DI Repubblica - La Repubblica.it

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DI Repubblica - La Repubblica.it
Domenica
il reportage
La Capri del Nord aspetta il grande caldo
La
di
DOMENICA 28 GENNAIO 2007
GIAMPAOLO VISETTI
il racconto
Repubblica
Così l’Occidente ha inventato l’Oriente
FEDERICO RAMPINI
I ragazzi
perduti
di
Internet
È cominciata con gli spogliarelli
scambiati sul web. Ora stupri
di gruppo e sesso in classe
ILLUSTRAZIONE DI GIPI
Tutto filmato e trasmesso
via videofonino
GABRIELE ROMAGNOLI
M
ANCONA
a allora, se due ragazzini fanno sesso in un’aula
scolastica e nessun videofonino li riprende, possono dire di averlo fatto davvero? Per cercare la risposta a questa e altre domande (che cosa ha spettacolarizzato la sessualità degli adolescenti italiani? Chi se ne interessa veramente? E stiamo parlando soltanto di loro?) sono andato
dove, all’apparenza, è cominciato il fenomeno dei «ragazzi di vita
2007» e dove ogni giorno se ne scrive un nuovo capitolo: alla procura dei minori di Ancona. Il magistrato che mi riceve si chiama Ugo
Pastore. Ha origini napoletane, residua capacità di indignazione e
pazienza. Nel suo curriculum l’esperienza minorile è un passato che
ritorna, sintomo di una volontà di applicarsi all’emergenza. Sulla
scrivania e sulle sedie ci sono pile di fascicoli, più una ricerca dal titolo Le ragioni del bullismo. Il suo telefono, durante la conversazione, squillerà due volte, il mio una, annunciando l’invio di un messaggio. Tutte e tre le circostanze si riveleranno significative. Il suo
racconto verrà interrotto da digressioni. La fine, tanto vale premetterlo, non è nota e neppure lieta.
* * *
All’inizio c’è un ragazzino che, parlando con la madre (il fatto è raro, ma ancora può verificarsi), si riferisce a una compagna usando un
termine spregiativo. La madre (anche questo è raro) lo rimprovera.
Gli dice di non offendere gratuitamente quella ragazza. «Macché gratuitamente, mi è costato un euro!», risponde lui. Con quella moneta
ha comprato da un amico l’inoltro sul videofonino della scena in cui
la ragazzina, costretta, ha rapporti sessuali con alcuni coetanei. Con
quella moneta pensa di aver dimostrato alla madre di avere «ragione»: ecco la prova. Quel videomessaggio era già circolato su decine di
cellulari, archiviato in altrettante «gallerie». Finalmente una persona
non lo trova «ragionevole» e denuncia il fatto al poliziotto di quartiere, che informa la procura dei minori di Ancona. Partono le indagini,
vengono sequestrati i telefonini degli accusati di violenza. Nelle gallerie si trovano fotografie e filmati, archiviati con nomi e località: Gigi-Senigallia, Loretta-Fano. Gli inquirenti danno un’occhiata: Gigi si
è ripreso mentre rolla e fuma uno spinello, Loretta mentre si spoglia
e si tocca. Ora, generazioni di adolescenti si sono fatti le canne o si sono masturbati. Il piacere era quello: l’atto in sé. Adesso il piacere è nel
mostrare quell’atto a un pubblico. Si dirà che, «clintonianamente»,
lo fanno perché possono, perché esiste il videofonino, ma non basta
a spiegare. Molto spesso c’è una prima fascia di pubblico che assiste
all’esibizione dal vivo. Poi si va cercando quella indeterminata, che
sta là fuori. Non nella sua vaghezza, però, esiste un destinatario mirato. Loretta mostra la sua intimità «sperando che qualcuno la noti».
«Qualcuno» non è chiunque e «notare» non è vedere. Sta cercando
un’agenzia di casting, un talent scout, chi sia in grado di trasformare
il suo pubblico potenziale in dati Auditel.
(segue nelle pagine successive)
i luoghi
La Sardegna sparita di Berengo Gardin
PINO CORRIAS
cultura
L’Italia di Piovene, reporter per caso
FRANCO MARCOALDI
la lettura
Il cuore nero dell’uragano Katrina
JOHN UPDIKE
spettacoli
Morricone, nella bottega dell’Oscar
GINO CASTALDO
Repubblica Nazionale
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 28 GENNAIO 2007
la copertina
Adolescenti a luci rosse sul videofonino. Siamo andati
a parlare col magistrato di Ancona che ha in mano
la più ampia inchiesta sul tema. Per scoprire che gli amici
non disapprovano, le madri difendono, la scuola ci passa
sopra, la legge chiude un occhio. Così che le vittime
Ragazzi perduti
restano senza difesa e i carnefici non rischiano punizioni
L’indagine parte
da un videomessaggio
venduto a un euro
da cellulare a cellulare,
dove una ragazzina
viene costretta
a rapporti sessuali
con alcuni coetanei
Lolita 2007 e i video-stupratori
GABRIELE ROMAGNOLI
(segue dalla copertina)
un’illusione: il mercato è l’ultimo baluardo delle regole, il destino lo fa la domanda, non l’offerta. E, purtroppo per Loretta,
circola più esibizionismo che voyeurismo
e, nel settore a cui aspira, esistono molte
più Elisabette Gregoraci che Lele Mora.
È
***
Il vero divertimento
Davanti alla scrivania del dottor Pastore sono sfilate decine di Lorette e Gigi. Alla domanda: «Ti sei divertito a farlo?», la risposta ricorrente è: «No, mi sono divertito a farlo sapere».
Percezione del disvalore della loro condotta: nella
maggior parte dei casi, nessuna. Giustificazione: «Di
che cosa vi meravigliate? Sono cose che fanno tutti.
Non lo sapevate?». Quelli che sapevano e tacevano
non lo facevano per omertà di clan, ma «generazionale».
Non conoscevano né Gigi né Loretta e neppure gli
stupratori. Non li proteggevano, semplicemente, pur
non approvando, restavano indifferenti, rassegnati.
Gli inquirenti hanno frugato dentro centinaia di computer, sono entrati in decine di blog a numero chiuso.
Hanno trovato dovunque le stesse cose, decifrato con
relativa facilità un linguaggio dove tutto è semplicemente scritto più in fretta, compresso, niente vocali,
numeri al posto delle parole, quando è possibile: come se tutta la comunicazione fosse limitata dal display
di un cellulare. Non esiste un codice per messaggi segreti, si dicono banalità con i superlativi e le consonanti: «6 1 GRN FG!!!» (se occorre traduzione: «sei un
gran figo!!!»; se occorre una motivazione: perché si era
ripreso mentre evacuava). Nessun rimorso, qualche
pentimento. A innescarlo è la sorpresa di trovare qualcuno che non approva. Di vedere un poliziotto che rovista nella loro cameretta, la stessa che faceva da sfondo alle autoriprese, e un magistrato che lo fa nella loro
breve esistenza. Cercando di capire come abbiano potuto fare, fin lì, percorso netto. Senza un amico che dicesse: «Siete fuori?».
Senza un genitore che...
È a quel punto che il dottor Pastore ha guardato negli occhi decine di coppie adulte, compilando una personale, sconfortante statistica. I padri? Al novanta per
cento sconcertati, testa fra le mani, ripiegati su se stessi, in grado di manifestare, tuttalpiù, un senso di impotenza. E le madri? Nella stessa percentuale aggressive, addirittura risentite, erinni alla difesa del fortino.
Capaci perfino di contrattaccare al grido: «Ma queste sono solo ragazzate! Che cosa c’entra la legge?».
Qualche anno fa un gruppo di ragazzi californiani,
sbandati sì, ma iscritti a un liceo, residenti nella stessa
casa dei loro genitori (benché, spesso, separati) fece
una bravata. Uno di loro aveva compiuto uno sgarro e,
per regolare il conto, gli rapirono il fratellino quindicenne. All’inizio era una burla, poi persero il controllo
della situazione e ammazzarono l’ostaggio.
Venuto a conoscenza della storia dalla figlia, compagna di scuola degli assassini, il regista Nick Cassavetes ci ha girato un film, Alpha Dog, che esce in Italia
il 23 febbraio. Come la pellicola ricostruisce, nessuno
dei ragazzi si rende veramente conto di quel che sta facendo, nessuno dei loro amici cerca di fermarli, nessuno dei genitori (tranne quelli del rapito) sembra allarmarsi. Finché la situazione degenera. Come è stato
possibile? La risposta di Cassavetes è: «I problemi sono sorti perché questi ragazzi si sono ritrovati a dover
prendere delle decisioni senza nessun tipo di controllo o interferenza. Si sono create una serie di circostanze e coincidenze che hanno generato degli eventi che
Una specie di omertà
generazionale nasconde
la circolazione dei filmati
“Di cosa vi meravigliate?
Sono cose che fanno tutti”
non sarebbero dovuti accadere».
Le circostanze e le coincidenze di Ancona sono che i
comportamenti dei Gigi e delle Lorette non appaiono
censurabili per i loro compagni, non per le loro madri.
E la scuola? Altra statistica: « Il novantanove per cento
dei danni alle scuole non viene risarcito, spesso non c’è
neppure la richiesta». Perché? «Per salvaguardare l’immagine dell’istituto, perché non si dica che è mal frequentato e diminuiscano il prestigio e le iscrizioni».
* * *
Perduti dal perdono
Gli amici non disapprovano, le madri difendono, la
scuola ci passa sopra.
Qualche volta perfino la legge chiude un occhio. Il
dottor Pastore estrae un ricordo dal passato: «Ero a Napoli, c’era questo ragazzino che faceva il diavolo a
quattro da quando aveva dieci anni. Rapine, estorsioni, violenze, di tutto, ma non era imputabile. Finché
compì quattordici anni. Lo aspettavamo al varco, alla
prima infrazione l’arrestammo e processammo.
Chiesi una condanna. Il giudice preferì concedergli il
perdono giudiziale. Sa che cosa disse lui: “Non sono
manco buono per la galera!”. Si sentì in qualche modo
rifiutato, abbandonato perfino dalla legge. I ragazzi
sono manichei, esigono condanne per chi sbaglia. An-
che per sé, se capiscono di aver sbagliato, di aver violato una legge. Invece vengono perdonati. Allora
smarriscono il senso delle cose in maniera definitiva.
Vuol sapere come è finito quel ragazzino di Napoli?
Morto per strada, a diciotto anni, in un regolamento di
conti».
Ho con me una cartella di ritagli: dopo i fatti di Ancona c’è una violenza filmata a Jesi, un commercio di
immagini porno in una scuola di Ascoli, un traffico di
mms osé in cambio di ricariche a Pesaro, un altro di videoriprese di un suicida spappolato sui binari a Fano.
Nelle Marche c’era qualcosa di avariato nel latte materno tredici, quattordici, quindici anni fa? In realtà
ogni fenomeno criminale emerge dove lo persegui. Da
qui ci si allarga a tutta l’Italia: stupro registrato e diffuso a Napoli, filmata nuda per «prova d’amore» e smerciata a Ragusa, violenza di gruppo scaricata sul web in
Sardegna. Durante la gita scolastica o l’intervallo. Nel
cortile del liceo o all’oratorio. Sbocciano le devianze e
fioriscono gli alibi. I violentatori dicono: «L’abbiamo
fatto perché l’abbiamo visto in tv» e i media rilanciano
senza che nessuno chieda: «In quale programma,
esattamente?». «Era su Internet». E certo, su You Tube
trovi il video di qualsiasi cosa (non solo Di Pietro che
spiega il consiglio dei ministri, anche un gatto che si
masturba) e su un altro sito il catalogo delle perversioni filmate va oltre la fantasia (chi poteva immaginare
gli appassionati di starnuto?). Internet è come il mondo, contiene tutto, solo che ogni tanto bisognerebbe
verificare le ultime pagine scaricate da chi ci si aggira.
O rassegnarsi come fa Cassavetes quando conclude:
«Alla fine quello che ho capito, e di cui io stesso sono
colpevole nella mia vita, è che viviamo in un mondo
complicato, in cui entrambi i genitori hanno un lavoro e una vita molto intensa».
Dice il dottor Pastore: «I ragazzi ci vogliono più seri».
E credo che intenda come un modo per dimostrarglielo quello di ritenerli responsabili.
Repubblica Nazionale
DOMENICA 28 GENNAIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
I CASI
ANCONA
NAPOLI
PALERMO
NUORO
SAN BENEDETTO
Novembre 2006
È il primo caso shock:
una tredicenne viene
ripresa col cellulare
mentre subisce
molestie dal branco
I ragazzi hanno
tra i 14 e i 17 anni
Dicembre 2006
Nel parco in cinque
(tra i 15 e i 16 anni)
violentano
una compagna
di scuola
Un sesto filma
la sequenza
Il 17 gennaio
vengono arrestati sei
ragazzi, sono
accusati di aver
violentato
una disabile
Il video gira
tra gli amici
Il 25 gennaio tre
ragazzi tra i 14 e 15
costringono
una amica di 13 anni
a spogliarsi
Riprendono tutto
con il cellulare
e “girano” il video
Il 26 gennaio un lui
(15 anni) e una lei
(14 anni) fanno
sesso orale
in classe durante
un’assemblea
I compagni
filmano la scena
BACI DALLA PROVINCIA
ILLUSTRAZIONE DI GIPI
Il disegno delle pagine
e l’illustrazione in copertina
sono di Gipi e fanno parte
del libro Baci dalla Provincia,
Graphic Novel uscito nella collana
I fumetti di Repubblica-l’Espresso
“I ragazzi ci vogliono
più seri”, dice il magistrato
In altre parole, vogliono
essere ritenuti responsabili
OBIETTIVO CONDIVISO
Un videocellulare e un mms. Un cellulare, un pc e poche semplici
operazioni. Per far “girare” i propri video amatoriali su Internet
non c’è bisogno di grandi specializzazioni. Come si fa?
Se si possiede un cellulare che invia mms, si crea un filmato
e lo si manda a YouTube (il più celebre e utilizzato dei siti
per la condivisione delle immagini) utilizzando un apposito numero
di telefono. In alternativa si può attivare un collegamento
via Bluetooth (o con un cavetto) e si scarica il video sul proprio
personal computer. Poi, una volta che ci si è registrati sul sito,
si manda il filmato via e-mail. Basta un clic su “Upload Videos”
e il video diventa condivisibile con altri migliaia (se non milioni)
di utenti. Secondo una recente indagine dell’Eurispes, in Italia
l’82,6 per cento degli adolescenti usa quotidianamente il cellulare
per fare foto, inoltrare immagini e piccoli video
* * *
Tre squilli, tre notizie
Poi ci interrompono le tre telefonate.
Nella prima un carabiniere riferisce gli sviluppi di
un fatto.
Giorni prima quattro ragazzi hanno vandalizzato
una scuola. I tre non imputabili hanno confessato. Il
quarto, quindicenne, no. La sera prima sua madre ha
indetto una riunione dei genitori coinvolti, preteso
che inducessero i loro figli a ritrattare.
Sembra l’abbia avuta vinta.
Nella seconda emerge l’ultimo caso di cronaca, che
il giorno dopo sarà sui giornali: sesso sulla cattedra durante l’assemblea scolastica, con un pubblico che assiste, filma, diffonde. E la scuola che, invece di informare le autorità, avvia un’indagine interna, a protezione della propria reputazione.
Se il magistrato cercava conferme alle sue tesi, le ha
appena avute.
La terza telefonata è in realtà un sms che mi invita a
cliccare su un sito e dare un codice per vedere un’immagine. Scoprirò che nel videomessaggio una signora mostra le sue parti intime. L’ha inviato a un suo amico, che l’ha inviato a un suo amico, che l’ha inviato a
un suo amico. Dopo una ventina di passaggi è arrivato (anche) a me. Se la catena continua può finire a suo
marito (che magari non la riconoscerà) o a suo figlio,
che magari lo smercerà per un euro. Non è colpa sua,
viviamo in un mondo complicato.
Chi può dirsi innocente? Le vittime, almeno: come
la ragazzina violentata e filmata nel caso che ha dato il
via alla videovalanga. Che fine ha fatto? Non è più uscita di casa. Sotto le sue finestre passano a ogni ora del
giorno e della notte strombazzando e urlando insulti.
La sorella minore teme di vivere la stessa esperienza. I
genitori, che non sono ricchi e hanno lavori dipendenti, hanno messo in vendita la casa, deciso di trasferirsi altrove. Se un altrove esiste.
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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
il reportage
Clima che cambia
DOMENICA 28 GENNAIO 2007
La Penisola Curlandese è una lingua di sabbia bianca
e foreste nere affacciata al Baltico sulla costa
lituana. Per ora la conoscono in pochi. Ma qui,
in dieci anni, la temperatura è salita di dieci gradi:
uno sconquasso per flora e fauna, una scommessa
da vincere per i professionisti del turismo di massa
Così la Capri del Nord
aspetta il grande caldo
P
GIAMPAOLO VISETTI
NIDA (Penisola Curlandese)
ittime reali e piovanelli pancianera non sono partiti.
Precipitano fulminati, rigidi come pigne dai pini che,
allampanati come gigantesche canne rosse con i pennacchi verdi arruffati dal vento, affiorano dal Baltico
ghiacciato. Sembrano scuri ciottoli di lava, sparsi sul cristallo blu
che protegge i giacimenti dell’ambra “tuorlo d’uovo”. Stormi di
codoni e croccoloni solcano disorientati l’orizzonte tortora del
canale di Neringa. È il primo inverno che pagliaroli e mignattini
alibianche contendono ai gabbiani i branchi di stintà, i pesciolini
che guizzano sottocosta solo con il gelo. Erano la consolazione dei
mesi autunnali: quest’anno gli ultimi
pescatori di Juodkrantè hanno iniziato a friggerli da un paio di giorni.
Sulla duna di Parnidis, da cui lo
sguardo evade oltre il confine russo, fino a Kaliningrad, i cespugli di gattice
esibiscono già i loro grigi germogli vellutati. Il raro eringium maritimum ha
schiuso fiori gialli e spinosi, quasi trasparenti. Sulle infinite spiagge bianche della Lituania, tra le foreste nere lasciate al pascolo di alci, cinghiali e orbettini, l’inverno non è più silenzioso.
Sono migrati aironi grigi e cormorani,
tardivamente: ma nuvole di tordi e
merli, scesi dalla Scandinavia, hanno
sfrattato dai nidi cince e re di quaglie.
È come se il mazzo delle carte dei
mesi fosse caduto dal tavolo, mescolando e infine confondendo le stagioni. Gennaio riunisce ora gli
uccelli dell’estate, i pesci dell’autunno e i fiori della primavera. Ferragostani cicloni tropicali, la settimana scorsa, hanno strappato
dieci metri di sabbia dalle rive a Nord di Neringa, fino a ostruire il
canale dei Curoni. Sconosciute correnti marine hanno alzato il livello della laguna di un altro metro e mezzo, allagando chilometri
di terra riportata e gli impianti di abeti e betulle svezzate in Olanda. Tre villaggi semiabbandonati si sono inabissati, come altri
quattordici nel passato. Sulla costa baltica, il mare ha eroso trenta
centimetri di sabbia su un fronte di centocinquanta chilometri di
spiaggia. Negli ultimi quattro anni le sabbie della penisola, corrose dalle alte maree indotte dallo scioglimento artico, sono scivolate verso nord di sei metri. Fino a mercoledì l’inverno sembrava
estinto. Il giorno dopo, Palangà e Klaipeda sulla terra ferma, Pervalka nel mezzo della Curlandia, sono state paralizzate dai mulinelli di zucchero a velo. In due ore, mezzo metro di neve polverosa. Da dieci gradi, il termometro si è tuffato a meno ventidue.
Nell’affumicatoio di Algirdas Zarnauskiene, turbini azzurri di
fumo freddo profumano i ventri grassi di rombi e anguille. Sarebbe lavoro di maggio. Il caldo di dicembre ha innescato in anticipo
lo scambio tra le onde più salate del Baltico e gli stagni più dolci
del mare interno degli antichi Curi. Il pesce, ingannato e spinto a
Le carte dei mesi
si sono rimescolate:
gennaio ora riunisce
gli uccelli dell’estate,
i pesci dell’autunno
e i fiori
della primavera
CAPRI
deporre le uova nelle insenature ricche di alghe, si dibatte ora imprigionato tra le radici appesantite dai fiocchi. La magra grigliata
di carnevale ricorda quella ricca della festa del mare, a fine luglio:
ma sulla lingua dell’abbagliante deserto boscoso, dove 2834 persone vivono nell’oasi più magica del Nord Europa, nessuno ha l’animo di festeggiare.
Gli scienziati del Parco nazionale della Penisola Curlandese, inserita dall’Unesco tra i patrimoni dell’umanità, hanno paura nell’incrociare i dati sul computer. In dieci anni la temperatura media
dell’aria, in estate, si è alzata da 16 a 23 gradi. Nel 2006 è schizzata
però a 26, con punte prolungate fino a 35. Due furiosi incendi hanno incenerito centinaia di ettari di foresta: danni per due milioni di
euro. L’acqua del Baltico, in passato tra i 10 e i 14 gradi, oscilla in agosto tra i 22 e i 24. Quella del mare interno dei Curoni si è assestata tra
i 26 e i 28. «L’ultimo anno — dice la direttrice della stazione di Nida,
Aurelija Stancikiene — è stato il più caldo e secco mai rilevato. È prematuro definirla una catastrofe ambientale: ma che il cambiamento climatico abbia innescato un irreversibile mutamento della natura, è un dato di fatto che impone scelte immediate».
Il gelo improvviso oggi ha cristallizzato l’estate senza fine che ha
reso le spianate del Nord simili alle coste del Mediterraneo. Gediminas Grazulevicius, il più stimato ornitologo delle repubbliche
baltiche, mostra una lucciola imprigionata in un fiocco di neve.
Seimila anni dopo, è l’opposto di quanto si vede nel razziato palazzo del conte Tiskievicz a Palangà, sede del museo dell’ambra. Qui
le lenti d’ingrandimento svelano fiori e insetti fossili inglobati nelle gemme di resina incandescente rappresa nei fondali dei ghiacciai liquefatti sessanta milioni di anni fa. Sulla spiaggia a sud di Preila, davanti alla villa che Thomas Mann dovette abbandonare nel
1933 per l’incalzare della Germania nazista, i ricercatori scoprono
oggi al microscopio imenotteri equatoriali dispersi verso il Polo.
Cullati per mesi nelle nubi surriscaldate, appaiono ora ibernati nelle gocce gelate che anneriscono le premature foglie dei peri.
Uno sconquasso. All’alba la temperatura scende a meno trenta
e i litorali lituani riassumono la profondità del loro chiarore immobile. Al tramonto si risale a più dodici e si affonda nel pantano marcito della neve marrone. Dieci minuti di sole e dieci di bufera polare, in un rincorrersi atlantico. Piove sul cofano e nevica sul bagagliaio. «Ormai possiamo documentare gli sconvolgimenti — dice
la responsabile dell’ufficio climatologico di Neringa, Lina Diksaite
— ma non avanzare previsioni. I cicli sono saltati, ogni settimana è
irripetibile». L’ambiente baltico in cinque anni si è arricchito di cinquanta nuove specie animali. Tra gli iceberg alla deriva nuotano
oche egiziane, lontre e germani della Cina. «Se il riscaldamento dell’atmosfera non rallenta — dice Alla Valuziene, direttrice del centro di Palangà — nel 2030 il clima scandinavo corrisponderà a quello del Nord Africa di oggi. Il livello del mare sarà più alto di sei metri,
siccità e incendi diventeranno un incubo. Neringa è destinata ad
andare alla deriva nel Mar Baltico, prima di essere inghiottita».
Nel centro d’avvistamento dell’avifauna più importante d’Europa, dove ogni anno si chiude l’anello elettronico attorno alle zampe di centomila esemplari di 325 specie d’uccelli, l’effetto serra si
specchia nella migrazione rinviata delle cicogne nere, o nella proliferazione estiva degli aironi bianchi. Il surriscaldamento dell’atmosfera è clonato nel boom demografico dei cormorani: nell’ulti-
IL PORTO
Nell’isola la temperatura media ad agosto è di 26 gradi
LA PIAZZETTA
Le presenze agostane a Capri sono circa 350mila
LA VILLA MALAPARTE
Lo scrittore Curzio Malaparte la fece costruire nel 1936
LA MARINA GRANDE
Ad agosto la temperatura dell’acqua è in media di 26 gradi
Repubblica Nazionale
DOMENICA 28 GENNAIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
VILLEGGIANTI
NERINGA
FOTO SIME
Sotto, un’immagine
della spiaggia di Palanga
in Lituania dove il turismo
è triplicato in pochi anni
IL KURSIU NERINGA NATIONAL PARK
UN RISTORANTE NEL NERINGA PARK
FOTO ANSA
Ogni agosto lo visitano circa 240mila persone
IL COTTAGE DI THOMAS MANN
FOTO LAIF
Il Nobel tedesco vi trascorse l’estate dal ’30 al ‘32
LA SPIAGGIA DI KLAIPEDA
La temperatura dell’acqua ad agosto è di 16,7 gradi
mo anno, tra Smiltyne e Lesnoje, hanno divorato trecento tonnellate di pesce, un quarto del bottino dei pescherecci.
Cento metri più in là, davanti al porticciolo dove le vecchie “curonas” sono state tirate in secca, gli operatori turistici invece si fregano le mani. Cinque gradi in più nell’aria estiva, l’autunno posticipato a dicembre, un tiepido inverno rinviato a febbraio, l’acqua
marina più calda di otto gradi trasformano i freddi lidi dei filosofi di
Koenigsberg nella nuova Costa Brava di camionisti svedesi, nostalgici tedeschi e oligarchi russi. Dalle passeggiate in mocassini di
cuoio e spezzato di flanella, al kitesurf e ai mega-centri di divertimento acquatici. Le previsioni di Commissione europea, Onu e Nasa, che delineano la tropicalizzazione dei mari del Nord entro la
metà del Ventunesimo secolo, qui sono già realtà. A Klaipeda e a Palangà, nell’Ottocento, villeggiavano le famiglie reali più potenti
d’Europa. Ma il Novecento qui ha infierito più che altrove. Hitler,
sulla piazza dei commercianti dietro il fiume Danè, annunciò la tragica annessione dei Baltici. Stalin, dopo la Seconda guerra mondiale, risparmiò solo tre famiglie lituane. I sovietici, nell’inaccessibile villaggio di Plokstine, interrarono segretamente i missili a testata nucleare puntati contro l’Occidente.
Poteva essere l’epilogo: la straordinaria bellezza di una natura intatta e poco popolata e l’inatteso regalo di una civiltà fondata sull’inquinamento hanno permesso invece di bruciare le tappe della
rinascita. Dall’ingresso dalla Lituania nell’Unione europea, nel
2003, la riviera più snob del continente ha riacquisito la perduta eleganza prussiana. In tre anni sono stati investiti quattrocento milioni di euro per ristrutturare vecchi alberghi germanici e sanatori russi. Duecento milioni di euro, solo nel 2006, per nuovi hotel di lusso
e centri benessere. Zona franca, il «Sahara lituano» e la «Rimini del
Baltico» si stanno trasformando in realtà in un misto tra Montecarlo, Corsica ed Engadina. Mega-incentivi di Stato per le imprese, imposte al quindici per cento e tassi bancari sotto l’inflazione. Bagni
marini caldi, silenzio e ambiente spettacolare d’estate. Escursionismo sugli sci, pesca sul ghiaccio, saune in riva al mare e selvagge foreste sommerse di neve nell’inverno.
I grandi investitori, stranieri e nazionali, hanno capito che la miserabile «piccola Lituania» post-comunista sta diventando la miniera d’oro turistica del Nord Europa liberista. Interminabili piste
ciclabili negli orti botanici, sofisticate spa per la cura del corpo, una
pace d’altri tempi grazie a un traffico anni Cinquanta, ristoranti per
portafogli londinesi, maxi-acquari con l’esibizione di foche e delfini, centri commerciali, decine di discoteche e casinò, attirano ormai capitali da tutto il mondo. Il pur nuovo aeroporto di Palanga,
che collega direttamente il Baltico lituano ai principali scali continentali, sarà ampliato ancora entro il 2010. Il porto per yacht e navi
da crociera, appena inaugurato, è il più settentrionale d’Europa a
non essere mai bloccato dai ghiacci.
«Le conseguenze ambientali del buco nell’ozono — dice Jurgita Marackinaite, marketing manager del più grande albergo del
Paese — non le posso immaginare. So però che da quando abbiamo un’estate alla tunisina, sembra di vivere a Ibiza. Tutto
esaurito, turisti in costume e a piedi scalzi, prenotazioni record
anche da Francia, Spagna, Italia, Austria e Svizzera». Tra giugno
e settembre, a Neringa, la popolazione passa da tremila a cinquantamila persone. Sulla costa si sono registrati in 540mila.
Quintuplicati in tre anni i prezzi di terreni e immobili. «Il segreto
— spiega Jurgita Anilioniene, financier-economist dell’agenzia
per lo sviluppo di Klaipeda — sono il nuovo clima mediterraneo,
la vastità di una natura selvaggia scandinava, un’organizzazione
turistica occidentale e i prezzi da vecchio Est. Trovi Porto Cervo,
ma paghi meno che in agosto a Sharm el Sheik: e in inverno, che
ormai è mite, è meglio che in Canada».
Allarme negli istituti scientifici ed euforia negli uffici turistici.
È però tra le dune sabbiose di Alsnynè, o cinquanta chilometri
più a nord tra le pinete marine di Palanga, scandalosamente ricche di porcini, che si intuisce la dimensione sostanziale di una
rivoluzione. Il cambiamento del clima, sul Baltico, non significa
solo poter nuotare in mare senza essere tramortiti dai brividi, o
prendere il sole rinunciando ai frangivento, gusci liberty ideati
dai danesi. C’è qualcosa di più
profondo ed è l’atmosfera di libertà e
determinazione, di infantile entusiasmo nei confronti della vita, che contagia i popoli sopravvissuti al nazismo e allo stalinismo, i giovani che
hanno da poco riacquisito l’orgoglio
di una democratica patria ritrovata.
Nell’ultimo anno, tra la penisola di
Neringa e l’antica Memelburg, sono
tornati a casa cinquemila lituani fuggiti all’estero per colpa di povertà e
dittature. Hanno conosciuto il mondo, risparmiato, studiato, sofferto e
sognato questo giorno. I loro figli
sanno fare sacrifici e sono pronti per
essere i migliori. «Quando le strutture sono piene — dice Indre Stulgaityte, responsabile dell’agenzia turistica di Nida — gli albergatori dormono in macchina. Per duecento euro al mese, un cameriere tra aprile e ottobre non stacca un
giorno. Abbiamo raccolto la sfida della qualità e non sprechiamo una litas».
Saranno questa lingua di terra che i ginepri non riescono più a
contendere al mare, i lunghi moli dove Sartre e Simone de Beauvoir sostarono nelle notti bianche a portare a sintesi in questo secolo gli atolli dei Caraibi e gli altipiani delle Alpi? La Natura sembra rendere giustizia alla Storia, usando il sole per restituire agli
sconfitti ciò che i vincitori avevano sequestrato.
Sulla collina delle streghe di Juodkrantè, spiriti in legno evocano fiabe lituane e divinità pagane. Fricas Jakaitis, il più vecchio
pescatore di Neringa, ogni giorno alza e abbassa per un’ora la pesante lingua di Belzebù. Secondo il mito, alla penisola Curlandese resta il numero degli anni dei suoi sollevamenti animisti.
«Quando saremo affondati — dice — vorrà dire che anche i palazzi dei potenti non esisteranno più da tempo. Forse non lo sanno: l’universo si riprende ciò che vede sprecato». Un’aquila dalla coda bianca approfitta delle correnti ascensionali per avvistare dall’alto i branchi di platessa. Il cielo sopra il Baltico rivela adesso l’invalicabile serenità azzurra dell’acciaio. L’inverno non è
nemmeno iniziato, ma sembra già esaurito.
Le nuove, tiepide
estati trasformano
questi gelidi lidi
nella nuova Costiera
di camionisti svedesi,
oligarchi russi
e tedeschi nostalgici
FOTO CORBIS
FOTO SIME
L’agosto lituano è caldo senza eccessi: la media è 17 gradi
Repubblica Nazionale
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
il racconto
Luoghi comuni
DOMENICA 28 GENNAIO 2007
Un mondo esotico e misterioso, contrapposto al nostro
così come il dispotismo si contrappone alla libertà,
la tirannide alla democrazia, la tradizione al progresso
ma anche il misticismo alla razionalità. Da due millenni
è il pensiero europeo a dare forma alle culture dell’Asia
FEDERICO RAMPINI
PECHINO
er duem i l a
anni l’idea di
Oriente è
stata estranea ai cinesi. Il loro paese si è sempre chiamato
Chung Kuo (o Zhong Guo)
cioè la terra di mezzo, l’impero al centro del mondo. Fuori da
loro c’erano i barbari, le periferie della civiltà. Vista da Pechino oppure da
Delhi anche l’Asia è un’astrazione geografica, povera di significato storico, politico, culturale: associa la Cina con il Libano, unisce arbitrariamente gli indiani ai
giapponesi. Edward Said nel 1978 scriveva: «L’Oriente era un’invenzione dell’Occidente sin dall’antichità». Said coniò il
termine di «orientalismo» per descrivere
un misto di attrazione-repulsione verso il
mistero e l’esotico, una miscela di spaesamento e proiezioni fantastiche, di stereotipi e pregiudizi imperialisti. Lui si riferiva soprattutto alla nostra visione del
Vicino Oriente islamico. Ma l’invenzione
dell’Oriente si è proiettata ben più in là, ha
avuto il suo culmine nel nostro rapporto
con la Cina e l’India, ha voluto individuare in loro delle culture irriducibilmente
diverse, l’Altro da noi. Elaborata dai più
grandi pensatori europei, la maggior parte dei quali non misero mai piede fuori dal
nostro continente, questa immagine favolosa e parziale dell’Oriente è diventata
indispensabile soprattutto per definire la
nostra identità, quello che vorremmo essere o crediamo di essere.
Il precursore di questa invenzione è il
padre di tutti gli storici, Erodoto, che nelle sue cronache di guerra fra i greci e i persiani costruisce l’archetipo dello “scontro
di civiltà”. Fin dagli albori il conflitto EstOvest diventa un confronto tra valori,
modelli di società, sistemi politici: la vittoria finale dei greci è il trionfo delle democrazie contro la forza bruta della massa di soldati-schiavi agli ordini di imperatori feroci. L’Oriente è tirannide, l’Occidente è libertà. Ecco creato l’archetipo indistruttibile. Due millenni dopo, bombardati come siamo da nuove
informazioni su quei mondi, senza accorgercene continuiamo a vedere la dif-
P
ferenza tra
“noi” e “loro” attraverso il
filtro di quella lente. Nei secoli l’idea di
Erodoto si è sedimentata, ha sviluppato
tutta la sua potenza, applicata a terre molto più lontane dell’Asia minore persiana.
Per rielaborare il mito d’Oriente nell’èra moderna un ruolo chiave lo hanno due
italiani, tra i pochi ai loro tempi a poter
vantare una conoscenza diretta dell’Asia.
Il primo è Marco Polo alla fine del Duecento. La sua personale “invenzione del
Catai” — una Cina fantastica ricostruita
nel Milione attraverso precisi ricordi di
viaggi personali, mescolati con leggende
e miti — ha un ruolo essenziale nell’eccitare gli appetiti economici dell’Europa,
lanciando navigatori e mercanti alla ricerca delle ricchezze di un Estremo
Oriente sviluppato e raffinato. Il secondo
è il gesuita Matteo Ricci che visse in Cina
nel Cinquecento e tentò vanamente di
evangelizzarla. Ricci è il primo sinologo, il
tramite essenziale per far conoscere la
cultura cinese agli europei. È decisiva la
sua scelta di campo a favore di Confucio
(nel suo pensiero vede un’etica compatibile con quella di matrice greco-giudaico-cristiana), contro il buddismo che dipinge come un misticismo irrazionale e
superstizioso.
Proprio mentre gli imperi europei si
espandono conquistando terre sempre
più lontane, nel contatto con queste civiltà si afferma l’idea occidentale che i
grandi popoli con i loro sistemi di valori,
religioni, lingue, culture, rappresentano
sistemi ben distinti, separati da confini
storici precisi, a volte condannati all’incomunicabilità. Nel Settecento Montesquieu lancia il concetto del «dispotismo
orientale» che sarà usato indiscriminatamente per unire realtà politiche tanto diverse come le dinastie imperiali cinesi, i
khanati di origine mongola, i califfati del
Il precursore
di questa invenzione
è Erodoto: nelle sue
cronache di guerra
tra greci e persiani
costruisce
l’archetipo
dello “scontro
di civiltà”
Duemila anni dopo
sarà Hegel
a descrivere
un Est declinante,
immobile e passivo,
e un Ovest moderno,
motore di progresso,
abitato dall’autentico
spirito del mondo
mondo islamico
ottomano, più tardi
perfino lo zarismo russo.
Oriente e dispotismo diventano sinonimi per l’Europa, ignorando che l’India è stata un laboratorio politico di tolleranza e dialogo fra le religioni nel 1600,
proprio mentre a Roma la Santa Inquisizione condannava al rogo per eresia
Giordano Bruno. Il massimo teorico della superiorità europea è il filosofo tedesco
Hegel: riprende l’idea che l’Occidente è la
culla della libertà, vi aggiunge che è la patria della scienza e della tecnologia, del razionalismo e dell’individualismo creativo. Per Hegel la civiltà occidentale non è
una fra le tante: è l’unica a poter capire e
“includere” le altre nella sua sintesi; è la
sola a svolgere una missione universale.
Nella filosofia della storia hegeliana lo
spirito del mondo abbandona l’Oriente
immobile e passivo, si sposta verso l’Occidente che è motore di progresso. La modernità siamo noi, cinesi e indiani sono
condannati al declino perché prigionieri
della tradizione. La colonizzazione inglese dell’India per Hegel (che non c’è mai
stato) è inevitabile e positiva.
Nel mondo reale la grande discriminante affermata da Montesquieu e da
Hegel ha successo. L’Inghilterra vittoriana si impadronisce dell’idea di una
missione civilizzatrice, il «fardello dell’uomo bianco» dello scrittore Rudyard
Kipling, e la traduce in un complesso di
superiorità verso le altre razze. L’etica
dell’imperialismo consente molte libertà: la Gran Bretagna inventa il narcotraffico di Stato per piegare le resistenze
della Cina all’invasione commerciale (le
Guerre dell’Oppio dell’Ottocento). Il
«dispotismo orientale» è riscoperto e
aggiornato di continuo: piace a Karl
Marx, a Max Weber che descrive India e
Cina come Stati «idraulico-burocratici», a Karl Wittfogel. Ernst Juenger e Carl
Schmitt nel 1953 nel saggio Il nodo di
Gordioarrivano
a dipingere perfino
Hitler come un mostro
alieno dalla nostra cultura, il nazismo come una «incursione dell’Asia
dentro l’Europa». Per loro nella contrapposizione tra Est e Ovest la geografia diventa una metafora degli atteggiamenti umani: l’Asia «massa terrestre»
coltiva l’arcano, la magia e la sacralità
del potere; l’Occidente circondato da
oceani ha per valori la mobilità, la circolazione delle idee, il potere limitato dalla ragione e dal diritto. Perfino uno dei
più grandi sinologi contemporanei, il
francese François Jullien, si ispira a questa tradizione quando mette in dubbio
che vi sia spazio per la democrazia e i diritti umani nella civiltà cinese (La Chine
au miroir de l’Occident, Le Monde Diplomatique, ottobre 2006).
Un’altra forma di invenzione dell’Oriente approda invece a risultati opposti.
È anzitutto l’Illuminismo che adotta la Cina con entusiasmo e la idealizza. Il leader
di questa operazione è Voltaire. Anche lui
non ha mai messo piede in Cina, ma se ne
innamora perché vi vede la prova che una
civiltà avanzata può fondarsi su basi non
cristiane. Lo esalta la descrizione (che ha
letto in Matteo Ricci) degli esami meritocratici attraverso i quali il potere imperiale seleziona una burocrazia efficiente — i
mandarini — per amministrare la più
grande nazione del mondo. Confucio, in
quanto fondatore di una «religione laica»
che tiene unito il tessuto sociale basandosi esclusivamente sulla razionalità e su
un’etica umanistica, viene arruolato da
Voltaire nella battaglia contro la Chiesa
cattolica. Voltaire teorizza il primato sto-
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DOMENICA 28 GENNAIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
Oriente
Specchio rovesciato dell’Occidente
rico dell’Asia. Nel 1746 nel suo
Saggio sui costumi scrive
che «se un filosofo vuole sapere
quanto è avvenuto nel mondo deve anzitutto volgere lo sguardo all’Oriente, culla
della civiltà, a cui l’Occidente deve tutto».
Sulla stessa lunghezza d’onda Leibniz si
immerge nello studio del più antico testo
cinese, I Ching, per trovarvi la base di un
linguaggio universale.
Se il confucianesimo seduce Voltaire,
cent’anni dopo è il buddismo indiano a
ispirare una diversa forma di «orientalismo». Nasce fra i romantici tedeschi
Herder, Goethe, Schelling, Schopenauer. Condividono l’idea che bisogna
cercare in Asia «la sorgente primaria di
tutte le idee» (Schlegel), si staccano da
Voltaire perché quel che li attira dell’Oriente è lo stereotipo opposto: l’irrazionalismo, il misticismo indiano. I romantici prendono le distanze dall’infatuazione europea per il progresso, la
scienza, la tecnica, lo sviluppo economico. L’India spiritualista diventa l’anti-Occidente per eccellenza. Il compositore Richard Wagner attraversa una fase
buddista in rivolta contro i «dogmi limitati e meschini» della tradizione europea. Per Nietzsche il bello del buddismo
è l’assenza del ripugnante senso di colpa cristiano. Quest’altro Oriente immaginario impregna la nostra cultura fino a
oggi.
Ispira lo psicanalista Carl Gustav
Jung che trova nel taoismo una
capacità unica di sintonizzarsi con la
nostra «esperienza interiore», di scavare nella dimensione nascosta della nostra psiche, di superare la contrapposizione fra la materia e lo spirito. Come lo
ha descritto John Clarke nel bel saggio
Jung e l’Oriente (edizioni Ecig, Genova
1994), lo psicanalista svizzero è un capostipite della re-invenzione dell’Oriente che attraversa la cultura del Novecento: il Siddhartadi Hermann Hesse
diventa la lettura obbligata per l’educazione spirituale di intere generazioni, il
rito iniziatico del pellegrinaggio in India
unisce i poeti della Beat Generation, la
New Age californiana, i Beatles. Più entrano in crisi le nostre certezze sul progresso e sulla razionalità, più l’Occidente affonda nell’insicurezza e nel vuoto di
valori, più si convince che la vera saggezza va cercata sulle rive del Gange o
sui monti del Tibet.
Alla lunga la nostra immagine dell’Oriente ha finito per proiettarsi sull’idea
che le nazioni asiatiche hanno di se stes-
Fu
l’Illuminismo
ad adottare la Cina
con entusiasmo
e a idealizzarla
come prova
di società avanzata
fondata su basi
non cristiane
se. Sotto shock per
la decadenza della dinastia Qing, aggredita dalle potenze imperialiste, alla fine
del Diciannovesimo secolo una élite cinese si adegua a pensare la storia come
una “gara” Oriente-Occidente. Nel passato più antico la Cina aveva subìto
sconfitte militari e invasioni solo da popoli che avevano finito per lasciarsi sinizzare, come i mongoli di Gengis Khan.
Dall’Ottocento per la prima volta il confronto è con civiltà che si affermano superiori, vogliono imporre i loro modelli
alla Cina. Per quelle classi dirigenti cinesi che si ribellano al declino, Occidente
è sinonimo di rivoluzione industriale,
nuove tecnologie, modernità
economica. Mao Zedong in questo conflitto
d’identità conia
lo slogan «camminare su due
gambe»: avanzare
con la gamba occidentale, mantenendo l’appoggio su quella
orientale. Dalla medicina alla filosofia, i cinesi
assorbono l’idea che esistono due grandi sistemi; è
meglio destreggiarsi fra le alternative, copiare dall’Occidente quando è efficace, riscoprirsi “asiatici” quando conviene. Da punto cardinale geografico l’Est diventa un luogo dello spirito rivoluzionario: L’Oriente è rosso
è l’inno dei giovani maoisti nella Rivoluzione culturale. Anche in India lo
shock della colonizzazione imprime
stereotipi e semplificazioni europee.
Nell’Ottocento il filosofo induista Vivekenanda condanna il «materialismo
occidentale», riecheggiando i romantici tedeschi. La realtà è più complicata,
naturalmente: varie forme di proto-capitalismo sono fiorite nel mondo confuciano secoli prima che Max Weber ne attribuisse il merito all’etica protestante; e
una visita agli affollati templi indiani nei
giorni degli esami universitari è rivelatrice dell’utilitarismo che si nasconde a
volte dietro la religiosità orientale. In
quanto alla civiltà occidentale, a chi gli
chiedeva che cosa ne pensasse il Mahatma Gandhi si limitava a rispondere: «Sarebbe una buona idea».
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 28 GENNAIO 2007
i luoghi
Isole
del tempo
PINO CORRIAS
ianni Berengo Gardin conosce come si muovono
il bianco e il nero tra gli
uomini e il paesaggio; tra
le donne e il cielo; tra tutti gli intrecci in transito. Il
suo sguardo calcola la luce dei luoghi e
delle circostanze. La sua inquadratura
cattura le ombre. Il suo cuore registra le
profondità della superficie. La sua Leica le incide in un istante che non si ripeterà mai più. Come la vita.
La vita di Gianni Berengo Gardin ammonta a un milione e 350mila istanti irripetibili. Tutti in bianco e nero. Archiviati dietro ai suoi occhi azzurri e dentro
agli scaffali del suo studio, a Milano.
Compresi questi scatti che vengono da
un passato remoto di anni Sessanta. E
da una lontananza che un tempo i molti mari di Sardegna moltiplicavano per
il numero delle scogliere, fino a farne l’isola più distante del Mediterraneo. La
più sola. Sigillata da una lingua sconosciuta e dalla povertà. Bruciata dal maestrale. Cavalcata dalle leggende. Segnata dal mistero delle pietre sempre disposte a cerchio — dal focolare, alla casa delle fate, alla torre dei nuraghes — a
replicare lo stesso confine dell’isola che
segna i limiti concentrici del mondo, difende dal mondo, ma anche lo imprigiona.
Racconta: «L’impressione era di arrivare in un luogo remoto. Carico di colori intensi: il verde dei boschi, il blu del
mare, il bianco sparato della luce, delle
saline, del granito. E sulle strade sterrate, in primo piano, queste figure in nero. Donne con l’anfora dell’acqua appoggiata alla testa. Uomini armati a cavallo. Pastori con i gambali di pelle e la
giacca di velluto nera. La prima volta
che sono sceso dalla nave era il 1968.
Mare turchese e limpidissimo di Porto
Torres. Le automobili venivano ancora
scaricate con la rete di corde e la gru,
una alla volta, come un carico fragile e
prezioso: la gente che faticava sui moli
assolati si fermava a guardarle. C’era
l’odore di nafta e di salmastro. Ma all’improvviso anche di mirto. Ero lì per il
Touring Club. Avevo un’auto, un autista e un po’ di libri. Viaggiai per due mesi. E quasi nulla mi sembrava Italia, ma
uno strano West, una frontiera d’altri
tempi, appena conquistata, con le jeep
dei carabinieri che pattugliavano le
strade deserte. Con la Guardia costiera
che faceva scendere uomini in catene
diretti ai penitenziari. Con le foto dei ricercati sui muri degli uffici postali e la
taglia da cinque milioni.
«E insieme mi colpiva la bellezza selvaggia del paesaggio. Mi colpiva il silenzio, questa povertà imperturbabile, l’isolamento dei paesi. Viaggiavamo per
ore, sugli altopiani, senza incontrare
nessuno, al massimo un camion, un
branco di cavalli bradi, o un gregge. Risalivamo montagne. E quando entravamo nei paesi — a Oliena, a Lula, a Orune, a Orgosolo — all’improvviso mi sentivo circondato dagli sguardi. Avevo
questa fortissima sensazione, varcando il silenzio delle vie assolate, di essere
un estraneo guardato da mille occhi.
Uno straniero che cammina tra le vie
vuote, a parte qualche cane randagio,
circondato da tende e persiane chiuse,
approdato chissà da dove, da un luogo
di tempi futuri, il Continente. Poi in un
attimo ecco il muro che si rompe, il sorriso, la sedia offerta al bar. La gentilezza
delle persone. La loro curiosità. L’ospitalità del cibo e del vino. I racconti del
G
“Ero uno straniero
che camminava
tra le vie vuote,
FOTO GIANNI BERENGO GARDIN/CONTRASTO
paese, dei pascoli e della siccità. Qualche volta dei banditi e delle vendette. Mi
stupiva l’italiano perfetto dei pastori. La
musica e i fuochi della festa. Le mandorle con il miele amaro, intorno alla
brace, dove cuoce la carne». [...]
Gianni Berengo Gardin ha girato tre
volte il mondo. Passando per l’Oriente
e per Luzzara, il paese del suo amico Cesare Zavattini. Per le fabbriche nel Miracolo economico. Per le periferie del
lavoro. Per i campi polverosi degli zingari. Per i manicomi di Gorizia e di Trieste smantellati da Franco Basaglia. Per
l’Europa divisa e poi unita. Compresa la
costa inglese in un giorno di vento, dove intercetta la sua foto più celebre, una
coppia di spalle, seduta dentro a una
Austin, parcheggiata davanti al mare. In
mezzo secolo ha pubblicato più di duecento libri («a quota duecento ho smes-
circondato
da persiane chiuse
Poi in un attimo
ecco il muro che si
rompe, il sorriso,
la sedia offerta”
Repubblica Nazionale
DOMENICA 28 GENNAIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
Una casa editrice di Nuoro pubblica le immagini
in bianco e nero scattate dal grande fotografo
tra il 1968 e il 2006. Quelle più datate restituiscono
un mondo imprigionato nella lontananza nel quale,
come dice l’autore, “quasi nulla sembrava Italia”
LUOGO E DATA
Le foto di Gianni
Berengo Gardin
hanno per sola
didascalia il luogo
e la data. In queste
pagine, in senso
orario, a partire
dalla foto grande:
Tuili, 1968; Barumini,
1978; Sedini, 1968;
Cabras, 1968;
Gadoni, 1968
Berengo Gardin
una Sardegna
al passato remoto
so di contarli»). E ha insegnato a un bel
po’ di generazioni di fotografi come si
tengono gli occhi sul mondo, catturando immagini che non hanno bisogno di
didascalie («solo una riga: la data e il
luogo»), e scoprendo che perfino nelle
strade di Nuoro e di Oristano le coppie
adesso si baciano. [...]
Gianni Berengo Gardin gira con almeno una macchina fotografica al collo. Usa la Leica. Qualche volta la Contax,
la Nikon, o addirittura la Hasselblad.
Ma di solito è la Leica, maneggiata a Parigi, scuola Agenzia Magnum («essere
veloci, essere semplici») e poi per sempre, con pochi obiettivi a portata di mano, il 24, il 28, il 35. E il 90 in tasca («non
si sa mai»). Niente macchine digitali.
Mai. Proibito. Lui ha bisogno dello scatto meccanico, della pellicola, della camera oscura.
D’abitudine indossa giacche con
molte tasche piene di rullini nuovi o appena usati, piene di biro e matite che
spuntano dal taschino, foglietti di appunti, il taccuino, l’agenda. Il cellulare
lo tiene spento, sul tavolino. Mentre
chiacchiera non si distrae mai dal paesaggio. In questo momento ci sono due
ragazze sedute a un tavolino di lato che
ridono. Il cameriere in camicia bianca
con birra e caffè. Un uomo anziano al
bancone che beve un calice di rosso,
con gli occhi chiusi. Una donna orientale che sembra triste mentre scrive una
lettera. Un ragazzo arabo che legge e fuma. Gianni Berengo li ha già fotografati
tutti, senza mai cambiare obiettivo alla
macchina, né la postura delle gambe
accavallate, né il tono della voce. E adesso, mentre fotografa, parla delle sue fotografie.
«A me piace definirle come fotografie
di figure ambientate. Contengono un
racconto e una descrizione. Le persone
sono al centro del racconto, anche se
non amo il ritratto per il ritratto. Non mi
interessa. Meno ancora mi interessano
le persone famose. Hanno sempre la
febbre. E una luce che le rende finte anche nella febbre: troppo levigate, troppo consumate, troppo distorte. Troppo. Mi interessa la gente che normalmente non viene fotografata. Quella comune, mentre vive. Che compie i gesti
IL LIBRO
La casa editrice Imago Multimedia di Nuoro ha da poco mandato
nelle librerie il libro di Gianni Berengo Gardin Reportage
in Sardegna 1968/2006 (200 pagine, 70 euro )
Il volume, a cura di Daniela Zedda, è arricchito
da due testi, uno di Pino Corrias (del quale
pubblichiamo ampi estratti in queste pagine),
l’altro di Pasquale Chessa. Raccoglie immagini
colte in Sardegna nell’arco di quasi quarant’anni;
quelle datate 1968 costituiscono la parte
quantitativamente maggiore. Ulteriori
informazioni sul sito della casa editrice,
www.imagomultimedia.it.
In queste settimane è in corso anche, a Genova,
una mostra di fotografie di Berengo Gardin
dedicate al mondo dell’impresa sociale e del no profit dal titolo
I mille volti dell’utile.A Palazzo Doria Spinola fino all’11 febbraio
quotidiani del lavoro. Ho fotografato
molto gli operai in fabbrica, cominciando dalla Olivetti, dalla Fiat, dall’Alfa. Gli
impiegati in ufficio. Gli infermieri negli
ospedali. Le botteghe e i mercati. Le miniere e la campagna. Amo il backstage:
raccontare quello che accade dietro ai
palcoscenici del teatro, del cinema, della musica e che di solito non si vede. Ho
fatto parecchi reportage alla Scala, ma
non i cantanti o i direttori d’orchestra.
Le mie immagini stanno sempre dietro
le quinte dove ci sono i falegnami che
assemblano le scene, le sarte che cuciono i costumi, le lavoranti che ogni sera
lavano i vestiti delle comparse, e poi li
stirano.
«Non uso quasi mai il flash perché fa
una luce irreale, e quando non ce n’è abbastanza, preferisco rinunciare allo
scatto. Non uso il cavalletto: blocca la
macchina che invece deve navigare
sempre libera, cercarsi la sua traiettoria. Non uso i super grandangoli, tipo il
17 o il 15, perché deformano. Non uso i
super tele perché preferisco la visione
naturale delle cose e non le prestazioni
dalla distanza. Non ho mai fatto foto per
la pubblicità. Non faccio still life. Non
mi interessa il nudo o la foto posata, o la
foto artistica, anche se qualche volta
ammiro le fotografie di Helmut New-
“L’importante di una
foto, quello che la
rende una buona foto,
è che sia vera,
nel senso pieno
del termine. Che sia
onesta. Senza tagli,
senza trucchi. Senza
troppi artifici tecnici”
ton. Fotografare per me è riconoscere in
meno di un secondo un dettaglio della
vita. Essere così veloce da inquadrarlo
nel mio spazio, mettere nella stessa linea di mira, come diceva Bresson, la testa, l’occhio, il cuore. Trasformare quell’istante in un frammento della memoria, qualcosa che è accaduta davvero e
che non è andata persa. Ammiro molto
Henri Cartier-Bresson. Ci siamo conosciuti e frequentati, con Robert Doisneau, a partire dagli anni Cinquanta,
quando si andava
ad ascoltare Edith
Piaf e Juliette Gréco nelle caves del
Quartiere latino.
Ma non è lui il fotografo che mi ha influenzato di più.
Semmai un altro
parigino, Willy Ronis, che non cercava mai l’insolito,
ma raccontava con
immagini semplici, ordinarie. E in
Italia Ugo Mulas,
con i suoi reportage sull’arte americana, il suo rigore
in bianco e nero.
«Mi chiedono
sempre perché
non uso il colore,
visto che sono realista e che la vita è piena di colori. D’accordo. Lo ammetto.
Sono influenzato dal neorealismo di
Vittorio De Sica e di Roberto Rossellini.
Dalle immagini di Hôtel du Norddi Marcel Carné. Dalle prime fotografie che ho
ritagliato da Life, da Time, da Paris Match, dalla mia memoria in bianco e nero.
Ma il bianco e il nero sono due colori,
no? Con una gamma infinita di sfumature e tracce che puoi seguire, puoi
completare. L’importante di una foto,
quello che la rende una buona foto, è
che sia vera, nel senso pieno del termine. Che sia onesta. Senza tagli, senza
trucchi. Senza troppi artifici tecnici.
Proprio il contrario di quello che adesso fanno molti fotografi con le macchine digitali e il Photoshop: cambi di luce,
cambi di colori, spostamento di dettagli, cancellazioni parziali. Ho letto che il
60 per cento delle foto dello tsunami
pubblicate dai giornali nel mondo sono
false o falsificate. In questo modo finisce il reportage, la foto documento:
quella ti racconta cosa accadeva quel
giorno, in quel luogo, a quell’ora. Mi
hanno sempre fatto ridere quelli che
guardando il lavoro ti dicono: “A queste
persone gli hai fotografato l’anima”.
Che vuol dire? Se sono riuscito a fotografar loro la faccia è già tanto. Il racconto da tramandare di quel giorno,
quel luogo e quell’ora è lì dentro». [...]
Quante volte è tornato in Sardegna?
«Altre tre volte, forse quattro. Una delle
prime con Renzo Piano che aveva ricevuto l’incarico di ridisegnare un pezzo
della periferia di Cagliari. Rimanemmo
un paio di settimane. Poi l’incarico
sfumò. Io andai a nord, in Costa Smeralda, e feci uno dei più grandi sbagli
della mia vita. Rifiutare una casa bellissima, bianca, in mezzo alla campagna,
su un’altura. Circondata dai boschi e
dal mare, incantevole. Costava una cifra ridicola. Ma io neanche mi resi conto… Pensai: che me ne faccio? Il traghetto arriva solo tre volte alla settimana, tutte le strade sono sterrate, non
avrò mai abbastanza tempo…». [...]
Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 28 GENNAIO 2007
Cinquant’anni fa lo scrittore vicentino attraversò in lungo e in largo
la penisola ricavandone “un inventario”. Descrisse città e paesaggi, incontrò
contadini e Adriano Olivetti, Salvemini e Padre Pio,e intercettò i primi
sintomi della malattia nazionale: il ristagno della classe politica e la corsa verso le sole cose
che interessavano la gente, denaro e cibo. Ma intravide anche la cura: l’Europa
Viaggioin
Italia
Piovene, reporter per caso
nel “Paese oscuro a se stesso”
FRANCO MARCOALDI
l 30 novembre del
1957, recensendo il Viaggio
in Italia, Eugenio Montale scriveva: «Guido Piovene ha compiuto per conto della Rai un
viaggio di ricognizione di una
completezza che non ha precedenti, e
ci ha dato un inventario, com’egli lo
chiama, delle cose d’Italia che scoraggerà per molti anni chi vorrà ritentare
l’impresa». Montale aveva talmente
ragione che oggi, a cinquant’anni
esatti dalla pubblicazione di
quell’«inventario», faremmo fatica a
individuare un altro libro di viaggio
che sia stato in grado di penetrare così a fondo nelle viscere del paese. Tanto da essere letto con grande profitto
anche pensando al nostro presente.
Così come accadrà per gli altri suoi
libri di viaggio, precedenti e successivi (dal De America a Madame la France a L’Europa semilibera), nel grand
tour italiano Piovene si abbandona
interamente ai fatti, agli incontri, ai
paesaggi, per come gli si presentano
davanti agli occhi. Nella loro inevitabile contraddittorietà. Non cerca mai
di aggiustare quel che vede, quel che
incontra, in un disegno interpretativo
precostituito. Perciò sono tanto più
interessanti le sue conclusioni diagnostiche, a cui giunge dopo tre anni
e mezzo d’indagine.
«L’Italia è varia, non complessa»,
annota lo scrittore vicentino. «Cambia da un chilometro all’altro, non solo nei paesaggi, ma nella qualità degli
animi; è un miscuglio di gusti, di
usanze, di abitudini, tradizioni, lingue, eredità razziali. Sono però diversità vissute come fatti della natura,
che fomentano umori litigiosi ed in-
I
comprensioni,
ma non conducono al distacco».
Il nostro, del
resto, non è un
paese di distinte
«famiglie spirituali», come la Francia.
Né coltiva particolarmente il proprio
passato, come accade ai cugini d’oltralpe. Di primo acchito potrebbe apparire statico, immobile, perché da
noi «quasi nulla appare con la sua vera faccia». Ma una ricerca accurata e
in profondità ci mostrerà «la società
più mobile, fluida e distruttrice d’Europa». Addirittura «futurista», incalza
Piovene da vero rabdomante, prefigurando gli effetti di una trasformazione sociale irreversibile.
Peccato che i vistosi avanzamenti
economici avvengano in un quadro
generale di confusione e inconsapevolezza, essendo l’intelligenza e la
cultura tenute in pochissimo conto
dalla politica, mentre la scena pubblica è occupata da due unici problemi,
denaro e cibo, «quasi per un tacito accordo tra affaristi e sociologi». Il panorama dunque «è quello di un paese
attivo, la cui azione rimane buia».
Quanto alla Chiesa — e a dirlo è un
signore che afferma: «Non sono laicista» — si sostituisce troppo spesso al
laico in ciò che al laico compete: «Amministrare il bene pubblico, difendere la cultura, tutelare la legge». Ma
trattare la vita di un’industria alla
stregua di «un istituto di carità» offre
inconsapevolmente la sponda a chi
«considera la ricchezza pubblica un
terreno di caccia». Così, mentre «nello Stato distrutto si sostituisce un
vuoto nel quale scorrazzano gli appetiti, [...] il paese precipita nel vitalismo
puro, nella fisicità pesante». La vera
speranza, conclude Piovene, risiede
nella comunità europea, all’interno
della quale l’Italia potrà conquistare
«un posto come forse non ebbe mai
dopo l’unità, sempre che non decada
nel vitalismo grossolano, nel politici-
“Cambia da un
chilometro all’altro
non solo nei paesaggi
ma nella qualità
degli animi
Sono però diversità
vissute come fatti
della natura”
IL LIBRO E LE IMMAGINI
Le immagini della pagina di
sinistra sono tratte dal libro Guido
Piovene o della vicentinità, a cura
di Clelia Martignoni, Rossana
Saccani, Vanni Scheiwiller
(Banca Popolare Vicentina, Libri
Scheiwiller, 1993), nel quale
compaiono anche i testi
di Eugenio Montale e Goffredo
Parise citati nell’articolo. Nel
2007 ricorre anche il centenario
della nascita dello scrittore
smo affannoso, nella sfiducia intellettiva».
Quei fantasmi, che continuano ad
aleggiare inalterati nell’Italia odierna, compaiono a Piovene via via che
percorre la penisola in auto al fianco
della moglie Mimy, suo pilota di fiducia. Già, perché il nostro non sa guidare, e in La coda di paglia lo dichiara
con una certa civetteria, enumerando
contemporaneamente tutti i suoi altri
“handicap”: «Non so sciare né ballare, né fare una valigia, non guido l’automobile, e non ho mai posseduto
una chiave senza romperla nella serratura». Ecco perché, conclude, «il caso più straordinario della mia vita è
l’essere riuscito a fare anche del giornalismo essendo interamente incapace di avvicinare
le persone che
non conosco, e
“reportages” di
viaggi non sapendo viaggiare».
In realtà, come
testimoniano i risultati dei suoi libri, Piovene è un
fior di viaggiatore,
a dispetto delle
sue inettitudini.
Anzi, proprio qui
si combina al meglio la sua natura
bifronte di scrittore e giornalista, grazie alla quale il
suo sguardo e la sua lingua possono
mettere in movimento razionalità e
invenzione, scetticismo e passione.
Sandro Gerbi, introducendo un’altra
raccolta di reportage, In Argentina e
Perù (1965-1966), riporta una dichiarazione dello scrittore vicentino
quanto mai significativa: «Le lunghe
inchieste giornalistiche (sull’America, sull’Italia, ecc.) mi hanno obbligato per anni ad interessarmi di fatti che
la mia naturale pigrizia avrebbe rifiutato in gran parte, e ad interessarmene in vista del vero e dell’utile. Sono
state la mia vera scuola, l’antidoto im-
posto volontariamente, direi criticamente, a un’indole il cui principale
pericolo era appunto l’irrealtà, con le
sue conseguenze: intellettualismo,
riscaldi d’immaginazione, acume
esasperato, ma non equilibrio, ecc.
Non sono un giornalista nato, ma ho
voluto diventarlo».
L’autore tormentato di Lettere a
una novizia e La Gazzetta Nera; lo
scrittore che sprofonda con coraggio
negli abissi della coscienza, scopre
ben presto il fascino di una ricerca
tutta esterna, «in vista del vero e dell’utile». E mette a frutto l’eleganza aristocratica della sua prosa, la prensilità di una cultura vasta e curiosa, il
connaturato abito del moralista, nell’osservazione diretta di uomini, luoghi, fatti. Le diverse città attraversate
passano così al vaglio di un occhio fulminante che ce le restituisce in un’indimenticabile sequenza d’istantanee.
A cominciare dal luogo natio, Vicenza, «una città in bianco e nero, con
le tinte di un’acquaforte, in un paese
dalle luci morbide, rosee, in cui l’aria
sembra portare un colore disciolto».
Quanto a Milano, gli appare come
«un’America a cui manca la crudeltà».
Mantova «è una città viva che reca
dentro di sé una città morta». Ferrara
«è insieme aerea e cupida. Si ha l’impressione di bere un liquore distillatissimo tra i fumi d’una cucina densa
di sughi». Se Firenze «è magra, longilinea», a Bologna «i portici, gli archi, le
cupole, tutto fa pensare a una rotondità carnosa». Genova «è una città dura che si compiace d’essere sentimentale. Immagina se stessa rude, ma dolce nel segreto». Cosenza, infine, è uno
strano mix borbonico-americano, visto che «il corso Mazzini è una piccola Broadway. Quei palazzoni, quei
caffè, quei negozi che espongono i più
recenti modelli di Dior e di Fath, e
ostentano vetrine di un modernismo
milanese, quando Milano vuol dare
dei punti all’America, ricordano come Cosenza sia la città della Calabria
Repubblica Nazionale
DOMENICA 28 GENNAIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
Genova
Sottoripa, purtroppo offesa dai bombardamenti
ed oggi dalle luci al neon, è tutta traforata di ristoranti
sotterranei […] nelle viuzze, i friggitori espongono
pesci e torte di riso, uova sode, carciofi, spinaci;
odore di fritto, di pesto e d’aglio
Roma
Il romano, essere
contraddittorio,
è incarnato
nella sua città,
di cui decanta
la bellezza, e insieme
indifferente
a questa bellezza;
[…] ritiene tutto
transitorio,
e stabile Roma sola
Bellagio
La letteratura lombarda
è una letteratura
di “laghi e colline” […]
Non so se questo sia il più bello,
certamente è il lago più nobile,
anche perché è il più carico
di storia e di letteratura
divenute paesaggio
Assisi
Assisi soffre del declino del turismo contemplativo,
lento, che amava le soste
nei piccoli centri […]
I suoi nemici sono l’automobile
e, ancor più, l’autopullman
Napoli
Venezia
Il risanamento urbanistico
dev’essere preceduto
dalla industrializzazione,
e anche dalla educazione
delle maestranze
Questo popolo mite appare
sempre risentito, recita la commedia
dell’arrabbiatura perpetua
Si parla e lavora all’aperto, facendo reti,
corde, ceste, merletti
Lo Stretto
Si spalanca davanti
uno stretto sempre agitato,
decorato di spume […]
Su queste acque messinesi
si pesca
alla fiocina
il pescespada,
inseguendolo lungo
la scia lasciata
dalla pinna, su barche
dalla chiglia nera
a sei rematori
Portovenere
Chiedo una barca, ma i vecchi pescatori,
occupati lungo la riva a verniciare lentamente
uno scafo o a fumare la pipa, rifiutano
di accompagnarmi, col pretesto che le acque
del porto sono un po’ agitate
che paga più ricchezza mobile».
Ben note sono le doti letterarie del
Piovene paesaggista. E poiché i paesaggi rimandano per lui — come ha
scritto Clelia Martignoni — al carattere degli uomini, non esiste occasione
migliore per verificare sul campo tale
teoria. «A differenza della collina veneta, languida e fantasiosa, quella toscana si direbbe disegnata da un artista cosciente, che non lasci nulla al
caso e aborra dal superfluo, anche se
poi, a lavoro finito, cosparge di gentili ornati la fondamentale secchezza
della sua concezione».
In questi due differenti paesaggi si
rispecchiano i due caratteri regionali
più antitetici. Mentre il temperamento veneto «tende al felice edonismo, e
per questo è condotto a manipolare se
stesso, a colorirsi e a rivestirsi di favole», il toscano invece, «anche di fronte a se stesso, è spietato». Se comunque volete conoscere il distillato paesaggistico dell’Italia, che a sua volta è
il distillato del mondo, andate nelle
Marche: «Qui abbiamo l’esempio più
integro del paesaggio medio, dolce,
senza mollezza, equilibrato, moderato, quasi che l’uomo ne avesse fornito
il disegno. Non esiste una terra meno
gotica, o meno barocca».
Naturalmente ogni città, ogni paesaggio, è abitato da uomini concreti,
in carne ed ossa. E Piovene ne incontra a decine: prelati, contadini, giornalisti, uomini politici, industriali.
Enzo Ferrari gli ricorda che i prezzi dei
suoi gioielli automobilistici, «macchine dotate d’anima», variano di caso in caso: «Seguono le leggi della simpatia; il prezzo è un compromesso tra
il valore dell’automobile e la faccia
dell’acquirente». Gaetano Salvemini,
incontrato in casa di Bernard Berenson, gli appare «ispido e caloroso,
espansivo e selvatico, simile a un vecchio cinghiale canuto». Padre Pio, già
avvolto da una «efflorescenza magica», «si nutre di qualche erbaggio e di
un bicchiere di birra» e dice Messa alle cinque del mattino «in uno stato,
“Queste lunghe
inchieste sono state
la mia vera scuola,
l’antidoto a un’indole
il cui principale
pericolo era l’irrealtà
con le sue
conseguenze”
certo autentico, di estasi e rapimento:
non un rapimento immobile; un rapimento travagliato, in cui si alternano
sentimenti diversi, con una specie di
altalena tra l’ebbrezza e l’affanno».
Infine, a Ivrea, ecco Adriano Olivetti che gli parla del «moralismo-dolorismo dell’industria italiana, questo feticismo nazionale per la fatica, il lavoro domenicale e il dormire poco». Sì,
perché nel libro il lavoro ha una parte
importante, decisiva. E Piovene snocciola cifre e dati di ogni genere. Ma aggirandosi per le fabbriche e gli uffici
della Lombardia, comprende quanto
poco arido sia quel genere di inchiesta: «Si crede di viaggiare tra macchine e bilanci, e invece è un viaggio per
le regioni del cuore. Il lombardo corre
in ufficio con tanto desiderio e con
tanta felicità che l’impregna di sentimento, e il registro del ragioniere è carico di speranze, di sogni e palpitazioni amorose».
Naturalmente, lo scrittore vicentino riconosce perfettamente la caducità intrinseca di molte parti del suo
inventario. Via via che passa il tempo,
i personaggi incontrati muoiono, le
statistiche cambiano, i paesaggi si alterano. D’altronde non si può rifare
ogni anno un nuovo viaggio in Italia,
nell’ambizione di un permanente aggiornamento. Meglio lasciare il libro
così com’è, nella speranza che le permanenze siano altrettanto importanti delle variazioni.
L’autore ne è convinto, tanto che in
SCATTI D’EPOCA
Nella pagina
di sinistra in alto,
Piovene
in una foto
degli anni Settanta
e, sullo sfondo,
una pubblicità
per le trasmissioni
radiofoniche
del Viaggio in Italia
del 1953 da cui
sarà tratto il libro
In basso, Piovene
con la moglie
Mimy. Le immagini
e le citazioni
della pagina
di destra sono tratte
da un’edizione
del 1957
del Viaggio in Italia,
(Mondadori)
un post scriptum successivo di una
decina d’anni alla prima edizione, ribadisce alcune sue precedenti affermazioni: cominciando dal disamore
che corrode il Mezzogiorno («quella
specie di fuga da se stesso che l’uomo
meridionale sta compiendo») e finendo con «il realismo praticone» della
nostra politica. Quanto alle differenze, l’Italia gli appare indurita; è il paese europeo più assillato dalla «lotta
per il denaro ed il successo»; e in apparenza, ma solo in apparenza, il più
politicizzato: «Esiste infatti un impegno totale, che viene soprattutto dalla poca coscienza reale; mancano i limiti segnati dai veri sentimenti, dalle
convinzioni sincere, ci si butta un po’
a capofitto, trasportati dal meccanismo delle idee, dalla loro forza d’inerzia, dai richiami della convenienza».
Nei piani alti — quelli delle élite —
c’è «opacità e ristagno», mentre appena sotto si assiste a uno squagliamento progressivo della vecchia civiltà. Si
potrebbe dire a un tempo che il nostro
è «un paese ritardato e un paese di
punta [...] Certamente anche un paese
oscuro a se stesso, nel quale tutti soffrono più malesseri che dolori, senza
capirne con chiarezza il perché».
Leggendo queste pagine così acute,
torna di nuovo — pressante — la domanda su come si spieghi tanta lungimiranza in uno scrittore di viaggio
malgré lui, quale Guido Piovene. Forse aveva ragione il suo amico e concittadino Goffredo Parise, quando sottolineava «il suo “naturale” internazionalismo», «il suo scetticismo anglo-francese», un carattere, uno stile
letterario, modi e atteggiamenti poco
o punto italiani. Vuoi vedere che Piovene raccontò così bene il nostro paese proprio perché «era un italiano non
italiano»?
Repubblica Nazionale
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la lettura
Catastrofi
DOMENICA 28 GENNAIO 2007
Agosto 2005, New Orleans viene travolta dalla furia
delle acque che rompono dighe secolari. Il colpevole
è un uragano dal nome di donna dolce e terribile
In poche ore sono migliaia le case spazzate via, migliaia
i morti e gli sfollati. Ora quella tragedia è raccontata
in un libro fotografico commentato da un grande scrittore
Il cuore nero dopo Katrina
JOHN UPDIKE
atrina, come si dice per
far presto, è stato un nero
disastro che ha messo in
luce la povertà nera che
allignava nelle zone basse della metropoli, fuori
dalla vista dei turisti che inondano
Bourbon Street per assaggiare la cucina
Cajun e centellinare il jazz vecchio stile.
Dopo tutto, la città aveva solo questo da
vendere, facendo tesoro del suo passato di porto francofono del Sud.
Fondata nel 1718, sin dall’inizio New
Orleans flirtava con il livello del mare
mentre alle sue spalle incombevano il
Mississippi e il lago Pontchartrain,
pronti anche loro a innalzare le loro acque minacciose. Un po’ come Los Angeles ha la sua faglia, e New York il suo
traffico, New Orleans traeva vanto dalla sua ipotetica precarietà. Katrina non
si è dimostrato per nulla ipotetico: centosessantamila case sono state spazzate via e, per dirla con Jeff L. Rosenheim,
autore di una succinta introduzione al
massiccio album di Robert Polidori After the flood (Göttingen, Steidl, 2006),
strada dopo strada, isolato dopo isolato, l’uragano ha accatastato estese rovine urbane e una massiccia disintegrazione del tessuto umano. Molte migliaia di sfollati non sono ancora tornate a casa, e circa duecentomila non lo faranno mai. Una grande città americana
è stata spopolata con una rapidità che
nessuna guerra potrà mai eguagliare.
Quando Polidori giunse a New Orleans il 20 settembre, l’ottanta per cento della città era ancora sott’acqua. La
temperatura sfiorava i 38 gradi e l’odore della carne in decomposizione rendeva putrida l’aria. Cavi elettrici abbattuti drappeggiavano strade e vicoli.
Querce sradicate giacevano ancora vive come colossi caduti, eppure non vi
era grandezza nella scena, ma solo disperazione. Semafori e lampioni avevano cessato di funzionare da tempo,
esausti soccorritori stavano ancora
scoprendo e raccogliendo cadaveri.
La prima fotografia della mostra New
Orleans After the Flood: Photographs by
Robert Polidori (Metropolitan Museum of Art, New York, 19 settembre-10
dicembre, 2006), intitolata Industrial
Canal Breach, Reynes Street, raffigura,
sotto un cielo settembrino blu polvere,
dell’acqua che scorre tra banchi di legname accatastato dall’acqua, materiali isolanti, automobili rovesciate. Le
automobili, questa stolida necessità
americana, si rivelano molto sensibili e
comicamente quasi spumeggianti in
un’inondazione; la seconda foto, 2600
Block of Munster Boulevard, ne cattura
due con la coda sollevata, come fossero due ballerine di fila, stagliate contro
una linea di bungalow in mattoni.
Nell’onda di piena delle 333 pagine
dell’album di Polidori, le automobili
distrutte — rovesciate, rigurgitanti
fango, intrappolate sotto edifici crollati, inforcate su palizzate, sepolte sotto
travi di legno, ammucchiate le une sulle altre come in una bizzarra orgia — si
contendono il primato con alberi sradicati e case in legno separate dalle loro fondamenta in cemento. 2732 Orleans Avenue, la foto che figura sulla copertina dell’album, mostra un coupé
bianco, intatto, parcheggiato ad angolo di fronte a una piccola ma apparentemente intatta casa bifamiliare. Il sottile messaggio della fotografia, reso
chiaro dall’ingrandimento che è esposto al Met, è rivelato dalle linee oriz-
K
IL LIBRO
Le immagini pubblicate in queste pagine sono tratta dal libro After The Flood di Robert Polidori
(Steidl, 335 pagine, 78,10 euro, distribuito in Italia da Hoepli).
In alto, un interno a 5000 Cartier Avenue; in basso 1401 Pressburg Street
Per quanto le foto all’aperto
ci mozzino il fiato sono gli interni
desolati che aumentano l’ansia
zontali di melma sulla carrozzeria dell’automobile, che segnano il progressivo recedere delle acque.
Per quanto le foto all’aperto ci mozzino il fiato per la testimonianza che offrono di una catastrofe che ha spazzato umili quartieri usi all’anonimato, sono gli interni desolati che attirano lo sguardo e
aumentano il ritmo della nostra ansia.
Un interno ingrandito, moderno nello stile, 1401 Pressburg Street, è vittima di
uno sconquasso senza rimedio per l’aspirazione delle sue pareti blu vivace,
dello squadrato sofà e del dipinto di paesaggio artico, della sua lampada di ottone da terra al soffitto, con i tre lampion-
Los Angeles ha la sua faglia,
New York il suo traffico
Qui era un vanto la precarietà
L’AUTORE
John Updike è nato
a Shillington, Pennsylvania,
ma vive nel Massachusetts
Ha esordito nel ’59 con Festa
all’ospizio. Tra i suoi successi:
Verso la fine del tempo,
Una storia in Danimarca
e Nella fattoria
Il suo ultimo romanzo, uscito
in questi giorni, è Terrorista
pubblicato in Italia,
come tutti gli altri, da Guanda
cini cilindrici avvolti nei colori primari dello spettro, e del testo incorniciato sulla destra con una piccola didascalia che dice «Rimani qui». Un altro
interno in mostra, 5000 Cartier Avenue, potrebbe essere stato una stanza
di servizio o un atelier, mattonelle al
suolo, un organo elettrico, un piano
sullo sfondo, una cyclette, un piccolo
tavolo di quercia, un motto incorniciato che dice «Tu sia benedetto». Si
vedono anche delle foto da cerimonia
di bambini di colore e in grande evidenza, come se appartenesse a un abitante della casa tornato ad abitarla, la
foto di una giovane donna di colore
che indossa una divisa militare ornata
di nastrini.
Per noi frequentatori di gallerie d’arte, non credo vi sia altra occasione di
entrare nelle case di afroamericani. Lo
fecero prima di noi le acque melmose,
invadendo le stanze, poi la polizia e i
soldati, alla ricerca di morti e di animali domestici sepolti nel fango, infine
Robert Polidori con la sua vorace macchina fotografica. E infine noi stessi, col
nostro affascinato sguardo da sociologici benpensanti.
After the Flood è un volume opulento, brillantemente a fuoco con le sue
riproduzioni in grande formato, rilegato in tessuto color lavanda, difficile
da manipolare se non su un tavolino
da salotto. Pesa circa quattro chili e
mezzo e costa 90 dollari. Una sorta di
paradosso consumistico aleggia sull’esistenza di un volume tanto caro
che vuol testimoniare la riduzione di
una zona urbana prevalentemente
povera — «l’ambiente urbano funky
che diede vita al jazz», recita una scritta su un muro — in uno stato di privazione assoluta e di ancor più grande
desolazione. A chi è diretto questo libro? Non alle vittime dell’inondazione, che non potrebbero certo permetterselo. E neppure, vien da pensare,
alla maggior parte dei raffinati conoscitori di fotografie d’autore, anche se
gli studi ravvicinati che Polidori offre
delle contorte trame di fango e pitture
d’interni non sono privi di una sorta di
bellezza astratta. Con alcuni momenti di umorismo pop che si esprimono
nell’ornato modesto e volgare di un
paio di scarpe o in pareti dipinte con
vernici scintillanti che le vittime si sono lasciate dietro col montare delle
acque, o in una sorta di installazione
di Art Brut in stanzette in penombra,
affollate di mobili a poco prezzo, pigiati come passeggeri in una nave che
affonda.
L’album non è tuttavia privo di destinatari. È per i nostri figli e i nostri nipoti — per la documentazione storica
— che Polidori ha lavorato per mesi e
mesi al fine di catturare su pellicola
(un’espressione che l’apparecchio digitale potrebbe presto rendere arcaica) le conseguenze di uno dei maggiori disastri occorsi sul suolo americano
in questo giovane secolo. Ecco che
aspetto aveva; ecco quel che non vogliamo accada più. Dal momento in
cui lo studio Brady si mise a fotografare i campi di battaglia della Guerra Civile americana, la guerra ha assunto
un volto nuovo, molto poco gradevole. La fotografia, diceva Susan Sontag,
è naturalmente portata a ritrarre le disgrazie e i disgraziati. In alcuni casi,
come a esempio le foto degli slums di
New York scattate da Jacob Riis, o di
sfruttamento del lavoro minorile
scattate da Lewis Hine, l’opinione
pubblica ha reagito, e si sono fatte delle riforme. La borghesia ha sempre bisogno di sentirsi a disagio. Se il disagio
che After the Flood ha suscitato contiene una percentuale aggiuntiva di
disagio generata dalla sontuosità del
volume e dall’aura di elegante indifferenza che aleggia sui fotografi e sulle
loro appropriazioni fotografiche, allora il valore documentario risulta
ben maggiore per coloro che consulteranno l’opera nel futuro, e per usarla in modi che non riusciamo neppure a immaginare.
Traduzione di Pietro Corsi
Per gentile concessione di “The New York
Review of Books-la Rivista dei Libri”
Repubblica Nazionale
DOMENICA 28 GENNAIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
SCARPE E CASSETTI 6539 Canal Street e 5417 Marigny Street
MUSICA E DIVANI 6042 Pratt Drive e 1908 Wickfield Drive
LETTI DISFATTI 6328 North Miro Street e 2520 Deslondes
AMBIENTI DISTRUTTI 6650 Memphis Street e 5603 Dauphine Street
Repubblica Nazionale
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 28 GENNAIO 2007
Alla fine di febbraio Ennio Morricone, il più celebre
compositore vivente di musica da film, riceverà
finalmente l’Academy Award alla carriera,
un riconoscimento che finora gli era stato negato. Alla vigilia
della partenza per l’America, ci ha aperto le porte della stanza
dove sono state ideate le più belle colonne sonore del Novecento
GINO CASTALDO
Q
ROMA
uando il Maestro Ennio Morricone apre le
porte del suo studio privato, si spalanca una
soglia magica su un gioioso caos di fogli di
musica, libri, dischi. Siamo perfettamente
consapevoli di essere entrati nel Sancta Sanctorum, nella stanza dove sono state immaginate le più belle musiche da cinema del Novecento. Forse il tema di C’era una
volta in America è stato scritto guardando da queste finestre che si affacciano sul Campidoglio. Forse il fischio
di Per un pugno di dollari è nato da uno sberleffo ascoltato nelle strade che brillano di vita, molti piani qui sotto,
nel centro di Roma. Lo “scion scion” di Giù la testa potrebbe essere il sussurro di un fantasma dei vecchi palazzi che sono qui intorno.
Lo studio è invaso: montagne di spartiti, un tavolo in-
gombro di oggetti. Una parte dell’armadio gronda premi, sono tanti, ammassati: diversi Golden Globe, un piccolo Grammy, i David di Donatello in bella fila, molte maschere teatrali con gli occhi vuoti e sono i Bafta, il più importante premio cinematografico inglese, poi un Leone
d’oro, altri più insoliti, un grande cono appuntito, sporgono dalle mensole, sembrano lì lì per cadere. Il Maestro
ne sposta un paio, «vede, sono talmente tanti che non so
più dove metterli», dice maneggiandoli con disinvoltura, come fossero inezie. Ma un po’ di spazio dovrà trovarlo per forza. Sta arrivando l’Oscar, il premio dei premi.
Un musicista del suo calibro è allo stesso tempo mago
e artigiano, un gran lavoratore, instancabile. Del resto
470 colonne sonore, per non parlare degli arrangiamenti di canzoni e delle composizioni pure, non si fanno senza un prodigioso attaccamento al lavoro. Anche ora, sul
tavolo c’è una partitura in lavorazione. Cos’è, Maestro,
un nuovo film? «No, è un pezzo di musica assoluta, un divertimento scherzoso intitolato Ricercare patriottico,
uso la melodia di Fratelli d’Italia, così, e poi così», dice
mostrando lo spartito, «in tutte le forme, quella originale, l’inverso, l’ottava… è diventato un pezzo astratto, ma
sotto c’è sempre l’originale, è insieme una rivalutazione
e uno sfottimento, ma ho l’impressione che cambierò titolo. Lo chiamerò Rebus italiano. Lo scrivo perché l’Istituzione universitaria dei concerti mi ha chiesto un concerto di musica assoluta, a maggio, con un pezzo inedito, per onorare il mio Oscar».
Notiamo un furtivo, sorridente lampo di compiacimento nei suoi occhi. Sulla questione dell’Oscar Morricone ha mantenuto sempre un ferreo understatement.
Diceva che non gliene importava nulla, che era in buona
compagnia, con altri prestigiosissimi esclusi. Vero, ma
alla fine sembrava un’ingiustizia troppo fragorosa. Lui
che ha creato il suono dei film di Leone, Bertolucci, Tornatore e tanti altri. E l’ingiustizia in qualche modo la sentiva anche lui. «Sì», ammette, «soprattutto per Mission, è
un film capolavoro, e fu maltrattato. Lo dissero i colleghi
seduti accanto a me, mi dicevano ci dispiace, mi facevano le condoglianze, poi ci furono i fischi in sala, l’ingiustizia era dovuta al fatto che la colonna sonora che ha vinto, quella di Herbie Hancock, non era di musiche originali, era sbagliato metterlo in quella categoria. Non c’era
paragone, non c’era la sostanza. Lo stesso Hancock andò
a scusarsi col produttore di Mission, Fernando Chia. Anche lui sapeva benissimo che era ingiusto. In altri casi,
che dire?, The untouchablessi è trovato a combattere con
i nove Oscar dell’Ultimo Imperatoredi Bertolucci, quando va così un film se li becca tutti».
Due casi, tra tanti, ma c’è un caso ancora più inspiegabile: C’era una volta in America, una musica di incomparabile bellezza, sicuramente tra le pagine più importanti del secolo scorso. Come è possibile che non abbia vinto un Oscar? «Glielo spiego subito», ribatte il Maestro, «gli
americani lo ritenevano troppo lungo, lo rimontarono in
ordine cronologico, accorciandolo e rovinandolo del
tutto. Faceva schifo e quindi non lo presentarono nemmeno. Hanno fatto una brutta figura e hanno dovuto ripristinare l’originale. A quel punto, l’anno dopo, non si
poteva più». E i primi film di Leone, i western? «Anche
quelli non furono mai presentati».
Il maestro lavora direttamente sulle partiture, per scrivere non usa il pianoforte, le musiche prendono forma
nella sua testa e le mette giù pazientemente, scrivendo
con matite di diversi colori («per non confondere i diversi livelli», dice). In fondo l’aspetto più sorprendente della personalità di Morricone è la sua passione, ancora intatta, ancora vigile dopo tanti riconoscimenti, mista a un
acuto senso della razionalità. Quando parla delle sue
musiche lo sguardo diventa febbrile. È ancora alla ricerca dell’inesprimibile. Vive la sua ricerca come un’evoluzione continua. «Ne sto prendendo coscienza soprattutto adesso», racconta. «Proprio nell’ultimo film, La Sconosciuta di Giuseppe Tornatore, c’è stato uno scatto in
avanti. C’erano tante strade da percorrere, la storia svicola spesso e poi porta a una foce importante che è la
chiusura del film, quindi ci chiedevamo che strada percorrere e da questa indecisione ho pensato che tutto
FOTO MARIA LAURA ANTONELLI/AGF
Nella bottega dell’Oscar
quello che avevo fatto prima poteva prendere una forma
più conclusiva, almeno per adesso».
All’età di 78 anni Morricone è lontanissimo dalla pensione, cerca ancora di affinare la sua arte di compositore.
E confessa i segreti del mestiere. «Parlavo con mia moglie
di un vecchio arrangiamento che senza volerlo ho rifatto
nel film di Simona Izzo, Tutte le donne della mia vita, ma
era già germinato in un film del 1979 di Aldo Lado, L’Umanoide, una buona risposta ai film di fantascienza americani. Il pezzo iniziava con poche note che a poco a poco si coagulavano, si accumulavano con altre fino a che il
tema scoppiava finalmente a piena orchestra con l’Inno
alla gioia. Nella Sconosciuta questo coagularsi, che c’era
in piccola parte in alcune cose televisive, tipo La Piovra,
è diventato un lavoro in tre fasi: la prima serie di registrazioni è stata quella tematica, diciamo i temi che alla gente rimangono in mente; la terza serie, quella più classica
di accompagnamento al film; poi la seconda sezione, la
dico per ultima perché è la più interessante, era di pezzi
astratti, con la possibilità che fossero ognuno un pezzo a
se stante ma allo stesso tempo fossero sovrapponibili l’uno all’altro; e alla fine la novità si è sentita, molti l’hanno
trovata una colonna sonora incredibile».
A volte i segreti possono sembrare prosaici, se si pensa
all’aspetto sublime e misterioso dell’ispirazione pura.
Ma considerando i processi industriali che coinvolgono
un film, non si possono ignorare. E Morricone ne è perfettamente consapevole. Anzi, il suo è un genio squisitamente pragmatico. «Non nascondo che certi processi
nascono anche come esigenza di risparmio. Perché la
musica costa sempre molto. Queste sono confessioni
gravissime, pesanti, ma mi piace parlare sinceramente.
Avevo escogitato un sistema: magari un film aveva bisogno di cinquanta pezzi, e questo significa tenere l’orchestra in studio per almeno dieci turni, con costi altissimi,
allora facevo un pezzo solo in varie sovrapposizioni, pri-
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
FOTO FABIO LOVINO / CONTRASTO
DOMENICA 28 GENNAIO 2007
PELLICOLE E PENTAGRAMMI
Accanto, un primo piano di Ennio
Morricone. Nella foto centrale il Maestro
nel suo studio. Nell’altra pagina in alto:
le prime note della colonna sonora
di Mission e alcune locandine dei film
di cui ha firmato la colonna sonora
In basso, lo scaffale con i premi
del compositore e la sua mano
mentre scrive uno spartito
QUANDO FIRMÒ
INSIEME A PASOLINI
In un caso Morricone
ha messo la sua firma
accanto a uno dei grandi
registi con cui ha lavorato
Un caso decisamente
singolare. Al momento
di completare Uccellacci
e Uccellini a Pier Paolo
Pasolini venne in mente
di far cantare i titoli
di testa a Domenico
Modugno, perfettamente
a suo agio nel ruolo
di cantastorie
Il testo è elementare
ma Morricone dovette
inventare
una composizione
a filastrocca per sostenere
l’insolito canto
È un esperimento
di cui va particolarmente
fiero e ci tiene a ribadirlo
visto che spesso
la musica viene
erroneamente attribuita
a Modugno, il quale
di solito cantava musiche
che lui stesso scriveva
Ma non in quel caso
ma gli archi, poi altri strumenti, poi quelli solisti, altri
strumenti ancora, avendo le 24 piste poi le 48, così io avevo la combinazione di una versione, l’altra versione, poi
queste versioni potevano essere messe insieme, da un
pezzo solo ne venivano fuori dieci o dodici, un gioco
combinatorio. Però bisogna saperlo scrivere. Questo ha
portato a risparmiare dei soldi senza rinunciare a nulla».
Come i figli, tutti i film sono eguali, ma qualcuno lo è
più degli altri. Quando si parla di Mission, il film di Roland
Joffè del 1986, Morricone mostra una speciale predilezione. «Non ho avuto sempre la coscienza di quello che
facevo, ma in quel momento sì, sapevo che stavo facendo qualcosa di diverso. In Mission successe questo: è un
film che si svolge nel 1750 con i gesuiti che vanno in Sudamerica, fondano la missione e siccome uno suona l’oboe si porta appresso il progresso della musica strumentale del Rinascimento; poi la musica liturgica, quella
uscita dal Concilio di Trento alla fine del Quattrocento; e
per forza di cose c’era la musica etnica. Quale fu l’idea?
Ho già detto che cerco di sovrapporre temi, qui ho sovrapposto tre idee, la musica del Rinascimento, la musica liturgica, nel senso del mottetto reso forte storicamente da Palestrina, e la musica etnica. Queste tre idee
sono presentate da sole, e nel finalissimo tutte e tre insieme, fu uno sforzo tecnico notevole, ma mi ha dato anche una soddisfazione morale e spirituale. Uno può essere credente o non credente, ma queste tre componenti mi davano l’impressione della realizzazione musicale
e del sacrificio dei gesuiti, nella comunione che avevano
con gli indios fino a morire insieme a loro, il prete Gabriel
che muore con l’ostia in mano. Le tre parti arrivano insieme quando la ragazzina dopo la strage sta sul fiume e
vede galleggiare il candelabro rotto e il violino, prende il
violino e parte la musica, è un momento bellissimo, ma
in queste tre cose vedevo la trinità di Dio, questo mi ha dato una grande soddisfazione morale e tecnica. La gente
non lo sa, ma non importa».
Ma alla gente in realtà qualcosa arriva, magari non il
codice che l’ha generato, ma di sicuro l’effetto finale della musica è prodigioso, smuove i cuori, partecipa in modo fondamentale alla riuscita del film. Ma come si fa a essere sicuri dell’efficacia di un tema? «Qualche volta io
scarterei dei pezzi che piacciono al regista o a mia moglie,
ma in genere sbaglio io. Delle orchestrazioni mi rendo
conto, ma sui temi non so giudicare, è molto difficile immaginare se nel tempo rimarranno. Faccio un esempio:
quando è venuto qui Adrian Lyne per il tema di Lolita, ha
sentito questi temi e ha detto “bellissimi ma non sono immortali”. Io gli ho risposto “per essere immortali bisogna
aspettare un po’ di anni”. Poi ne ha sentiti altri e ha detto
“questi sì sono immortali”. “Ma immortali di che?”, dico
io, “nessuno può saperlo al momento”».
Il rapporto coi registi è l’impalcatura di questa miracolosa carriera. Anche qui si capisce che ci sono stati registi
più vicini e altri più lontani. Di alcuni parla con amicizia
e stima incondizionata (Pontecorvo, Petri, Pasolini, l’unico con cui ha firmato dei pezzi, Leone, Tornatore); ad
altri non lesina puntute osservazioni («Fellini voleva
sempre la stessa canzone, ovvero Io cerco la Titina, la sua
cultura musicale non andava oltre»); con altri ancora ha
lasciato perdere per questioni di metodo («con Faenza
siamo amici ma non può dirmi “e se poi in montaggio le
musiche non mi piacciono?”. E lo stesso coi Taviani,
grandi registi, ma loro di solito scrivono utilizzando musica classica e poi vorrebbero che io rifacessi quello che
hanno già scelto»).
Ma si è fortificato, anche umanamente, nel confronto
con questi grandi artisti, accettando di buon grado alcune necessità primarie, la melodia innanzitutto: «La melodia è sempre decisiva perché al regista non gli puoi far
sentire l’orchestrazione, e io ne presento sempre tante,
per fargliene scegliere due o tre. Ma dobbiamo sapere per
coscienza che è consumatissima. Qualcuno contesta
questa idea, ma io ne sono certo, è come dico io, per essere orecchiabile la melodia deve giocare su pochissimi
suoni, tre, massimo quattro. Ma da questa deduzione di
materiale doveva nascere qualcosa di diverso. Esempio:
Metti una sera a cena, siamo sempre lì, certo sotto cambiano le armonie, ma la melodia è semplicissima, e per fare qualcosa di originale ho cominciato a giocare sugli intervalli tra le note. Ognuno degli intervalli ha una caratteristica diversa, lo sanno bene i cultori: la terza minore ha
una caratteristica di tristezza; la terza maggiore è più
splendida, dà un certo ottimismo; la sesta dà ampiezza.
Allora ho detto: adesso faccio un tema sulla sesta, ed è C’era una volta il West. Per Metti una sera a cena ho lavorato
su un intervallo di settima, ed è venuto fuori un tema interessante, importante, la gente non sa niente di queste
cose, spesso neanche i registi, per esempio Peppino Patroni Griffi di queste cose non ne sapeva niente, ma io ne
ho bisogno perché non credevo più alla melodia. Non dico che non si può fare una melodia, ma bisogna trovare
delle strade».
Clint Eastwood ha detto che nei film western di Leone
il merito era al 75 per cento della musica, affermazione un
po’ forte, di sicuro esagerata, ma che svela un elemento
importante. Quando l’abbinamento tra immagini e musica riesce, si crea un’unità inscindibile, nessuno può più
immaginare quella scena senza la musica, sembra un incontro inevitabile, naturale. E invece è frutto di un evoluto pensiero musicale. Morricone ha sempre coltivato
ambizioni altissime, e forse proprio grazie a questa spinta ha portato la musica da cinema così in alto. «Ho studiato con la speranza di scrivere musica assoluta. Il mio
primo concerto per orchestra è stato eseguito a Venezia
nel 1957, esattamente cinquant’anni fa, ci ho lavorato nove mesi e ho preso sessantamila lire di allora come diritto
d’autore, non ci potevo vivere. Allora ho accettato le offerte di fare l’arrangiatore, e questo mi ha portato un bene di esperienza, lì ho cominciato a fare esperimenti.
Quando ho fatto il primo film, nel 1961, ero già scafato, come si dice a Roma, già facevo gli arrangiamenti mentre
studiavo con Petrassi. Cercavo sempre la dignità compositiva, non che mi faccia schifo il cinema, anzi sono contento, non solo perché ho guadagnato molto, ma passare al cinema con questo ideale mi portava a non essere
passivo di fronte a questo condizionamento».
È la chiave della sua storia? «Senza dubbio. Non potrei
mai fare questa professione se non tentando di contrabbandare le mie idee, facendole passare in maniera clandestina, anche al regista. Ormai con Tornatore posso, gli
racconto tutto, è talmente un amico, ma normalmente
queste cose non si raccontano, è come se gli facessi vedere le mutande, sono cose intime. Non è una strategia verbale, è sui fatti: al regista che sta con le orecchie attente, il
cervello vivo, bisogna dargli le suggestioni che servono al
film e poi dentro quelle suggestioni uno gratta. Tutte queste cose, è una confessione che le faccio, sono il riscatto
della mia professione di fronte al condizionamento».
Tra i mucchi di libri e riviste spicca una pila di cartelline con altri fogli di musica. Cosa sono? «Sono i temi scartati. Leone ad esempio voleva sentire sempre quelli scartati da altri registi, per dire: guardate, quello non capisce
niente, lui. Ci sono stati altri registi che hanno scartato
buoni pezzi e ne hanno scelto di inferiori. Allora, quando
ho preso coscienza di questo, ho deciso di fare ascoltare
questi pezzi a mia moglie, sa benissimo quello che serve
al cinema, è un’amante del cinema più di me, e allora li
faccio ascoltare a lei, per evitare che i registi scelgano le
cose peggiori la prima selezione la faccio con lei, è il mio
primo ascoltatore, e infatti dedicherò a lei l’Oscar».
Ha una idea di quello che dirà? «Vorrei citare gli altri che
non l’hanno preso, alcuni vivi, altri no, sempre che mi diano il tempo: consideriamo che dovrò avere un interprete
perché non riesco a spiegarmi bene in inglese, quindi il
tempo è doppio, ma mi piacerebbe dire che arriverò a
prendere l’Oscar alla carriera quando ancora sono in piena attività, altri erano in condizioni peggiori... Antonioni
non ce la faceva già quasi più, Fellini lo prese quando aveva già fatto il meglio, la Loren era bella matura. Io sono ancora in piena attività. Dovrei dire questo, ma forse non lo
dirò».
Per terra, vicino al tavolo ci sono due borse piene di materiali. Sono già pronte per la partenza per l’America. Prima ancora dell’Oscar ci sono i concerti a New York, all’Onu e al Radio City Music Hall. È la prima volta che il Maestro dirige nel nuovo mondo, come in una favola, per una
volta in America.
Repubblica Nazionale
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 28 GENNAIO 2007
i sapori
Si andava nella selva di grattacieli di Manhattan per mille
ragioni tranne che per il cibo: accozzaglie di piatti etnici, pochi
e carissimi chef francesi in trasferta. Ma negli ultimi cinque anni
molto è cambiato. Piccoli cuochi made in Usa crescono,
studiano, girano il mondo e poi sperimentano con successo
una cucina “contaminata” eppure originale
America in tavola
Asiatico-Cinese
Tradizione gastronomica
declinata in migliaia di locali,
molti dei quali
a Soho, in un mix inestricabile
di indirizzi raffinati
e popolari. Economico
e buonissimo, Nyonya offre piatti
“contaminati” con la cucina
della Malesia
NYONYA CUISINE PENANG
194 Grand Street
Soho
Tel. (001) 212.3343669
Sempre aperto, menù da 20 euro
Nouvelle Vague
Malgrado l’ispirazione alla cucina
francese, sta nascendo
una cucina metropolitana originale,
realizzata con ottime materie prime,
cotture pulite, poche salse
Craft è uno dei ristoranti-simbolo
della nouvelle vague newyorkese
CRAFT
43 East 19th Street
Union Square
Tel. (001) 212.7800880
Aperto tutte le sere,
menù da 50 euro
NY
fusion
Italo-americano
Giovani cuochi americani
vengono in Italia a imparare,
portandosi a casa tecnica, ricette
e indirizzi di produttori. È il caso
di Scott Conant, che ha aperto
L’Impero e Alto dopo una lunga
pratica al glorioso San Domenico
di Tony May
L’IMPERO
45 Tudor City Place
Midtown East
Tel. (001) 212.5995045
Chiuso domenica, menù da 50 euro
Grande Mela, tutta da mangiare
Will Goldfarb,
talentuoso pasticcere
con moglie emiliana,
ha lanciato la moda
dei dessert-restaurant
Nel suo “Room
4 Dessert”
- Cleveland Place,
Nolita propone originali
degustazioni
accompagnate
da selezioni di vini,
tè e tisane in tema
LICIA GRANELLO
M
NEW YORK
ai visto Criminali da strapazzo di Woody Allen? Riparate alla mancanza. Ray Blinker
(Allen), lavapiatti squattrinato, decide di tentare il colpo della vita: svuotare il caveau
di una banca. Affitta una biscotteria (cookie shop) nel cuore di Manhattan, con la moglie Francis dietro al banco. Mentre lei impasta, lui e soci scavano una galleria. Naturalmente il piano fallisce, ma il negozio diventa famosissimo rendendo i Blinkers milionari.
La versione newyorkese de I soliti ignoti è il film perfetto per entrare nella Grande Mela dalla porta
della cucina. Come se si andasse a New York per mangiare… Verissimo. Ma se fino a qualche anno fa
il melting pot produceva grandi accozzaglie di cibo mediocre — a meno di accendere mutui per una
super-cena dai grandi chef francesi in trasferta — oggi mangiare qui è diventato un piacere nuovo,
una sorta di allegra caccia al tesoro gastronomica tra locali e negozi. Tutto è cambiato nelle migliaia
di cucine all’ombra dei grattacieli. Perfino il primato della cucina etnica è sotto scacco. Piccoli cuochi
americani crescono, studiano, girano, tornano, provano. E spesso hanno successo.
Se si può trovare una microconsolazione nella tragedia delle Torri Gemelle, è che negli ultimi cinque anni la città si è come ricompattata, declinando le nuove priorità di spazi, tempi e sentimenti. La
cucina, come luogo d’incontro di anime e non solo di business, se n’è giovata moltissimo. La città che
corre ha imparato a fermarsi davanti a un buon piatto, spesso elaborato da chef made in Usa. Nel cuore di Soho, lo storico, glorioso French Culinary Institute, si è trasformato da poche settimane in International Culinary Institute. Il toscano Cesare Casella, ex chef patron dello stellato Le Vipore in Lucchesìa, oggi dirigente della scuola e proprietario del ristorante Maremma, ha ribaltato immagine e sostanza del Fci: via libera agli stage da una parte all’altra del mondo, con Italia e Francia prime scelte, varo di
corsi di cucina monogeografici — quello italiano, comprensivo di lezioni di lingua, è il più ambito — e
soprattutto un inesausto tourbillon di visiting professor. I migliori cuochi del mondo — dall’iper-sperimentale Ferran Adrià al tradizionalissimo Joel Robuchon — si alternano in giornate monografiche, dove più della ricetta conta l’approccio e prima della tecnica viene inculcato l’amore per le materie prime.
Il new american food cresce giorno dopo giorno tra la scoperta dei fagioli zolfini e l’abbinamento
con i fioriti pepi indiani. Perché se è vero che nel quadrato del Greenwich Village si contano locali di
venti nazionalità diverse, le contaminazioni tra cucina e cucina sono sempre più attente, mirate, di
qualità. Massimo della fusion-non fusion, il ristorante delle Nazioni Unite, aperto a tutti i visitatori
(ma lo sanno in pochissimi, basta prenotarsi e presentarsi muniti di passaporto, giacca e niente jeans),
dove a seconda delle delegazioni presenti, vengono allestiti menù di questo o quel Paese, serviti da
camerieri poliglotti.
In scia ai ristoranti, per obbligo di approvvigionamento, è aumentata in maniera esponenziale la
qualità degli ingredienti sul mercato. L’intera Manhattan ormai è punteggiata di strepitosi spazi gastronomici, divisi tra il concetto di “supermercato di supernicchia” e il mercato coperto con banchi e
negozi interni che sembrano boutique. Una sorta di miscellanea golosa del milanese Peck e il nuovissimo Eataly inaugurato venerdì a Torino. Tale e tanta l’offerta, che i turisti cominciano a godersi
l’alternativa dell’appartamento — Internet pullula di siti — da affittare al posto della camera d’albergo. Cresce il piacere di andare a fare la spesa e regalarsi una colazione con le migliori materie prime in
arrivo da tutto il mondo, o preparare una cenetta casalinga dopo un’intera giornata tra musei e vetrine. Gli allergici ai fornelli possono fruire di un’infinita rete di catering, dal sushi alle rib-eye-steack.
Pancia piena e palato allegro, ci sarà più facile essere d’accordo con Woody Allen (in concerto nel
dopo-cena del lunedì al Cafè Carlyle): «L’ho amata appena l’ho vista, all’uscita della metropolitana di
Times Square». Oggetto del desiderio, non una donna, ma la sua città.
I DISEGNI DI JULIA
I disegni che illustrano
le pagine sono di Julia Binfield
L’autrice, laureata in graphic
design alla St. Martin’s
School of Art di Londra,
ha lavorato
con Alan Fletcher
e collaborato a numerosi
progetti e libri come illustratrice
Ha ottenuto riconoscimenti
dal British Design and Art
Direction, dall’European
Illustration, dall’Art Directors
Club Italiano e dall’Associazione
illustratori italiani
Repubblica Nazionale
FOTO ILAN RUBIN
il testimonial
DOMENICA 28 GENNAIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
Dove dormire
AKWAABA MANSION
BED & BREAKFAST
HOTEL 57
ON THE AVE
BLUE MOON HOTEL
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(Lower East Side)
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Camera doppia da 155 euro
senza colazione
MARCEL DESIGNER HOTEL
ABINGDON GUEST HOUSE
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201 East 24th Street
(Gramercy Park)
Tel. (001) 212.6963800
Camera doppia da 105 euro
senza colazione
21 Eighth Avenue
(Greenwich Village)
Tel. (001) 212.2435384
Camera doppia da 140 euro
senza colazione
318 West 51st Street
(Theatre District)
Tel. (001) 212.2467550
Camera doppia da 120 euro
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Tel. (001) 212.6538320
Metà mercato e metà gastroboutique, con degustazione
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dalle aragoste ai fiori
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La fabbrica del cioccolato
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Sperimentale
La mancanza di una tradizione forte
e coesa rallenta la sperimentazione
gastronomica. Fanno eccezione
Dan Barber del Blue Hill
e Wylie Dufresne (WD-50),
con la loro cucina immaginifica,
ricca di piatti insoliti, colti, futuribili
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BED & BREAKFAST
WD-50
50 Clinton Street
Lower East Side
Tel. (001) 212.4772900
Aperto tutte le sere,
menù degustazione a 85 euro
Dove comprare
Nippo-tropicale
Nella città del melting pot, la parola
“fusion” è pratica quotidiana
Diversa, la miscellanea mirata
e creativa di due scuole distanti
Sushi Samba – due locali in città –
unisce Giappone e cucina tropicale
Con risultati deliziosi
I ristoranti-teatro
di Gay Talese
ANTONIO MONDA
F
NEW YORK
in dai tempi in cui era uno dei reporter più prestigiosi del New York Times, e soprattutto in seguito, quando insieme a Tom Wolfe divenne un protagonista del
87 7th Avenue South
“new journalism”, Gay Talese è stato un frequentatore
Greenwich Village
abituale dei migliori ristoranti newyorkesi, che ha celeTel. (001) 212.6917885
brato in numerosi articoli e saggi, analizzandone il valoSempre aperto, menù da 20 euro
re sociale e culturale. «Un pranzo o una cena in alcuni ristoranti di New York ha un valore significativamente diverso da quello che può avere lo stesso pasto in un altro
luogo», spiega nel suo brownstone nel cuore dell’ Upper
East Side. «E ovviamente non mi sto riferendo solo al cibo: ancora oggi, New York è la più internazionale tra le grandi metropoli. In un locale di
Manhattan, ma lo stesso si può dire per molIl termine è improprio,
ti locali di Brooklyn e degli altri sobborghi, gli
perché a New York tutto si evolve
avventori si trovano seduti vicino a gente che
continuamente. Ma la tradizione
non parla inglese, e con persone di razze, culdelle bistecche – le mitiche
ture e religioni diverse. Si ha immediatamenPorterhouse – è reale, tanto
te la percezione di essere in un luogo dove la
che i soliti noti – Gallagher, Sparks,
cultura passa e viene creata».
Peter Luger – sono sempre affollati
Quali sono i locali che hanno segnato
maggiormente la vita culturale di New York?
PETER LUGER
LO
SCRITTORE
«I primi nomi che vengono in mente sono
178 Broadway
Gay Talese
Le Cirque, Daniel, e ovviamente Elaine’s, ma
Brooklyn
protagonista del
io non trascurerei una trattoria come Gino,
Tel. (001) 718.3877400
“new journalism”
uno di quei posti dove conosci per nome i caSempre aperto,
merieri, il proprietario e lo chef».
menù da 35 euro
Lei ha sempre attribuito molta importanza al ruolo
dei camerieri.
«Perché, in particolare a New York, hanno una natura
girovaga, ma sono nello stesso tempo al tuo servizio. Il
cameriere ti ascolta, ti osserva, ti conosce ma raramente
ha il tuo stesso background. Partecipa alla tua cena in forma vicaria, finendo per esserne un partner spirituale. È
un consulente sia per il cliente che per il proprietario, che
a sua volta, per il suo obbligo di essere deferente appartiene inevitabilmente alla categoria della servitù».
Elaine’s, celebrato anche in Manhattan, ha riunito
sin dalla sua apertura i migliori giornalisti americani, e
con l’andare del tempo anche artisti come Robert Altman e Woody Allen.
«Il successo in quel caso è stato costruito dalla proprietaria Elaine, che siede sempre al tavolo numero uno,
ti accoglie, e spesso decide con chi dovrai sederti. E organizza combinazioni molto stimolanti».
Ma il cibo non è esattamente indimenticabile.
«Nei ristoranti newyorkesi il cibo è solo un elemento, e
non il più importante. La cosa più importante è quanta
gente c’è e quanto è invitante. Poi, mentre entri in un luogo pieno di sconosciuti, è importante che tu sia conosciuto o almeno accolto dal proprietario. In quel momento sai che non sei più uno straniero, che non esisti solo sul tuo luogo di lavoro. A New York ci sono 1800 ristoranti con tavoli apparecchiati e sono il luogo dove si rifuModaiola e salutista, la cucina
Se la guida Michelin è sbarcata
giano coloro che non hanno piani per la notte. Rappredel Sol Levante ha conquistato
in città premiando ben quattro locali
sentano un modo per vincere la solitudine, per stabilire
la città anche grazie al sontuoso
francesi comme il faut nella Top
un rapporto con qualcuno o qualcosa».
mercato del pesce. Da Sumile,
Seven, nei nuovi ristoranti la cucina
Nella guida Zagat, dove sono classificati i migliori riche ha un suo doppio a Tokyo, sushi
dei sauciers si lega alle influenze
storanti, c’è una categoria denominata “peoplewate sashimi sono le basi di una
orientali (Vong) o latinoamericane
ching”.
elaborazione gastronomica originale
come nel piccolo Tocqueville
«Viviamo in un mondo ossessionato dalla celebrità.
Ma c’è da osservare che il ristorante rappresenta un’inSUMILE
TOCQUEVILLE
troduzione al teatro: uno spettacolo costruito con entra154 West 13 Street
15 East 15th Street
te e uscite, in cui puoi ascoltare i dialoghi e vedere una
West Village
Flatiron District
bella donna».
Tel. (001) 212.9897699
Tel. (001) 212.6471515
C’è chi dice che a New York si trova ogni cucina del
Chiuso domenica e lunedì in estate,
Chiuso domenica a pranzo,
mondo, ma nessuna di queste è al livello del luogo orimenu da 50 euro
menù da 25 euro
ginario.
«A New York puoi mangiare in maniera eccellente ma devi essere pronto a pagare molto. Quello che dice ha un elemento di verità rispetto a alcuni tipi di cibo fresco. A Pechino ho provato dei broccoli con un sapore assolutamente
straordinario. Da quando sono tornato tento di ordinarli nei
migliori “cinesi” di New York, ma non è la stessa cosa».
Nel suo ultimo libro, A Writer’s life, lei ha dedicato un
capitolo a un locale che ha definito il «Willy Loman dei
ristoranti» (Loman è il protagonista di Morte di un commesso viaggiatore, ndr).
Il simbolo culinario della nostra emigrazione
«È un locale in un posto prestigioso dell’Upper East Siè assurto a piatto-culto. Due le scuole: locali
de dove si sono succeduti ben dodici diversi ristoranti
di vecchia generazione, come Lombardi
che sono falliti regolarmente dopo pochi mesi. Adesso
e Grimaldi’s e nuovi pizzaioli italiani come
c’è un ristorante giapponese kosher e dubito che avrà
il napoletano Miche-Luzzo, che fa una pizza
una sorte migliore. Eppure Gino, di cui ho parlato prima,
strepitosa
è solo a due isolati. Penso che il motivo sia nell’impersonalità del locale: non ti ci senti a casa, non c’è un proLUZZO’S
prietario carismatico o il cameriere che potrebbe essere
211-213 First Ave between
tuo zio. È una specie di maledizione, ma nel paese delle
12th -13th Streets
opportunità prima o poi anche in quel posto aprirà un riEast Village
storante che avrà successo: la grandezza di New York è
Tel (001) 212.4737447
nella capacità di non perdere mai la speranza e di scomChiuso lunedì, pizza da 12 euro
mettere sempre».
7 SUSHI SAMBA
Tradizionale Usa
Sol Levante
Franco-orientale
Pizzerie cult
Repubblica Nazionale
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
le tendenze
Accessori culto
DOMENICA 28 GENNAIO 2007
In nappa, cuoio o pitone, con inserti colorati e borchie o magari in vernice:
trionfano la supersacche da donna, meglio se griffate. La parola d’ordine
per tutte adesso è esagerare, nel volume, nel contenuto e nella voglia
di esibirle di giorno e di sera. Ma non chiamatele shopping bags
perché stavolta sembrano quasi gioielli...
DED
OmaICATA
Gau ggio allAL GAU
dise cho di C ’ArgentCHO
Que gnata d hristian ina per
(la p sta vers a John G Dior, la borsa
elle
dellaione in m alliano
razz
e
a) co tallo e g
sta 1
a
.000 luscia
euro
maxi
borse
Uscire con la casa addosso
LAURA ASNAGHI
e chiamanojumbo bag perché sono giganti, extra large. Grandi quasi quanto quelle
che si usano da Ikea per fare shopping. Per
chi non è abituato a seguire i nuovi trend
della moda, quello delle borse king size può
sembrare una assurdità. Perché mettersi
in spalla borse sproporzionate, pesanti come zaini? I fisioterapisti le sconsigliano, i personal trainer pure perché, se caricate male, sbilanciano la schiena.
Ma la moda è la moda e chi si appassiona ai nuovi
trend ne paga volentieri lo scotto. Le borse diventano
giganti e il fenomeno è praticamente dilagante.
Non c’è marchio che non abbia un modello dalle proporzioni esasperate. Da
Chanel, il più gettonato è in vernice
nera, con catenelle oro; da Yves
Saint Laurent l’oggetto del desiderio extra large si chiama Muse;
Burberry ha la sua Manor in pelle trapuntata; mentre da Moschino la borsa con taglia lievitata si
chiama Muffin. Ogni stilista insomma — da Armani a Prada, da Versace ai
Dolce e Gabbana, da Fendi a Versace, da
Ferrè a Krizia, da Louis Vuitton a Hogan —
ha la sua proposta contenitore dove ci può
stare davvero di tutto. «Se le borse sono così
grandi una ragione c’è — spiegano i Dolce e Gabbana — oggi le donne lavorano, sono madri,
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roba di ogni donna dovrebbero esserci borse piccole, medie e grandi, che si adattano ai vari momenti della giornata —
spiega Ferrè —. Un tempo le borse grandi
erano solo quelle del week-end, adesso si usano quotidianamente in città. Ma la sera non è fatta per i
grandi sacchi da portare in spalla». Come dire: se si esce
e si va al ristorante o a una festa, meglio “parcheggiare”
il sacco in guardaroba, estrarre una piccola pochette e
con quella affrontare più agilmente la serata.
Ma se le borse lievitano lo fanno anche i prezzi. E nonostante le “quotazioni” oscillino mediamente tra i 700
e i 2.500 euro, gli acquisti vanno a gonfie vele. Da Bottega Veneta, per avere il modello Cabat, una shopping
bag in pelle intrecciata a mano che sfiora i 4.500 euro,
occorre mettersi in lista d’attesa. Da Prada le proposte
in pelle arricciata o con frange vanno fortissimo e furoreggiano anche sulle bancarelle del falso, insieme alle
borse Louis Vuitton. Nella (ipotetica) classifica delle
borse più desiderate a farla da padrona è la Gaucho di
Dior, mentre da Balenciaga continua aver avere grande fortuna la Bycker bag.
L’elefantiasi ha contagiato anche Malo, Costume national, Furla, Etro, Kristina Ti e tra le antesignane di
questo fenomeno c’è la Spy di Fendi, adesso anche in
versione Moncler con il nylon imbottito. Tra le new entry, subito convertite al king size, c’è pure il marchio
Mcm, con la sua borsona in vernice rossa. Ma quanto
durerà questa moda? «Indietro non si torna — dice lo
stilista Gaetano Navarra — la superborsa non è uno sfizio ma una necessità».
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modo per nascondersi, o forse per punirsi
e insieme esaltarsi, o per fare una strana
ginnastica, o per imitare le star. Non è facilissimo capire il perché del fenomeno, scoprire come
mai le borse giganti abbiano tanto successo, e
continuino a lievitare.
Le borse esagerate, mai di moda come quest’anno, sono un simbolo di privilegio. Non soltanto per il loro costo — gli accessori sono diventati i nuovi gioielli e rappresentano l’undici per
cento del mercato del lusso mondiale — ma per il
tipo di donne che le usano. Per intendersi: in principio dive & principesse. La prima borsa grande
della storia moderna e cioè la Kelly — oggi ulteriormente ingigantita — fu studiata da Hermès
per la principessa di Monaco che desiderava occultare ai paparazzi i primi segni della sua maternità. Quanto alla Birkin, fu ideata, disegnata
e realizzata ad personam per la nota attrice che
si era lamentata con il presidente della medesima selleria di non riuscire a trovare una borsa abbastanza capiente per contenere tutto
ciò che le serviva.
Ma sono borse o sono sporte? Studiate per
donne eccezionali, le borse oversize comprensibilmente non donano a tutte. Se l’eleganza è una questione di proporzioni, la
signora alta un metro e cinquanta sarà resa
più goffa da una shopping gigante, e sicuramente una donna in sovrappeso risulterà ancora più minacciosa se armata di
una borsa kolossal. In pugno a Naomi
Watts invece, ma anche a Gwineth Paltrow, a
Naomi Campbell e alla non simpatica Paris Hilton,
la big bag appare un accessorio irrinunciabile.
La borsa king size è tendenzialmente un oggetto prezioso, quasi un investimento: dunque è in
pellame pregiato; il pellame pregiato è morbido
per definizione; parliamo di borse immense che,
se non riempite a dovere, rimangono flosce. Sono
molto più belle piene: ecco così innestarsi il meccanismo perverso secondo cui più le riempi, più
roba ci metteresti dentro. Chi più ne ha più ne metta, insomma. Risultato: una zavorra di cinque chili in media da trascinarsi non sempre sul red carpet, come fanno Madonna, Sharon Stone e Kate
Moss, ma anche su e giù per le scale della metropolitana, al supermercato, in fila alla posta. Tendiniti, mal di schiena, articolazioni infiammate, polsi gonfi, dolori lombari e cervicali sono segnalati in
aumento. Se poi la borsa jumbo è abbinata al
tacco a spillo, la visita dall’osteopata può
rendersi indispensabile.
Le megaborse sono un fenomeno
speculare — e forse anche una reazione — alle borse miniaturizzate,
quasi dei ninnoli, dei gingilli: così
piccine da contenere a stento una
banconota, un rossetto, una
chiave, forse neppure un microcellulare. C’è chi si adegua alla
doppia moda con doppia borsa:
o col sistema delle scatole cinesi
— la borsa piccola inabissata
dentro a quella grande — oppure,
se entrambe le borse sono di
dimensioni ragguardevoli, con il sistema una
per braccio: più bilanciate, ma che fatica.
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una dall’altra: per le fashion victims sarebbe imperdonabile.
Che al gigantismo corrisponda una certa razionalità. Una caratteristica indispensabile alle borse XXL è che siano organizzate al loro interno, con
scomparti attrezzati e tasche ben definite, cellulari, agenda, portafoglio, chiavi. «Ogni cosa al suo
posto, per evitare di pescare annaspando senza
trovare mai niente», afferma Silvia Venturini Fendi, che dopo avere ideato la piccola Baguette ha
sfornato l’imponente Spy. E un altro requisito indispensabile, mette in guardia la stilista, è la morbidezza, la consistenza: «Terribili le borse grandi
con gli angoli che quasi ti feriscono. La maxiborsa
deve essere tondeggiante, accogliente, deve sembrare quasi un cuscino, il nostro ultimo modello è
addirittura imbottito con piume d’oca. Oltre a essere comoda ti deve proprio offrire conforto. Sì,
deve essere come un cuscino, sul quale ti puoi
sdraiare e appoggiare, prima di svenire non appena hai saputo il prezzo».
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50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 28 GENNAIO 2007
l’incontro
È il più famoso cantante latino,
entrato nel Guinness dei primati
per i 250 milioni di dischi venduti
A 63 anni, asciutto, affascinante
come esige la sua fama di infaticabile
seduttore, parla
con candore di se stesso
e della sua vita
“selvaggia e sfrenata”:
“La verità è che non ho
una bella voce, non l’ho
mai avuta. Per avere
successo in questo
mestiere ci vogliono piuttosto
onestà, umiltà, disponibilità
a impararegiorno dopo giorno”
Intramontabili
Julio Iglesias
ovesciando i ruoli previsti dal canone, le domande comincia a farle
lui, appena ci incontriamo. «Cos’ha fatto di male per essere
mandato a intervistare me?», è la prima che pone, suadente. Julio Iglesias
lo chiede in italiano, seduto in una
poltrona, nella suite all’ultimo piano
di un albergo di lusso affacciato su
Hyde Park, con indosso un pesante
cappotto blu vecchio stile, di quelli
con la cintura. Non fa certo freddo,
nella suite, ma terrà il cappotto addosso, con la cintura allacciata, per
tutta la durata della nostra conversazione. Le sue domande successive,
nell’ordine, sono: quali personaggi
famosi ha intervistato nella sua carriera? Da quali paesi è stato corrispondente estero per il suo giornale?
Quanti anni ha trascorso in Russia?
Si è divertito con le russe? È sposato?
Da quanto tempo? È fedele a sua moglie?
Ascolta le mie risposte concentrato, assentendo con la testa. Poi stringe gli occhi come per ricordare meglio, e dice, mescolando inglese, italiano, spagnolo: «In Russia ho cantato la prima volta quando c’era Andropov. Ci sono tornato molte volte.
Lei crede ai politici, quando li intervista? Crede che quello che dicono
sia la verità? Io di politici ne ho conosciuti tanti. Di qualcuno mi fido, di
altri meno».
E il più famoso cantante latino di
tutti i tempi — sebbene la definizione gli vada stretta, essendo entrato
Frank. «Sì, ma quando glielo proposero, non sapeva neanche chi fossero, Bono e gli U2. Ma è normale,
Frank veniva da un altro mondo,
un’altra epoca». E a lui, Bono piace?
«Sì, è un bravo cantante, ha grande
personalità». E Madonna? «La sua
musica non m’interessa, ma ha talento da vendere, è capace di sopravvivere a tutto, è una dura, l’ammiro».
E del cantante Enrique Iglesias, di
suo figlio, cosa dice? «Mio figlio ha
l’istinto del campione. Sa correre rischi e vincere. Non ha bisogno di
me».
Anche el señor Julio ha corso rischi
e ha vinto. «Ho avuto il mio periodo
di declino. Poi sono risalito. Io amo
la musica melodica, credo che, quella buona, non passerà mai. La gente
si stanca forse di ascoltare Mina?
“Quando un uomo
tradisce, tradisce
a metà”, dice il verso
di una sua canzone
“No, non è più così:
le donne di oggi
non perdonano,
non ti riprendono
Ed è giusto...
Però che nostalgia”
FOTO OLYCOM
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LONDRA
nel Guinness dei primati come il cantante che ha venduto il maggior numero di dischi nel maggior numero
di lingue — dice la verità? Iglesias ride, divertito dal quesito. A 63 anni è
dritto, asciutto, affascinante come
esige la sua fama di infaticabile seduttore, con due mogli (la seconda e
attuale ha trent’anni meno di lui),
sette figli (gli ultimi quattro sono ancora dei bambini), e un’infinità di avventure dietro le spalle. Ma quando
si alza dalla poltrona, per rispondere
al telefono, zoppica, muovendo a fatica i suoi piccoli piedi inguainati in
eleganti scarpe nere coi lacci: l’eredità dell’incidente automobilistico
che a diciannove anni lo lasciò paralizzato per tre anni, troncando una
promettente carriera di calciatore
(era portiere del Real Madrid) e lanciandone una d’altro tipo, grazie alla
solitudine, alla malinconia e alla chitarra regalatagli da un infermiere.
Una carriera che gli ha fatto vendere,
finora, 250 milioni di dischi: l’ultimo
album, uscito da poco, è Romantic
Classics, tutte canzoni in inglese.
«Vuole la verità? La verità è che non
ho una bella voce. Non l’ho mai avuta. Non serve, per avere successo in
questo mestiere». E allora cosa serve? Qual è il segreto? Alza le spalle.
«Determinazione? Volontà di ferro?
Fortuna? E tutte quelle altre banalità
che si dicono in questi casi? Sì, certo,
un po’ ci vogliono. Ma il segreto, perlomeno il mio, se un segreto esiste, è
un altro. L’onestà. L’umiltà. La disponibilità a studiare, a imparare, a
fare sempre le cose come si deve. Dal
primo giorno, quando ero nessuno,
ad oggi che sono qualcuno».
Venne a Londra per la prima volta
nel 1969, figlio di un ginecologo, fresco di laurea in legge, per perfezionare l’inglese. Cominciò a suonare in
qualche pub, tornò in patria, vide il
festival di Sanremo in tivù, partecipò
al più importante concorso canoro
di Spagna, a sorpresa lo vinse, e il resto è storia nota. Com’era Londra?
«Era la swinging London. Minigonne, capelloni, figli dei fiori, il rock».
Ecco, appunto, il rock: erano gli anni
dei Beatles e dei Rolling Stones, lui
era un cantante melodico, non si
sentiva sorpassato, fuori moda? «Dicono che ad Elvis Presley, quando arrivarono i Beatles, venne la depressione. Ma Elvis è sopravvissuto, è diventato un classico, immortale».
A proposito di immortali, Iglesias
cantò con Frank Sinatra, ne divenne
discepolo e amico. «Il Sinatra che ho
conosciuto io, il Sinatra della fase finale, era un uomo buono, fragile,
vulnerabile. Aveva comunque l’intonazione di voce più bella che abbia
mai sentito. I più grandi, per me, restano lui, Nat King Cole ed Elvis». Fece un duetto con Bono, il grande
Non mi pare proprio. Non è questione di essere moderni o all’antica, è
questione di essere bravi cantanti o
non bravi cantanti». Parlando di passato e presente, viene in mente la
Spagna del generalissimo Francisco
Franco, la dittatura franchista in cui
lui è cresciuto, così diversa dalla Spagna odierna di Zapatero, di Almodóvar, della movida. Julio Iglesias, domando, è di destra o di sinistra? «Ho
votato a destra, a sinistra, sono stato
agnostico. Forse, più di tutto, sono
un liberal (lo dice in inglese, che non
significa “liberale”, casomai “progressista”) ma in generale apprezzo
la buona amministrazione. Aznar
aveva amministrato bene la Spagna.
Zapatero ha bisogno di tempo, ma
anche lui ha buone intenzioni».
Dica la verità, per riprendere il refrain dell’inizio della nostra chiacchierata, chi è l’uomo politico che
oggi le piace di più? «Il mio uomo politico preferito è una donna. Hillary
Clinton. Sono diventato molto amico di Bill e Hillary, ho avuto entrambi ospiti a casa mia a Marbella molte
volte. Bill ha un cervello formidabile.
E Hillary è eccezionale. Spero che diventi presidente degli Stati Uniti. Se
uno ha dei pregiudizi nei suoi confronti, quando la conosce cambia
idea».
Hillary è una buona scusa per parlare di femmine. Iglesias non serba
soltanto il segreto del grande cantante, ma pure quello del grande
dongiovanni. Cosa serve, a un uomo,
per conquistare le donne? «Le donne… Io amo le donne, rispetto le
donne, ho imparato molto dalle donne». Va bene, ma il segreto del seduttore? «Il segreto?», ripete, quindi tace un momento. «Flirtare. Ci sono
uomini che hanno il flirt nel sangue.
Basta guardarli negli occhi. Si vede
dagli occhi, se un uomo ama le donne. È qualcosa che si riconosce all’istante, appena uno entra da una porta. Una cosa naturale, vitale, salutare».
Leggo dal mio taccuino: «Quando
un uomo tradisce, tradisce a metà,
sono cinque minuti e non ero più là».
Parole di Julio Iglesias. E ancora:
«Dentro quella valigia, il nostro passato non ci può stare». È il manifesto
del maschio mediterraneo? Dell’uomo che pretende sempre di essere
perdonato, che non vuole rinunciare
a nessuna delle donne che ha avuto?
«Quando un uomo tradisce, tradisce
a metà», accenna il motivetto don Julio, ma poi si arresta a metà: «Non
funziona più, non è più così. Le donne di oggi non perdonano, non ti riprendono se le hai tradite. Ed è giusto così. Sì, è giusto. Però…». Però?
«Però che nostalgia di trent’anni fa.
Ho avuto una vita sfrenata, scatenata, selvaggia. Era bello. Stupendo.
Ma la vita non si è fermata, è andata
avanti, è bella anche adesso, sia pure
in modo differente». Leggo ancora,
dal taccuino: «Io non confondo il
sesso con l’amore, ma mi presento
sempre a un appuntamento con un
fiore». Parole di Julio Iglesias. Esiste
ancora il romanticismo? «Esiste. Un
fiore fa sempre piacere a una donna.
Che si tratti soltanto di sesso o anche
di amore».
Non abbiamo parlato di un altro
suo grande amore: il football. «Vado
ancora allo stadio, qualche volta. E
tifo sempre per il Real». Che pensa di
Fabio Capello? «Un allenatore con le
palle. Quel che ci voleva per una
squadra di superstar. Capello farà
bene a Madrid». E dell’Italia che pensa? «L’Italia batte sempre la Spagna,
nelle partite che contano. Ho tifato
per voi, nella finale con la Francia.
Del resto, quando canto in giro per il
mondo, in tanti mi prendono per italiano. E quando canto in italiano, nel
vostro Paese, mi sento italiano io per
primo».
Allora, prima di salutarci, dica ancora una volta la verità, senza paura
di indispettire nessuno. Qual è la
canzone italiana che preferisce cantare? «È Caruso. L’ho cantata anche
con Lucio Dalla. Mi commuovo ogni
volta. Ma c’è un altro italiano con cui
mi piacerebbe cantare. Zucchero. Ci
siamo incrociati di recente, in Svizzera. Chissà. Prima o poi...». Leggo
dal taccuino, in spagnolo: «La vida
sigue igual». La sua prima canzone.
La vita continua. «Have a good life!»,
risponde, in inglese, il cantante latino più famoso del mondo, alzandosi
dalla poltrona. Buona vita anche a
lei, señor Julio Iglesias.
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ENRICO FRANCESCHINI
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