Et Cottard, voyant qu’il n’y avait plus grand
temps avant l’heure du train, se mit tout de suite à faire une
partie d’écarté avec Morel. M. Verdurin, furieux, marcha
d’un air terrible sur Saniette : « Vous ne savez donc jouer à
rien ! » cria-t-il, furieux d’avoir perdu l’occasion de faire un
whist, et ravi d’en avoir trouvé une d’injurier l’ancien
archiviste. Celui-ci, terrorisé, prit un air spirituel : « Si, je sais
jouer du piano », dit-il. Cottard et Morel s’étaient assis face à
face. « À vous l’honneur, dit Cottard. – Si nous nous
approchions un peu de la table de jeu, dit à M. de
Cambremer M. de Charlus, inquiet de voir le violoniste avec
Cottard. C’est aussi intéressant que ces questions d’étiquette
qui, à notre époque, ne signifient plus grand’chose. Les seuls
rois qui nous restent, en France du moins, sont les rois des
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Jeux de Cartes, et il me semble qu’ils viennent à foison dans
la main du jeune virtuose », ajouta-t-il bientôt, par une
admiration pour Morel qui s’étendait jusqu’à sa manière de
jouer, pour le flatter aussi, et enfin pour expliquer le
mouvement qu’il faisait de se pencher sur l’épaule du
violoniste. « Ié coupe », dit, en contrefaisant l’accent
rastaquouère, Cottard, dont les enfants s’esclaffèrent comme
faisaient ses élèves et le chef de clinique, quand le maître,
même au lit d’un malade gravement atteint, lançait, avec un
masque impassible d’épileptique, une de ses coutumières
facéties. « Je ne sais pas trop ce que je dois jouer, dit Morel
en consultant M. de Cambremer. – Comme vous voudrez,
vous serez battu de toutes façons, ceci ou ça, c’est égal. –
Égal... Ingalli ? dit le docteur en coulant vers M. de
Cambremer un regard insinuant et bénévole. C’était ce que
nous appelons la véritable diva, c’était le rêve, une Carmen
comme on n’en reverra pas. C’était la femme du rôle.
J’aimais aussi y entendre Ingalli – marié. » Le marquis se leva
avec cette vulgarité méprisante des gens bien nés qui ne
comprennent pas qu’ils insultent le maître de maison en
ayant l’air de ne pas être certains qu’on puisse fréquenter ses
invités et qui s’excusent sur l’habitude anglaise pour
employer une expression dédaigneuse : « Quel est ce
Monsieur qui joue aux cartes ? qu’est-ce qu’il fait dans la vie
? qu’est-ce qu’il vend ? J’aime assez à savoir avec qui je me
trouve, pour ne pas me lier avec n’importe qui. Or je n’ai pas
entendu son nom quand vous m’avez fait l’honneur de me
présenter à lui. » Si M. Verdurin, s’autorisant de ces derniers
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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mots, avait, en effet, présenté à ses convives M. de
Cambremer, celui-ci l’eût trouvé fort mauvais. Mais sachant
que c’était le contraire qui avait lieu, il trouvait gracieux
d’avoir l’air bon enfant et modeste sans péril. La fierté
qu’avait M. Verdurin de son intimité avec Cottard n’avait fait
que grandir depuis que le docteur était devenu un professeur
illustre. Mais elle ne s’exprimait plus sous la forme naïve
d’autrefois. Alors, quand Cottard était à peine connu, si on
parlait à M. Verdurin des névralgies faciales de sa femme : «
Il n’y a rien à faire, disait-il, avec l’amour-propre naïf des
gens qui croient que ce qu’ils connaissent est illustre et que
tout le monde connaît le nom du professeur de chant de leur
famille. Si elle avait un médecin de second ordre on pourrait
chercher un autre traitement, mais quand ce médecin
s’appelle Cottard (nom qu’il prononçait comme si c’eût été
Bouchard ou Charcot), il n’y a qu’à tirer l’échelle. » Usant
d’un procédé inverse, sachant que M. de Cambremer avait
certainement entendu parler du fameux professeur Cottard,
M. Verdurin prit un air simplet. « C’est notre médecin de
famille, un brave cœur que nous adorons et qui se ferait
couper en quatre pour nous ; ce n’est pas un médecin, c’est
un ami ; je ne pense pas que vous le connaissiez ni que son
nom vous dirait quelque chose ; en tout cas, pour nous c’est
le nom d’un bien bon homme, d’un bien cher ami, Cottard. »
Ce nom, murmuré d’un air modeste, trompa M. de
Cambremer qui crut qu’il s’agissait d’un autre. « Cottard ?
vous ne parlez pas du professeur Cottard ? » On entendait
précisément la voix dudit professeur qui, embarrassé par un
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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coup, disait en tenant ses cartes : « C’est ici que les Athéniens
s’atteignirent. – Ah ! si, justement, il est professeur, dit M.
Verdurin. – Quoi ! le professeur Cottard ! Vous ne vous
trompez pas ! Vous êtes bien sûr que c’est le même ! celui
qui demeure rue du Bac ! – Oui, il demeure rue du Bac, 43.
Vous le connaissez ? – Mais tout le monde connaît le
professeur Cottard. C’est une sommité ! C’est comme si
vous me demandiez si je connais Bouffe de Saint-Blaise ou
Courtois-Suffit. J’avais bien vu, en l’écoutant parler, que ce
n’était pas un homme ordinaire, c’est pourquoi je me suis
permis de vous demander. – Voyons, qu’est-ce qu’il faut
jouer ? atout ? » demandait Cottard. Puis brusquement, avec
une vulgarité qui eût été agaçante même dans une
circonstance héroïque, où un soldat veut prêter une
expression familière au mépris de la mort, mais qui devenait
doublement stupide dans le passe-temps sans danger des
cartes, Cottard, se décidant à jouer atout, prit un air sombre,
« cerveau brûlé », et, par allusion à ceux qui risquent leur
peau, joua sa carte comme si c’eût été sa vie, en s’écriant : «
Après tout, je m’en fiche ! » Ce n’était pas ce qu’il fallait
jouer, mais il eut une consolation. Au milieu du salon, dans
un large fauteuil, Mme Cottard, cédant à l’effet, irrésistible
chez elle, de l’après-dîner, s’était soumise, après de vains
efforts, au sommeil vaste et léger qui s’emparait d’elle. Elle
avait beau se redresser à des instants, pour sourire, soit par
moquerie de soi-même, soit par peur de laisser sans réponse
quelque parole aimable qu’on lui eût adressée, elle retombait
malgré elle, en proie au mal implacable et délicieux. Plutôt
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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que le bruit, ce qui l’éveillait ainsi, pour une seconde
seulement, c’était le regard (que par tendresse elle voyait
même les yeux fermés, et prévoyait, car la même scène se
produisait tous les soirs et hantait son sommeil comme
l’heure où on aura à se lever), le regard par lequel le
professeur signalait le sommeil de son épouse aux personnes
présentes. Il se contentait, pour commencer, de la regarder et
de sourire, car si, comme médecin, il blâmait ce sommeil
d’après le dîner (du moins donnait-il cette raison scientifique
pour se fâcher vers la fin, mais il n’est pas sûr qu’elle fût
déterminante, tant il avait là-dessus de vues variées), comme
mari tout-puissant et taquin, il était enchanté de se moquer
de sa femme, de ne l’éveiller d’abord qu’à moitié, afin qu’elle
se rendormît et qu’il eût le plaisir de la réveiller de nouveau.
Maintenant Mme Cottard dormait tout à fait. « Hé bien !
Léontine, tu pionces, lui cria le professeur. – J’écoute ce que
dit Mme Swann, mon ami, répondit faiblement Mme
Cottard, qui retomba dans sa léthargie. – C’est insensé,
s’écria Cottard, tout à l’heure elle nous affirmera qu’elle n’a
pas dormi. C’est comme les patients qui se rendent à une
consultation et qui prétendent qu’ils ne dorment jamais. – Ils
se le figurent peut-être », dit en riant M. de Cambremer. Mais
le docteur aimait autant à contredire qu’à taquiner, et surtout
n’admettait pas qu’un profane osât lui parler médecine. « On
ne se figure pas qu’on ne dort pas, promulgua-t-il d’un ton
dogmatique. – Ah ! répondit en s’inclinant respectueusement
le marquis, comme eût fait Cottard jadis. – On voit bien,
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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reprit Cottard, que vous n’avez pas comme moi administré
jusqu’à deux grammes de trional sans arriver à provoquer la
somnescence. – En effet, en effet, répondit le marquis en
riant d’un air avantageux, je n’ai jamais pris de trional, ni
aucune de ces drogues qui bientôt ne font plus d’effet mais
vous détraquent l’estomac. Quand on a chassé toute la nuit
comme moi, dans la forêt de Chantepie, je vous assure qu’on
n’a pas besoin de trional pour dormir. – Ce sont les
ignorants qui disent cela, répondit le professeur. Le trional
relève parfois d’une façon remarquable le tonus nerveux.
Vous parlez de trional, savez-vous seulement ce que c’est ? –
Mais... j’ai entendu dire que c’était un médicament pour
dormir. – Vous ne répondez pas à ma question, reprit
doctoralement le professeur qui, trois fois par semaine, à la
Faculté, était d’« examen ». Je ne vous demande pas si ça fait
dormir ou non, mais ce que c’est. Pouvez-vous me dire ce
qu’il contient de parties d’amyle et d’éthyle ? – Non,
répondit M. de Cambremer embarrassé. Je préfère un bon
verre de fine ou même de porto 345. – Qui sont dix fois plus
toxiques, interrompit le professeur. – Pour le trional, hasarda
M. de Cambremer, ma femme est abonnée à tout cela, vous
feriez mieux d’en parler avec elle. – Qui doit en savoir à peu
près autant que vous. En tout cas, si votre femme prend du
trional pour dormir, vous voyez que ma femme n’en a pas
besoin. Voyons, Léontine, bouge-toi, tu t’ankyloses, est-ce
que je dors après dîner, moi ? qu’est-ce que tu feras à
soixante ans si tu dors maintenant comme une vieille ? Tu
vas prendre de l’embonpoint, tu t’arrêtes la circulation... Elle
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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ne m’entend même plus. – C’est mauvais pour la santé, ces
petits sommes après dîner, n’est-ce pas, docteur ? dit M. de
Cambremer pour se réhabiliter auprès de Cottard. Après
avoir bien mangé il faudrait faire de l’exercice. – Des
histoires ! répondit le docteur. On a prélevé une même
quantité de nourriture dans l’estomac d’un chien qui était
resté tranquille, et dans l’estomac d’un chien qui avait couru,
et c’est chez le premier que la digestion était la plus avancée.
– Alors c’est le sommeil qui coupe la digestion ? – Cela
dépend s’il s’agit de la digestion œsophagique, stomacale,
intestinale ; inutile de vous donner des explications que vous
ne comprendriez pas, puisque vous n’avez pas fait vos
études de médecine. Allons, Léontine, en avant... harche, il
est temps de partir. » Ce n’était pas vrai, car le docteur allait
seulement continuer sa partie de cartes, mais il espérait
contrarier ainsi, de façon plus brusque, le sommeil de la
muette à laquelle il adressait, sans plus recevoir de réponse,
les plus savantes exhortations. Soit qu’une volonté de
résistance à dormir persistât chez Mme Cottard, même dans
l’état de sommeil, soit que le fauteuil ne prêtât pas d’appui à
sa tête, cette dernière fut rejetée mécaniquement de gauche à
droite et de bas en haut, dans le vide, comme un objet inerte,
et Mme Cottard, balancée quant au chef, avait tantôt l’air
d’écouter de la musique, tantôt d’être entrée dans la dernière
phase de l’agonie. Là où les admonestations de plus en plus
véhémentes de son mari échouaient, le sentiment de sa
propre sottise réussit : « Mon bain est bien comme chaleur,
murmura-t-elle, mais les plumes du dictionnaire... s’écria-t543
Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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elle en se redressant. Oh ! mon Dieu, que je suis sotte !
Qu’est-ce que je dis ? je pensais à mon chapeau, j’ai dû dire
une bêtise, un peu plus j’allais m’assoupir, c’est ce maudit
feu. » Tout le monde se mit à rire car il n’y avait pas de feu.
« Vous vous moquez de moi, dit en riant elle-même Mme
Cottard, qui effaça de la main sur son front, avec une
légèreté de magnétiseur et une adresse de femme qui se
recoiffe, les dernières traces du sommeil, je veux présenter
mes humbles excuses à la chère Madame Verdurin et savoir
d’elle la vérité. » Mais son sourire devint vite triste, car le
professeur, qui savait que sa femme cherchait à lui plaire et
tremblait de n’y pas réussir, venait de lui crier : « Regarde-toi
dans la glace, tu es rouge comme si tu avais une éruption
d’acné, tu as l’air d’une vieille paysanne. – Vous savez, il est
charmant, dit Mme Verdurin, il a un joli côté de bonhomie
narquoise. Et puis il a ramené mon mari des portes du
tombeau quand toute la Faculté l’avait condamné. Il a passé
trois nuits près de lui, sans se coucher. Aussi Cottard pour
moi, vous savez, ajouta-t-elle d’un ton grave et presque
menaçant, en levant la main vers les deux sphères aux
mèches blanches de ses tempes musicales et comme si nous
avions voulu toucher au docteur, c’est sacré ! Il pourrait
demander tout ce qu’il voudrait. Du reste, je ne l’appelle pas
le Docteur Cottard, je l’appelle le Docteur Dieu ! Et encore
en disant cela je le calomnie, car ce Dieu répare dans la
mesure du possible une partie des malheurs dont l’autre est
responsable. – Jouez atout, dit à Morel M. de Charlus d’un
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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air heureux. – Atout, pour voir, dit le violoniste. – Il fallait
annoncer d’abord votre roi, dit M. de Charlus, vous êtes
distrait, mais comme vous jouez bien ! – J’ai le roi, dit Morel.
– C’est un bel homme, répondit le professeur. – Qu’est-ce
que c’est que cette affaire-là avec ces piquets ? demanda
Mme Verdurin en montrant à M. de Cambremer un superbe
écusson sculpté au-dessus de la cheminée. Ce sont vos armes
? ajouta-t-elle avec un dédain ironique. – Non, ce ne sont pas
les nôtres, répondit M. de Cambremer. Nous portons d’or à
trois fasces bretèchées et contre-bretèchées de gueules à cinq
pièces chacune chargée d’un trèfle d’or. Non, celles-là ce
sont celles des d’Arrachepel, qui n’étaient pas de notre estoc,
mais de qui nous avons hérité la maison, et jamais ceux de
notre lignage n’ont rien voulu y changer. Les Arrachepel
(jadis Pelvilain, dit-on) portaient d’or à cinq pieux épointés
de gueules. Quand ils s’allièrent aux Féterne, leur écu
changea mais resta cantonné de vingt croisettes recroisettées
au pieu péri fiché d’or avec à droite un vol d’hermine. –
Attrape, dit tout bas Mme de Cambremer. – Mon arrièregrand’mère était une d’Arrachepel ou de Rachepel, comme
vous voudrez, car on trouve les deux noms dans les vieilles
chartes, continua M. de Cambremer, qui rougit vivement, car
il eut, seulement alors, l’idée dont sa femme lui avait fait
honneur et il craignit que Mme Verdurin ne se fût appliqué
des paroles qui ne la visaient nullement. L’histoire veut qu’au
onzième siècle, le premier Arrachepel, Macé, dit Pelvilain, ait
montré une habileté particulière dans les sièges pour arracher
les pieux. D’où le surnom d’Arrachepel sous lequel il fut
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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anobli, et les pieux que vous voyez à travers les siècles
persister dans leurs armes. Il s’agit des pieux que, pour
rendre plus inabordables les fortifications, on plantait, on
fichait, passez-moi l’expression, en terre devant elles, et
qu’on reliait entre eux. Ce sont eux que vous appeliez très
bien des piquets et qui n’avaient rien des bâtons flottants du
bon La Fontaine. Car ils passaient pour rendre une place
inexpugnable. Évidemment, cela fait sourire avec l’artillerie
moderne. Mais il faut se rappeler qu’il s’agit du onzième
siècle. – Cela manque d’actualité, dit Mme Verdurin, mais le
petit campanile a du caractère. – Vous avez, dit Cottard, une
veine de... turlututu, mot qu’il répétait volontiers pour
esquiver celui de Molière. Savez-vous pourquoi le roi de
carreau est réformé ? – Je voudrais bien être à sa place, dit
Morel que son service militaire ennuyait. – Ah ! le mauvais
patriote, s’écria M. de Charlus, qui ne put se retenir de pincer
l’oreille au violoniste. – Non, vous ne savez pas pourquoi le
roi de carreau est réformé ? reprit Cottard, qui tenait à ses
plaisanteries, c’est parce qu’il n’a qu’un œil. – Vous avez
affaire à forte partie, docteur, dit M. de Cambremer pour
montrer à Cottard qu’il savait qui il était. – Ce jeune homme
est étonnant, interrompit naïvement M. de Charlus, en
montrant Morel. Il joue comme un dieu. » Cette réflexion ne
plut pas beaucoup au docteur qui répondit : « Qui vivra
verra. À roublard, roublard et demi. – La dame, l’as »,
annonça triomphalement Morel, que le sort favorisait. Le
docteur courba la tête comme ne pouvant nier cette fortune
et avoua, fasciné : « C’est beau. – Nous avons été très
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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contents de dîner avec M. de Charlus, dit Mme de
Cambremer à Mme Verdurin. – Vous ne le connaissiez pas ?
Il est assez agréable, il est particulier, il est d’une époque »
(elle eût été bien embarrassée de dire laquelle), répondit
Mme Verdurin avec le sourire satisfait d’une dilettante, d’un
juge et d’une maîtresse de maison. Mme de Cambremer me
demanda si je viendrais à Féterne avec Saint-Loup. Je ne pus
retenir un cri d’admiration en voyant la lune suspendue
comme un lampion orangé à la voûte des chênes qui partait
du château. « Ce n’est encore rien ; tout à l’heure, quand la
lune sera plus haute et que la vallée sera éclairée, ce sera mille
fois plus beau. Voilà ce que vous n’avez pas à Féterne ! ditelle d’un ton dédaigneux à Mme de Cambremer, laquelle ne
savait que répondre, ne voulant pas déprécier sa propriété,
surtout devant les locataires. – Vous restez encore quelque
temps dans la région, Madame, demanda M. de Cambremer
à Mme Cottard, ce qui pouvait passer pour une vague
intention de l’inviter et ce qui dispensait actuellement de
rendez-vous plus précis. – Oh ! certainement, Monsieur, je
tiens beaucoup pour les enfants à cet exode annuel. On a
beau dire, il leur faut le grand air. La Faculté voulait
m’envoyer à Vichy ; mais c’est trop étouffé, et je m’occuperai
de mon estomac quand ces grands garçons-là auront encore
un peu poussé. Et puis le Professeur, avec les examens qu’il
fait passer, a toujours un fort coup de collier à donner, et les
chaleurs le fatiguent beaucoup. Je trouve qu’on a besoin
d’une franche détente quand on a été comme lui toute
l’année sur la brèche. De toutes façons nous resterons
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encore un bon mois. – Ah ! alors nous sommes gens de
revue. – D’ailleurs, je suis d’autant plus obligée de rester que
mon mari doit aller faire un tour en Savoie, et ce n’est que
dans une quinzaine qu’il sera ici en poste fixe. – J’aime
encore mieux le côté de la vallée que celui de la mer, reprit
Mme Verdurin. – Vous allez avoir un temps splendide pour
revenir. – Il faudrait même voir si les voitures sont attelées,
dans le cas où vous tiendriez absolument à rentrer ce soir à
Balbec, me dit M. Verdurin, car moi je n’en vois pas la
nécessité. On vous ferait ramener demain matin en voiture.
Il fera sûrement beau. Les routes sont admirables. » Je dis
que c’était impossible. « Mais en tout cas il n’est pas l’heure,
objecta la Patronne. Laisse-les tranquilles, ils ont bien le
temps. Ça les avancera bien d’arriver une heure d’avance à la
gare. Ils sont mieux ici. Et vous, mon petit Mozart, dit-elle à
Morel, n’osant pas s’adresser directement à M. de Charlus,
vous ne voulez pas rester ? Nous avons de belles chambres
sur la mer. – Mais il ne peut pas, répondit M. de Charlus
pour le joueur attentif, qui n’avait pas entendu. Il n’a que la
permission de minuit. Il faut qu’il rentre se coucher, comme
un enfant bien obéissant, bien sage », ajouta-t-il d’une voix
complaisante, maniérée, insistante, comme s’il trouvait
quelque sadique volupté à employer cette chaste
comparaison et aussi à appuyer au passage sa voix sur ce qui
concernait Morel, à le toucher, à défaut de la main, avec des
paroles qui semblaient le palper.
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Du sermon que m’avait adressé Brichot, M. de Cambremer
avait conclu que j’étais dreyfusard. Comme il était aussi
antidreyfusard que possible, par courtoisie pour un ennemi il
se mit à me faire l’éloge d’un colonel juif, qui avait toujours
été très juste pour un cousin des Chevrigny et lui avait fait
donner l’avancement qu’il méritait. « Et mon cousin était
dans des idées absolument opposées », dit M. de
Cambremer, glissant sur ce qu’étaient ces idées, mais que je
sentis aussi anciennes et mal formées que son visage, des
idées que quelques familles de certaines petites villes
devaient avoir depuis bien longtemps. « Eh bien ! vous
savez, je trouve ça très beau ! » conclut M. de Cambremer. Il
est vrai qu’il n’employait guère le mot « beau » dans le sens
esthétique où il eût désigné, pour sa mère ou sa femme, des
œuvres différentes, mais des œuvres d’art. M. de Cambremer
se servait plutôt de ce qualificatif en félicitant, par exemple,
une personne délicate qui avait un peu engraissé. «
Comment, vous avez repris trois kilos en deux mois ? Savezvous que c’est très beau ! » Des rafraîchissements étaient
servis sur une table. Mme Verdurin invita les messieurs à
aller eux-mêmes choisir la boisson qui leur convenait. M. de
Charlus alla boire son verre et vite revint s’asseoir près de la
table de jeu et ne bougea plus. Mme Verdurin lui demanda :
« Avez-vous pris de mon orangeade ? » Alors M. de Charlus,
avec un sourire gracieux, sur un ton cristallin qu’il avait
rarement et avec mille moues de la bouche et
déhanchements de la taille, répondit : « Non, j’ai préféré la
voisine, c’est de la fraisette, je crois, c’est délicieux. » Il est
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singulier qu’un certain ordre d’actes secrets ait pour
conséquence extérieure une manière de parler ou de
gesticuler qui les révèle. Si un monsieur croit ou non à
l’Immaculée Conception, ou à l’innocence de Dreyfus, ou à
la pluralité des mondes, et veuille s’en taire, on ne trouvera,
dans sa voix ni dans sa démarche, rien qui laisse apercevoir
sa pensée. Mais en entendant M. de Charlus dire, de cette
voix aiguë et avec ce sourire et ces gestes de bras : « Non, j’ai
préféré sa voisine, la fraisette », on pouvait dire : « Tiens, il
aime le sexe fort », avec la même certitude, pour un juge, que
celle qui permet de condamner un criminel qui n’a pas avoué
; pour un médecin, un paralytique général qui ne sait peutêtre pas lui-même son mal, mais qui a fait telle faute de
prononciation d’où on peut déduire qu’il sera mort dans
trois ans. Peut-être les gens qui concluent de la manière de
dire : « Non, j’ai préféré sa voisine, la fraisette » à un amour
dit antiphysique, n’ont-ils pas besoin de tant de science. Mais
c’est qu’ici il y a rapport plus direct entre le signe révélateur
et le secret. Sans se le dire précisément, on sent que c’est une
douce et souriante dame qui vous répond, et qui paraît
maniérée parce qu’elle se donne pour un homme et qu’on
n’est pas habitué à voir les hommes faire tant de manières.
Et il est peut-être plus gracieux de penser que depuis
longtemps un certain nombre de femmes angéliques ont été
comprises par erreur dans le sexe masculin où, exilées, tout
en battant vainement des ailes vers les hommes à qui elles
inspirent une répulsion physique, elles savent arranger un
salon, composer des « intérieurs ». M. de Charlus ne
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s’inquiétait pas que Mme Verdurin fût debout et restait
installé dans son fauteuil pour être plus près de Morel. «
Croyez-vous, dit Mme Verdurin au baron, que ce n’est pas
un crime que cet être-là, qui pourrait nous enchanter avec
son violon, soit là à une table d’écarté. Quand on joue du
violon comme lui ! – Il joue bien aux cartes, il fait tout bien,
il est si intelligent », dit M. de Charlus, tout en regardant les
jeux, afin de conseiller Morel. Ce n’était pas, du reste, sa
seule raison de ne pas se soulever de son fauteuil devant
Mme Verdurin. Avec le singulier amalgame qu’il avait fait de
ses conceptions sociales, à la fois de grand seigneur et
d’amateur d’art, au lieu d’être poli de la même manière qu’un
homme de son monde l’eût été, il se faisait, d’après SaintSimon, des espèces de tableaux vivants ; et, en ce moment,
s’amusait à figurer le maréchal d’Uxelles, lequel l’intéressait
par d’autres côtés encore et dont il est dit qu’il était glorieux
jusqu’à ne pas se lever de son siège, par un air de paresse,
devant ce qu’il y avait de plus distingué à la Cour. « Dites
donc, Charlus, dit Mme Verdurin, qui commençait à se
familiariser, vous n’auriez pas dans votre faubourg quelque
vieux noble ruiné qui pourrait me servir de concierge ? –
Mais si... mais si..., répondit M. de Charlus en souriant d’un
air bonhomme, mais je ne vous le conseille pas. – Pourquoi ?
– Je craindrais pour vous que les visiteurs élégants n’allassent
pas plus loin que la loge. » Ce fut entre eux la première
escarmouche. Mme Verdurin y prit à peine garde. Il devait
malheureusement y en avoir d’autres à Paris. M. de Charlus
continua à ne pas quitter sa chaise. Il ne pouvait, d’ailleurs,
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s’empêcher de sourire imperceptiblement en voyant
combien confirmait ses maximes favorites sur le prestige de
l’aristocratie et la lâcheté des bourgeois la soumission si
aisément obtenue de Mme Verdurin. La Patronne n’avait
l’air nullement étonnée par la posture du baron, et si elle le
quitta, ce fut seulement parce qu’elle avait été inquiète de me
voir relancé par M. de Cambremer. Mais avant cela, elle
voulait éclaircir la question des relations de M. de Charlus
avec la comtesse Molé. « Vous m’avez dit que vous
connaissiez Mme de Molé. Est-ce que vous allez chez elle ? »
demanda-t-elle en donnant aux mots : « aller chez elle » le
sens d’être reçu chez elle, d’avoir reçu d’elle l’autorisation
d’aller la voir. M. de Charlus répondit, avec une inflexion de
dédain, une affectation de précision et un ton de psalmodie :
« Mais quelquefois. » Ce « quelquefois » donna des doutes à
Mme Verdurin, qui demanda : « Est-ce que vous y avez
rencontré le duc de Guermantes ? – Ah ! je ne me rappelle
pas. – Ah ! dit Mme Verdurin, vous ne connaissez pas le duc
de Guermantes ? – Mais comment est-ce que je ne le
connaîtrais pas », répondit M. de Charlus, dont un sourire fit
onduler la bouche. Ce sourire était ironique ; mais comme le
baron craignait de laisser voir une dent en or, il le brisa sous
un reflux de ses lèvres, de sorte que la sinuosité qui en
résulta fut celle d’un sourire de bienveillance : « Pourquoi
dites-vous : Comment est-ce que je ne le connaîtrais pas ? –
Mais puisque c’est mon frère », dit négligemment M. de
Charlus en laissant Mme Verdurin plongée dans la
stupéfaction et l’incertitude de savoir si son invité se moquait
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d’elle, était un enfant naturel, ou le fils d’un autre lit. L’idée
que le frère du duc de Guermantes s’appelât le baron de
Charlus ne lui vint pas à l’esprit. Elle se dirigea vers moi : «
J’ai entendu tout à l’heure que M. de Cambremer vous
invitait à dîner. Moi, vous comprenez, cela m’est égal. Mais,
dans votre intérêt, j’espère bien que vous n’irez pas. D’abord
c’est infesté d’ennuyeux. Ah ! si vous aimez à dîner avec des
comtes et des marquis de province que personne ne connaît,
vous serez servi à souhait. – Je crois que je serai obligé d’y
aller une fois ou deux. Je ne suis, du reste, pas très libre car
j’ai une jeune cousine que je ne peux pas laisser seule (je
trouvais que cette prétendue parenté simplifiait les choses
pour sortir avec Albertine). Mais pour les Cambremer,
comme je la leur ai déjà présentée... – Vous ferez ce que
vous voudrez. Ce que je peux vous dire : c’est excessivement
malsain ; quand vous aurez pincé une fluxion de poitrine, ou
les bons petits rhumatismes des familles, vous serez bien
avancé ? – Mais est-ce que l’endroit n’est pas très joli ? –
Mmmmouiii... Si on veut. Moi j’avoue franchement que
j’aime cent fois mieux la vue d’ici sur cette vallée. D’abord,
on nous aurait payés que je n’aurais pas pris l’autre maison,
parce que l’air de la mer est fatal à M. Verdurin. Pour peu
que votre cousine soit nerveuse... Mais, du reste, vous êtes
nerveux, je crois... vous avez des étouffements. Hé bien !
vous verrez. Allez-y une fois, vous ne dormirez pas de huit
jours, mais ce n’est pas notre affaire. » Et sans penser à ce
que sa nouvelle phrase allait avoir de contradictoire avec les
précédentes : « Si cela vous amuse de voir la maison, qui
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n’est pas mal, jolie est trop dire, mais enfin amusante, avec le
vieux fossé, le vieux pont-levis, comme il faudra que je
m’exécute et que j’y dîne une fois, hé bien ! venez-y ce jourlà, je tâcherai d’amener tout mon petit cercle, alors ce sera
gentil. Après-demain nous irons à Harambouville en voiture.
La route est magnifique, il y a du cidre délicieux. Venez
donc. Vous, Brichot, vous viendrez aussi. Et vous aussi, Ski.
Ça fera une partie que, du reste, mon mari a dû arranger
d’avance. Je ne sais trop qui il a invité. Monsieur de Charlus,
est-ce que vous en êtes ? » Le baron, qui n’entendit pas cette
phrase et ne savait pas qu’on parlait d’une excursion à
Harambouville, sursauta : « Étrange question », murmura-t-il
d’un ton narquois par lequel Mme Verdurin se sentit piquée.
« D’ailleurs, me dit-elle, en attendant le dîner Cambremer,
pourquoi ne l’amèneriez-vous pas ici, votre cousine ? Aimet-elle la conversation, les gens intelligents ? Est-elle agréable
? Oui, eh bien alors, très bien. Venez avec elle. Il n’y a pas
que les Cambremer au monde. Je comprends qu’ils soient
heureux de l’inviter, ils ne peuvent arriver à avoir personne.
Ici elle aura un bon air, toujours des hommes intelligents. En
tout cas je compte que vous ne me lâchez pas pour mercredi
prochain. J’ai entendu que vous aviez un goûter à Rivebelle
avec votre cousine, M. de Charlus, je ne sais plus encore qui.
Vous devriez arranger de transporter tout ça ici, ça serait
gentil, un petit arrivage en masse. Les communications sont
on ne peut plus faciles, les chemins sont ravissants ; au
besoin je vous ferai chercher. Je ne sais pas, du reste, ce qui
peut vous attirer à Rivebelle, c’est infesté de moustiques.
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Vous croyez peut-être à la réputation de la galette. Mon
cuisinier les fait autrement bien. Je vous en ferai manger,
moi, de la galette normande, de la vraie, et des sablés, je ne
vous dis que ça. Ah ! si vous tenez à la cochonnerie qu’on
sert à Rivebelle, ça je ne veux pas, je n’assassine pas mes
invités, Monsieur, et, même si je voulais, mon cuisinier ne
voudrait pas faire cette chose innommable et changerait de
maison. Ces galettes de là-bas, on ne sait pas avec quoi c’est
fait. Je connais une pauvre fille à qui cela a donné une
péritonite qui l’a enlevée en trois jours. Elle n’avait que 17
ans. C’est triste pour sa pauvre mère, ajouta Mme Verdurin,
d’un air mélancolique sous les sphères de ses tempes
chargées d’expérience et de douleur. Mais enfin, allez goûter
à Rivebelle si cela vous amuse d’être écorché et de jeter
l’argent par les fenêtres. Seulement, je vous en prie, c’est une
mission de confiance que je vous donne : sur le coup de six
heures, amenez-moi tout votre monde ici, n’allez pas laisser
les gens rentrer chacun chez soi, à la débandade. Vous
pouvez amener qui vous voulez. Je ne dirais pas cela à tout le
monde. Mais je suis sûre que vos amis sont gentils, je vois
tout de suite que nous nous comprenons. En dehors du petit
noyau, il vient justement des gens très agréables mercredi.
Vous ne connaissez pas la petite Madame de Longpont ?
Elle est ravissante et pleine d’esprit, pas snob du tout, vous
verrez qu’elle vous plaira beaucoup. Et elle aussi doit amener
toute une bande d’amis, ajouta Mme Verdurin, pour me
montrer que c’était bon genre et m’encourager par l’exemple.
On verra qu’est-ce qui aura le plus d’influence et qui
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amènera le plus de monde, de Barbe de Longpont ou de
vous. Et puis je crois qu’on doit aussi amener Bergotte,
ajouta-t-elle d’un air vague, ce concours d’une célébrité étant
rendu trop improbable par une note parue le matin dans les
journaux et qui annonçait que la santé du grand écrivain
inspirait les plus vives inquiétudes. Enfin vous verrez que ce
sera un de mes mercredis les plus réussis, je ne veux pas
avoir de femmes embêtantes. Du reste, ne jugez pas par celui
de ce soir, il était tout à fait raté. Ne protestez pas, vous
n’avez pas pu vous ennuyer plus que moi, moi-même je
trouvais que c’était assommant. Ce ne sera pas toujours
comme ce soir, vous savez ! Du reste, je ne parle pas des
Cambremer, qui sont impossibles, mais j’ai connu des gens
du monde qui passaient pour être agréables, hé bien ! à côté
de mon petit noyau cela n’existait pas. Je vous ai entendu
dire que vous trouviez Swann intelligent. D’abord, mon avis
est que c’était très exagéré, mais sans même parler du
caractère de l’homme, que j’ai toujours trouvé foncièrement
antipathique, sournois, en dessous, je l’ai eu souvent à dîner
le mercredi. Hé bien, vous pouvez demander aux autres,
même à côté de Brichot, qui est loin d’être un aigle, qui est
un bon professeur de seconde que j’ai fait entrer à l’Institut
tout de même, Swann n’était plus rien. Il était d’un terne ! »
Et comme j’émettais un avis contraire : « C’est ainsi. Je ne
veux rien vous dire contre lui, puisque c’était votre ami ; du
reste, il vous aimait beaucoup, il m’a parlé de vous d’une
façon délicieuse, mais demandez à ceux-ci s’il a jamais dit
quelque chose d’intéressant, à nos dîners. C’est tout de
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même la pierre de touche. Hé bien ! je ne sais pas pourquoi,
mais Swann, chez moi, ça ne donnait pas, ça ne rendait rien.
Et encore le peu qu’il valait il l’a pris ici. » J’assurai qu’il était
très intelligent. « Non, vous croyiez seulement cela parce que
vous le connaissiez depuis moins longtemps que moi. Au
fond on en avait très vite fait le tour. Moi, il m’assommait.
(Traduction : il allait chez les La Trémoïlle et les Guermantes
et savait que je n’y allais pas.) Et je peux tout supporter,
excepté l’ennui. Ah ! ça, non ! » L’horreur de l’ennui était
maintenant chez Mme Verdurin la raison qui était chargée
d’expliquer la composition du petit milieu. Elle ne recevait
pas encore de duchesses parce qu’elle était incapable de
s’ennuyer, comme de faire une croisière, à cause du mal de
mer. Je me disais que ce que Mme Verdurin disait n’était pas
absolument faux, et alors que les Guermantes eussent
déclaré Brichot l’homme le plus bête qu’ils eussent jamais
rencontré, je restais incertain s’il n’était pas au fond
supérieur, sinon à Swann même, au moins aux gens ayant
l’esprit des Guermantes et qui eussent eu le bon goût d’éviter
ses pédantesques facéties, et la pudeur d’en rougir ; je me le
demandais comme si la nature de l’intelligence pouvait être
en quelque mesure éclaircie par la réponse que je me ferais et
avec le sérieux d’un chrétien influencé par Port-Royal qui se
pose le problème de la Grâce. « Vous verrez, continua Mme
Verdurin, quand on a des gens du monde avec des gens
vraiment intelligents, des gens de notre milieu, c’est là qu’il
faut les voir, l’homme du monde le plus spirituel dans le
royaume des aveugles n’est plus qu’un borgne ici. Et puis les
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autres, qui ne se sentent plus en confiance. C’est au point
que je me demande si, au lieu d’essayer des fusions qui
gâtent tout, je n’aurai pas des séries rien que pour les
ennuyeux, de façon à bien jouir de mon petit noyau.
Concluons : vous viendrez avec votre cousine. C’est
convenu. Bien. Au moins, ici, vous aurez tous les deux à
manger. À Féterne c’est la faim et la soif. Ah ! par exemple,
si vous aimez les rats, allez-y tout de suite, vous serez servi à
souhait. Et on vous gardera tant que vous voudrez. Par
exemple, vous mourrez de faim. Du reste, quand j’irai, je
dînerai avant de partir. Et pour que ce soit plus gai, vous
devriez venir me chercher. Nous goûterions ferme et nous
souperions en rentrant. Aimez-vous les tartes aux pommes ?
Oui, eh bien ! notre chef les fait comme personne. Vous
voyez que j’avais raison de dire que vous étiez fait pour vivre
ici. Venez donc y habiter. Vous savez qu’il y a beaucoup plus
de place chez moi que ça n’en a l’air. Je ne le dis pas, pour ne
pas attirer d’ennuyeux. Vous pourriez amener à demeure
votre cousine. Elle aurait un autre air qu’à Balbec. Avec l’air
d’ici, je prétends que je guéris les incurables. Ma parole, j’en
ai guéri, et pas d’aujourd’hui. Car j’ai habité autrefois tout
près d’ici, quelque chose que j’avais déniché, que j’avais eu
pour un morceau de pain et qui avait autrement de caractère
que leur Raspelière. Je vous montrerai cela si nous nous
promenons. Mais je reconnais que, même ici, l’air est
vraiment vivifiant. Encore je ne veux pas trop en parler, les
Parisiens n’auraient qu’à se mettre à aimer mon petit coin.
Ça a toujours été ma chance. Enfin, dites-le à votre cousine.
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On vous donnera deux jolies chambres sur la vallée, vous
verrez ça, le matin, le soleil dans la brume ! Et qu’est-ce que
c’est que ce Robert de Saint-Loup dont vous parliez ? dit-elle
d’un air inquiet, parce qu’elle avait entendu que je devais aller
le voir à Doncières et qu’elle craignit qu’il me fît lâcher.
Vous pourriez plutôt l’amener ici si ce n’est pas un
ennuyeux. J’ai entendu parler de lui par Morel ; il me semble
que c’est un de ses grands amis », dit Mme Verdurin,
mentant complètement, car Saint-Loup et Morel ne
connaissaient même pas l’existence l’un de l’autre. Mais ayant
entendu que Saint-Loup connaissait M. de Charlus, elle
pensait que c’était par le violoniste et voulait avoir l’air au
courant. « Il ne fait pas de médecine, par hasard, ou de
littérature ? Vous savez que, si vous avez besoin de
recommandations pour des examens, Cottard peut tout, et je
fais de lui ce que je veux. Quant à l’Académie, pour plus
tard, car je pense qu’il n’a pas l’âge, je dispose de plusieurs
voix. Votre ami serait ici en pays de connaissance et ça
l’amuserait peut-être de voir la maison. Ce n’est pas folichon,
Doncières. Enfin, vous ferez comme vous voudrez, comme
cela vous arrangera le mieux », conclut-elle sans insister,
pour ne pas avoir l’air de chercher à connaître de la noblesse,
et parce que sa prétention était que le régime sous lequel elle
faisait vivre les fidèles, la tyrannie, fût appelé liberté. «
Voyons, qu’est-ce que tu as », dit-elle, en voyant M. Verdurin
qui, en faisant des gestes d’impatience, gagnait la terrasse en
planches qui s’étendait, d’un côté du salon, au-dessus de la
vallée, comme un homme qui étouffe de rage et a besoin de
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prendre l’air. « C’est encore Saniette qui t’a agacé ? Mais
puisque tu sais qu’il est idiot, prends-en ton parti, ne te mets
pas dans des états comme cela... Je n’aime pas cela, me ditelle, parce que c’est mauvais pour lui, cela le congestionne.
Mais aussi je dois dire qu’il faut parfois une patience d’ange
pour supporter Saniette, et surtout se rappeler que c’est une
charité de le recueillir. Pour ma part, j’avoue que la splendeur
de sa bêtise fait plutôt ma joie. Je pense que vous avez
entendu après le dîner son mot : « Je ne sais pas jouer au
whist, mais je sais jouer du piano. » Est-ce assez beau ! C’est
grand comme le monde, et d’ailleurs un mensonge, car il ne
sait pas plus l’un que l’autre. Mais mon mari, sous ses
apparences rudes, est très sensible, très bon, et cette espèce
d’égoïsme de Saniette, toujours préoccupé de l’effet qu’il va
faire, le met hors de lui... Voyons, mon petit, calme-toi, tu
sais bien que Cottard t’a dit que c’était mauvais pour ton
foie. Et c’est sur moi que tout va retomber, dit Mme
Verdurin. Demain Saniette va venir avoir sa petite crise de
nerfs et de larmes. Pauvre homme ! il est très malade. Mais
enfin ce n’est pas une raison pour qu’il tue les autres. Et
puis, même dans les moments où il souffre trop, où on
voudrait le plaindre, sa bêtise arrête net l’attendrissement. Il
est par trop stupide. Tu n’as qu’à lui dire très gentiment que
ces scènes vous rendent malades tous deux, qu’il ne revienne
pas ; comme c’est ce qu’il redoute le plus, cela aura un effet
calmant sur ses nerfs », souffla Mme Verdurin à son mari.
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On distinguait à peine la mer par les fenêtres de droite. Mais
celles de l’autre côté montraient la vallée sur qui était
maintenant tombée la neige du clair de lune. On entendait de
temps à autre la voix de Morel et celle de Cottard. « Vous
avez de l’atout ? – Yes. – Ah ! vous en avez de bonnes, vous,
dit à Morel, en réponse à sa question, M. de Cambremer, car
il avait vu que le jeu du docteur était plein d’atout. – Voici la
femme de carreau, dit le docteur. Ça est de l’atout, savezvous ? Ié coupe, ié prends. – Mais il n’y a plus de Sorbonne,
dit le docteur à M. de Cambremer ; il n’y a plus que
l’Université de Paris. » M. de Cambremer confessa qu’il
ignorait pourquoi le docteur lui faisait cette observation. « Je
croyais que vous parliez de la Sorbonne, reprit le docteur.
J’avais entendu que vous disiez : tu nous la sors bonne,
ajouta-t-il en clignant de l’œil, pour montrer que c’était un
mot. Attendez, dit-il en montrant son adversaire, je lui
prépare un coup de Trafalgar. » Et le coup devait être
excellent pour le docteur, car dans sa joie il se mit en riant à
remuer voluptueusement les deux épaules, ce qui était dans
la famille, dans le « genre » Cottard, un trait presque
zoologique de la satisfaction. Dans la génération précédente,
le mouvement de se frotter les mains comme si on se
savonnait accompagnait le mouvement. Cottard lui-même
avait d’abord usé simultanément de la double mimique, mais
un beau jour, sans qu’on sût à quelle intervention, conjugale,
magistrale peut-être, cela était dû, le frottement des mains
avait disparu. Le docteur, même aux dominos, quand il
forçait son partenaire à « piocher » et à prendre le double-six,
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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ce qui était pour lui le plus vif des plaisirs, se contentait du
mouvement des épaules. Et quand – le plus rarement
possible – il allait dans son pays natal pour quelques jours,
en retrouvant son cousin germain, qui, lui, en était encore au
frottement des mains, il disait au retour à Mme Cottard : «
J’ai trouvé ce pauvre René bien commun. » « Avez-vous de
la petite chaôse ? dit-il en se tournant vers Morel. Non ?
Alors je joue ce vieux David. – Mais alors vous avez cinq,
vous avez gagné ! – Voilà une belle victoire, docteur, dit le
marquis. – Une victoire à la Pyrrhus, dit Cottard en se
tournant vers le marquis et en regardant par-dessus son
lorgnon pour juger de l’effet de son mot. Si nous avons
encore le temps, dit-il à Morel, je vous donne votre
revanche. C’est à moi de faire... Ah ! non, voici les voitures,
ce sera pour vendredi, et je vous montrerai un tour qui n’est
pas dans une musette. » M. et Mme Verdurin nous
conduisirent dehors. La Patronne fut particulièrement câline
avec Saniette afin d’être certaine qu’il reviendrait le
lendemain. « Mais vous ne m’avez pas l’air couvert, mon
petit, me dit M. Verdurin, chez qui son grand âge autorisait
cette appellation paternelle. On dirait que le temps a changé.
» Ces mots me remplirent de joie, comme si la vie profonde,
le surgissement de combinaisons différentes qu’ils
impliquaient dans la nature, devait annoncer d’autres
changements, ceux-là se produisant dans ma vie, et y créer
des possibilités nouvelles. Rien qu’en ouvrant la porte sur le
parc, avant de partir, on sentait qu’un autre « temps »
occupait depuis un instant la scène ; des souffles frais,
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volupté estivale, s’élevaient dans la sapinière (où jadis Mme
de Cambremer rêvait de Chopin) et presque
imperceptiblement, en méandres caressants, en remous
capricieux, commençaient leurs légers nocturnes. Je refusai la
couverture que, les soirs suivants, je devais accepter, quand
Albertine serait là, plutôt pour le secret du plaisir que contre
le danger du froid. On chercha en vain le philosophe
norvégien. Une colique l’avait-elle saisi ? Avait-il eu peur de
manquer le train ? Un aéroplane était-il venu le chercher ?
Avait-il été emporté dans une Assomption ? Toujours est-il
qu’il avait disparu sans qu’on eût eu le temps de s’en
apercevoir, comme un dieu. « Vous avez tort, me dit M. de
Cambremer, il fait un froid de canard. – Pourquoi de canard
? demanda le docteur. – Gare aux étouffements, reprit le
marquis. Ma sœur ne sort jamais le soir. Du reste, elle est
assez mal hypothéquée en ce moment. Ne restez pas en tout
cas ainsi tête nue, mettez vite votre couvre-chef. – Ce ne
sont pas des étouffements a frigore, dit sentencieusement
Cottard. – Ah ! ah ! dit M. de Cambremer en s’inclinant, du
moment que c’est votre avis... – Avis au lecteur ! » dit le
docteur en glissant ses regards hors de son lorgnon pour
sourire. M. de Cambremer rit, mais, persuadé qu’il avait
raison, il insista. « Cependant, dit-il, chaque fois que ma sœur
sort le soir, elle a une crise. – Il est inutile d’ergoter, répondit
le docteur, sans se rendre compte de son impolitesse. Du
reste, je ne fais pas de médecine au bord de la mer, sauf si je
suis appelé en consultation. Je suis ici en vacances. » Il y
était, du reste, plus encore peut-être qu’il n’eût voulu. M. de
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Cambremer lui ayant dit, en montant avec lui en voiture : «
Nous avons la chance d’avoir aussi près de nous (pas de
votre côté de la baie, de l’autre, mais elle est si resserrée à cet
endroit-là) une autre célébrité médicale, le docteur du
Boulbon. » Cottard qui d’habitude, par déontologie,
s’abstenait de critiquer ses confrères, ne put s’empêcher de
s’écrier, comme il avait fait devant moi le jour funeste où
nous étions allés dans le petit Casino : « Mais ce n’est pas un
médecin. Il fait de la médecine littéraire, c’est de la
thérapeutique fantaisiste, du charlatanisme. D’ailleurs, nous
sommes en bons termes. Je prendrais le bateau pour aller le
voir une fois si je n’étais obligé de m’absenter. » Mais à l’air
que prit Cottard pour parler de du Boulbon à M. de
Cambremer, je sentis que le bateau avec lequel il fût allé
volontiers le trouver eût beaucoup ressemblé à ce navire que,
pour aller ruiner les eaux découvertes par un autre médecin
littéraire, Virgile (lequel leur enlevait aussi toute leur
clientèle), avaient frété les docteurs de Salerne, mais qui
sombra avec eux pendant la traversée. « Adieu, mon petit
Saniette, ne manquez pas de venir demain, vous savez que
mon mari vous aime beaucoup. Il aime votre esprit, votre
intelligence ; mais si, vous le savez bien, il aime prendre des
airs brusques, mais il ne peut pas se passer de vous voir.
C’est toujours la première question qu’il me pose : « Est-ce
que Saniette vient ? j’aime tant le voir ! – Je n’ai jamais dit ça
», dit M. Verdurin à Saniette avec une franchise simulée qui
semblait concilier parfaitement ce que disait la Patronne avec
la façon dont il traitait Saniette. Puis regardant sa montre,
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sans doute pour ne pas prolonger les adieux dans l’humidité
du soir, il recommanda aux cochers de ne pas traîner, mais
d’être prudents à la descente, et assura que nous arriverions
avant le train. Celui-ci devait déposer les fidèles l’un à une
gare, l’autre à une autre, en finissant par moi, aucun autre
n’allant aussi loin que Balbec, et en commençant par les
Cambremer. Ceux-ci, pour ne pas faire monter leurs chevaux
dans la nuit jusqu’à la Raspelière, prirent le train avec nous à
Donville-Féterne. La station la plus rapprochée de chez eux
n’était pas, en effet, celle-ci, qui, déjà un peu distante du
village, l’est encore plus du château, mais la Sogne. En
arrivant à la gare de Donville-Féterne, M. de Cambremer tint
à donner la « pièce », comme disait Françoise, au cocher des
Verdurin (justement le gentil cocher sensible, à idées
mélancoliques), car M. de Cambremer était généreux, et en
cela était plutôt « du côté de sa maman ». Mais, soit que « le
côté de son papa » intervînt ici, tout en donnant il éprouvait
le scrupule d’une erreur commise – soit par lui qui, voyant
mal, donnerait, par exemple, un sou pour un franc, soit par
le destinataire qui ne s’apercevrait pas de l’importance du
don qu’il lui faisait. Aussi fit-il remarquer à celui-ci : « C’est
bien un franc que je vous donne, n’est-ce pas ? » en faisant
miroiter la pièce dans la lumière, et pour que les fidèles
pussent le répéter à Mme Verdurin. « N’est-ce pas ? c’est
bien vingt sous ? comme ce n’est qu’une petite course... » Lui
et Mme de Cambremer nous quittèrent à la Sogne. « Je dirai
à ma sœur, me répéta-t-il, que vous avez des étouffements, je
suis sûr de l’intéresser. » Je compris qu’il entendait : de lui
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faire plaisir. Quant à sa femme, elle employa, en prenant
congé de moi, deux de ces abréviations qui, même écrites,
me choquaient alors dans une lettre, bien qu’on s’y soit
habitué depuis, mais qui, parlées, me semblent encore, même
aujourd’hui, avoir, dans leur négligé voulu, dans leur
familiarité apprise, quelque chose d’insupportablement
pédant : « Contente d’avoir passé la soirée avec vous, me ditelle ; amitiés à Saint-Loup, si vous le voyez. » En me disant
cette phrase, Mme de Cambremer prononça Saint-Loupe. Je
n’ai jamais appris qui avait prononcé ainsi devant elle, ou ce
qui lui avait donné à croire qu’il fallait prononcer ainsi.
Toujours est-il que, pendant quelques semaines, elle
prononça Saint-Loupe, et qu’un homme qui avait une grande
admiration pour elle et ne faisait qu’un avec elle fit de même.
Si d’autres personnes disaient Saint-Lou, ils insistaient,
disaient avec force Saint-Loupe, soit pour donner
indirectement une leçon aux autres, soit pour se distinguer
d’eux. Mais sans doute, des femmes plus brillantes que Mme
de Cambremer lui dirent, ou lui firent indirectement
comprendre, qu’il ne fallait pas prononcer ainsi, et que ce
qu’elle prenait pour de l’originalité était une erreur qui la
ferait croire peu au courant des choses du monde, car peu de
temps après Mme de Cambremer redisait Saint-Lou, et son
admirateur cessait également toute résistance, soit qu’elle
l’eût chapitré, soit qu’il eût remarqué qu’elle ne faisait plus
sonner la finale, et s’était dit que, pour qu’une femme de
cette valeur, de cette énergie et de cette ambition, eût cédé, il
fallait que ce fût à bon escient. Le pire de ses admirateurs
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était son mari. Mme de Cambremer aimait à faire aux autres
des taquineries, souvent fort impertinentes. Sitôt qu’elle
s’attaquait de la sorte, soit à moi, soit à un autre, M. de
Cambremer se mettait à regarder la victime en riant. Comme
le marquis était louche – ce qui donne une intention d’esprit
à la gaieté même des imbéciles – l’effet de ce rire était de
ramener un peu de pupille sur le blanc, sans cela complet, de
l’œil. Ainsi une éclaircie met un peu de bleu dans un ciel
ouaté de nuages. Le monocle protégeait, du reste, comme un
verre sur un tableau précieux, cette opération délicate. Quant
à l’intention même du rire, on ne sait trop si elle était aimable
: « Ah ! gredin ! vous pouvez dire que vous êtes à envier.
Vous êtes dans les faveurs d’une femme d’un rude esprit » ;
ou rosse : « Hé bien, monsieur, j’espère qu’on vous arrange,
vous en avalez des couleuvres » ; ou serviable : « Vous savez,
je suis là, je prends la chose en riant parce que c’est pure
plaisanterie, mais je ne vous laisserais pas malmener » ; ou
cruellement complice : « Je n’ai pas à mettre mon petit grain
de sel, mais, vous voyez, je me tords de toutes les avanies
qu’elle vous prodigue. Je rigole comme un bossu, donc
j’approuve, moi le mari. Aussi, s’il vous prenait fantaisie de
vous rebiffer, vous trouveriez à qui parler, mon petit
monsieur. Je vous administrerais d’abord une paire de
claques, et soignées, puis nous irions croiser le fer dans la
forêt de Chantepie. »
Quoi qu’il en fût de ces diverses interprétations de la gaîté du
mari, les foucades de la femme prenaient vite fin. Alors M.
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de Cambremer cessait de rire, la prunelle momentanée
disparaissait, et comme on avait perdu depuis quelques
minutes l’habitude de l’œil tout blanc, il donnait à ce rouge
Normand quelque chose à la fois d’exsangue et d’extatique,
comme si le marquis venait d’être opéré ou s’il implorait du
ciel, sous son monocle, les palmes du martyre.
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Deuxième partie
Chapitre troisième
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Tristesses de M. de Charlus. Son duel fictif. Les stations du «
Transatlantique ». Fatigué d’Albertine, je veux rompre avec
elle.
Je tombais de sommeil. Je fus monté en ascenseur jusqu’à
mon étage non par le liftier, mais par le chasseur louche, qui
engagea la conversation pour me raconter que sa sœur était
toujours avec le Monsieur si riche, et qu’une fois, comme elle
avait envie de retourner chez elle au lieu de rester sérieuse,
son Monsieur avait été trouver la mère du chasseur louche et
des autres enfants plus fortunés, laquelle avait ramené au
plus vite l’insensée chez son ami. « Vous savez, Monsieur,
c’est une grande dame que ma sœur. Elle touche du piano,
cause l’espagnol. Et vous ne le croiriez pas, pour la sœur du
simple employé qui vous fait monter l’ascenseur, elle ne se
refuse rien ; Madame a sa femme de chambre à elle, je ne
serais pas épaté qu’elle ait un jour sa voiture. Elle est très
jolie, si vous la voyiez, un peu trop fière, mais dame ! ça se
comprend. Elle a beaucoup d’esprit. Elle ne quitte jamais un
hôtel sans se soulager dans une armoire, une commode, pour
laisser un petit souvenir à la femme de chambre qui aura à
nettoyer. Quelquefois même, dans une voiture, elle fait ça, et
après avoir payé sa course, se cache dans un coin, histoire de
rire en voyant rouspéter le cocher qui a à relaver sa voiture.
Mon père était bien tombé aussi en trouvant pour mon jeune
frère ce prince indien qu’il avait connu autrefois.
Naturellement, c’est un autre genre. Mais la position est
superbe. S’il n’y avait pas les voyages, ce serait le rêve. Il n’y
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a que moi jusqu’ici qui suis resté sur le carreau. Mais on ne
peut pas savoir. La chance est dans ma famille ; qui sait si je
ne serai pas un jour président de la République ? Mais je
vous fais babiller (je n’avais pas dit une seule parole et je
commençais à m’endormir en écoutant les siennes). Bonsoir,
Monsieur. Oh ! merci, Monsieur. Si tout le monde avait aussi
bon cœur que vous il n’y aurait plus de malheureux. Mais,
comme dit ma sœur, il faudra toujours qu’il y en ait pour
que, maintenant que je suis riche, je puisse un peu les
emmerder. Passez-moi l’expression. Bonne nuit, Monsieur. »
Peut-être chaque soir acceptons-nous le risque de vivre, en
dormant, des souffrances que nous considérons comme
nulles et non avenues parce qu’elles seront ressenties au
cours d’un sommeil que nous croyons sans conscience.
En effet, ces soirs où je rentrais tard de la Raspelière, j’avais
très sommeil. Mais, dès que les froids vinrent, je ne pouvais
m’endormir tout de suite car le feu éclairait comme si on eût
allumé une lampe. Seulement ce n’était qu’une flambée, et –
comme une lampe aussi, comme le jour quand le soir tombe
– sa trop vive lumière ne tardait pas à baisser ; et j’entrais
dans le sommeil, lequel est comme un second appartement
que nous aurions et où, délaissant le nôtre, nous serions allé
dormir. Il a des sonneries à lui, et nous y sommes
quelquefois violemment réveillés par un bruit de timbre,
parfaitement entendu de nos oreilles, quand pourtant
personne n’a sonné. Il a ses domestiques, ses visiteurs
particuliers qui viennent nous chercher pour sortir, de sorte
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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que nous sommes prêts à nous lever quand force nous est de
constater, par notre presque immédiate transmigration dans
l’autre appartement, celui de la veille, que la chambre est
vide, que personne n’est venu. La race qui l’habite, comme
celle des premiers humains, est androgyne. Un homme y
apparaît au bout d’un instant sous l’aspect d’une femme. Les
choses y ont une aptitude à devenir des hommes, les
hommes des amis et des ennemis. Le temps qui s’écoule
pour le dormeur, durant ces sommeils-là, est absolument
différent du temps dans lequel s’accomplit la vie de l’homme
réveillé. Tantôt son cours est beaucoup plus rapide, un quart
d’heure semble une journée ; quelquefois beaucoup plus
long, on croit n’avoir fait qu’un léger somme, on a dormi
tout le jour. Alors, sur le char du sommeil, on descend dans
des profondeurs où le souvenir ne peut plus le rejoindre et
en deçà desquelles l’esprit a été obligé de rebrousser chemin.
L’attelage du sommeil, semblable à celui du soleil, va d’un
pas si égal, dans une atmosphère où ne peut plus l’arrêter
aucune résistance, qu’il faut quelque petit caillou aérolithique
étranger à nous (dardé de l’azur par quel Inconnu) pour
atteindre le sommeil régulier (qui sans cela n’aurait aucune
raison de s’arrêter et durerait d’un mouvement pareil jusque
dans les siècles des siècles) et le faire, d’une brusque courbe,
revenir vers le réel, brûler les étapes, traverser les régions
voisines de la vie – où bientôt le dormeur entendra, de celleci, les rumeurs presque vagues encore, mais déjà
perceptibles, bien que déformées – et atterrir brusquement
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au réveil. Alors de ces sommeils profonds on s’éveille dans
une aurore, ne sachant qui on est, n’étant personne, neuf,
prêt à tout, le cerveau se trouvant vidé de ce passé qui était la
vie jusque-là. Et peut-être est-ce plus beau encore quand
l’atterrissage du réveil se fait brutalement et que nos pensées
du sommeil, dérobées par une chape d’oubli, n’ont pas le
temps de revenir progressivement avant que le sommeil ne
cesse. Alors du noir orage qu’il nous semble avoir traversé
(mais nous ne disons même pas nous) nous sortons gisants,
sans pensées, un « nous » qui serait sans contenu. Quel coup
de marteau l’être ou la chose qui est là a-t-elle reçu pour tout
ignorer, stupéfaite jusqu’au moment où la mémoire accourue
lui rend la conscience ou la personnalité ? Encore, pour ces
deux genres de réveil, faut-il ne pas s’endormir, même
profondément, sous la loi de l’habitude. Car tout ce que
l’habitude enserre dans ses filets, elle le surveille, il faut lui
échapper, prendre le sommeil au moment où on croyait faire
tout autre chose que dormir, prendre en un mot un sommeil
qui ne demeure pas sous la tutelle de la prévoyance, avec la
compagnie, même cachée, de la réflexion.
Du moins, dans ces réveils tels que je viens de les décrire, et
qui étaient la plupart du temps les miens quand j’avais dîné la
veille à la Raspelière, tout se passait comme s’il en était ainsi,
et je peux en témoigner, moi l’étrange humain qui, en
attendant que la mort le délivre, vis les volets clos, ne sais
rien du monde, reste immobile comme un hibou et, comme
celui-ci, ne vois un peu clair que dans les ténèbres. Tout se
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passe comme s’il en était ainsi, mais peut-être seule une
couche d’étoupe a-t-elle empêché le dormeur de percevoir le
dialogue intérieur des souvenirs et le verbiage incessant du
sommeil. Car (ce qui peut, du reste, s’expliquer aussi bien
dans le premier système, plus vaste, plus mystérieux, plus
astral) au moment où le réveil se produit, le dormeur entend
une voix intérieure qui lui dit : « Viendrez-vous à ce dîner ce
soir, cher ami ? comme ce serait agréable ! » et pense : « Oui,
comme ce sera agréable, j’irai » ; puis, le réveil s’accentuant, il
se rappelle soudain : « Ma grand’mère n’a plus que quelques
semaines à vivre, assure le docteur. » Il sonne, il pleure à
l’idée que ce ne sera pas, comme autrefois, sa grand’mère, sa
grand’mère mourante, mais un indifférent valet de chambre
qui va venir, lui répondre. Du reste, quand le sommeil
l’emmenait si loin hors du monde habité par le souvenir et la
pensée, à travers un éther où il était seul, plus que seul,
n’ayant même pas ce compagnon où l’on s’aperçoit soimême, il était hors du temps et de ses mesures. Déjà le valet
de chambre entre, et il n’ose lui demander l’heure, car il
ignore s’il a dormi, combien d’heures il a dormi (il se
demande si ce n’est pas combien de jours, tant il revient le
corps rompu et l’esprit reposé, le cœur nostalgique, comme
d’un voyage trop lointain pour n’avoir pas duré longtemps).
Certes on peut prétendre qu’il n’y a qu’un temps, pour la
futile raison que c’est en regardant la pendule qu’on a
constaté n’être qu’un quart d’heure ce qu’on avait cru une
journée. Mais au moment où on le constate, on est justement
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un homme éveillé, plongé dans le temps des hommes
éveillés, on a déserté l’autre temps. Peut-être même plus
qu’un autre temps : une autre vie. Les plaisirs qu’on a dans le
sommeil, on ne les fait pas figurer dans le compte des plaisirs
éprouvés au cours de l’existence. Pour ne faire allusion qu’au
plus vulgairement sensuel de tous, qui de nous, au réveil, n’a
ressenti quelque agacement d’avoir éprouvé, en dormant, un
plaisir que, si l’on ne veut pas trop se fatiguer, on ne peut
plus, une fois éveillé, renouveler indéfiniment ce jour-là ?
C’est comme du bien perdu. On a eu du plaisir dans une
autre vie qui n’est pas la nôtre. Souffrances et plaisirs du rêve
(qui généralement s’évanouissent bien vite au réveil), si nous
les faisons figurer dans un budget, ce n’est pas dans celui de
la vie courante.
J’ai dit deux temps ; peut-être n’y en a-t-il qu’un seul, non
que celui de l’homme éveillé soit valable pour le dormeur,
mais peut-être parce que l’autre vie, celle où on dort, n’est
pas – dans sa partie profonde – soumise à la catégorie du
temps. Je me le figurais quand, aux lendemains des dîners à
la Raspelière, je m’endormais si complètement. Voici
pourquoi. Je commençais à me désespérer, au réveil, en
voyant qu’après que j’avais sonné dix fois, le valet de
chambre n’était pas venu. À la onzième il entrait. Ce n’était
que la première. Les dix autres n’étaient que des ébauches,
dans mon sommeil qui durait encore, du coup de sonnette
que je voulais. Mes mains gourdes n’avaient seulement pas
bougé. Or ces matins-là (et c’est ce qui me fait dire que le
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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sommeil ignore peut-être la loi du temps), mon effort pour
m’éveiller consistait surtout en un effort pour faire entrer le
bloc obscur, non défini, du sommeil que je venais de vivre,
aux cadres du temps. Ce n’est pas tâche facile ; le sommeil,
qui ne sait si nous avons dormi deux heures ou deux jours,
ne peut nous fournir aucun point de repère. Et si nous n’en
trouvons pas au dehors, ne parvenant pas à rentrer dans le
temps, nous nous rendormons pour cinq minutes, qui nous
semblent trois heures.
J’ai toujours dit – et expérimenté – que le plus puissant des
hypnotiques est le sommeil. Après avoir dormi
profondément deux heures, s’être battu avec tant de géants,
et avoir noué pour toujours tant d’amitiés, il est bien plus
difficile de s’éveiller qu’après avoir pris plusieurs grammes de
véronal. Aussi, raisonnant de l’un à l’autre, je fus surpris
d’apprendre par le philosophe norvégien, qui le tenait de M.
Boutroux, « son éminent collègue – pardon, son confrère »,
– ce que M. Bergson pensait des altérations particulières de
la mémoire dues aux hypnotiques. « Bien entendu, aurait dit
M. Bergson à M. Boutroux, à en croire le philosophe
norvégien, les hypnotiques pris de temps en temps, à doses
modérées, n’ont pas d’influence sur cette solide mémoire de
notre vie de tous les jours, si bien installée en nous. Mais il
est d’autres mémoires, plus hautes, plus instables aussi. Un
de mes collègues fait un cours d’histoire ancienne. Il m’a dit
que si, la veille, il avait pris un cachet pour dormir, il avait de
la peine, pendant son cours, à retrouver les citations
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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grecques dont il avait besoin. Le docteur qui lui avait
recommandé ces cachets lui assura qu’ils étaient sans
influence sur la mémoire. « C’est peut-être que vous n’avez
pas à faire de citations grecques », lui avait répondu
l’historien, non sans un orgueil moqueur. »
Je ne sais si cette conversation entre M. Bergson et M.
Boutroux est exacte. Le philosophe norvégien, pourtant si
profond et si clair, si passionnément attentif, a pu mal
comprendre. Personnellement mon expérience m’a donné
des résultats opposés.
Les moments d’oubli qui suivent, le lendemain, l’ingestion de
certains narcotiques ont une ressemblance partielle
seulement, mais troublante, avec l’oubli qui règne au cours
d’une nuit de sommeil naturel et profond. Or, ce que j’oublie
dans l’un et l’autre cas, ce n’est pas tel vers de Baudelaire qui
me fatigue plutôt, « ainsi qu’un tympanon », ce n’est pas tel
concept d’un des philosophes cités, c’est la réalité elle-même
des choses vulgaires qui m’entourent – si je dors – et dont la
non-perception fait de moi un fou ; c’est, si je suis éveillé et
sors à la suite d’un sommeil artificiel, non pas le système de
Porphyre ou de Plotin, dont je puis discuter aussi bien qu’un
autre jour, mais la réponse que j’ai promis de donner à une
invitation, au souvenir de laquelle s’est substitué un pur
blanc. L’idée élevée est restée à sa place ; ce que l’hypnotique
a mis hors d’usage c’est le pouvoir d’agir dans les petites
choses, dans tout ce qui demande de l’activité pour ressaisir
juste à temps, pour empoigner tel souvenir de la vie de tous
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les jours. Malgré tout ce qu’on peut dire de la survie après la
destruction du cerveau, je remarque qu’à chaque altération
du cerveau correspond un fragment de mort. Nous
possédons tous nos souvenirs, sinon la faculté de nous les
rappeler, dit d’après M. Bergson le grand philosophe
norvégien, dont je n’ai pas essayé, pour ne pas ralentir
encore, d’imiter le langage. Sinon la faculté de se les rappeler.
Mais qu’est-ce qu’un souvenir qu’on ne se rappelle pas ? Ou
bien, allons plus loin. Nous ne nous rappelons pas nos
souvenirs des trente dernières années ; mais ils nous
baignent tout entiers ; pourquoi alors s’arrêter à trente
années, pourquoi ne pas prolonger jusqu’au delà de la
naissance cette vie antérieure ? Du moment que je ne
connais pas toute une partie des souvenirs qui sont derrière
moi, du moment qu’ils me sont invisibles, que je n’ai pas la
faculté de les appeler à moi, qui me dit que, dans cette masse
inconnue de moi, il n’y en a pas qui remontent à bien au delà
de ma vie humaine ? Si je puis avoir en moi et autour de moi
tant de souvenirs dont je ne me souviens pas, cet oubli (du
moins oubli de fait puisque je n’ai pas la faculté de rien voir)
peut porter sur une vie que j’ai vécue dans le corps d’un
autre homme, même sur une autre planète. Un même oubli
efface tout. Mais alors que signifie cette immortalité de l’âme
dont le philosophe norvégien affirmait la réalité ? L’être que
je serai après la mort n’a pas plus de raisons de se souvenir
de l’homme que je suis depuis ma naissance que ce dernier
ne se souvient de ce que j’ai été avant elle.
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Le valet de chambre entrait. Je ne lui disais pas que j’avais
sonné plusieurs fois, car je me rendais compte que je n’avais
fait jusque-là que le rêve que je sonnais. J’étais effrayé
pourtant de penser que ce rêve avait eu la netteté de la
connaissance. La connaissance aurait-elle, réciproquement,
l’irréalité du rêve ?
En revanche, je lui demandais qui avait tant sonné cette nuit.
Il me disait : personne, et pouvait l’affirmer, car le « tableau »
des sonneries eût marqué. Pourtant j’entendais les coups
répétés, presque furieux, qui vibraient encore dans mon
oreille et devaient me rester perceptibles pendant plusieurs
jours. Il est pourtant rare que le sommeil jette ainsi dans la
vie éveillée des souvenirs qui ne meurent pas avec lui. On
peut compter ces aérolithes. Si c’est une idée que le sommeil
a forgée, elle se dissocie très vite en fragments ténus,
irretrouvables. Mais, là, le sommeil avait fabriqué des sons.
Plus matériels et plus simples, ils duraient davantage.
J’étais étonné de l’heure relativement matinale que me disait
le valet de chambre. Je n’en étais pas moins reposé. Ce sont
les sommeils légers qui ont une longue durée, parce
qu’intermédiaires entre la veille et le sommeil, gardant de la
première une notion un peu effacée mais permanente, il leur
faut infiniment plus de temps pour nous reposer qu’un
sommeil profond, lequel peut être court. Je me sentais bien à
mon aise pour une autre raison. S’il suffit de se rappeler
qu’on s’est fatigué pour sentir péniblement sa fatigue, se dire
: « Je me suis reposé » suffit à créer le repos. Or j’avais rêvé
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que M. de Charlus avait cent dix ans et venait de donner une
paire de claques à sa propre mère ; de Mme Verdurin, qu’elle
avait acheté cinq milliards un bouquet de violettes ; j’étais
donc assuré d’avoir dormi profondément, rêvé à rebours de
mes notions de la veille et de toutes les possibilités de la vie
courante ; cela suffisait pour que je me sentisse tout reposé.
J’aurais bien étonné ma mère, qui ne pouvait comprendre
l’assiduité de M. de Charlus chez les Verdurin, si je lui avais
raconté (précisément le jour où avait été commandée la
toque d’Albertine, sans rien lui en dire et pour qu’elle en eût
la surprise) avec qui M. de Charlus était venu dîner dans un
salon au Grand-Hôtel de Balbec. L’invité n’était autre que le
valet de pied d’une cousine des Cambremer. Ce valet de pied
était habillé avec une grande élégance et, quand il traversa le
hall avec le baron, il « fit homme du monde » aux yeux des
touristes, comme aurait dit Saint-Loup. Même les jeunes
chasseurs, les « lévites » qui descendaient en foule les degrés
du temple à ce moment, parce que c’était celui de la relève,
ne firent pas attention aux deux arrivants, dont l’un, M. de
Charlus, tenait, en baissant les yeux, à montrer qu’il leur en
accordait très peu. Il avait l’air de se frayer un passage au
milieu d’eux. « Prospérez, cher espoir d’une nation sainte »,
dit-il en se rappelant des vers de Racine, cités dans un tout
autre sens. « Plaît-il ? » demanda le valet de pied, peu au
courant des classiques. M. de Charlus ne lui répondit pas, car
il mettait un certain orgueil à ne pas tenir compte des
questions et à marcher droit devant lui comme s’il n’y avait
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pas eu d’autres clients de l’hôtel et s’il n’existait au monde
que lui, baron de Charlus. Mais ayant continué les vers de
Josabeth : « Venez, venez, mes filles », il se sentit dégoûté et
n’ajouta pas, comme elle : « il faut les appeler », car ces
jeunes enfants n’avaient pas encore atteint l’âge où le sexe est
entièrement formé et qui plaisait à M. de Charlus.
D’ailleurs, s’il avait écrit au valet de pied de Mme de
Chevregny, parce qu’il ne doutait pas de sa docilité, il l’avait
espéré plus viril. Il le trouvait, à le voir, plus efféminé qu’il
n’eût voulu. Il lui dit qu’il aurait cru avoir affaire à quelqu’un
d’autre, car il connaissait de vue un autre valet de pied de
Mme de Chevregny, qu’en effet il avait remarqué sur la
voiture. C’était une espèce de paysan fort rustaud, tout
l’opposé de celui-ci, qui, estimant au contraire ses mièvreries
autant de supériorités et ne doutant pas que ce fussent ces
qualités d’homme du monde qui eussent séduit M. de
Charlus, ne comprit même pas de qui le baron voulait parler.
« Mais je n’ai aucun camarade qu’un que vous ne pouvez pas
avoir reluqué, il est affreux, il a l’air d’un gros paysan. » Et à
l’idée que c’était peut-être ce rustre que le baron avait vu, il
éprouva une piqûre d’amour-propre. Le baron la devina et,
élargissant son enquête : « Mais je n’ai pas fait un vœu spécial
de ne connaître que des gens de Mme de Chevregny, dit-il.
Est-ce que ici, ou à Paris puisque vous partez bientôt, vous
ne pourriez pas me présenter beaucoup de vos camarades
d’une maison ou d’une autre ? – Oh ! non ! répondit le valet
de pied, je ne fréquente personne de ma classe. Je ne leur
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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parle que pour le service. Mais il y a quelqu’un de très bien
que je pourrai vous faire connaître. – Qui ? demanda le
baron. – Le prince de Guermantes. » M. de Charlus fut
dépité qu’on ne lui offrît qu’un homme de cet âge, et pour
lequel, du reste, il n’avait pas besoin de la recommandation
d’un valet de pied. Aussi déclina-t-il l’offre d’un ton sec et,
ne se laissant pas décourager par les prétentions mondaines
du larbin, recommença à lui expliquer ce qu’il voudrait, le
genre, le type, soit un jockey, etc... Craignant que le notaire,
qui passait à ce moment-là, ne l’eût entendu, il crut fin de
montrer qu’il parlait de tout autre chose que de ce qu’on
aurait pu croire et dit avec insistance et à la cantonade, mais
comme s’il ne faisait que continuer sa conversation : « Oui,
malgré mon âge j’ai gardé le goût de bibeloter, le goût des
jolis bibelots, je fais des folies pour un vieux bronze, pour un
lustre ancien. J’adore le Beau. »
Mais pour faire comprendre au valet de pied le changement
de sujet qu’il avait exécuté si rapidement, M. de Charlus
pesait tellement sur chaque mot, et de plus, pour être
entendu du notaire, il les criait tous si fort, que tout ce jeu de
scène eût suffi à déceler ce qu’il cachait pour des oreilles plus
averties que celles de l’officier ministériel. Celui-ci ne se
douta de rien, non plus qu’aucun autre client de l’hôtel, qui
virent tous un élégant étranger dans le valet de pied si bien
mis. En revanche, si les hommes du monde s’y trompèrent
et le prirent pour un Américain très chic, à peine parut-il
devant les domestiques qu’il fut deviné par eux, comme un
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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forçat reconnaît un forçat, même plus vite, flairé à distance
comme un animal par certains animaux. Les chefs de rang
levèrent l’œil. Aimé jeta un regard soupçonneux. Le
sommelier, haussant les épaules, dit derrière sa main, parce
qu’il crut cela de la politesse, une phrase désobligeante que
tout le monde entendit.
Et même notre vieille Françoise, dont la vue baissait et qui
passait à ce moment-là au pied de l’escalier pour aller dîner «
aux courriers », leva la tête, reconnut un domestique là où
des convives de l’hôtel ne le soupçonnaient pas – comme la
vieille nourrice Euryclée reconnaît Ulysse bien avant les
prétendants assis au festin – et, voyant marcher
familièrement avec lui M. de Charlus, eut une expression
accablée, comme si tout d’un coup des méchancetés qu’elle
avait entendu dire et n’avait pas crues eussent acquis à ses
yeux une navrante vraisemblance. Elle ne me parla jamais, ni
à personne, de cet incident, mais il dut faire faire à son
cerveau un travail considérable, car plus tard, chaque fois
qu’à Paris elle eut l’occasion de voir Jupien, qu’elle avait
jusque-là tant aimé, elle eut toujours avec lui de la politesse,
mais qui avait refroidi et était toujours additionnée d’une
forte dose de réserve. Ce même incident amena au contraire
quelqu’un d’autre à me faire une confidence ; ce fut Aimé.
Quand j’avais croisé M. de Charlus, celui-ci, qui n’avait pas
cru me rencontrer, me cria, en levant la main : « bonsoir »,
avec l’indifférence, apparente du moins, d’un grand seigneur
qui se croit tout permis et qui trouve plus habile d’avoir l’air
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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de ne pas se cacher. Or Aimé, qui, à ce moment, l’observait
d’un œil méfiant et qui vit que je saluais le compagnon de
celui en qui il était certain de voir un domestique, me
demanda le soir même qui c’était.
Car depuis quelque temps Aimé aimait à causer ou plutôt,
comme il disait, sans doute pour marquer le caractère selon
lui philosophique de ces causeries, à « discuter » avec moi. Et
comme je lui disais souvent que j’étais gêné qu’il restât
debout près de moi pendant que je dînais au lieu qu’il pût
s’asseoir et partager mon repas, il déclarait qu’il n’avait
jamais vu un client ayant « le raisonnement aussi juste ». Il
causait en ce moment avec deux garçons. Ils m’avaient salué,
je ne savais pas pourquoi ; leurs visages m’étaient inconnus,
bien que dans leur conversation résonnât une rumeur qui ne
me semblait pas nouvelle. Aimé les morigénait tous deux à
cause de leurs fiançailles, qu’il désapprouvait. Il me prit à
témoin, je dis que je ne pouvais avoir d’opinion, ne les
connaissant pas. Ils me rappelèrent leur nom, qu’ils
m’avaient souvent servi à Rivebelle. Mais l’un avait laissé
pousser sa moustache, l’autre l’avait rasée et s’était fait
tondre ; et à cause de cela, bien que ce fût leur tête
d’autrefois qui était posée sur leurs épaules (et non une autre,
comme dans les restaurations fautives de Notre-Dame), elle
m’était restée aussi invisible que ces objets qui échappent aux
perquisitions les plus minutieuses, et qui traînent simplement
aux yeux de tous, lesquels ne les remarquent pas, sur une
cheminée. Dès que je sus leur nom, je reconnus exactement
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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la musique incertaine de leur voix parce que je revis leur
ancien visage qui la déterminait. « Ils veulent se marier et ils
ne savent seulement pas l’anglais ! » me dit Aimé, qui ne
songeait pas que j’étais peu au courant de la profession
hôtelière et comprenais mal que, si on ne sait pas les langues
étrangères, on ne peut pas compter sur une situation.
Moi qui croyais qu’il saurait aisément que le nouveau dîneur
était M. de Charlus, et me figurais même qu’il devait se le
rappeler, l’ayant servi dans la salle à manger quand le baron
était venu, pendant mon premier séjour à Balbec, voir Mme
de Villeparisis, je lui dis son nom. Or non seulement Aimé
ne se rappelait pas le baron de Charlus, mais ce nom parut
lui produire une impression profonde. Il me dit qu’il
chercherait le lendemain dans ses affaires une lettre que je
pourrais peut-être lui expliquer. Je fus d’autant plus étonné
que M. de Charlus, quand il avait voulu me donner un livre
de Bergotte, à Balbec, la première année, avait fait
spécialement demander Aimé, qu’il avait dû retrouver
ensuite dans ce restaurant de Paris où j’avais déjeuné avec
Saint-Loup et sa maîtresse et où M. de Charlus était venu
nous espionner. Il est vrai qu’Aimé n’avait pu accomplir en
personne ces missions, étant, une fois, couché et, la seconde
fois, en train de servir. J’avais pourtant de grands doutes sur
sa sincérité quand il prétendait ne pas connaître M. de
Charlus. D’une part, il avait dû convenir au baron. Comme
tous les chefs d’étage de l’hôtel de Balbec, comme plusieurs
valets de chambre du prince de Guermantes, Aimé
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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appartenait à une race plus ancienne que celle du prince,
donc plus noble. Quand on demandait un salon, on se
croyait d’abord seul. Mais bientôt dans l’office on apercevait
un sculptural maître d’hôtel, de ce genre étrusque roux dont
Aimé était le type, un peu vieilli par les excès de champagne
et voyant venir l’heure nécessaire de l’eau de Contrexéville.
Tous les clients ne leur demandaient pas que de les servir.
Les commis, qui étaient jeunes, scrupuleux, pressés, attendus
par une maîtresse en ville, se dérobaient. Aussi Aimé leur
reprochait-il de n’être pas sérieux. Il en avait le droit. Sérieux,
lui l’était. Il avait une femme et des enfants, de l’ambition
pour eux. Aussi les avances qu’une étrangère ou un étranger
lui faisaient, il ne les repoussait pas, fallût-il rester toute la
nuit. Car le travail doit passer avant tout. Il avait tellement le
genre qui pouvait plaire à M. de Charlus que je le soupçonnai
de mensonge quand il me dit ne pas le connaître. Je me
trompais. C’est en toute vérité que le groom avait dit au
baron qu’Aimé (qui lui avait passé un savon le lendemain)
était couché (ou sorti), et l’autre fois en train de servir. Mais
l’imagination suppose au delà de la réalité. Et l’embarras du
groom avait probablement excité chez M. de Charlus, quant
à la sincérité de ses excuses, des doutes qui avaient blessé
chez lui des sentiments qu’Aimé ne soupçonnait pas. On a
vu aussi que Saint-Loup avait empêché Aimé d’aller à la
voiture où M. de Charlus qui, je ne sais comment, s’était
procuré la nouvelle adresse du maître d’hôtel, avait éprouvé
une nouvelle déception. Aimé, qui ne l’avait pas remarqué,
éprouva un étonnement qu’on peut concevoir quand, le soir
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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même du jour où j’avais déjeuné avec Saint-Loup et sa
maîtresse, il reçut une lettre fermée par un cachet aux armes
de Guermantes et dont je citerai ici quelques passages
comme exemple de folie unilatérale chez un homme
intelligent s’adressant à un imbécile sensé. « Monsieur, je n’ai
pu réussir, malgré des efforts qui étonneraient bien des gens
cherchant inutilement à être reçus et salués par moi, à
obtenir que vous écoutiez les quelques explications que vous
ne me demandiez pas mais que je croyais de ma dignité et de
la vôtre de vous offrir. Je vais donc écrire ici ce qu’il eût été
plus aisé de vous dire de vive voix. Je ne vous cacherai pas
que, la première fois que je vous ai vu à Balbec, votre figure
m’a été franchement antipathique. » Suivaient alors des
réflexions sur la ressemblance – remarquée le second jour
seulement – avec un ami défunt pour qui M. de Charlus avait
eu une grande affection. « J’avais eu alors un moment l’idée
que vous pouviez, sans gêner en rien votre profession, venir,
en faisant avec moi les parties de cartes avec lesquelles sa
gaieté savait dissiper ma tristesse, me donner l’illusion qu’il
n’était pas mort. Quelle que soit la nature des suppositions
plus ou moins sottes que vous avez probablement faites et
plus à la portée d’un serviteur (qui ne mérite même pas ce
nom puisque il n’a pas voulu servir) que la compréhension
d’un sentiment si élevé, vous avez probablement cru vous
donner de l’importance, ignorant qui j’étais et ce que j’étais,
en me faisant répondre, quand je vous faisais demander un
livre, que vous étiez couché ; or c’est une erreur de croire
qu’un mauvais procédé ajoute jamais à la grâce, dont vous
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êtes d’ailleurs entièrement dépourvu. J’aurais brisé là si par
hasard, le lendemain matin, je ne vous avais pu parler. Votre
ressemblance avec mon pauvre ami s’accentua tellement,
faisant disparaître jusqu’à la forme insupportable de votre
menton proéminent, que je compris que c’était le défunt qui
à ce moment vous prêtait de son expression si bonne afin de
vous permettre de me ressaisir, et de vous empêcher de
manquer la chance unique qui s’offrait à vous. En effet,
quoique je ne veuille pas, puisque tout cela n’a plus d’objet et
que je n’aurai plus l’occasion de vous rencontrer en cette vie,
mêler à tout cela de brutales questions d’intérêt, j’aurais été
trop heureux d’obéir à la prière du mort (car je crois à la
communion des saints et à leur velléité d’intervention dans le
destin des vivants), d’agir avec vous comme avec lui, qui
avait sa voiture, ses domestiques, et à qui il était bien naturel
que je consacrasse la plus grande partie de mes revenus
puisque je l’aimais comme un fils. Vous en avez décidé
autrement. À ma demande que vous me rapportiez un livre,
vous avez fait répondre que vous aviez à sortir. Et ce matin,
quand je vous ai fait demander de venir à ma voiture, vous
m’avez, si je peux, parler ainsi sans sacrilège, renié pour la
troisième fois. Vous m’excuserez de ne pas mettre dans cette
enveloppe les pourboires élevés que je comptais vous
donner à Balbec et auxquels il me serait trop pénible de m’en
tenir à l’égard de quelqu’un avec qui j’avais cru un moment
tout partager. Tout au plus pourriez-vous m’éviter de faire
auprès de vous, dans votre restaurant, une quatrième
tentative inutile et jusqu’à laquelle ma patience n’ira pas. (Et
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ici M. de Charlus donnait son adresse, l’indication des heures
où on le trouverait, etc...) Adieu, Monsieur. Comme je crois
que, ressemblant tant à l’ami que j’ai perdu, vous ne pouvez
être entièrement stupide, sans quoi la physiognomonie serait
une science fausse, je suis persuadé qu’un jour, si vous
repensez à cet incident, ce ne sera pas sans éprouver quelque
regret et quelque remords. Pour ma part, croyez que bien
sincèrement je n’en garde aucune amertume. J’aurais mieux
aimé que nous nous quittions sur un moins mauvais
souvenir que cette troisième démarche inutile. Elle sera vite
oubliée. Nous sommes comme ces vaisseaux que vous avez
dû apercevoir parfois de Balbec, qui se sont croisés un
moment ; il eût pu y avoir avantage pour chacun d’eux à
stopper ; mais l’un a jugé différemment ; bientôt ils ne
s’apercevront même plus à l’horizon, et la rencontre est
effacée ; mais avant cette séparation définitive, chacun salue
l’autre, et c’est ce que fait ici, Monsieur, en vous souhaitant
bonne chance, le Baron de Charlus. »
Aimé n’avait pas même lu cette lettre jusqu’au bout, n’y
comprenant rien et se méfiant d’une mystification. Quand je
lui eus expliqué qui était le baron, il parut quelque peu rêveur
et éprouva ce regret que M. de Charlus lui avait prédit. Je ne
jurerais même pas qu’il n’eût alors écrit pour s’excuser à un
homme qui donnait des voitures à ses amis. Mais dans
l’intervalle M. de Charlus avait fait la connaissance de Morel.
Tout au plus, les relations avec celui-ci étant peut-être
platoniques, M. de Charlus recherchait-il parfois, pour un
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soir, une compagnie comme celle dans laquelle je venais de
le rencontrer dans le hall. Mais il ne pouvait plus détourner
de Morel le sentiment violent qui, libre quelques années plus
tôt, n’avait demandé qu’à se fixer sur Aimé et qui avait dicté
la lettre dont j’étais gêné pour M. de Charlus et que m’avait
montrée le maître d’hôtel. Elle était, à cause de l’amour
antisocial qu’était celui de M. de Charlus, un exemple plus
frappant de la force insensible et puissante qu’ont ces
courants de la passion et par lesquels l’amoureux, comme un
nageur entraîné sans s’en apercevoir, bien vite perd de vue la
terre. Sans doute l’amour d’un homme normal peut aussi,
quand l’amoureux, par l’intervention successive de ses désirs,
de ses regrets, de ses déceptions, de ses projets, construit
tout un roman sur une femme qu’il ne connaît pas,
permettre de mesurer un assez notable écartement de deux
branches de compas. Tout de même un tel écartement était
singulièrement élargi par le caractère d’une passion qui n’est
pas généralement partagée et par la différence des conditions
de M. de Charlus et d’Aimé.
Tous les jours, je sortais avec Albertine. Elle s’était décidée à
se remettre à la peinture et avait d’abord choisi, pour
travailler, l’église Saint-Jean de la Haise qui n’est plus
fréquentée par personne et est connue de très peu, difficile à
se faire indiquer, impossible à découvrir sans être guidé,
longue à atteindre dans son isolement, à plus d’une demiheure de la station d’Épreville, les dernières maisons du
village de Quetteholme depuis longtemps passées. Pour le
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nom d’Épreville, je ne trouvai pas d’accord le livre du curé et
les renseignements de Brichot. D’après l’un, Épreville était
l’ancienne Sprevilla ; l’autre indiquait comme étymologie
Aprivilla. La première fois nous prîmes un petit chemin de
fer dans la direction opposée à Féterne, c’est-à-dire vers
Grattevast. Mais c’était la canicule et ç’avait déjà été terrible
de partir tout de suite après le déjeuner. J’eusse mieux aimé
ne pas sortir si tôt ; l’air lumineux et brûlant éveillait des
idées d’indolence et de rafraîchissement. Il remplissait nos
chambres, à ma mère et à moi, selon leur exposition, à des
températures inégales, comme des chambres de balnéation.
Le cabinet de toilette de maman, festonné par le soleil, d’une
blancheur éclatante et mauresque, avait l’air plongé au fond
d’un puits, à cause des quatre murs en plâtras sur lesquels il
donnait, tandis que tout en haut, dans le carré laissé vide, le
ciel, dont on voyait glisser, les uns par-dessus les autres, les
flots moelleux et superposés, semblait (à cause du désir
qu’on avait), situé sur une terrasse ou, vu à l’envers dans
quelque glace accrochée à la fenêtre, une piscine pleine d’une
eau bleue, réservée aux ablutions. Malgré cette brûlante
température, nous avions été prendre le train d’une heure.
Mais Albertine avait eu très chaud dans le wagon, plus
encore dans le long trajet à pied, et j’avais peur qu’elle ne prît
froid en restant ensuite immobile dans ce creux humide que
le soleil n’atteint pas. D’autre part, et dès nos premières
visites à Elstir, m’étant rendu compte qu’elle eût apprécié
non seulement le luxe, mais même un certain confort dont
son manque d’argent la privait, je m’étais entendu avec un
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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loueur de Balbec afin que tous les jours une voiture vînt
nous chercher. Pour avoir moins chaud nous prenions par la
forêt de Chantepie. L’invisibilité des innombrables oiseaux,
quelques-uns à demi marins, qui s’y répondaient à côté de
nous dans les arbres donnait la même impression de repos
qu’on a les yeux fermés. À côté d’Albertine, enchaîné par ses
bras au fond de la voiture, j’écoutais ces Océanides. Et
quand par hasard j’apercevais l’un de ces musiciens qui
passaient d’une feuille sous une autre, il y avait si peu de lien
apparent entre lui et ses chants que je ne croyais pas voir la
cause de ceux-ci dans le petit corps sautillant, humble,
étonné et sans regard. La voiture ne pouvait pas nous
conduire jusqu’à l’église. Je la faisais arrêter au sortir de
Quetteholme et je disais au revoir à Albertine. Car elle
m’avait effrayé en me disant de cette église comme d’autres
monuments, de certains tableaux : « Quel plaisir ce serait de
voir cela avec vous ! » Ce plaisir-là, je ne me sentais pas
capable de le donner. Je n’en ressentais devant les belles
choses que si j’étais seul, ou feignais de l’être et me taisais.
Mais puisqu’elle avait cru pouvoir éprouver, grâce à moi, des
sensations d’art qui ne se communiquent pas ainsi, je
trouvais plus prudent de lui dire que je la quittais, viendrais la
rechercher à la fin de la journée, mais que d’ici là il fallait que
je retournasse avec la voiture faire une visite à Mme
Verdurin ou aux Cambremer, ou même passer une heure
avec maman à Balbec, mais jamais plus loin. Du moins, les
premiers temps. Car Albertine m’ayant une fois dit par
caprice : « C’est ennuyeux que la nature ait si mal fait les
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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choses et qu’elle ait mis Saint-Jean de la Haise d’un côté, la
Raspelière d’un autre, qu’on soit pour toute la journée
emprisonnée dans l’endroit qu’on a choisi » ; dès que j’eus
reçu la toque et le voile, je commandai, pour mon malheur,
une automobile à Saint-Fargeau (Sanctus Ferreolus selon le
livre du curé). Albertine, laissée par moi dans l’ignorance, et
qui était venue me chercher, fut surprise en entendant
devant l’hôtel le ronflement du moteur, ravie quand elle sut
que cette auto était pour nous. Je la fis monter un instant
dans ma chambre. Elle sautait de joie. « Nous allons faire
une visite aux Verdurin ? – Oui, mais il vaut mieux que vous
n’y alliez pas dans cette tenue puisque vous allez avoir votre
auto. Tenez, vous serez mieux ainsi. » Et je sortis la toque et
le voile, que j’avais cachés. « C’est à moi ? Oh ! ce que vous
êtes gentil », s’écria-t-elle en me sautant au cou. Aimé, nous
rencontrant dans l’escalier, fier de l’élégance d’Albertine et
de notre moyen de transport, car ces voitures étaient assez
rares à Balbec, se donna le plaisir de descendre derrière nous.
Albertine, désirant être vue un peu dans sa nouvelle toilette,
me demanda de faire relever la capote, qu’on baisserait
ensuite pour que nous soyons plus librement ensemble. «
Allons, dit Aimé au mécanicien, qu’il ne connaissait d’ailleurs
pas et qui n’avait pas bougé, tu n’entends pas qu’on te dit de
relever ta capote ? » Car Aimé, dessalé par la vie d’hôtel, où il
avait conquis, du reste, un rang éminent, n’était pas aussi
timide que le cocher de fiacre pour qui Françoise était une «
dame » ; malgré le manque de présentation préalable, les
plébéiens qu’il n’avait jamais vus il les tutoyait, sans qu’on
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sût trop si c’était de sa part dédain aristocratique ou
fraternité populaire. « Je ne suis pas libre, répondit le
chauffeur qui ne me connaissait pas. Je suis commandé pour
Mlle Simonet. Je ne peux pas conduire Monsieur. » Aimé
s’esclaffa : « Mais voyons, grand gourdiflot, répondit-il au
mécanicien, qu’il convainquit aussitôt, c’est justement Mlle
Simonet, et Monsieur, qui te commande de lever ta capote,
est justement ton patron. » Et comme Aimé, quoique n’ayant
pas personnellement de sympathie pour Albertine, était à
cause de moi fier de la toilette qu’elle portait, il glissa au
chauffeur : « T’en conduirais bien tous les jours, hein ! si tu
pouvais, des princesses comme ça ! » Cette première fois, ce
ne fut pas moi seul qui pus aller à la Raspelière, comme je fis
d’autres jours pendant qu’Albertine peignait ; elle voulut y
venir avec moi. Elle pensait bien que nous pourrions nous
arrêter çà et là sur la route, mais croyait impossible de
commencer par aller à Saint-Jean de la Haise, c’est-à-dire
dans une autre direction, et de faire une promenade qui
semblait vouée à un jour différent. Elle apprit au contraire
du mécanicien que rien n’était plus facile que d’aller à SaintJean où il serait en vingt minutes, et que nous y pourrions
rester, si nous le voulions, plusieurs heures, ou pousser
beaucoup plus loin, car de Quetteholme à la Raspelière il ne
mettrait pas plus de trente-cinq minutes. Nous le comprîmes
dès que la voiture, s’élançant, franchit d’un seul bond vingt
pas d’un excellent cheval. Les distances ne sont que le
rapport de l’espace au temps et varient avec lui. Nous
exprimons la difficulté que nous avons à nous rendre à un
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endroit, dans un système de lieues, de kilomètres, qui devient
faux dès que cette difficulté diminue. L’art en est aussi
modifié, puisqu’un village, qui semblait dans un autre monde
que tel autre, devient son voisin dans un paysage dont les
dimensions sont changées. En tout cas, apprendre qu’il
existe peut-être un univers où 2 et 2 font 5 et où la ligne
droite n’est pas le chemin le plus court d’un point à un autre,
eût beaucoup moins étonné Albertine que d’entendre le
mécanicien lui dire qu’il était facile d’aller dans une même
après-midi à Saint-Jean et à la Raspelière. Douville et
Quetteholme, Saint-Mars-le-Vieux et Saint-Mars-le-Vêtu,
Gourville et Balbec-le-Vieux, Tourville et Féterne,
prisonniers aussi hermétiquement enfermés jusque-là dans la
cellule de jours distincts que jadis Méséglise et Guermantes,
et sur lesquels les mêmes yeux ne pouvaient se poser dans
un seul après-midi, délivrés maintenant par le géant aux
bottes de sept lieues, vinrent assembler autour de l’heure de
notre goûter leurs clochers et leurs tours, leurs vieux jardins
que le bois avoisinant s’empressait de découvrir.
Arrivée au bas de la route de la Corniche, l’auto monta d’un
seul trait, avec un bruit continu comme un couteau qu’on
repasse, tandis que la mer, abaissée, s’élargissait au-dessous
de nous. Les maisons anciennes et rustiques de Montsurvent
accoururent en tenant serrés contre elles leur vigne ou leur
rosier ; les sapins de la Raspelière, plus agités que quand
s’élevait le vent du soir, coururent dans tous les sens pour
nous éviter, et un domestique nouveau que je n’avais encore
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jamais vu vint nous ouvrir au perron, pendant que le fils du
jardinier, trahissant des dispositions précoces, dévorait des
yeux la place du moteur. Comme ce n’était pas un lundi,
nous ne savions pas si nous trouverions Mme Verdurin, car
sauf ce jour-là, où elle recevait, il était imprudent d’aller la
voir à l’improviste. Sans doute elle restait chez elle « en
principe », mais cette expression, que Mme Swann employait
au temps où elle cherchait elle aussi à se faire son petit clan
et à attirer les clients en ne bougeant pas, dût-elle souvent ne
pas faire ses frais, et qu’elle traduisait avec contresens en «
par principe », signifiait seulement « en règle générale », c’està-dire avec de nombreuses exceptions. Car non seulement
Mme Verdurin aimait à sortir, mais elle poussait fort loin les
devoirs de l’hôtesse, et quand elle avait eu du monde à
déjeuner, aussitôt après le café, les liqueurs et les cigarettes
(malgré le premier engourdissement de la chaleur et de la
digestion où on eût mieux aimé, à travers les feuillages de la
terrasse, regarder le paquebot de Jersey passer sur la mer
d’émail), le programme comprenait une suite de promenades
au cours desquelles les convives, installés de force en
voiture, étaient emmenés malgré eux vers l’un ou l’autre des
points de vue qui foisonnent autour de Douville. Cette
deuxième partie de la fête n’était pas, du reste (l’effort de se
lever et de monter en voiture accompli), celle qui plaisait le
moins aux invités, déjà préparés par les mets succulents, les
vins fins ou le cidre mousseux, à se laisser facilement griser
par la pureté de la brise et la magnificence des sites. Mme
Verdurin faisait visiter ceux-ci aux étrangers un peu comme
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des annexes (plus ou moins lointaines) de sa propriété, et
qu’on ne pouvait pas ne pas aller voir du moment qu’on
venait déjeuner chez elle et, réciproquement, qu’on n’aurait
pas connus si on n’avait pas été reçu chez la Patronne. Cette
prétention de s’arroger un droit unique sur les promenades
comme sur le jeu de Morel et jadis de Dechambre, et de
contraindre les paysages à faire partie du petit clan, n’était
pas, du reste, aussi absurde qu’elle semble au premier abord.
Mme Verdurin se moquait non seulement de l’absence de
goût que, selon elle, les Cambremer montraient dans
l’ameublement de la Raspelière et l’arrangement du jardin,
mais encore de leur manque d’initiative dans les promenades
qu’ils faisaient, ou faisaient faire, aux environs. De même
que, selon elle, la Raspelière ne commençait à devenir ce
qu’elle aurait dû être que depuis qu’elle était l’asile du petit
clan, de même elle affirmait que les Cambremer, refaisant
perpétuellement dans leur calèche, le long du chemin de fer,
au bord de la mer, la seule vilaine route qu’il y eût dans les
environs, habitaient le pays de tout temps mais ne le
connaissaient pas. Il y avait du vrai dans cette assertion. Par
routine, défaut d’imagination, incuriosité d’une région qui
semble rebattue parce qu’elle est si voisine, les Cambremer
ne sortaient de chez eux que pour aller toujours aux mêmes
endroits et par les mêmes chemins. Certes ils riaient
beaucoup de la prétention des Verdurin de leur apprendre
leur propre pays. Mais, mis au pied du mur, eux, et même
leur cocher, eussent été incapables de nous conduire aux
splendides endroits, un peu secrets, où nous menait M.
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Verdurin, levant ici la barrière d’une propriété privée, mais
abandonnée, où d’autres n’eussent pas cru pouvoir
s’aventurer ; là descendant de voiture pour suivre un chemin
qui n’était pas carrossable, mais tout cela avec la récompense
certaine d’un paysage merveilleux. Disons, du reste, que le
jardin de la Raspelière était en quelque sorte un abrégé de
toutes les promenades qu’on pouvait faire à bien des
kilomètres alentour. D’abord à cause de sa position
dominante, regardant d’un côté la vallée, de l’autre la mer, et
puis parce que, même d’un seul côté, celui de la mer par
exemple, des percées avaient été faites au milieu des arbres
de telle façon que d’ici on embrassait tel horizon, de là tel
autre. Il y avait à chacun de ces points de vue un banc ; on
venait s’asseoir tour à tour sur celui d’où on découvrait
Balbec, ou Parville, ou Douville. Même, dans une seule
direction, avait été placé un banc plus ou moins à pic sur la
falaise, plus ou moins en retrait. De ces derniers, on avait un
premier plan de verdure et un horizon qui semblait déjà le
plus vaste possible, mais qui s’agrandissait infiniment si,
continuant par un petit sentier, on allait jusqu’à un banc
suivant d’où l’on embrassait tout le cirque de la mer. Là on
percevait exactement le bruit des vagues, qui ne parvenait
pas au contraire dans les parties plus enfoncées du jardin, là
où le flot se laissait voir encore, mais non plus entendre. Ces
lieux de repos portaient, à la Raspelière, pour les maîtres de
maison, le nom de « vues ». Et en effet ils réunissaient autour
du château les plus belles « vues » des pays avoisinants, des
plages ou des forêts, aperçus fort diminués par
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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l’éloignement, comme Hadrien avait assemblé dans sa villa
des réductions des monuments les plus célèbres des diverses
contrées. Le nom qui suivait le mot « vue » n’était pas
forcément celui d’un lieu de la côte, mais souvent de la rive
opposée de la baie et qu’on découvrait, gardant un certain
relief malgré l’étendue du panorama. De même qu’on prenait
un ouvrage dans la bibliothèque de M. Verdurin pour aller
lire une heure à la « vue de Balbec », de même, si le temps
était clair, on allait prendre des liqueurs à la « vue de
Rivebelle », à condition pourtant qu’il ne fît pas trop de vent,
car, malgré les arbres plantés de chaque côté, là l’air était vif.
Pour en revenir aux promenades en voiture que Mme
Verdurin organisait pour l’après-midi, la Patronne, si au
retour elle trouvait les cartes de quelque mondain « de
passage sur la côte », feignait d’être ravie mais était désolée
d’avoir manqué sa visite, et (bien qu’on ne vînt encore que
pour voir « la maison » ou connaître pour un jour une
femme dont le salon artistique était célèbre, mais
infréquentable à Paris) le faisait vite inviter par M. Verdurin
à venir dîner au prochain mercredi. Comme souvent le
touriste était obligé de repartir avant, ou craignait les retours
tardifs, Mme Verdurin avait convenu que, le samedi, on la
trouverait toujours à l’heure du goûter. Ces goûters n’étaient
pas extrêmement nombreux et j’en avais connu à Paris de
plus brillants chez la princesse de Guermantes, chez Mme de
Galliffet ou Mme d’Arpajon. Mais justement, ici ce n’était
plus Paris et le charme du cadre ne réagissait pas pour moi
que sur l’agrément de la réunion, mais sur la qualité des
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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visiteurs. La rencontre de tel mondain, laquelle à Paris ne me
faisait aucun plaisir, mais qui à la Raspelière, où il était venu
de loin par Féterne ou la forêt de Chantepie, changeait de
caractère, d’importance, devenait un agréable incident.
Quelquefois c’était quelqu’un que je connaissais parfaitement
bien et que je n’eusse pas fait un pas pour retrouver chez les
Swann. Mais son nom sonnait autrement sur cette falaise,
comme celui d’un acteur qu’on entend souvent dans un
théâtre, imprimé sur l’affiche, en une autre couleur, d’une
représentation extraordinaire et de gala, où sa notoriété se
multiplie tout à coup de l’imprévu du contexte. Comme à la
campagne on ne se gêne pas, le mondain prenait souvent sur
lui d’amener les amis chez qui il habitait, faisant valoir tout
bas comme excuse à Mme Verdurin qu’il ne pouvait les
lâcher, demeurant chez eux ; à ces hôtes, en revanche, il
feignait d’offrir comme une sorte de politesse de leur faire
connaître ce divertissement, dans une vie de plage
monotone, d’aller dans un centre spirituel, de visiter une
magnifique demeure et de faire un excellent goûter. Cela
composait tout de suite une réunion de plusieurs personnes
de demi-valeur ; et si un petit bout de jardin avec quelques
arbres, qui paraîtrait mesquin à la campagne, prend un
charme extraordinaire avenue Gabriel, ou bien rue de
Monceau, où des multimillionnaires seuls peuvent se l’offrir,
inversement des seigneurs qui sont de second plan dans une
soirée parisienne prenaient toute leur valeur, le lundi aprèsmidi, à la Raspelière. À peine assis autour de la table
couverte d’une nappe brodée de rouge et sous les trumeaux
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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en camaïeu, on leur servait des galettes, des feuilletés
normands, des tartes en bateaux, remplies de cerises comme
des perles de corail, des « diplomates », et aussitôt ces invités
subissaient, de l’approche de la profonde coupe d’azur sur
laquelle s’ouvraient les fenêtres et qu’on ne pouvait pas ne
pas voir en même temps qu’eux, une altération, une
transmutation profonde qui les changeait en quelque chose
de plus précieux. Bien plus, même avant de les avoir vus,
quand on venait le lundi chez Mme Verdurin, les gens qui, à
Paris, n’avaient plus que des regards fatigués par l’habitude
pour les élégants attelages qui stationnaient devant un hôtel
somptueux, sentaient leur cœur battre à la vue des deux ou
trois mauvaises tapissières arrêtées devant la Raspelière, sous
les grands sapins. Sans doute c’était que le cadre agreste était
différent et que les impressions mondaines, grâce à cette
transposition, redevenaient fraîches. C’était aussi parce que la
mauvaise voiture prise pour aller voir Mme Verdurin
évoquait une belle promenade et un coûteux « forfait »
conclu avec un cocher qui avait demandé « tant » pour la
journée. Mais la curiosité légèrement émue à l’égard des
arrivants, encore impossibles à distinguer, tenait aussi de ce
que chacun se demandait : « Qui est-ce que cela va être ? »
question à laquelle il était difficile de répondre, ne sachant
pas qui avait pu venir passer huit jours chez les Cambremer
ou ailleurs, et qu’on aime toujours à se poser dans les vies
agrestes, solitaires, où la rencontre d’un être humain qu’on
n’a pas vu depuis longtemps, ou la présentation à quelqu’un
qu’on ne connaît pas, cesse d’être cette chose fastidieuse
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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qu’elle est dans la vie de Paris, et interrompt délicieusement
l’espace vide des vies trop isolées, où l’heure même du
courrier devient agréable. Et le jour où nous vînmes en
automobile à la Raspelière, comme ce n’était pas lundi, M. et
Mme Verdurin devaient être en proie à ce besoin de voir du
monde qui trouble les hommes et les femmes et donne envie
de se jeter par la fenêtre au malade qu’on a enfermé loin des
siens, pour une cure d’isolement. Car le nouveau domestique
aux pieds plus rapides, et déjà familiarisé avec ces
expressions, nous ayant répondu que « si Madame n’était pas
sortie elle devait être à la « vue de Douville », « qu’il allait
aller voir », il revint aussitôt nous dire que celle-ci allait nous
recevoir. Nous la trouvâmes un peu décoiffée, car elle
arrivait du jardin, de la basse-cour et du potager, où elle était
allée donner à manger à ses paons et à ses poules, chercher
des œufs, cueillir des fruits et des fleurs pour « faire son
chemin de table », chemin qui rappelait en petit celui du parc
; mais, sur la table, il donnait cette distinction de ne pas lui
faire supporter que des choses utiles et bonnes à manger ;
car, autour de ces autres présents du jardin qu’étaient les
poires, les œufs battus à la neige, montaient de hautes tiges
de vipérines, d’œillets, de roses et de coreopsis entre lesquels
on voyait, comme entre des pieux indicateurs et fleuris, se
déplacer, par le vitrage de la fenêtre, les bateaux du large. À
l’étonnement que M. et Mme Verdurin, s’interrompant de
disposer les fleurs pour recevoir les visiteurs annoncés,
montrèrent, en voyant que ces visiteurs n’étaient autres
qu’Albertine et moi, je vis bien que le nouveau domestique,
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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plein de zèle, mais à qui mon nom n’était pas encore
familier, l’avait mal répété et que Mme Verdurin, entendant
le nom d’hôtes inconnus, avait tout de même dit de faire
entrer, ayant besoin de voir n’importe qui. Et le nouveau
domestique contemplait ce spectacle, de la porte, afin de
comprendre le rôle que nous jouions dans la maison. Puis il
s’éloigna en courant, à grandes enjambées, car il n’était
engagé que de la veille. Quand Albertine eut bien montré sa
toque et son voile aux Verdurin, elle me jeta un regard pour
me rappeler que nous n’avions pas trop de temps devant
nous pour ce que nous désirions faire. Mme Verdurin voulait
que nous attendissions le goûter, mais nous refusâmes,
quand tout d’un coup se dévoila un projet qui eût mis à
néant tous les plaisirs que je me promettais de ma
promenade avec Albertine : la Patronne, ne pouvant se
décider à nous quitter, ou peut-être à laisser échapper une
distraction nouvelle, voulait revenir avec nous. Habituée dès
longtemps à ce que, de sa part, les offres de ce genre ne
fissent pas plaisir, et n’étant probablement pas certaine que
celle-ci nous en causerait un, elle dissimula sous un excès
d’assurance la timidité qu’elle éprouvait en nous l’adressant,
et n’ayant même pas l’air de supposer qu’il pût y avoir doute
sur notre réponse, elle ne nous posa pas de question, mais
dit à son mari, en parlant d’Albertine et de moi, comme si
elle nous faisait une faveur : « Je les ramènerai, moi. » En
même temps s’appliqua sur sa bouche un sourire qui ne lui
appartenait pas en propre, un sourire que j’avais déjà vu à
certaines gens quand ils disaient à Bergotte, d’un air fin : «
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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J’ai acheté votre livre, c’est comme cela », un de ces sourires
collectifs, universaux, que, quand ils en ont besoin – comme
on se sert du chemin de fer et des voitures de
déménagement – empruntent les individus, sauf quelquesuns très raffinés, comme Swann ou comme M. de Charlus,
aux lèvres de qui je n’ai jamais vu se poser ce sourire-là. Dès
lors ma visite était empoisonnée. Je fis semblant de ne pas
avoir compris. Au bout d’un instant il devint évident que M.
Verdurin serait de la fête. « Mais ce sera bien long pour M.
Verdurin, dis-je. – Mais non, me répondit Mme Verdurin
d’un air condescendant et égayé, il dit que ça l’amusera
beaucoup de refaire avec cette jeunesse cette route qu’il a
tant suivie autrefois ; au besoin il montera à côté du
wattman, cela ne l’effraye pas, et nous reviendrons tous les
deux bien sagement par le train, comme de bons époux.
Regardez, il a l’air enchanté. » Elle semblait parler d’un vieux
grand peintre plein de bonhomie qui, plus jeune que les
jeunes, met sa joie à barbouiller des images pour faire rire ses
petits-enfants. Ce qui ajoutait à ma tristesse est qu’Albertine
semblait ne pas la partager et trouver amusant de circuler
ainsi par tout le pays avec les Verdurin. Quant à moi, le
plaisir que je m’étais promis de prendre avec elle était si
impérieux que je ne voulus pas permettre à la Patronne de le
gâcher ; j’inventai des mensonges, que les irritantes menaces
de Mme Verdurin rendaient excusables, mais qu’Albertine,
hélas ! contredisait. « Mais nous avons une visite à faire, disje. – Quelle visite ? demanda Albertine. – Je vous
expliquerai, c’est indispensable. – Hé bien ! nous vous
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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attendrons », dit Mme Verdurin résignée à tout. À la dernière
minute, l’angoisse de me sentir ravir un bonheur si désiré me
donna le courage d’être impoli. Je refusai nettement,
alléguant à l’oreille de Mme Verdurin, qu’à cause d’un
chagrin qu’avait eu Albertine et sur lequel elle désirait me
consulter, il fallait absolument que je fusse seul avec elle. La
Patronne prit un air courroucé : « C’est bon, nous ne
viendrons pas », me dit-elle d’une voix tremblante de colère.
Je la sentis si fâchée que, pour avoir l’air de céder un peu : «
Mais on aurait peut-être pu... – Non, reprit-elle, plus furieuse
encore, quand j’ai dit non, c’est non. » Je me croyais brouillé
avec elle, mais elle nous rappela à la porte pour nous
recommander de ne pas « lâcher » le lendemain mercredi, et
de ne pas venir avec cette affaire-là, qui était dangereuse la
nuit, mais par le train, avec tout le petit groupe, et elle fit
arrêter l’auto déjà en marche sur la pente du parc parce que
le domestique avait oublié de mettre dans la capote le carré
de tarte et les sablés qu’elle avait fait envelopper pour nous.
Nous repartîmes escortés un moment par les petites maisons
accourues avec leurs fleurs. La figure du pays nous semblait
toute changée tant, dans l’image topographique que nous
nous faisons de chacun d’eux, la notion d’espace est loin
d’être celle qui joue le plus grand rôle. Nous avons dit que
celle du temps les écarte davantage. Elle n’est pas non plus la
seule. Certains lieux que nous voyons toujours isolés nous
semblent sans commune mesure avec le reste, presque hors
du monde, comme ces gens que nous avons connus dans
des périodes à part de notre vie, au régiment, dans notre
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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enfance, et que nous ne relions à rien. La première année de
mon séjour à Balbec, il y avait une hauteur où Mme de
Villeparisis aimait à nous conduire, parce que de là on ne
voyait que l’eau et les bois, et qui s’appelait Beaumont.
Comme le chemin qu’elle faisait prendre pour y aller, et
qu’elle trouvait le plus joli à cause de ses vieux arbres,
montait tout le temps, sa voiture était obligée d’aller au pas
et mettait très longtemps. Une fois arrivés en haut, nous
descendions, nous nous promenions un peu, remontions en
voiture, revenions par le même chemin, sans avoir rencontré
aucun village, aucun château. Je savais que Beaumont était
quelque chose de très curieux, de très loin, de très haut, je
n’avais aucune idée de la direction où cela se trouvait,
n’ayant jamais pris le chemin de Beaumont pour aller ailleurs
; on mettait, du reste, beaucoup de temps en voiture pour y
arriver. Cela faisait évidemment partie du même
département (ou de la même province) que Balbec, mais
était situé pour moi dans un autre plan, jouissait d’un
privilège spécial d’exterritorialité. Mais l’automobile, qui ne
respecte aucun mystère, après avoir dépassé Incarville, dont
j’avais encore les maisons dans les yeux, comme nous
descendions la côte de traverse qui aboutit à Parville (Paterni
villa), apercevant la mer d’un terre-plein où nous étions, je
demandai comment s’appelait cet endroit, et avant même
que le chauffeur m’eût répondu, je reconnus Beaumont, à
côté duquel je passais ainsi sans le savoir chaque fois que je
prenais le petit chemin de fer, car il était à deux minutes de
Parville. Comme un officier de mon régiment qui m’eût
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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semblé un être spécial, trop bienveillant et simple pour être
de grande famille, trop lointain déjà et mystérieux pour être
simplement d’une grande famille, et dont j’aurais appris qu’il
était beau-frère, cousin de telles ou telles personnes avec qui
je dînais en ville, ainsi Beaumont, relié tout d’un coup à des
endroits dont je le croyais si distinct, perdit son mystère et
prit sa place dans la région, me faisant penser avec terreur
que Madame Bovary et la Sanseverina m’eussent peut-être
semblé des êtres pareils aux autres si je les eusse rencontrées
ailleurs que dans l’atmosphère close d’un roman. Il peut
sembler que mon amour pour les féeriques voyages en
chemin de fer aurait dû m’empêcher de partager
l’émerveillement d’Albertine devant l’automobile qui mène,
même un malade, là où il veut, et empêche – comme je
l’avais fait jusqu’ici – de considérer l’emplacement comme la
marque individuelle, l’essence sans succédané des beautés
inamovibles. Et sans doute, cet emplacement, l’automobile
n’en faisait pas, comme jadis le chemin de fer, quand j’étais
venu de Paris à Balbec, un but soustrait aux contingences de
la vie ordinaire, presque idéal au départ et qui, le restant à
l’arrivée, à l’arrivée dans cette grande demeure où n’habite
personne et qui porte seulement le nom de la ville, la gare, a
l’air d’en promettre enfin l’accessibilité, comme elle en serait
la matérialisation. Non, l’automobile ne nous menait pas
ainsi féeriquement dans une ville que nous voyions d’abord
dans l’ensemble que résume son nom, et avec les illusions du
spectateur dans la salle. Elle nous faisait entrer dans la
coulisse des rues, s’arrêtait à demander un renseignement à
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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un habitant. Mais, comme compensation d’une progression
si familière, on a les tâtonnements mêmes du chauffeur
incertain de sa route et revenant sur ses pas, les chasséscroisés de la perspective faisant jouer un château aux quatre
coins avec une colline, une église et la mer, pendant qu’on se
rapproche de lui, bien qu’il se blottisse vainement sous sa
feuillée séculaire ; ces cercles, de plus en plus rapprochés,
que décrit l’automobile autour d’une ville fascinée qui fuit
dans tous les sens pour échapper, et sur laquelle finalement
elle fonce tout droit, à pic, au fond de la vallée où elle reste
gisante à terre ; de sorte que cet emplacement, point unique,
que l’automobile semble avoir dépouillé du mystère des
trains express, elle donne par contre l’impression de le
découvrir, de le déterminer nous-même comme avec un
compas, de nous aider à sentir d’une main plus
amoureusement exploratrice, avec une plus fine précision, la
véritable géométrie, la belle mesure de la terre.
Ce que malheureusement j’ignorais à ce moment-là et que je
n’appris que plus de deux ans après, c’est qu’un des clients
du chauffeur était M. de Charlus, et que Morel, chargé de le
payer et gardant une partie de l’argent pour lui (en faisant
tripler et quintupler par le chauffeur le nombre des
kilomètres), s’était beaucoup lié avec lui (tout en ayant l’air
de ne pas le connaître devant le monde) et usait de sa voiture
pour des courses lointaines. Si j’avais su cela alors, et que la
confiance qu’eurent bientôt les Verdurin en ce chauffeur
venait de là, à leur insu peut-être, bien des chagrins de ma
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vie à Paris, l’année suivante, bien des malheurs relatifs à
Albertine, eussent été évités ; mais je ne m’en doutais
nullement. En elles-mêmes, les promenades de M. de
Charlus en auto avec Morel n’étaient pas d’un intérêt direct
pour moi. Elles se bornaient, d’ailleurs, plus souvent à un
déjeuner ou à un dîner dans un restaurant de la côte, où M.
de Charlus passait pour un vieux domestique ruiné et Morel,
qui avait mission de payer les notes, pour un gentilhomme
trop bon. Je raconte un de ces repas, qui peut donner une
idée des autres. C’était dans un restaurant de forme
oblongue, à Saint-Mars-le-Vêtu. « Est-ce qu’on ne pourrait
pas enlever ceci ? » demanda M. de Charlus à Morel comme
à un intermédiaire et pour ne pas s’adresser directement aux
garçons. Il désignait par « ceci » trois roses fanées dont un
maître d’hôtel bien intentionné avait cru devoir décorer la
table. « Si..., dit Morel embarrassé. Vous n’aimez pas les
roses ? – Je prouverais au contraire, par la requête en
question, que je les aime, puisqu’il n’y a pas de roses ici
(Morel parut surpris), mais en réalité je ne les aime pas
beaucoup. Je suis assez sensible aux noms ; et dès qu’une
rose est un peu belle, on apprend qu’elle s’appelle la Baronne
de Rothschild ou la Maréchale Niel, ce qui jette un froid.
Aimez-vous les noms ? Avez-vous trouvé de jolis titres pour
vos petits morceaux de concert ? – Il y en a un qui s’appelle
Poème triste. – C’est affreux, répondit M. de Charlus d’une
voix aiguë et claquante comme un soufflet. Mais j’avais
demandé du Champagne ? dit-il au maître d’hôtel qui avait
cru en apporter en mettant près des deux clients deux
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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coupes remplies de vin mousseux. – Mais, Monsieur... –
Ôtez cette horreur qui n’a aucun rapport avec le plus
mauvais Champagne. C’est le vomitif appelé cup où on fait
généralement traîner trois fraises pourries dans un mélange
de vinaigre et d’eau de Seltz... Oui, continua-t-il en se
retournant vers Morel, vous semblez ignorer ce que c’est
qu’un titre. Et même, dans l’interprétation de ce que vous
jouez le mieux, vous semblez ne pas apercevoir le côté
médiumnimique de la chose. – Vous dites ? » demanda
Morel qui, n’ayant absolument rien compris à ce qu’avait dit
le baron, craignait d’être privé d’une information utile,
comme, par exemple, une invitation à déjeuner. M. de
Charlus, ayant négligé de considérer « Vous dites ? » comme
une question, Morel, n’ayant en conséquence pas reçu de
réponse, crut devoir changer la conversation et lui donner un
tour sensuel : « Tenez, la petite blonde qui vend ces fleurs
que vous n’aimez pas ; encore une qui a sûrement une petite
amie. Et la vieille qui dîne à la table du fond aussi. – Mais
comment sais-tu tout cela ? demanda M. de Charlus
émerveillé de la prescience de Morel. – Oh ! en une seconde
je les devine. Si nous nous promenions tous les deux dans
une foule, vous verriez que je ne me trompe pas deux fois. »
Et qui eût regardé en ce moment Morel, avec son air de fille
au milieu de sa mâle beauté, eût compris l’obscure divination
qui ne le désignait pas moins à certaines femmes que elles à
lui. Il avait envie de supplanter Jupien, vaguement désireux
d’ajouter à son « fixe » les revenus que, croyait-il, le giletier
tirait du baron. « Et pour les gigolos, je m’y connais mieux
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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encore, je vous éviterais toutes les erreurs. Ce sera bientôt la
foire de Balbec, nous trouverions bien des choses. Et à Paris
alors, vous verriez que vous vous amuseriez. » Mais une
prudence héréditaire du domestique lui fit donner un autre
tour à la phrase que déjà il commençait. De sorte que M. de
Charlus crut qu’il s’agissait toujours de jeunes filles. « Voyezvous, dit Morel, désireux d’exalter d’une façon qu’il jugeait
moins compromettante pour lui-même (bien qu’elle fût en
réalité plus immorale) les sens du baron, mon rêve, ce serait
de trouver une jeune fille bien pure, de m’en faire aimer et de
lui prendre sa virginité. » M. de Charlus ne put se retenir de
pincer tendrement l’oreille de Morel, mais ajouta naïvement :
« À quoi cela te servirait-il ? Si tu prenais son pucelage, tu
serais bien obligé de l’épouser. – L’épouser ? s’écria Morel,
qui sentait le baron grisé ou bien qui ne songeait pas à
l’homme, en somme plus scrupuleux qu’il ne croyait, avec
lequel il parlait ; l’épouser ? Des nèfles ! Je le promettrais,
mais, dès la petite opération menée à bien, je la plaquerais le
soir même. » M. de Charlus avait l’habitude, quand une
fiction pouvait lui causer un plaisir sensuel momentané, d’y
donner son adhésion, quitte à la retirer tout entière quelques
instants après, quand le plaisir serait épuisé. « Vraiment, tu
ferais cela ? dit-il à Morel en riant et en le serrant de plus
près. – Et comment ! dit Morel, voyant qu’il ne déplaisait pas
au baron en continuant à lui expliquer sincèrement ce qui
était en effet un de ses désirs. – C’est dangereux, dit M. de
Charlus. – Je ferais mes malles d’avance et je ficherais le
camp sans laisser d’adresse. – Et moi ? demanda M. de
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Charlus. – Je vous emmènerais avec moi, bien entendu,
s’empressa de dire Morel qui n’avait pas songé à ce que
deviendrait le baron, lequel était le cadet de ses soucis.
Tenez, il y a une petite qui me plairait beaucoup pour ça,
c’est une petite couturière qui a sa boutique dans l’hôtel de
M. le duc. – La fille de Jupien, s’écria le baron pendant que le
sommelier entrait. Oh ! jamais, ajouta-t-il, soit que la
présence d’un tiers l’eût refroidi, soit que, même dans ces
espèces de messes noires où il se complaisait à souiller les
choses les plus saintes, il ne pût se résoudre à faire entrer des
personnes pour qui il avait de l’amitié. Jupien est un brave
homme, la petite est charmante, il serait affreux de leur
causer du chagrin. » Morel sentit qu’il était allé trop loin et se
tut, mais son regard continuait, dans le vide, à se fixer sur la
jeune fille devant laquelle il avait voulu un jour que je
l’appelasse « cher grand artiste » et à qui il avait commandé
un gilet. Très travailleuse, la petite n’avait pas pris de
vacances, mais j’ai su depuis que, tandis que Morel le
violoniste était dans les environs de Balbec, elle ne cessait de
penser à son beau visage, ennobli de ce qu’ayant vu Morel
avec moi, elle l’avait pris pour un « monsieur ».
« Je n’ai jamais entendu jouer Chopin, dit le baron, et
pourtant j’aurais pu, je prenais des leçons avec Stamati, mais
il me défendit d’aller entendre, chez ma tante Chimay, le
Maître des Nocturnes. – Quelle bêtise il a faite là, s’écria
Morel. – Au contraire, répliqua vivement, d’une voix aiguë,
M. de Charlus. Il prouvait son intelligence. Il avait compris
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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que j’étais une « nature » et que je subirais l’influence de
Chopin. Ça ne fait rien puisque j’ai abandonné tout jeune la
musique, comme tout, du reste. Et puis on se figure un peu,
ajouta-t-il d’une voix nasillarde, ralentie et traînante, il y a
toujours des gens qui ont entendu, qui vous donnent une
idée. Mais enfin Chopin n’était qu’un prétexte pour revenir
au côté médiumnimique, que vous négligez. »
On remarquera qu’après une interpolation du langage
vulgaire, celui de M. de Charlus était brusquement redevenu
aussi précieux et hautain qu’il était d’habitude. C’est que
l’idée que Morel « plaquerait » sans remords une jeune fille
violée lui avait fait brusquement goûter un plaisir complet.
Dès lors ses sens étaient apaisés pour quelque temps et le
sadique (lui, vraiment médiumnimique) qui s’était substitué
pendant quelques instants à M. de Charlus avait fui et rendu
la parole au vrai M. de Charlus, plein de raffinement
artistique, de sensibilité, de bonté. « Vous avez joué l’autre
jour la transcription au piano du XVe quatuor, ce qui est déjà
absurde parce que rien n’est moins pianistique. Elle est faite
pour les gens à qui les cordes trop tendues du glorieux Sourd
font mal aux oreilles. Or c’est justement ce mysticisme
presque aigre qui est divin. En tout cas vous l’avez très mal
jouée, en changeant tous les mouvements. Il faut jouer ça
comme si vous le composiez : le jeune Morel, affligé d’une
surdité momentanée et d’un génie inexistant, reste un instant
immobile. Puis, pris du délire sacré, il joue, il compose les
premières mesures. Alors, épuisé par un pareil effort
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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d’entrance, il s’affaisse, laissant tomber la jolie mèche pour
plaire à Mme Verdurin, et, de plus, il prend ainsi le temps de
refaire la prodigieuse quantité de substance grise qu’il a
prélevée pour l’objectivation pythique. Alors, ayant retrouvé
ses forces, saisi d’une inspiration nouvelle et suréminente, il
s’élance vers la sublime phrase intarissable que le virtuose
berlinois (nous croyons que M. de Charlus désignait ainsi
Mendelssohn) devait infatigablement imiter. C’est de cette
façon, seule vraiment transcendante et animatrice, que je
vous ferai jouer à Paris. » Quand M. de Charlus lui donnait
des avis de ce genre, Morel était beaucoup plus effrayé que
de voir le maître d’hôtel remporter ses roses et son « cup »
dédaignés, car il se demandait avec anxiété quel effet cela
produirait à la « classe ». Mais il ne pouvait s’attarder à ces
réflexions, car M. de Charlus lui disait impérieusement : «
Demandez au maître d’hôtel s’il a du bon chrétien. – Du bon
chrétien ? je ne comprends pas. – Vous voyez bien que nous
sommes au fruit, c’est une poire. Soyez sûr que Mme de
Cambremer en a chez elle, car la comtesse d’Escarbagnas,
qu’elle est, en avait. M. Thibaudier la lui envoie et elle dit : «
Voilà du bon chrétien qui est fort beau. » – Non, je ne savais
pas. – Je vois, du reste, que vous ne savez rien. Si vous
n’avez même pas lu Molière... Hé bien, puisque vous ne
devez pas savoir commander, plus que le reste, demandez
tout simplement une poire qu’on recueille justement près
d’ici, la « Louise-Bonne d’Avranches. » – Là... ? – Attendez,
puisque vous êtes si gauche je vais moi-même en demander
d’autres, que j’aime mieux : Maître d’hôtel, avez-vous de la
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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Doyenné des Comices ? Charlie, vous devriez lire la page
ravissante qu’a écrite sur cette poire la duchesse Émilie de
Clermont-Tonnerre. – Non, Monsieur, je n’en ai pas. –
Avez-vous du Triomphe de Jodoigne ? – Non, Monsieur. –
De la Virginie-Dallet ? de la Passe-Colmar ? Non ? eh bien,
puisque vous n’avez rien nous allons partir. La « Duchessed’Angoulême » n’est pas encore mûre ; allons, Charlie,
partons. » Malheureusement pour M. de Charlus, son
manque de bon sens, peut-être la chasteté des rapports qu’il
avait probablement avec Morel, le firent s’ingénier, dès cette
époque, à combler le violoniste d’étranges bontés que celuici ne pouvait comprendre et auxquelles sa nature, folle dans
son genre, mais ingrate et mesquine, ne pouvait répondre
que par une sécheresse ou une violence toujours croissantes,
et qui plongeaient M. de Charlus – jadis si fier, maintenant
tout timide – dans des accès de vrai désespoir. On verra
comment, dans les plus petites choses, Morel, qui se croyait
devenu un M. de Charlus mille fois plus important, avait
compris de travers, en les prenant à la lettre, les orgueilleux
enseignements du baron quant à l’aristocratie. Disons
simplement, pour l’instant, tandis qu’Albertine m’attend à
Saint-Jean de la Haise, que s’il y avait une chose que Morel
mît au-dessus de la noblesse (et cela était en son principe
assez noble, surtout de quelqu’un dont le plaisir était d’aller
chercher des petites filles – « ni vu ni connu » – avec le
chauffeur), c’était sa réputation artistique et ce qu’on pouvait
penser à la classe de violon. Sans doute il était laid que, parce
qu’il sentait M. de Charlus tout à lui, il eût l’air de le renier,
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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de se moquer de lui, de la même façon que, dès que j’eus
promis le secret sur les fonctions de son père chez mon
grand-oncle, il me traita de haut en bas. Mais, d’autre part,
son nom d’artiste diplômé, Morel, lui paraissait supérieur à
un « nom ». Et quand M. de Charlus, dans ses rêves de
tendresse platonique, voulait lui faire prendre un titre de sa
famille, Morel s’y refusait énergiquement.
Quand Albertine trouvait plus sage de rester à Saint-Jean de
la Haise pour peindre, je prenais l’auto, et ce n’était pas
seulement à Gourville et à Féterne, mais à Saint-Mars-leVieux et jusqu’à Criquetot que je pouvais aller avant de
revenir la chercher. Tout en feignant d’être occupé d’autre
chose que d’elle, et d’être obligé de la délaisser pour d’autres
plaisirs, je ne pensais qu’à elle. Bien souvent je n’allais pas
plus loin que la grande plaine qui domine Gourville, et
comme elle ressemble un peu à celle qui commence audessus de Combray, dans la direction de Méséglise, même à
une assez grande distance d’Albertine j’avais la joie de penser
que, si mes regards ne pouvaient pas aller jusqu’à elle,
portant plus loin qu’eux, cette puissante et douce brise
marine qui passait à côté de moi devait dévaler, sans être
arrêtée par rien, jusqu’à Quetteholme, venir agiter les
branches des arbres qui ensevelissent Saint-Jean de la Haise
sous leur feuillage, en caressant la figure de mon amie, et
jeter ainsi un double lien d’elle à moi dans cette retraite
indéfiniment agrandie, mais sans risques, comme dans ces
jeux où deux enfants se trouvent par moments hors de la
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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portée de la voix et de la vue l’un de l’autre, et où tout en
étant éloignés ils restent réunis. Je revenais par ces chemins
d’où l’on aperçoit la mer, et où autrefois, avant qu’elle
apparût entre les branches, je fermais les yeux pour bien
penser que ce que j’allais voir, c’était bien la plaintive aïeule
de la terre, poursuivant, comme au temps qu’il n’existait pas
encore d’êtres vivants, sa démente et immémoriale agitation.
Maintenant, ils n’étaient plus pour moi que le moyen d’aller
rejoindre Albertine, quand je les reconnaissais tout pareils,
sachant jusqu’où ils allaient filer droit, où ils tourneraient ; je
me rappelais que je les avais suivis en pensant à Mlle de
Stermaria, et aussi que la même hâte de retrouver Albertine,
je l’avais eue à Paris en descendant les rues par où passait
Mme de Guermantes ; ils prenaient pour moi la monotonie
profonde, la signification morale d’une sorte de ligne que
suivait mon caractère. C’était naturel, et ce n’était pourtant
pas indifférent ; ils me rappelaient que mon sort était de ne
poursuivre que des fantômes, des êtres dont la réalité, pour
une bonne part, était dans mon imagination ; il y a des êtres
en effet – et ç’avait été, dès la jeunesse, mon cas – pour qui
tout ce qui a une valeur fixe, constatable par d’autres, la
fortune, le succès, les hautes situations, ne comptent pas ; ce
qu’il leur faut, ce sont des fantômes. Ils y sacrifient tout le
reste, mettent tout en œuvre, font tout servir à rencontrer tel
fantôme. Mais celui-ci ne tarde pas à s’évanouir ; alors on
court après tel autre, quitte à revenir ensuite au premier. Ce
n’était pas la première fois que je recherchais Albertine, la
jeune fille vue la première année devant la mer. D’autres
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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femmes, il est vrai, avaient été intercalées entre Albertine
aimée la première fois et celle que je ne quittais guère en ce
moment ; d’autres femmes, notamment la duchesse de
Guermantes. Mais, dira-t-on, pourquoi se donner tant de
soucis au sujet de Gilberte, prendre tant de peine pour Mme
de Guermantes, si, devenu l’ami de celle-ci, c’est à seule fin
de n’y plus penser, mais seulement à Albertine ? Swann,
avant sa mort, aurait pu répondre, lui qui avait été amateur
de fantômes. De fantômes poursuivis, oubliés, recherchés à
nouveau, quelquefois pour une seule entrevue, et afin de
toucher à une vie irréelle laquelle aussitôt s’enfuyait, ces
chemins de Balbec étaient pleins. En pensant que leurs
arbres, poiriers, pommiers, tamaris, me survivraient, il me
semblait recevoir d’eux le conseil de me mettre enfin au
travail pendant que n’avait pas encore sonné l’heure du repos
éternel.
Je descendais de voiture à Quetteholme, courais dans la raide
cavée, passais le ruisseau sur une planche et trouvais
Albertine qui peignait devant l’église toute en clochetons,
épineuse et rouge, fleurissant comme un rosier. Le tympan
seul était uni ; et à la surface riante de la pierre affleuraient
des anges qui continuaient, devant notre couple du XXe
siècle, à célébrer, cierges en mains, les cérémonies du XIIIe.
C’était eux dont Albertine cherchait à faire le portrait sur sa
toile préparée et, imitant Elstir, elle donnait de grands coups
de pinceau, tâchant d’obéir au noble rythme qui faisait, lui
avait dit le grand maître, ces anges-là si différents de tous
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ceux qu’il connaissait. Puis elle reprenait ses affaires.
Appuyés l’un sur l’autre nous remontions la cavée, laissant la
petite église, aussi tranquille que si elle ne nous avait pas vus,
écouter le bruit perpétuel du ruisseau. Bientôt l’auto filait,
nous faisait prendre pour le retour un autre chemin qu’à
l’aller. Nous passions devant Marcouville l’Orgueilleuse. Sur
son église, moitié neuve, moitié restaurée, le soleil déclinant
étendait sa patine aussi belle que celle des siècles. À travers
elle les grands bas-reliefs semblaient n’être vus que sous une
couche fluide, moitié liquide, moitié lumineuse ; la Sainte
Vierge, sainte Élisabeth, saint Joachim, nageaient encore
dans l’impalpable remous, presque à sec, à fleur d’eau ou à
fleur de soleil. Surgissant dans une chaude poussière, les
nombreuses statues modernes se dressaient sur des colonnes
jusqu’à mi-hauteur des voiles dorés du couchant. Devant
l’église un grand cyprès semblait dans une sorte d’enclos
consacré. Nous descendions un instant pour le regarder et
faisions quelques pas. Tout autant que de ses membres,
Albertine avait une conscience directe de sa toque de paille
d’Italie et de l’écharpe de soie (qui n’étaient pas pour elle le
siège de moindres sensations de bien-être), et recevait d’elles,
tout en faisant le tour de l’église, un autre genre d’impulsion,
traduite par un contentement inerte mais auquel je trouvais
de la grâce ; écharpe et toque qui n’étaient qu’une partie
récente, adventice, de mon amie, mais qui m’était déjà chère
et dont je suivais des yeux le sillage, le long du cyprès, dans
l’air du soir. Elle-même ne pouvait le voir, mais se doutait
que ces élégances faisaient bien, car elle me souriait tout en
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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harmonisant le port de sa tête avec la coiffure qui la
complétait : « Elle ne me plaît pas, elle est restaurée », me
dit-elle en me montrant l’église et se souvenant de ce
qu’Elstir lui avait dit sur la précieuse, sur l’inimitable beauté
des vieilles pierres. Albertine savait reconnaître tout de suite
une restauration. On ne pouvait que s’étonner de la sûreté de
goût qu’elle avait déjà en architecture, au lieu du déplorable
qu’elle gardait en musique. Pas plus qu’Elstir, je n’aimais
cette église, c’est sans me faire plaisir que sa façade
ensoleillée était venue se poser devant mes yeux, et je n’étais
descendu la regarder que pour être agréable à Albertine. Et
pourtant je trouvais que le grand impressionniste était en
contradiction avec lui-même ; pourquoi ce fétichisme attaché
à la valeur architecturale objective, sans tenir compte de la
transfiguration de l’église dans le couchant ? « Non
décidément, me dit Albertine, je ne l’aime pas ; j’aime son
nom d’Orgueilleuse. Mais ce qu’il faudra penser à demander
à Brichot, c’est pourquoi Saint-Mars s’appelle le Vêtu. On ira
la prochaine fois, n’est-ce pas ? » me disait-elle en me
regardant de ses yeux noirs sur lesquels sa toque était
abaissée comme autrefois son petit polo. Son voile flottait. Je
remontais en auto avec elle, heureux que nous dussions le
lendemain aller ensemble à Saint-Mars, dont, par ces temps
ardents où on ne pensait qu’au bain, les deux antiques
clochers d’un rose saumon, aux tuiles en losange, légèrement
infléchis et comme palpitants, avaient l’air de vieux poissons
aigus, imbriqués d’écailles, moussus et roux, qui, sans avoir
l’air de bouger, s’élevaient dans une eau transparente et
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bleue. En quittant Marcouville, pour raccourcir, nous
bifurquions à une croisée de chemins où il y a une ferme.
Quelquefois Albertine y faisait arrêter et me demandait
d’aller seul chercher, pour qu’elle pût le boire dans la voiture,
du calvados ou du cidre, qu’on assurait n’être pas mousseux
et par lequel nous étions tout arrosés. Nous étions pressés
l’un contre l’autre. Les gens de la ferme apercevaient à peine
Albertine dans la voiture fermée, je leur rendais les bouteilles
; nous repartions, comme afin de continuer cette vie à nous
deux, cette vie d’amants qu’ils pouvaient supposer que nous
avions, et dont cet arrêt pour boire n’eût été qu’un moment
insignifiant ; supposition qui eût paru d’autant moins
invraisemblable si on nous avait vus après qu’Albertine avait
bu sa bouteille de cidre ; elle semblait alors, en effet, ne plus
pouvoir supporter entre elle et moi un intervalle qui
d’habitude ne la gênait pas ; sous sa jupe de toile ses jambes
se serraient contre mes jambes, elle approchait de mes joues
ses joues qui étaient devenues blêmes, chaudes et rouges aux
pommettes, avec quelque chose d’ardent et de fané comme
en ont les filles de faubourgs. À ces moments-là, presque
aussi vite que de personnalité elle changeait de voix, perdait
la sienne pour en prendre une autre, enrouée, hardie,
presque crapuleuse. Le soir tombait. Quel plaisir de la sentir
contre moi, avec son écharpe et sa toque, me rappelant que
c’est ainsi toujours, côte à côte, qu’on rencontre ceux qui
s’aiment. J’avais peut-être de l’amour pour Albertine, mais
n’osant pas le lui laisser apercevoir, bien que, s’il existait en
moi, ce ne pût être que comme une vérité sans valeur jusqu’à
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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ce qu’on ait pu la contrôler par l’expérience ; or il me
semblait irréalisable et hors du plan de la vie. Quant à ma
jalousie, elle me poussait à quitter le moins possible
Albertine, bien que je susse qu’elle ne guérirait tout à fait
qu’en me séparant d’elle à jamais. Je pouvais même
l’éprouver auprès d’elle, mais alors m’arrangeais pour ne pas
laisser se renouveler la circonstance qui l’avait éveillée en
moi. C’est ainsi qu’un jour de beau temps nous allâmes
déjeuner à Rivebelle. Les grandes portes vitrées de la salle à
manger de ce hall en forme de couloir, qui servait pour les
thés, étaient ouvertes de plain-pied avec les pelouses dorées
par le soleil et desquelles le vaste restaurant lumineux
semblait faire partie. Le garçon, à la figure rose, aux cheveux
noirs tordus comme une flamme, s’élançait dans toute cette
vaste étendue moins vite qu’autrefois, car il n’était plus
commis mais chef de rang ; néanmoins, à cause de son
activité naturelle, parfois au loin, dans la salle à manger,
parfois plus près, mais au dehors, servant des clients qui
avaient préféré déjeuner dans le jardin, on l’apercevait tantôt
ici, tantôt là, comme des statues successives d’un jeune dieu
courant, les unes à l’intérieur, d’ailleurs bien éclairé, d’une
demeure qui se prolongeait en gazons verts, tantôt sous les
feuillages, dans la clarté de la vie en plein air. Il fut un
moment à côté de nous. Albertine répondit distraitement à
ce que je lui disais. Elle le regardait avec des yeux agrandis.
Pendant quelques minutes je sentis qu’on peut être près de la
personne qu’on aime et cependant ne pas l’avoir avec soi. Ils
avaient l’air d’être dans un tête-à-tête mystérieux, rendu muet
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par ma présence, et suite peut-être de rendez-vous anciens
que je ne connaissais pas, ou seulement d’un regard qu’il lui
avait jeté – et dont j’étais le tiers gênant et de qui on se
cache. Même quand, rappelé avec violence par son patron, il
se fut éloigné, Albertine, tout en continuant à déjeuner,
n’avait plus l’air de considérer le restaurant et les jardins que
comme une piste illuminée, où apparaissait çà et là, dans des
décors variés, le dieu coureur aux cheveux noirs. Un instant
je m’étais demandé si, pour le suivre, elle n’allait pas me
laisser seul à ma table. Mais dès les jours suivants je
commençai à oublier pour toujours cette impression pénible,
car j’avais décidé de ne jamais retourner à Rivebelle, j’avais
fait promettre à Albertine, qui m’assura y être venue pour la
première fois, qu’elle n’y retournerait jamais. Et je niai que le
garçon aux pieds agiles n’eût eu d’yeux que pour elle, afin
qu’elle ne crût pas que ma compagnie l’avait privée d’un
plaisir. Il m’arriva parfois de retourner à Rivebelle, mais seul,
de trop boire, comme j’y avais déjà fait. Tout en vidant une
dernière coupe je regardais une rosace peinte sur le mur
blanc, je reportais sur elle le plaisir que j’éprouvais. Elle seule
au monde existait pour moi ; je la poursuivais, la touchais, et
la perdais tour à tour de mon regard fuyant, et j’étais
indifférent à l’avenir, me contentant de ma rosace comme un
papillon qui tourne autour d’un papillon posé, avec lequel il
va finir sa vie dans un acte de volupté suprême. Le moment
était peut-être particulièrement bien choisi pour renoncer à
une femme à qui aucune souffrance bien récente et bien vive
ne m’obligeait à demander ce baume contre un mal, que
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possèdent celles qui l’ont causé. J’étais calmé par ces
promenades mêmes, qui, bien que je ne les considérasse, au
moment, que comme une attente d’un lendemain qui luimême, malgré le désir qu’il m’inspirait, ne devait pas être
différent de la veille, avaient le charme d’être arrachées aux
lieux où s’était trouvée jusque-là Albertine et où je n’étais pas
avec elle, chez sa tante, chez ses amies. Charme non d’une
joie positive, mais seulement de l’apaisement d’une
inquiétude, et bien fort pourtant. Car à quelques jours de
distance, quand je repensais à la ferme devant laquelle nous
avions bu du cidre, ou simplement aux quelques pas que
nous avions faits devant Saint-Mars-le-Vêtu, me rappelant
qu’Albertine marchait à côté de moi sous sa toque, le
sentiment de sa présence ajoutait tout d’un coup une telle
vertu à l’image indifférente de l’église neuve, qu’au moment
où la façade ensoleillée venait se poser ainsi d’elle-même
dans mon souvenir, c’était comme une grande compresse
calmante qu’on eût appliquée à mon cœur. Je déposais
Albertine à Parville, mais pour la retrouver le soir et aller
m’étendre à côté d’elle, dans l’obscurité, sur la grève. Sans
doute je ne la voyais pas tous les jours, mais pourtant je
pouvais me dire : « Si elle racontait l’emploi de son temps, de
sa vie, c’est encore moi qui y tiendrais-le plus de place » ; et
nous passions ensemble de longues heures de suite qui
mettaient dans mes journées un enivrement si doux que
même quand, à Parville, elle sautait de l’auto que j’allais lui
renvoyer une heure après, je ne me sentais pas plus seul dans
la voiture que si, avant de la quitter, elle y eût laissé des
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fleurs. J’aurais pu me passer de la voir tous les jours ; j’allais
la quitter heureux, je sentais que l’effet calmant de ce
bonheur pouvait se prolonger plusieurs jours. Mais alors
j’entendais Albertine, en me quittant, dire à sa tante ou à une
amie : « Alors, demain à 8 heures 1/2. Il ne faut pas être en
retard, ils seront prêts dès 8 heures 1/4. » La conversation
d’une femme qu’on aime ressemble à un sol qui recouvre
une eau souterraine et dangereuse ; on sent à tout moment
derrière les mots la présence, le froid pénétrant d’une nappe
invisible ; on aperçoit çà et là son suintement perfide, mais
elle-même reste cachée. Aussitôt la phrase d’Albertine
entendue, mon calme était détruit. Je voulais lui demander de
la voir le lendemain matin, afin de l’empêcher d’aller à ce
mystérieux rendez-vous de 8 heures 1/2 dont on n’avait
parlé devant moi qu’à mots couverts. Elle m’eût sans doute
obéi les premières fois, regrettant pourtant de renoncer à ses
projets ; puis elle eût découvert mon besoin permanent de
les déranger ; j’eusse été celui pour qui l’on se cache de tout.
Et d’ailleurs, il est probable que ces fêtes dont j’étais exclu
consistaient en fort peu de chose, et que c’était peut-être par
peur que je trouvasse telle invitée vulgaire ou ennuyeuse
qu’on ne me conviait pas. Malheureusement cette vie si
mêlée à celle d’Albertine n’exerçait pas d’action que sur moi ;
elle me donnait du calme ; elle causait à ma mère des
inquiétudes dont la confession le détruisit. Comme je
rentrais content, décidé à terminer d’un jour à l’autre une
existence dont je croyais que la fin dépendait de ma seule
volonté, ma mère me dit, entendant que je faisais dire au
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chauffeur d’aller chercher Albertine : « Comme tu dépenses
de l’argent ! (Françoise, dans son langage simple et expressif,
disait avec plus de force : « L’argent file. ») Tâche, continua
maman, de ne pas devenir comme Charles de Sévigné, dont
sa mère disait : « Sa main est un creuset où l’argent se fond. »
Et puis je crois que tu es vraiment assez sorti avec Albertine.
Je t’assure que c’est exagéré, que même pour elle cela peut
sembler ridicule. J’ai été enchantée que cela te distraie, je ne
te demande pas de ne plus la voir, mais enfin qu’il ne soit pas
impossible de vous rencontrer l’un sans l’autre. » Ma vie avec
Albertine, vie dénuée de grands plaisirs – au moins de grands
plaisirs perçus – cette vie que je comptais changer d’un jour
à l’autre, en choisissant une heure de calme, me redevint tout
d’un coup pour un temps nécessaire, quand, par ces paroles
de maman, elle se trouva menacée. Je dis à ma mère que ses
paroles venaient de retarder de deux mois peut-être la
décision qu’elles demandaient et qui sans elles eût été prise
avant la fin de la semaine. Maman se mit à rire (pour ne pas
m’attrister) de l’effet qu’avaient produit instantanément ses
conseils, et me promit de ne pas m’en reparler pour ne pas
empêcher que renaquît ma bonne intention. Mais depuis la
mort de ma grand’mère, chaque fois que maman se laissait
aller à rire, le rire commencé s’arrêtait net et s’achevait sur
une expression presque sanglotante de souffrance, soit par le
remords d’avoir pu un instant oublier, soit par la
recrudescence dont cet oubli si bref avait ravivé encore sa
cruelle préoccupation. Mais à celle que lui causait le souvenir
de ma grand’mère, installé en ma mère comme une idée fixe,
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je sentis que cette fois s’en ajoutait une autre, qui avait trait à
moi, à ce que ma mère redoutait des suites de mon intimité
avec Albertine ; intimité qu’elle n’osa pourtant pas entraver à
cause de ce que je venais de lui dire. Mais elle ne parut pas
persuadée que je ne me trompais pas. Elle se rappelait
pendant combien d’années ma grand’mère et elle ne
m’avaient plus parlé de mon travail et d’une règle de vie plus
hygiénique que, disais-je, l’agitation où me mettaient leurs
exhortations m’empêchait seule de commencer, et que,
malgré leur silence obéissant, je n’avais pas poursuivie. Après
le dîner l’auto ramenait Albertine ; il faisait encore un peu
jour ; l’air était moins chaud, mais, après une brûlante
journée, nous rêvions tous deux de fraîcheurs inconnues ;
alors à nos yeux enfiévrés la lune toute étroite parut d’abord
(telle le soir où j’étais allé chez la princesse de Guermantes et
où Albertine m’avait téléphoné) comme la légère et mince
pelure, puis comme le frais quartier d’un fruit qu’un invisible
couteau commençait à écorcer dans le ciel. Quelquefois
aussi, c’était moi qui allais chercher mon amie, un peu plus
tard ; alors elle devait m’attendre devant les arcades du
marché, à Maineville. Aux premiers moments je ne la
distinguais pas ; je m’inquiétais déjà qu’elle ne dût pas venir,
qu’elle eût mal compris. Alors je la voyais, dans sa blouse
blanche à pois bleus, sauter à côté de moi dans la voiture
avec le bond léger plus d’un jeune animal que d’une jeune
fille. Et c’est comme une chienne encore qu’elle commençait
aussitôt à me caresser sans fin. Quand la nuit était tout à fait
venue et que, comme me disait le directeur de l’hôtel, le ciel
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était tout parcheminé d’étoiles, si nous n’allions pas nous
promener en forêt avec une bouteille de Champagne, sans
nous inquiéter des promeneurs déambulant encore sur la
digue faiblement éclairée, mais qui n’auraient rien distingué à
deux pas sur le sable noir, nous nous étendions en contrebas
des dunes ; ce même corps dans la souplesse duquel vivait
toute la grâce féminine, marine et sportive, des jeunes filles
que j’avais vu passer la première fois devant l’horizon du
flot, je le tenais serré contre le mien, sous une même
couverture, tout au bord de la mer immobile divisée par un
rayon tremblant ; et nous l’écoutions sans nous lasser et avec
le même plaisir, soit quand elle retenait sa respiration, assez
longtemps suspendue pour qu’on crût le reflux arrêté, soit
quand elle exhalait enfin à nos pieds le murmure attendu et
retardé. Je finissais par ramener Albertine à Parville. Arrivé
devant chez elle, il fallait interrompre nos baisers de peur
qu’on ne nous vît ; n’ayant pas envie de se coucher, elle
revenait avec moi jusqu’à Balbec, d’où je la ramenais une
dernière fois à Parville ; les chauffeurs de ces premiers temps
de l’automobile étaient des gens qui se couchaient à
n’importe quelle heure. Et de fait, je ne rentrais à Balbec
qu’avec la première humidité matinale, seul cette fois, mais
encore tout entouré de la présence de mon amie, gorgé
d’une provision de baisers longue à épuiser. Sur ma table je
trouvais un télégramme ou une carte postale. C’était
d’Albertine encore ! Elle les avait écrits à Quetteholme
pendant que j’étais parti seul en auto et pour me dire qu’elle
pensait à moi. Je me mettais au lit en les relisant. Alors
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j’apercevais au-dessus des rideaux la raie du grand jour et je
me disais que nous devions nous aimer tout de même pour
avoir passé la nuit à nous embrasser. Quand, le lendemain
matin, je voyais Albertine sur la digue, j’avais si peur qu’elle
me répondît qu’elle n’était pas libre ce jour-là et ne pouvait
acquiescer à ma demande de nous promener ensemble, que,
cette demande, je retardais le plus que je pouvais de la lui
adresser. J’étais d’autant plus inquiet qu’elle avait l’air froid,
préoccupé ; des gens de sa connaissance passaient ; sans
doute avait-elle formé pour l’après-midi des projets dont
j’étais exclu. Je la regardais, je regardais ce corps charmant,
cette tête rose d’Albertine, dressant en face de moi l’énigme
de ses intentions, la décision inconnue qui devait faire le
bonheur ou le malheur de mon après-midi. C’était tout un
état d’âme, tout un avenir d’existence qui avait pris devant
moi la forme allégorique et fatale d’une jeune fille. Et quand
enfin je me décidais, quand, de l’air le plus indifférent que je
pouvais, je demandais : « Est-ce que nous nous promenons
ensemble tantôt et ce soir ? » et qu’elle me répondait : « Très
volontiers », alors tout le brusque remplacement, dans la
figure rose, de ma longue inquiétude par une quiétude
délicieuse, me rendait encore plus précieuses ces formes
auxquelles je devais perpétuellement le bien-être,
l’apaisement qu’on éprouve après qu’un orage a éclaté. Je me
répétais : « Comme elle est gentille, quel être adorable ! »
dans une exaltation moins féconde que celle due à l’ivresse, à
peine plus profonde que celle de l’amitié, mais très
supérieure à celle de la vie mondaine. Nous ne
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décommandions l’automobile que les jours où il y avait un
dîner chez les Verdurin et ceux où, Albertine n’étant pas
libre de sortir avec moi, j’en avais profité pour prévenir les
gens qui désiraient me voir que je resterais à Balbec. Je
donnais à Saint-Loup autorisation de venir ces jours-là, mais
ces jours-là seulement. Car une fois qu’il était arrivé à
l’improviste, j’avais préféré me priver de voir Albertine
plutôt que de risquer qu’il la rencontrât, que fût compromis
l’état de calme heureux où je me trouvais depuis quelque
temps et que fût ma jalousie renouvelée. Et je n’avais été
tranquille qu’une fois Saint-Loup reparti. Aussi s’astreignait-il
avec regret, mais scrupule, à ne jamais venir à Balbec sans
appel de ma part. Jadis, songeant avec envie aux heures que
Mme de Guermantes passait avec lui, j’attachais un tel prix à
le voir ! Les êtres ne cessent pas de changer de place par
rapport à nous. Dans la marche insensible mais éternelle du
monde, nous les considérons comme immobiles, dans un
instant de vision trop court pour que le mouvement qui les
entraîne soit perçu. Mais nous n’avons qu’à choisir dans
notre mémoire deux images prises d’eux à des moments
différents, assez rapprochés cependant pour qu’ils n’aient
pas changé en eux-mêmes, du moins sensiblement, et la
différence des deux images mesure le déplacement qu’ils ont
opéré par rapport à nous. Il m’inquiéta affreusement en me
parlant des Verdurin, j’avais peur qu’il ne me demandât à y
être reçu, ce qui eût suffi, à cause de la jalousie que je n’eusse
cessé de ressentir, à gâter tout le plaisir que j’y trouvais avec
Albertine. Mais heureusement Robert m’avoua, tout au
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Marcel Proust – Sodome et Gomorrhe
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contraire, qu’il désirait par-dessus tout ne pas les connaître. «
Non, me dit-il, je trouve ce genre de milieux cléricaux
exaspérants. » Je ne compris pas d’abord l’adjectif « clérical »
appliqué aux Verdurin, mais la fin de la phrase de SaintLoup m’éclaira sa pensée, ses concessions à des modes de
langage qu’on est souvent étonné de voir adopter par des
hommes intelligents. « Ce sont des milieux, me dit-il, où on
fait tribu, où on fait congrégation et chapelle. Tu ne me diras
pas que ce n’est pas une petite secte ; on est tout miel pour
les gens qui en sont, on n’a pas assez de dédain pour les gens
qui n’en sont pas. La question n’est pas, comme pour
Hamlet, d’être ou de ne pas être, mais d’en être ou de ne pas
en être. Tu en es, mon oncle Charlus en est. Que veux-tu ?
moi je n’ai jamais aimé ça, ce n’est pas ma faute. »
Bien entendu, la règle que j’avais imposée à Saint-Loup de ne
me venir voir que sur un appel de moi, je l’édictai aussi
stricte pour n’importe laquelle des personnes avec qui je
m’étais peu à peu lié à la Raspelière, à Féterne, à
Montsurvent et ailleurs ; et quand j’apercevais de l’hôtel la
fumée du train de trois heures qui, dans l’anfractuosité des
falaises de Parville, laissait son panache stable, qui restait
longtemps accroché au flanc des pentes vertes, je n’avais
aucune hésitation sur le visiteur qui allait ven