Il viaggio Le voyage

Transcription

Il viaggio Le voyage
A
Brahima Kone
Il viaggio
Le voyage
a cura e con premessa di
Luca D’Ascia
Copyright © MMXIII
ARACNE editrice S.r.l.
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via Raffaele Garofalo, /A–B
 Roma
() 
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I edizione: dicembre 
Indice
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Premessa

Le voyage

Il viaggio
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Premessa
Questo racconto di viaggio è la testimonianza di una
difficile situazione umana risoltasi in una esperienza di integrazione sostanzialmente positiva: un segnale di speranza
per molti cittadini africani profughi della guerra politica o
del bisogno economico e, al tempo stesso, un invito alla
riflessione sulla convenienza o meno di intraprendere la
grande avventura dell’emigrazione.
Il suo protagonista, Brahima Kone, è un uomo pacifico.
È cittadino di un paese dell’Africa occidentale, che è stato
da sempre un crocevia di culture: la Costa d’Avorio. La
sua etnia Dioula non conosce le frontiere create dall’indipendenza, o meglio, le rispetta senza rinnegare i legami
profondi che la uniscono con i paesi vicini. Molti Dioula
vivono in Mali, dove è diffuso, non meno che in Costa
d’Avorio, il cognome clanico Kone. Ma quella Dioula non
è che una delle molte identità sovranazionali che compongono il mosaico della Costa d’Avorio. Generazioni di Kone
musulmani hanno convissuto con le altre etnie del paese,
in particolare i Baoulé e i Beté, con i commercianti senegalesi, sempre in movimento attraverso l’Africa occidentale,
con i cristiani estremamente numerosi anche fra i Dioula.
Nei ricordi di Brahima c’è un mondo tollerante, dove persone di fedi, lingue e costumi diversi si incontrano nella
vita familiare, negli affari, nei viaggi, nei divertimenti. E
c’è anche una grande esperienza culturale che conferma
da un altro punto di vista quella tradizione di tolleranza: la
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Premessa
scuola francese. Esprimersi in francese significa possedere
un linguaggio comune, assai più diffuso di qualsiasi delle lingue africane parlate della Costa d’Avorio, ma anche
qualcosa di più: essere coscienti che la religione, pur importante, non è tutto, che la nazione non è la proprietà del
gruppo più forte, ma che al di là della fede della maggioranza o dell’etnia dominante esiste uno spazio pubblico
dove le diverse comunità culturali, religiose e linguistiche
hanno gli stessi doveri e gli stessi diritti.
Da un certo momento in poi questo equilibrio si rompe.
Brahima, Dioula educato nella scuola francese, musulmano convinto ma rispettoso delle differenze, scopre di non
essere un cittadino come gli altri. Come in altri paesi africani, le tensioni di ogni tipo assumono una dimensione
etnica, che gli stessi individui coinvolti non si sognano di
mettere in discussione: contro una tradizione di decenni, il
Dioula diventa nel giro di pochi anni il “nemico naturale”
delle altre etnie, favorite da governi che amministrano lo
Stato come un dominio personale. I Dioula non sono poveri, sono abituati a un’intensa vita di relazione familiare e
commerciale dentro e fuori dalla Costa d’Avorio. Come
in altri casi, contro un gruppo relativamente privilegiato
viene posta in atto una discriminazione che determina la
nascita di un’opposizione armata nella zona settentrionale
del paese e una situazione di paura e di insicurezza nella
capitale multietnica Abidjan, dove Brahima si è stabilito
pur conservando stretti legami con la campagna d’origine.
Brahima fa le sue scelte, milita nel partito Dioula, riceve
incarichi. La sua chiara presa di posizione non significa
però che accetti il principio della lotta etnica, limitandosi
a rovesciare l’atteggiamento persecutorio degli avversari.
L’esperienza dolorosa della guerra civile in Costa d’Avorio
lo convince invece della necessità di riformare i sistemi
Premessa
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di governo, abbandonando l’idea che una famiglia, un
gruppo o un’etnia possano “possedere” la nazione e riproponendo invece la concezione dello Stato come mediatore
neutrale che mantiene l’equilibrio fra le diverse comunità
senza spargimenti di sangue. È la speranza che Brahima
ripone attualmente nel presidente Ouattara, pur senza dimenticare che anche i Dioula ora dominanti, come molti
gruppi perseguitati nella storia, potrebbero in determinate
circostanze trasformarsi facilmente in persecutori.
Fra la vecchia Costa d’Avorio della tolleranza spezzata
e la nuova della tolleranza auspicata passano però diversi
anni, anni decisivi nella vita di Brahima e di altre decine
di migliaia di Dioula. Giunge un momento in cui il rifiuto
della violenza e la paura di un imbarbarimento generale
prevalgono sulla legittima convinzione di essere dalla parte giusta: Brahima rinuncia alla lotta armata e si accinge
a un viaggio dagli esiti incerti. A differenza di molti altri
africani, non è la disperazione economica a spingerlo ad
emigrare perché la sua condizione di tassista ad Abidjan,
pur modesta, nulla aveva di miserabile. Non è neppure la
speranza di facili guadagni, molto diffusa nella mentalità
africana dove prevale un’immagine di maniera dell’Europa
come paese di Cuccagna fomentata dalla totale mancanza
di informazione sulle condizioni reali di lavoro. È invece
il bisogno di vivere libero dalla paura, forse la più rispettabile, insieme al desiderio di conoscenza che allarga le
menti, fra tutte le motivazioni che possono indurre a lasciare il proprio paese. Kone, che non si sente più sicuro in
Costa d’Avorio, attraversa tutta la vasta regione del Sahel
e finisce in Libia dove i profughi avoriani in un primo
momento sono tollerati. Qui conosce un tipo di società
completamente diversa dal suo paese natale: assai più ricca, ma anche decisamente più chiusa. Là, una varietà di
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Premessa
tradizioni integrata, per chi lo vuole, da un riferimento
esterno ma funzionale a trovare una piattaforma d’intesa
interreligiosa e interetnica: la lingua e la cultura francesi.
Nella Jamairiya di Gheddafi, invece, aspro tradizionalismo
arabo e beduino presidiato dallo Stato, che rende superfluo
l’integralismo religioso ma ne emula le durezze: disprezzo per l’immigrato e per la négritude, repressione capillare
di un’efficacia inconcepibile nell’Africa subsahariana. Brahima, pur non avendo particolari difficoltà ad esprimersi
in arabo nella vita quotidiana (la lingua del Corano è parte
integrante della sua identità di musulmano praticante),
conduce vita grama senza poter lavorare, confinato dalla
sua pelle nera in una specie di apartheid e in una situazione di totale dipendenza dagli umori della politica estera
di Gheddafi, sottoposta alle pressioni del governo della
Costa d’Avorio naturalmente ostile all’opposizione Dioula. Quando comincia a temere l’espulsione dalla Libia o
addirittura l’assassinio tenta la strada dell’immigrazione
clandestina in Europa e sbarca in Italia in mezzo ai nuovi
schiavi che hanno affidato i loro poveri risparmi ai trafficanti che mettono a disposizione dei loro sogni le loro
fragili imbarcazioni, troppo spesso incapaci di resistere
alle correnti del Mediterraneo. I governi italiani sono complici delle malefatte di Gheddafi e “coprono” la vergogna
dei disgraziati subsahariani rimpatriati alle frontiere meridionali della Libia in asfissianti containers che diventano
spesso la loro tomba, quando non incarcerati e (se donne)
violati. Nel linguaggio diplomatico dell’elegante ministro
Frattini tutto questo diventa “significativo progresso della
cooperazione internazionale nella lotta all’immigrazione
clandestina”. Per fortuna esiste anche un’Italia diversa e la
testimonianza di Brahima ci lascia scorgere i profili anonimi ma nitidissimi di numerosi connazionali di cui andare
Premessa
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orgogliosi: funzionari di polizia che interrogano correttamente il clandestino Dioula senza mai mettere in dubbio
per partito preso la sua effettiva condizione di rifugiato
politico; volontari di Ong che lo aiutano a trasferirsi presto
dal difficile centro di accoglienza di Crotone, intorno al
quale la delinquenza organizzata non tarda a stendere le
reti dello sfruttamento del lavoro clandestino, a un piccolo
paese dell’Italia settentrionale dove in quegli anni così vicini e purtroppo già così lontani l’impiego basta cercarlo;
brava gente del nord profondo abituata a farsi i fatti propri
non solo nel cattivo, ma anche nel buon senso della parola
e che magari vota Lega ma non si sognerebbe mai di mettere in dubbio l’onestà del vicino, diverso per religione e
colore della pelle, che ha imparato a stimare sul posto di
lavoro. Brahima, con il suo allegro buon senso e la certezza della sua identità africana, non tarda a capire che quella
serietà un po’ gretta, quel vivere in funzione del lavoro
non sono pregiudizialmente ostili all’immigrato che eviti
da parte sua le tentazioni della nostalgia sentimentale e del
risentimento sociale cui l’integralismo islamico offre una
facile giustificazione ideologica. La ricchezza della società
europea non piove dal cielo ma è il prodotto di uno stile di
vita e di una mentalità coerenti che l’africano deve capire
senza lasciarsi abbagliare dal miraggio dell’euro facile per
poi accettarne certe parti e rifiutarne altre secondo le sue
particolari esigenze personali e familiari. Proprio perché il
viaggio, dopo la durezza dei momenti iniziali, si è trasformato per lui in un’occasione di crescita culturale e umana,
Brahima Kone, che con il trionfo di Ouattara recupera
la sua piena cittadinanza avoriana pur continuando per il
momento a risiedere all’estero, ricorda con orgoglio le
sue esperienze e raccomanda ai suoi connazionali di riflettere seriamente sulle proprie scelte: l’emigrazione esige
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Il viaggio / Le voyage
un cambio di mentalità, la disponibilità ad accettare ritmi
di lavoro diversi da quelli africani e a frenare la tendenza
allo sperpero che deriva dalla responsabilità tradizionale
dell’uomo ricco nei confronti dei parenti poveri. Lo spirito
d’adattamento, insomma, è necessario in Europa come in
Costa d’Avorio, a condizione di non dimenticare le cose
fondamentali. Kone, sopravvissuto alla durissima lezione
della guerra e del viaggio, trova in una religione aperta e
tollerante, in una serena vita familiare e nella prospettiva
di un ritorno in Africa su basi economiche più prospere i pilastri di una convivenza multiculturale dignitosa e
proficua.
Luca D’Ascia
Le voyage
L. Parlez–moi de vôtre famille, vous étiez tous de
l’ethnie Dioula?
K. Tous de l’ethnie Dioula.
L. De quelle part de la Côte d’Ivoire est originaire
vôtre famille?
K. Nous sommes de Tengrila, du Nord de la Côte
d’Ivoire. Avant l’indépendence Tengrila comptait
au Sudan français, aujourd’hui le Mali. C’était une
partie du Sudan français. Quand les colons sont venus ils ont fait une taille et Tengrila est restée à la
partie de la Côte d’Ivoire. Voilà pourquoi le Nord et
le Mali on a beaucoup de liens, voilà.
L. Vous étiez de religion musulmane ou chrétienne,
comment c’était dans la ville?
K. Non, nos origines ne sont pas musulmanes et ne
sont pas chrétiennes, on avait nos croyances avant
que l’Islam vienne et avant que les chrétiens viennent.
On avait nous nos propres croyances. C’était quand
nos grand–pères se sont convertis musulmans, alors
c’est comme ça, tout de suite on est allé trouver les
parents musulmans et voilà comment on est devenu
musulman.
L. Votre père était déjà musulman?
K. Si, si mon père était déjà musulman, mon grand–père
était déjà musulman, son père aussi, mais son grand–
père n’était pas musulman, je crois.


Il viaggio / Le voyage
L. Pourquoi êtes vous venu à Abidjan?
K. Bon, je ne suis pas venu à Abidjan, c’est mon père
qui est émigré à Abidjan. Mon père a émigré à Abidjan parce que sa soeur était mariée à Abidjan, alors
au début il partait à Abidjan pour travailler trois
mois et il partait à Tengrila, et puis bien il est resté,
il a marié maman, il est allé au village et a marié
notre maman, il est revenu à Abidjan, il a commencé
a travailler et il s’est installé et nous on est nés à
Abidjan.
L. Vous m’avez parlé du commerce de l’ethnie Dioula.
K. Oui, oui, on n’a pas d’autre resource. L’origine du
Dioula c’est. . . Le Dioula veut dire commerçant.
L. Alors c’est un nom de métier.
K. Oui, c’est un nom de métier, parce que dans nôtre
coutume c’est seulement le commerce qu’ils font.
Maintenant ce problème de politique nous surprend,
parce que avant le Dioula n’envoyait pas ses enfants
à l’école, il apprenait seulement avant les choses, je
te le donne à cinq francs tu le fais à dix francs, ou
bien à l’âge de dix ans on lui donne quelque chose
sur la tête et il va vendre, il apprend à gérer l’argent. Avant chez nous les Dioulas on s’en fout de
la politique, on s’en fout du militaire, c’est seulement le commerce. Voilà pourquoi tous les grands
comerçants sont des Dioulas.
L. Tandis que les autres ethnies c’est plutôt la guerre. . .
K. Non, pas forcement la guerre, les autres ethnies ont
pris beaucoup le coté colon, leurs enfants allaient
à l’école et s’instruit, s’instruit, s’instruit, s’instruit,
pendant que le Dioula comerçant ou cultivateur.
L. Ah bon, ils ne travaillaient pas dans la bureaucratie
des colonisateurs, dans les emplois publiques.