DI Repubblica - La Repubblica.it
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Domenica il reportage La Capri del Nord aspetta il grande caldo La di DOMENICA 28 GENNAIO 2007 GIAMPAOLO VISETTI il racconto Repubblica Così l’Occidente ha inventato l’Oriente FEDERICO RAMPINI I ragazzi perduti di Internet È cominciata con gli spogliarelli scambiati sul web. Ora stupri di gruppo e sesso in classe ILLUSTRAZIONE DI GIPI Tutto filmato e trasmesso via videofonino GABRIELE ROMAGNOLI M ANCONA a allora, se due ragazzini fanno sesso in un’aula scolastica e nessun videofonino li riprende, possono dire di averlo fatto davvero? Per cercare la risposta a questa e altre domande (che cosa ha spettacolarizzato la sessualità degli adolescenti italiani? Chi se ne interessa veramente? E stiamo parlando soltanto di loro?) sono andato dove, all’apparenza, è cominciato il fenomeno dei «ragazzi di vita 2007» e dove ogni giorno se ne scrive un nuovo capitolo: alla procura dei minori di Ancona. Il magistrato che mi riceve si chiama Ugo Pastore. Ha origini napoletane, residua capacità di indignazione e pazienza. Nel suo curriculum l’esperienza minorile è un passato che ritorna, sintomo di una volontà di applicarsi all’emergenza. Sulla scrivania e sulle sedie ci sono pile di fascicoli, più una ricerca dal titolo Le ragioni del bullismo. Il suo telefono, durante la conversazione, squillerà due volte, il mio una, annunciando l’invio di un messaggio. Tutte e tre le circostanze si riveleranno significative. Il suo racconto verrà interrotto da digressioni. La fine, tanto vale premetterlo, non è nota e neppure lieta. * * * All’inizio c’è un ragazzino che, parlando con la madre (il fatto è raro, ma ancora può verificarsi), si riferisce a una compagna usando un termine spregiativo. La madre (anche questo è raro) lo rimprovera. Gli dice di non offendere gratuitamente quella ragazza. «Macché gratuitamente, mi è costato un euro!», risponde lui. Con quella moneta ha comprato da un amico l’inoltro sul videofonino della scena in cui la ragazzina, costretta, ha rapporti sessuali con alcuni coetanei. Con quella moneta pensa di aver dimostrato alla madre di avere «ragione»: ecco la prova. Quel videomessaggio era già circolato su decine di cellulari, archiviato in altrettante «gallerie». Finalmente una persona non lo trova «ragionevole» e denuncia il fatto al poliziotto di quartiere, che informa la procura dei minori di Ancona. Partono le indagini, vengono sequestrati i telefonini degli accusati di violenza. Nelle gallerie si trovano fotografie e filmati, archiviati con nomi e località: Gigi-Senigallia, Loretta-Fano. Gli inquirenti danno un’occhiata: Gigi si è ripreso mentre rolla e fuma uno spinello, Loretta mentre si spoglia e si tocca. Ora, generazioni di adolescenti si sono fatti le canne o si sono masturbati. Il piacere era quello: l’atto in sé. Adesso il piacere è nel mostrare quell’atto a un pubblico. Si dirà che, «clintonianamente», lo fanno perché possono, perché esiste il videofonino, ma non basta a spiegare. Molto spesso c’è una prima fascia di pubblico che assiste all’esibizione dal vivo. Poi si va cercando quella indeterminata, che sta là fuori. Non nella sua vaghezza, però, esiste un destinatario mirato. Loretta mostra la sua intimità «sperando che qualcuno la noti». «Qualcuno» non è chiunque e «notare» non è vedere. Sta cercando un’agenzia di casting, un talent scout, chi sia in grado di trasformare il suo pubblico potenziale in dati Auditel. (segue nelle pagine successive) i luoghi La Sardegna sparita di Berengo Gardin PINO CORRIAS cultura L’Italia di Piovene, reporter per caso FRANCO MARCOALDI la lettura Il cuore nero dell’uragano Katrina JOHN UPDIKE spettacoli Morricone, nella bottega dell’Oscar GINO CASTALDO Repubblica Nazionale 32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 GENNAIO 2007 la copertina Adolescenti a luci rosse sul videofonino. Siamo andati a parlare col magistrato di Ancona che ha in mano la più ampia inchiesta sul tema. Per scoprire che gli amici non disapprovano, le madri difendono, la scuola ci passa sopra, la legge chiude un occhio. Così che le vittime Ragazzi perduti restano senza difesa e i carnefici non rischiano punizioni L’indagine parte da un videomessaggio venduto a un euro da cellulare a cellulare, dove una ragazzina viene costretta a rapporti sessuali con alcuni coetanei Lolita 2007 e i video-stupratori GABRIELE ROMAGNOLI (segue dalla copertina) un’illusione: il mercato è l’ultimo baluardo delle regole, il destino lo fa la domanda, non l’offerta. E, purtroppo per Loretta, circola più esibizionismo che voyeurismo e, nel settore a cui aspira, esistono molte più Elisabette Gregoraci che Lele Mora. È *** Il vero divertimento Davanti alla scrivania del dottor Pastore sono sfilate decine di Lorette e Gigi. Alla domanda: «Ti sei divertito a farlo?», la risposta ricorrente è: «No, mi sono divertito a farlo sapere». Percezione del disvalore della loro condotta: nella maggior parte dei casi, nessuna. Giustificazione: «Di che cosa vi meravigliate? Sono cose che fanno tutti. Non lo sapevate?». Quelli che sapevano e tacevano non lo facevano per omertà di clan, ma «generazionale». Non conoscevano né Gigi né Loretta e neppure gli stupratori. Non li proteggevano, semplicemente, pur non approvando, restavano indifferenti, rassegnati. Gli inquirenti hanno frugato dentro centinaia di computer, sono entrati in decine di blog a numero chiuso. Hanno trovato dovunque le stesse cose, decifrato con relativa facilità un linguaggio dove tutto è semplicemente scritto più in fretta, compresso, niente vocali, numeri al posto delle parole, quando è possibile: come se tutta la comunicazione fosse limitata dal display di un cellulare. Non esiste un codice per messaggi segreti, si dicono banalità con i superlativi e le consonanti: «6 1 GRN FG!!!» (se occorre traduzione: «sei un gran figo!!!»; se occorre una motivazione: perché si era ripreso mentre evacuava). Nessun rimorso, qualche pentimento. A innescarlo è la sorpresa di trovare qualcuno che non approva. Di vedere un poliziotto che rovista nella loro cameretta, la stessa che faceva da sfondo alle autoriprese, e un magistrato che lo fa nella loro breve esistenza. Cercando di capire come abbiano potuto fare, fin lì, percorso netto. Senza un amico che dicesse: «Siete fuori?». Senza un genitore che... È a quel punto che il dottor Pastore ha guardato negli occhi decine di coppie adulte, compilando una personale, sconfortante statistica. I padri? Al novanta per cento sconcertati, testa fra le mani, ripiegati su se stessi, in grado di manifestare, tuttalpiù, un senso di impotenza. E le madri? Nella stessa percentuale aggressive, addirittura risentite, erinni alla difesa del fortino. Capaci perfino di contrattaccare al grido: «Ma queste sono solo ragazzate! Che cosa c’entra la legge?». Qualche anno fa un gruppo di ragazzi californiani, sbandati sì, ma iscritti a un liceo, residenti nella stessa casa dei loro genitori (benché, spesso, separati) fece una bravata. Uno di loro aveva compiuto uno sgarro e, per regolare il conto, gli rapirono il fratellino quindicenne. All’inizio era una burla, poi persero il controllo della situazione e ammazzarono l’ostaggio. Venuto a conoscenza della storia dalla figlia, compagna di scuola degli assassini, il regista Nick Cassavetes ci ha girato un film, Alpha Dog, che esce in Italia il 23 febbraio. Come la pellicola ricostruisce, nessuno dei ragazzi si rende veramente conto di quel che sta facendo, nessuno dei loro amici cerca di fermarli, nessuno dei genitori (tranne quelli del rapito) sembra allarmarsi. Finché la situazione degenera. Come è stato possibile? La risposta di Cassavetes è: «I problemi sono sorti perché questi ragazzi si sono ritrovati a dover prendere delle decisioni senza nessun tipo di controllo o interferenza. Si sono create una serie di circostanze e coincidenze che hanno generato degli eventi che Una specie di omertà generazionale nasconde la circolazione dei filmati “Di cosa vi meravigliate? Sono cose che fanno tutti” non sarebbero dovuti accadere». Le circostanze e le coincidenze di Ancona sono che i comportamenti dei Gigi e delle Lorette non appaiono censurabili per i loro compagni, non per le loro madri. E la scuola? Altra statistica: « Il novantanove per cento dei danni alle scuole non viene risarcito, spesso non c’è neppure la richiesta». Perché? «Per salvaguardare l’immagine dell’istituto, perché non si dica che è mal frequentato e diminuiscano il prestigio e le iscrizioni». * * * Perduti dal perdono Gli amici non disapprovano, le madri difendono, la scuola ci passa sopra. Qualche volta perfino la legge chiude un occhio. Il dottor Pastore estrae un ricordo dal passato: «Ero a Napoli, c’era questo ragazzino che faceva il diavolo a quattro da quando aveva dieci anni. Rapine, estorsioni, violenze, di tutto, ma non era imputabile. Finché compì quattordici anni. Lo aspettavamo al varco, alla prima infrazione l’arrestammo e processammo. Chiesi una condanna. Il giudice preferì concedergli il perdono giudiziale. Sa che cosa disse lui: “Non sono manco buono per la galera!”. Si sentì in qualche modo rifiutato, abbandonato perfino dalla legge. I ragazzi sono manichei, esigono condanne per chi sbaglia. An- che per sé, se capiscono di aver sbagliato, di aver violato una legge. Invece vengono perdonati. Allora smarriscono il senso delle cose in maniera definitiva. Vuol sapere come è finito quel ragazzino di Napoli? Morto per strada, a diciotto anni, in un regolamento di conti». Ho con me una cartella di ritagli: dopo i fatti di Ancona c’è una violenza filmata a Jesi, un commercio di immagini porno in una scuola di Ascoli, un traffico di mms osé in cambio di ricariche a Pesaro, un altro di videoriprese di un suicida spappolato sui binari a Fano. Nelle Marche c’era qualcosa di avariato nel latte materno tredici, quattordici, quindici anni fa? In realtà ogni fenomeno criminale emerge dove lo persegui. Da qui ci si allarga a tutta l’Italia: stupro registrato e diffuso a Napoli, filmata nuda per «prova d’amore» e smerciata a Ragusa, violenza di gruppo scaricata sul web in Sardegna. Durante la gita scolastica o l’intervallo. Nel cortile del liceo o all’oratorio. Sbocciano le devianze e fioriscono gli alibi. I violentatori dicono: «L’abbiamo fatto perché l’abbiamo visto in tv» e i media rilanciano senza che nessuno chieda: «In quale programma, esattamente?». «Era su Internet». E certo, su You Tube trovi il video di qualsiasi cosa (non solo Di Pietro che spiega il consiglio dei ministri, anche un gatto che si masturba) e su un altro sito il catalogo delle perversioni filmate va oltre la fantasia (chi poteva immaginare gli appassionati di starnuto?). Internet è come il mondo, contiene tutto, solo che ogni tanto bisognerebbe verificare le ultime pagine scaricate da chi ci si aggira. O rassegnarsi come fa Cassavetes quando conclude: «Alla fine quello che ho capito, e di cui io stesso sono colpevole nella mia vita, è che viviamo in un mondo complicato, in cui entrambi i genitori hanno un lavoro e una vita molto intensa». Dice il dottor Pastore: «I ragazzi ci vogliono più seri». E credo che intenda come un modo per dimostrarglielo quello di ritenerli responsabili. Repubblica Nazionale DOMENICA 28 GENNAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 I CASI ANCONA NAPOLI PALERMO NUORO SAN BENEDETTO Novembre 2006 È il primo caso shock: una tredicenne viene ripresa col cellulare mentre subisce molestie dal branco I ragazzi hanno tra i 14 e i 17 anni Dicembre 2006 Nel parco in cinque (tra i 15 e i 16 anni) violentano una compagna di scuola Un sesto filma la sequenza Il 17 gennaio vengono arrestati sei ragazzi, sono accusati di aver violentato una disabile Il video gira tra gli amici Il 25 gennaio tre ragazzi tra i 14 e 15 costringono una amica di 13 anni a spogliarsi Riprendono tutto con il cellulare e “girano” il video Il 26 gennaio un lui (15 anni) e una lei (14 anni) fanno sesso orale in classe durante un’assemblea I compagni filmano la scena BACI DALLA PROVINCIA ILLUSTRAZIONE DI GIPI Il disegno delle pagine e l’illustrazione in copertina sono di Gipi e fanno parte del libro Baci dalla Provincia, Graphic Novel uscito nella collana I fumetti di Repubblica-l’Espresso “I ragazzi ci vogliono più seri”, dice il magistrato In altre parole, vogliono essere ritenuti responsabili OBIETTIVO CONDIVISO Un videocellulare e un mms. Un cellulare, un pc e poche semplici operazioni. Per far “girare” i propri video amatoriali su Internet non c’è bisogno di grandi specializzazioni. Come si fa? Se si possiede un cellulare che invia mms, si crea un filmato e lo si manda a YouTube (il più celebre e utilizzato dei siti per la condivisione delle immagini) utilizzando un apposito numero di telefono. In alternativa si può attivare un collegamento via Bluetooth (o con un cavetto) e si scarica il video sul proprio personal computer. Poi, una volta che ci si è registrati sul sito, si manda il filmato via e-mail. Basta un clic su “Upload Videos” e il video diventa condivisibile con altri migliaia (se non milioni) di utenti. Secondo una recente indagine dell’Eurispes, in Italia l’82,6 per cento degli adolescenti usa quotidianamente il cellulare per fare foto, inoltrare immagini e piccoli video * * * Tre squilli, tre notizie Poi ci interrompono le tre telefonate. Nella prima un carabiniere riferisce gli sviluppi di un fatto. Giorni prima quattro ragazzi hanno vandalizzato una scuola. I tre non imputabili hanno confessato. Il quarto, quindicenne, no. La sera prima sua madre ha indetto una riunione dei genitori coinvolti, preteso che inducessero i loro figli a ritrattare. Sembra l’abbia avuta vinta. Nella seconda emerge l’ultimo caso di cronaca, che il giorno dopo sarà sui giornali: sesso sulla cattedra durante l’assemblea scolastica, con un pubblico che assiste, filma, diffonde. E la scuola che, invece di informare le autorità, avvia un’indagine interna, a protezione della propria reputazione. Se il magistrato cercava conferme alle sue tesi, le ha appena avute. La terza telefonata è in realtà un sms che mi invita a cliccare su un sito e dare un codice per vedere un’immagine. Scoprirò che nel videomessaggio una signora mostra le sue parti intime. L’ha inviato a un suo amico, che l’ha inviato a un suo amico, che l’ha inviato a un suo amico. Dopo una ventina di passaggi è arrivato (anche) a me. Se la catena continua può finire a suo marito (che magari non la riconoscerà) o a suo figlio, che magari lo smercerà per un euro. Non è colpa sua, viviamo in un mondo complicato. Chi può dirsi innocente? Le vittime, almeno: come la ragazzina violentata e filmata nel caso che ha dato il via alla videovalanga. Che fine ha fatto? Non è più uscita di casa. Sotto le sue finestre passano a ogni ora del giorno e della notte strombazzando e urlando insulti. La sorella minore teme di vivere la stessa esperienza. I genitori, che non sono ricchi e hanno lavori dipendenti, hanno messo in vendita la casa, deciso di trasferirsi altrove. Se un altrove esiste. Repubblica Nazionale 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA il reportage Clima che cambia DOMENICA 28 GENNAIO 2007 La Penisola Curlandese è una lingua di sabbia bianca e foreste nere affacciata al Baltico sulla costa lituana. Per ora la conoscono in pochi. Ma qui, in dieci anni, la temperatura è salita di dieci gradi: uno sconquasso per flora e fauna, una scommessa da vincere per i professionisti del turismo di massa Così la Capri del Nord aspetta il grande caldo P GIAMPAOLO VISETTI NIDA (Penisola Curlandese) ittime reali e piovanelli pancianera non sono partiti. Precipitano fulminati, rigidi come pigne dai pini che, allampanati come gigantesche canne rosse con i pennacchi verdi arruffati dal vento, affiorano dal Baltico ghiacciato. Sembrano scuri ciottoli di lava, sparsi sul cristallo blu che protegge i giacimenti dell’ambra “tuorlo d’uovo”. Stormi di codoni e croccoloni solcano disorientati l’orizzonte tortora del canale di Neringa. È il primo inverno che pagliaroli e mignattini alibianche contendono ai gabbiani i branchi di stintà, i pesciolini che guizzano sottocosta solo con il gelo. Erano la consolazione dei mesi autunnali: quest’anno gli ultimi pescatori di Juodkrantè hanno iniziato a friggerli da un paio di giorni. Sulla duna di Parnidis, da cui lo sguardo evade oltre il confine russo, fino a Kaliningrad, i cespugli di gattice esibiscono già i loro grigi germogli vellutati. Il raro eringium maritimum ha schiuso fiori gialli e spinosi, quasi trasparenti. Sulle infinite spiagge bianche della Lituania, tra le foreste nere lasciate al pascolo di alci, cinghiali e orbettini, l’inverno non è più silenzioso. Sono migrati aironi grigi e cormorani, tardivamente: ma nuvole di tordi e merli, scesi dalla Scandinavia, hanno sfrattato dai nidi cince e re di quaglie. È come se il mazzo delle carte dei mesi fosse caduto dal tavolo, mescolando e infine confondendo le stagioni. Gennaio riunisce ora gli uccelli dell’estate, i pesci dell’autunno e i fiori della primavera. Ferragostani cicloni tropicali, la settimana scorsa, hanno strappato dieci metri di sabbia dalle rive a Nord di Neringa, fino a ostruire il canale dei Curoni. Sconosciute correnti marine hanno alzato il livello della laguna di un altro metro e mezzo, allagando chilometri di terra riportata e gli impianti di abeti e betulle svezzate in Olanda. Tre villaggi semiabbandonati si sono inabissati, come altri quattordici nel passato. Sulla costa baltica, il mare ha eroso trenta centimetri di sabbia su un fronte di centocinquanta chilometri di spiaggia. Negli ultimi quattro anni le sabbie della penisola, corrose dalle alte maree indotte dallo scioglimento artico, sono scivolate verso nord di sei metri. Fino a mercoledì l’inverno sembrava estinto. Il giorno dopo, Palangà e Klaipeda sulla terra ferma, Pervalka nel mezzo della Curlandia, sono state paralizzate dai mulinelli di zucchero a velo. In due ore, mezzo metro di neve polverosa. Da dieci gradi, il termometro si è tuffato a meno ventidue. Nell’affumicatoio di Algirdas Zarnauskiene, turbini azzurri di fumo freddo profumano i ventri grassi di rombi e anguille. Sarebbe lavoro di maggio. Il caldo di dicembre ha innescato in anticipo lo scambio tra le onde più salate del Baltico e gli stagni più dolci del mare interno degli antichi Curi. Il pesce, ingannato e spinto a Le carte dei mesi si sono rimescolate: gennaio ora riunisce gli uccelli dell’estate, i pesci dell’autunno e i fiori della primavera CAPRI deporre le uova nelle insenature ricche di alghe, si dibatte ora imprigionato tra le radici appesantite dai fiocchi. La magra grigliata di carnevale ricorda quella ricca della festa del mare, a fine luglio: ma sulla lingua dell’abbagliante deserto boscoso, dove 2834 persone vivono nell’oasi più magica del Nord Europa, nessuno ha l’animo di festeggiare. Gli scienziati del Parco nazionale della Penisola Curlandese, inserita dall’Unesco tra i patrimoni dell’umanità, hanno paura nell’incrociare i dati sul computer. In dieci anni la temperatura media dell’aria, in estate, si è alzata da 16 a 23 gradi. Nel 2006 è schizzata però a 26, con punte prolungate fino a 35. Due furiosi incendi hanno incenerito centinaia di ettari di foresta: danni per due milioni di euro. L’acqua del Baltico, in passato tra i 10 e i 14 gradi, oscilla in agosto tra i 22 e i 24. Quella del mare interno dei Curoni si è assestata tra i 26 e i 28. «L’ultimo anno — dice la direttrice della stazione di Nida, Aurelija Stancikiene — è stato il più caldo e secco mai rilevato. È prematuro definirla una catastrofe ambientale: ma che il cambiamento climatico abbia innescato un irreversibile mutamento della natura, è un dato di fatto che impone scelte immediate». Il gelo improvviso oggi ha cristallizzato l’estate senza fine che ha reso le spianate del Nord simili alle coste del Mediterraneo. Gediminas Grazulevicius, il più stimato ornitologo delle repubbliche baltiche, mostra una lucciola imprigionata in un fiocco di neve. Seimila anni dopo, è l’opposto di quanto si vede nel razziato palazzo del conte Tiskievicz a Palangà, sede del museo dell’ambra. Qui le lenti d’ingrandimento svelano fiori e insetti fossili inglobati nelle gemme di resina incandescente rappresa nei fondali dei ghiacciai liquefatti sessanta milioni di anni fa. Sulla spiaggia a sud di Preila, davanti alla villa che Thomas Mann dovette abbandonare nel 1933 per l’incalzare della Germania nazista, i ricercatori scoprono oggi al microscopio imenotteri equatoriali dispersi verso il Polo. Cullati per mesi nelle nubi surriscaldate, appaiono ora ibernati nelle gocce gelate che anneriscono le premature foglie dei peri. Uno sconquasso. All’alba la temperatura scende a meno trenta e i litorali lituani riassumono la profondità del loro chiarore immobile. Al tramonto si risale a più dodici e si affonda nel pantano marcito della neve marrone. Dieci minuti di sole e dieci di bufera polare, in un rincorrersi atlantico. Piove sul cofano e nevica sul bagagliaio. «Ormai possiamo documentare gli sconvolgimenti — dice la responsabile dell’ufficio climatologico di Neringa, Lina Diksaite — ma non avanzare previsioni. I cicli sono saltati, ogni settimana è irripetibile». L’ambiente baltico in cinque anni si è arricchito di cinquanta nuove specie animali. Tra gli iceberg alla deriva nuotano oche egiziane, lontre e germani della Cina. «Se il riscaldamento dell’atmosfera non rallenta — dice Alla Valuziene, direttrice del centro di Palangà — nel 2030 il clima scandinavo corrisponderà a quello del Nord Africa di oggi. Il livello del mare sarà più alto di sei metri, siccità e incendi diventeranno un incubo. Neringa è destinata ad andare alla deriva nel Mar Baltico, prima di essere inghiottita». Nel centro d’avvistamento dell’avifauna più importante d’Europa, dove ogni anno si chiude l’anello elettronico attorno alle zampe di centomila esemplari di 325 specie d’uccelli, l’effetto serra si specchia nella migrazione rinviata delle cicogne nere, o nella proliferazione estiva degli aironi bianchi. Il surriscaldamento dell’atmosfera è clonato nel boom demografico dei cormorani: nell’ulti- IL PORTO Nell’isola la temperatura media ad agosto è di 26 gradi LA PIAZZETTA Le presenze agostane a Capri sono circa 350mila LA VILLA MALAPARTE Lo scrittore Curzio Malaparte la fece costruire nel 1936 LA MARINA GRANDE Ad agosto la temperatura dell’acqua è in media di 26 gradi Repubblica Nazionale DOMENICA 28 GENNAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 VILLEGGIANTI NERINGA FOTO SIME Sotto, un’immagine della spiaggia di Palanga in Lituania dove il turismo è triplicato in pochi anni IL KURSIU NERINGA NATIONAL PARK UN RISTORANTE NEL NERINGA PARK FOTO ANSA Ogni agosto lo visitano circa 240mila persone IL COTTAGE DI THOMAS MANN FOTO LAIF Il Nobel tedesco vi trascorse l’estate dal ’30 al ‘32 LA SPIAGGIA DI KLAIPEDA La temperatura dell’acqua ad agosto è di 16,7 gradi mo anno, tra Smiltyne e Lesnoje, hanno divorato trecento tonnellate di pesce, un quarto del bottino dei pescherecci. Cento metri più in là, davanti al porticciolo dove le vecchie “curonas” sono state tirate in secca, gli operatori turistici invece si fregano le mani. Cinque gradi in più nell’aria estiva, l’autunno posticipato a dicembre, un tiepido inverno rinviato a febbraio, l’acqua marina più calda di otto gradi trasformano i freddi lidi dei filosofi di Koenigsberg nella nuova Costa Brava di camionisti svedesi, nostalgici tedeschi e oligarchi russi. Dalle passeggiate in mocassini di cuoio e spezzato di flanella, al kitesurf e ai mega-centri di divertimento acquatici. Le previsioni di Commissione europea, Onu e Nasa, che delineano la tropicalizzazione dei mari del Nord entro la metà del Ventunesimo secolo, qui sono già realtà. A Klaipeda e a Palangà, nell’Ottocento, villeggiavano le famiglie reali più potenti d’Europa. Ma il Novecento qui ha infierito più che altrove. Hitler, sulla piazza dei commercianti dietro il fiume Danè, annunciò la tragica annessione dei Baltici. Stalin, dopo la Seconda guerra mondiale, risparmiò solo tre famiglie lituane. I sovietici, nell’inaccessibile villaggio di Plokstine, interrarono segretamente i missili a testata nucleare puntati contro l’Occidente. Poteva essere l’epilogo: la straordinaria bellezza di una natura intatta e poco popolata e l’inatteso regalo di una civiltà fondata sull’inquinamento hanno permesso invece di bruciare le tappe della rinascita. Dall’ingresso dalla Lituania nell’Unione europea, nel 2003, la riviera più snob del continente ha riacquisito la perduta eleganza prussiana. In tre anni sono stati investiti quattrocento milioni di euro per ristrutturare vecchi alberghi germanici e sanatori russi. Duecento milioni di euro, solo nel 2006, per nuovi hotel di lusso e centri benessere. Zona franca, il «Sahara lituano» e la «Rimini del Baltico» si stanno trasformando in realtà in un misto tra Montecarlo, Corsica ed Engadina. Mega-incentivi di Stato per le imprese, imposte al quindici per cento e tassi bancari sotto l’inflazione. Bagni marini caldi, silenzio e ambiente spettacolare d’estate. Escursionismo sugli sci, pesca sul ghiaccio, saune in riva al mare e selvagge foreste sommerse di neve nell’inverno. I grandi investitori, stranieri e nazionali, hanno capito che la miserabile «piccola Lituania» post-comunista sta diventando la miniera d’oro turistica del Nord Europa liberista. Interminabili piste ciclabili negli orti botanici, sofisticate spa per la cura del corpo, una pace d’altri tempi grazie a un traffico anni Cinquanta, ristoranti per portafogli londinesi, maxi-acquari con l’esibizione di foche e delfini, centri commerciali, decine di discoteche e casinò, attirano ormai capitali da tutto il mondo. Il pur nuovo aeroporto di Palanga, che collega direttamente il Baltico lituano ai principali scali continentali, sarà ampliato ancora entro il 2010. Il porto per yacht e navi da crociera, appena inaugurato, è il più settentrionale d’Europa a non essere mai bloccato dai ghiacci. «Le conseguenze ambientali del buco nell’ozono — dice Jurgita Marackinaite, marketing manager del più grande albergo del Paese — non le posso immaginare. So però che da quando abbiamo un’estate alla tunisina, sembra di vivere a Ibiza. Tutto esaurito, turisti in costume e a piedi scalzi, prenotazioni record anche da Francia, Spagna, Italia, Austria e Svizzera». Tra giugno e settembre, a Neringa, la popolazione passa da tremila a cinquantamila persone. Sulla costa si sono registrati in 540mila. Quintuplicati in tre anni i prezzi di terreni e immobili. «Il segreto — spiega Jurgita Anilioniene, financier-economist dell’agenzia per lo sviluppo di Klaipeda — sono il nuovo clima mediterraneo, la vastità di una natura selvaggia scandinava, un’organizzazione turistica occidentale e i prezzi da vecchio Est. Trovi Porto Cervo, ma paghi meno che in agosto a Sharm el Sheik: e in inverno, che ormai è mite, è meglio che in Canada». Allarme negli istituti scientifici ed euforia negli uffici turistici. È però tra le dune sabbiose di Alsnynè, o cinquanta chilometri più a nord tra le pinete marine di Palanga, scandalosamente ricche di porcini, che si intuisce la dimensione sostanziale di una rivoluzione. Il cambiamento del clima, sul Baltico, non significa solo poter nuotare in mare senza essere tramortiti dai brividi, o prendere il sole rinunciando ai frangivento, gusci liberty ideati dai danesi. C’è qualcosa di più profondo ed è l’atmosfera di libertà e determinazione, di infantile entusiasmo nei confronti della vita, che contagia i popoli sopravvissuti al nazismo e allo stalinismo, i giovani che hanno da poco riacquisito l’orgoglio di una democratica patria ritrovata. Nell’ultimo anno, tra la penisola di Neringa e l’antica Memelburg, sono tornati a casa cinquemila lituani fuggiti all’estero per colpa di povertà e dittature. Hanno conosciuto il mondo, risparmiato, studiato, sofferto e sognato questo giorno. I loro figli sanno fare sacrifici e sono pronti per essere i migliori. «Quando le strutture sono piene — dice Indre Stulgaityte, responsabile dell’agenzia turistica di Nida — gli albergatori dormono in macchina. Per duecento euro al mese, un cameriere tra aprile e ottobre non stacca un giorno. Abbiamo raccolto la sfida della qualità e non sprechiamo una litas». Saranno questa lingua di terra che i ginepri non riescono più a contendere al mare, i lunghi moli dove Sartre e Simone de Beauvoir sostarono nelle notti bianche a portare a sintesi in questo secolo gli atolli dei Caraibi e gli altipiani delle Alpi? La Natura sembra rendere giustizia alla Storia, usando il sole per restituire agli sconfitti ciò che i vincitori avevano sequestrato. Sulla collina delle streghe di Juodkrantè, spiriti in legno evocano fiabe lituane e divinità pagane. Fricas Jakaitis, il più vecchio pescatore di Neringa, ogni giorno alza e abbassa per un’ora la pesante lingua di Belzebù. Secondo il mito, alla penisola Curlandese resta il numero degli anni dei suoi sollevamenti animisti. «Quando saremo affondati — dice — vorrà dire che anche i palazzi dei potenti non esisteranno più da tempo. Forse non lo sanno: l’universo si riprende ciò che vede sprecato». Un’aquila dalla coda bianca approfitta delle correnti ascensionali per avvistare dall’alto i branchi di platessa. Il cielo sopra il Baltico rivela adesso l’invalicabile serenità azzurra dell’acciaio. L’inverno non è nemmeno iniziato, ma sembra già esaurito. Le nuove, tiepide estati trasformano questi gelidi lidi nella nuova Costiera di camionisti svedesi, oligarchi russi e tedeschi nostalgici FOTO CORBIS FOTO SIME L’agosto lituano è caldo senza eccessi: la media è 17 gradi Repubblica Nazionale 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA il racconto Luoghi comuni DOMENICA 28 GENNAIO 2007 Un mondo esotico e misterioso, contrapposto al nostro così come il dispotismo si contrappone alla libertà, la tirannide alla democrazia, la tradizione al progresso ma anche il misticismo alla razionalità. Da due millenni è il pensiero europeo a dare forma alle culture dell’Asia FEDERICO RAMPINI PECHINO er duem i l a anni l’idea di Oriente è stata estranea ai cinesi. Il loro paese si è sempre chiamato Chung Kuo (o Zhong Guo) cioè la terra di mezzo, l’impero al centro del mondo. Fuori da loro c’erano i barbari, le periferie della civiltà. Vista da Pechino oppure da Delhi anche l’Asia è un’astrazione geografica, povera di significato storico, politico, culturale: associa la Cina con il Libano, unisce arbitrariamente gli indiani ai giapponesi. Edward Said nel 1978 scriveva: «L’Oriente era un’invenzione dell’Occidente sin dall’antichità». Said coniò il termine di «orientalismo» per descrivere un misto di attrazione-repulsione verso il mistero e l’esotico, una miscela di spaesamento e proiezioni fantastiche, di stereotipi e pregiudizi imperialisti. Lui si riferiva soprattutto alla nostra visione del Vicino Oriente islamico. Ma l’invenzione dell’Oriente si è proiettata ben più in là, ha avuto il suo culmine nel nostro rapporto con la Cina e l’India, ha voluto individuare in loro delle culture irriducibilmente diverse, l’Altro da noi. Elaborata dai più grandi pensatori europei, la maggior parte dei quali non misero mai piede fuori dal nostro continente, questa immagine favolosa e parziale dell’Oriente è diventata indispensabile soprattutto per definire la nostra identità, quello che vorremmo essere o crediamo di essere. Il precursore di questa invenzione è il padre di tutti gli storici, Erodoto, che nelle sue cronache di guerra fra i greci e i persiani costruisce l’archetipo dello “scontro di civiltà”. Fin dagli albori il conflitto EstOvest diventa un confronto tra valori, modelli di società, sistemi politici: la vittoria finale dei greci è il trionfo delle democrazie contro la forza bruta della massa di soldati-schiavi agli ordini di imperatori feroci. L’Oriente è tirannide, l’Occidente è libertà. Ecco creato l’archetipo indistruttibile. Due millenni dopo, bombardati come siamo da nuove informazioni su quei mondi, senza accorgercene continuiamo a vedere la dif- P ferenza tra “noi” e “loro” attraverso il filtro di quella lente. Nei secoli l’idea di Erodoto si è sedimentata, ha sviluppato tutta la sua potenza, applicata a terre molto più lontane dell’Asia minore persiana. Per rielaborare il mito d’Oriente nell’èra moderna un ruolo chiave lo hanno due italiani, tra i pochi ai loro tempi a poter vantare una conoscenza diretta dell’Asia. Il primo è Marco Polo alla fine del Duecento. La sua personale “invenzione del Catai” — una Cina fantastica ricostruita nel Milione attraverso precisi ricordi di viaggi personali, mescolati con leggende e miti — ha un ruolo essenziale nell’eccitare gli appetiti economici dell’Europa, lanciando navigatori e mercanti alla ricerca delle ricchezze di un Estremo Oriente sviluppato e raffinato. Il secondo è il gesuita Matteo Ricci che visse in Cina nel Cinquecento e tentò vanamente di evangelizzarla. Ricci è il primo sinologo, il tramite essenziale per far conoscere la cultura cinese agli europei. È decisiva la sua scelta di campo a favore di Confucio (nel suo pensiero vede un’etica compatibile con quella di matrice greco-giudaico-cristiana), contro il buddismo che dipinge come un misticismo irrazionale e superstizioso. Proprio mentre gli imperi europei si espandono conquistando terre sempre più lontane, nel contatto con queste civiltà si afferma l’idea occidentale che i grandi popoli con i loro sistemi di valori, religioni, lingue, culture, rappresentano sistemi ben distinti, separati da confini storici precisi, a volte condannati all’incomunicabilità. Nel Settecento Montesquieu lancia il concetto del «dispotismo orientale» che sarà usato indiscriminatamente per unire realtà politiche tanto diverse come le dinastie imperiali cinesi, i khanati di origine mongola, i califfati del Il precursore di questa invenzione è Erodoto: nelle sue cronache di guerra tra greci e persiani costruisce l’archetipo dello “scontro di civiltà” Duemila anni dopo sarà Hegel a descrivere un Est declinante, immobile e passivo, e un Ovest moderno, motore di progresso, abitato dall’autentico spirito del mondo mondo islamico ottomano, più tardi perfino lo zarismo russo. Oriente e dispotismo diventano sinonimi per l’Europa, ignorando che l’India è stata un laboratorio politico di tolleranza e dialogo fra le religioni nel 1600, proprio mentre a Roma la Santa Inquisizione condannava al rogo per eresia Giordano Bruno. Il massimo teorico della superiorità europea è il filosofo tedesco Hegel: riprende l’idea che l’Occidente è la culla della libertà, vi aggiunge che è la patria della scienza e della tecnologia, del razionalismo e dell’individualismo creativo. Per Hegel la civiltà occidentale non è una fra le tante: è l’unica a poter capire e “includere” le altre nella sua sintesi; è la sola a svolgere una missione universale. Nella filosofia della storia hegeliana lo spirito del mondo abbandona l’Oriente immobile e passivo, si sposta verso l’Occidente che è motore di progresso. La modernità siamo noi, cinesi e indiani sono condannati al declino perché prigionieri della tradizione. La colonizzazione inglese dell’India per Hegel (che non c’è mai stato) è inevitabile e positiva. Nel mondo reale la grande discriminante affermata da Montesquieu e da Hegel ha successo. L’Inghilterra vittoriana si impadronisce dell’idea di una missione civilizzatrice, il «fardello dell’uomo bianco» dello scrittore Rudyard Kipling, e la traduce in un complesso di superiorità verso le altre razze. L’etica dell’imperialismo consente molte libertà: la Gran Bretagna inventa il narcotraffico di Stato per piegare le resistenze della Cina all’invasione commerciale (le Guerre dell’Oppio dell’Ottocento). Il «dispotismo orientale» è riscoperto e aggiornato di continuo: piace a Karl Marx, a Max Weber che descrive India e Cina come Stati «idraulico-burocratici», a Karl Wittfogel. Ernst Juenger e Carl Schmitt nel 1953 nel saggio Il nodo di Gordioarrivano a dipingere perfino Hitler come un mostro alieno dalla nostra cultura, il nazismo come una «incursione dell’Asia dentro l’Europa». Per loro nella contrapposizione tra Est e Ovest la geografia diventa una metafora degli atteggiamenti umani: l’Asia «massa terrestre» coltiva l’arcano, la magia e la sacralità del potere; l’Occidente circondato da oceani ha per valori la mobilità, la circolazione delle idee, il potere limitato dalla ragione e dal diritto. Perfino uno dei più grandi sinologi contemporanei, il francese François Jullien, si ispira a questa tradizione quando mette in dubbio che vi sia spazio per la democrazia e i diritti umani nella civiltà cinese (La Chine au miroir de l’Occident, Le Monde Diplomatique, ottobre 2006). Un’altra forma di invenzione dell’Oriente approda invece a risultati opposti. È anzitutto l’Illuminismo che adotta la Cina con entusiasmo e la idealizza. Il leader di questa operazione è Voltaire. Anche lui non ha mai messo piede in Cina, ma se ne innamora perché vi vede la prova che una civiltà avanzata può fondarsi su basi non cristiane. Lo esalta la descrizione (che ha letto in Matteo Ricci) degli esami meritocratici attraverso i quali il potere imperiale seleziona una burocrazia efficiente — i mandarini — per amministrare la più grande nazione del mondo. Confucio, in quanto fondatore di una «religione laica» che tiene unito il tessuto sociale basandosi esclusivamente sulla razionalità e su un’etica umanistica, viene arruolato da Voltaire nella battaglia contro la Chiesa cattolica. Voltaire teorizza il primato sto- Repubblica Nazionale DOMENICA 28 GENNAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 Oriente Specchio rovesciato dell’Occidente rico dell’Asia. Nel 1746 nel suo Saggio sui costumi scrive che «se un filosofo vuole sapere quanto è avvenuto nel mondo deve anzitutto volgere lo sguardo all’Oriente, culla della civiltà, a cui l’Occidente deve tutto». Sulla stessa lunghezza d’onda Leibniz si immerge nello studio del più antico testo cinese, I Ching, per trovarvi la base di un linguaggio universale. Se il confucianesimo seduce Voltaire, cent’anni dopo è il buddismo indiano a ispirare una diversa forma di «orientalismo». Nasce fra i romantici tedeschi Herder, Goethe, Schelling, Schopenauer. Condividono l’idea che bisogna cercare in Asia «la sorgente primaria di tutte le idee» (Schlegel), si staccano da Voltaire perché quel che li attira dell’Oriente è lo stereotipo opposto: l’irrazionalismo, il misticismo indiano. I romantici prendono le distanze dall’infatuazione europea per il progresso, la scienza, la tecnica, lo sviluppo economico. L’India spiritualista diventa l’anti-Occidente per eccellenza. Il compositore Richard Wagner attraversa una fase buddista in rivolta contro i «dogmi limitati e meschini» della tradizione europea. Per Nietzsche il bello del buddismo è l’assenza del ripugnante senso di colpa cristiano. Quest’altro Oriente immaginario impregna la nostra cultura fino a oggi. Ispira lo psicanalista Carl Gustav Jung che trova nel taoismo una capacità unica di sintonizzarsi con la nostra «esperienza interiore», di scavare nella dimensione nascosta della nostra psiche, di superare la contrapposizione fra la materia e lo spirito. Come lo ha descritto John Clarke nel bel saggio Jung e l’Oriente (edizioni Ecig, Genova 1994), lo psicanalista svizzero è un capostipite della re-invenzione dell’Oriente che attraversa la cultura del Novecento: il Siddhartadi Hermann Hesse diventa la lettura obbligata per l’educazione spirituale di intere generazioni, il rito iniziatico del pellegrinaggio in India unisce i poeti della Beat Generation, la New Age californiana, i Beatles. Più entrano in crisi le nostre certezze sul progresso e sulla razionalità, più l’Occidente affonda nell’insicurezza e nel vuoto di valori, più si convince che la vera saggezza va cercata sulle rive del Gange o sui monti del Tibet. Alla lunga la nostra immagine dell’Oriente ha finito per proiettarsi sull’idea che le nazioni asiatiche hanno di se stes- Fu l’Illuminismo ad adottare la Cina con entusiasmo e a idealizzarla come prova di società avanzata fondata su basi non cristiane se. Sotto shock per la decadenza della dinastia Qing, aggredita dalle potenze imperialiste, alla fine del Diciannovesimo secolo una élite cinese si adegua a pensare la storia come una “gara” Oriente-Occidente. Nel passato più antico la Cina aveva subìto sconfitte militari e invasioni solo da popoli che avevano finito per lasciarsi sinizzare, come i mongoli di Gengis Khan. Dall’Ottocento per la prima volta il confronto è con civiltà che si affermano superiori, vogliono imporre i loro modelli alla Cina. Per quelle classi dirigenti cinesi che si ribellano al declino, Occidente è sinonimo di rivoluzione industriale, nuove tecnologie, modernità economica. Mao Zedong in questo conflitto d’identità conia lo slogan «camminare su due gambe»: avanzare con la gamba occidentale, mantenendo l’appoggio su quella orientale. Dalla medicina alla filosofia, i cinesi assorbono l’idea che esistono due grandi sistemi; è meglio destreggiarsi fra le alternative, copiare dall’Occidente quando è efficace, riscoprirsi “asiatici” quando conviene. Da punto cardinale geografico l’Est diventa un luogo dello spirito rivoluzionario: L’Oriente è rosso è l’inno dei giovani maoisti nella Rivoluzione culturale. Anche in India lo shock della colonizzazione imprime stereotipi e semplificazioni europee. Nell’Ottocento il filosofo induista Vivekenanda condanna il «materialismo occidentale», riecheggiando i romantici tedeschi. La realtà è più complicata, naturalmente: varie forme di proto-capitalismo sono fiorite nel mondo confuciano secoli prima che Max Weber ne attribuisse il merito all’etica protestante; e una visita agli affollati templi indiani nei giorni degli esami universitari è rivelatrice dell’utilitarismo che si nasconde a volte dietro la religiosità orientale. In quanto alla civiltà occidentale, a chi gli chiedeva che cosa ne pensasse il Mahatma Gandhi si limitava a rispondere: «Sarebbe una buona idea». Repubblica Nazionale 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 GENNAIO 2007 i luoghi Isole del tempo PINO CORRIAS ianni Berengo Gardin conosce come si muovono il bianco e il nero tra gli uomini e il paesaggio; tra le donne e il cielo; tra tutti gli intrecci in transito. Il suo sguardo calcola la luce dei luoghi e delle circostanze. La sua inquadratura cattura le ombre. Il suo cuore registra le profondità della superficie. La sua Leica le incide in un istante che non si ripeterà mai più. Come la vita. La vita di Gianni Berengo Gardin ammonta a un milione e 350mila istanti irripetibili. Tutti in bianco e nero. Archiviati dietro ai suoi occhi azzurri e dentro agli scaffali del suo studio, a Milano. Compresi questi scatti che vengono da un passato remoto di anni Sessanta. E da una lontananza che un tempo i molti mari di Sardegna moltiplicavano per il numero delle scogliere, fino a farne l’isola più distante del Mediterraneo. La più sola. Sigillata da una lingua sconosciuta e dalla povertà. Bruciata dal maestrale. Cavalcata dalle leggende. Segnata dal mistero delle pietre sempre disposte a cerchio — dal focolare, alla casa delle fate, alla torre dei nuraghes — a replicare lo stesso confine dell’isola che segna i limiti concentrici del mondo, difende dal mondo, ma anche lo imprigiona. Racconta: «L’impressione era di arrivare in un luogo remoto. Carico di colori intensi: il verde dei boschi, il blu del mare, il bianco sparato della luce, delle saline, del granito. E sulle strade sterrate, in primo piano, queste figure in nero. Donne con l’anfora dell’acqua appoggiata alla testa. Uomini armati a cavallo. Pastori con i gambali di pelle e la giacca di velluto nera. La prima volta che sono sceso dalla nave era il 1968. Mare turchese e limpidissimo di Porto Torres. Le automobili venivano ancora scaricate con la rete di corde e la gru, una alla volta, come un carico fragile e prezioso: la gente che faticava sui moli assolati si fermava a guardarle. C’era l’odore di nafta e di salmastro. Ma all’improvviso anche di mirto. Ero lì per il Touring Club. Avevo un’auto, un autista e un po’ di libri. Viaggiai per due mesi. E quasi nulla mi sembrava Italia, ma uno strano West, una frontiera d’altri tempi, appena conquistata, con le jeep dei carabinieri che pattugliavano le strade deserte. Con la Guardia costiera che faceva scendere uomini in catene diretti ai penitenziari. Con le foto dei ricercati sui muri degli uffici postali e la taglia da cinque milioni. «E insieme mi colpiva la bellezza selvaggia del paesaggio. Mi colpiva il silenzio, questa povertà imperturbabile, l’isolamento dei paesi. Viaggiavamo per ore, sugli altopiani, senza incontrare nessuno, al massimo un camion, un branco di cavalli bradi, o un gregge. Risalivamo montagne. E quando entravamo nei paesi — a Oliena, a Lula, a Orune, a Orgosolo — all’improvviso mi sentivo circondato dagli sguardi. Avevo questa fortissima sensazione, varcando il silenzio delle vie assolate, di essere un estraneo guardato da mille occhi. Uno straniero che cammina tra le vie vuote, a parte qualche cane randagio, circondato da tende e persiane chiuse, approdato chissà da dove, da un luogo di tempi futuri, il Continente. Poi in un attimo ecco il muro che si rompe, il sorriso, la sedia offerta al bar. La gentilezza delle persone. La loro curiosità. L’ospitalità del cibo e del vino. I racconti del G “Ero uno straniero che camminava tra le vie vuote, FOTO GIANNI BERENGO GARDIN/CONTRASTO paese, dei pascoli e della siccità. Qualche volta dei banditi e delle vendette. Mi stupiva l’italiano perfetto dei pastori. La musica e i fuochi della festa. Le mandorle con il miele amaro, intorno alla brace, dove cuoce la carne». [...] Gianni Berengo Gardin ha girato tre volte il mondo. Passando per l’Oriente e per Luzzara, il paese del suo amico Cesare Zavattini. Per le fabbriche nel Miracolo economico. Per le periferie del lavoro. Per i campi polverosi degli zingari. Per i manicomi di Gorizia e di Trieste smantellati da Franco Basaglia. Per l’Europa divisa e poi unita. Compresa la costa inglese in un giorno di vento, dove intercetta la sua foto più celebre, una coppia di spalle, seduta dentro a una Austin, parcheggiata davanti al mare. In mezzo secolo ha pubblicato più di duecento libri («a quota duecento ho smes- circondato da persiane chiuse Poi in un attimo ecco il muro che si rompe, il sorriso, la sedia offerta” Repubblica Nazionale DOMENICA 28 GENNAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 Una casa editrice di Nuoro pubblica le immagini in bianco e nero scattate dal grande fotografo tra il 1968 e il 2006. Quelle più datate restituiscono un mondo imprigionato nella lontananza nel quale, come dice l’autore, “quasi nulla sembrava Italia” LUOGO E DATA Le foto di Gianni Berengo Gardin hanno per sola didascalia il luogo e la data. In queste pagine, in senso orario, a partire dalla foto grande: Tuili, 1968; Barumini, 1978; Sedini, 1968; Cabras, 1968; Gadoni, 1968 Berengo Gardin una Sardegna al passato remoto so di contarli»). E ha insegnato a un bel po’ di generazioni di fotografi come si tengono gli occhi sul mondo, catturando immagini che non hanno bisogno di didascalie («solo una riga: la data e il luogo»), e scoprendo che perfino nelle strade di Nuoro e di Oristano le coppie adesso si baciano. [...] Gianni Berengo Gardin gira con almeno una macchina fotografica al collo. Usa la Leica. Qualche volta la Contax, la Nikon, o addirittura la Hasselblad. Ma di solito è la Leica, maneggiata a Parigi, scuola Agenzia Magnum («essere veloci, essere semplici») e poi per sempre, con pochi obiettivi a portata di mano, il 24, il 28, il 35. E il 90 in tasca («non si sa mai»). Niente macchine digitali. Mai. Proibito. Lui ha bisogno dello scatto meccanico, della pellicola, della camera oscura. D’abitudine indossa giacche con molte tasche piene di rullini nuovi o appena usati, piene di biro e matite che spuntano dal taschino, foglietti di appunti, il taccuino, l’agenda. Il cellulare lo tiene spento, sul tavolino. Mentre chiacchiera non si distrae mai dal paesaggio. In questo momento ci sono due ragazze sedute a un tavolino di lato che ridono. Il cameriere in camicia bianca con birra e caffè. Un uomo anziano al bancone che beve un calice di rosso, con gli occhi chiusi. Una donna orientale che sembra triste mentre scrive una lettera. Un ragazzo arabo che legge e fuma. Gianni Berengo li ha già fotografati tutti, senza mai cambiare obiettivo alla macchina, né la postura delle gambe accavallate, né il tono della voce. E adesso, mentre fotografa, parla delle sue fotografie. «A me piace definirle come fotografie di figure ambientate. Contengono un racconto e una descrizione. Le persone sono al centro del racconto, anche se non amo il ritratto per il ritratto. Non mi interessa. Meno ancora mi interessano le persone famose. Hanno sempre la febbre. E una luce che le rende finte anche nella febbre: troppo levigate, troppo consumate, troppo distorte. Troppo. Mi interessa la gente che normalmente non viene fotografata. Quella comune, mentre vive. Che compie i gesti IL LIBRO La casa editrice Imago Multimedia di Nuoro ha da poco mandato nelle librerie il libro di Gianni Berengo Gardin Reportage in Sardegna 1968/2006 (200 pagine, 70 euro ) Il volume, a cura di Daniela Zedda, è arricchito da due testi, uno di Pino Corrias (del quale pubblichiamo ampi estratti in queste pagine), l’altro di Pasquale Chessa. Raccoglie immagini colte in Sardegna nell’arco di quasi quarant’anni; quelle datate 1968 costituiscono la parte quantitativamente maggiore. Ulteriori informazioni sul sito della casa editrice, www.imagomultimedia.it. In queste settimane è in corso anche, a Genova, una mostra di fotografie di Berengo Gardin dedicate al mondo dell’impresa sociale e del no profit dal titolo I mille volti dell’utile.A Palazzo Doria Spinola fino all’11 febbraio quotidiani del lavoro. Ho fotografato molto gli operai in fabbrica, cominciando dalla Olivetti, dalla Fiat, dall’Alfa. Gli impiegati in ufficio. Gli infermieri negli ospedali. Le botteghe e i mercati. Le miniere e la campagna. Amo il backstage: raccontare quello che accade dietro ai palcoscenici del teatro, del cinema, della musica e che di solito non si vede. Ho fatto parecchi reportage alla Scala, ma non i cantanti o i direttori d’orchestra. Le mie immagini stanno sempre dietro le quinte dove ci sono i falegnami che assemblano le scene, le sarte che cuciono i costumi, le lavoranti che ogni sera lavano i vestiti delle comparse, e poi li stirano. «Non uso quasi mai il flash perché fa una luce irreale, e quando non ce n’è abbastanza, preferisco rinunciare allo scatto. Non uso il cavalletto: blocca la macchina che invece deve navigare sempre libera, cercarsi la sua traiettoria. Non uso i super grandangoli, tipo il 17 o il 15, perché deformano. Non uso i super tele perché preferisco la visione naturale delle cose e non le prestazioni dalla distanza. Non ho mai fatto foto per la pubblicità. Non faccio still life. Non mi interessa il nudo o la foto posata, o la foto artistica, anche se qualche volta ammiro le fotografie di Helmut New- “L’importante di una foto, quello che la rende una buona foto, è che sia vera, nel senso pieno del termine. Che sia onesta. Senza tagli, senza trucchi. Senza troppi artifici tecnici” ton. Fotografare per me è riconoscere in meno di un secondo un dettaglio della vita. Essere così veloce da inquadrarlo nel mio spazio, mettere nella stessa linea di mira, come diceva Bresson, la testa, l’occhio, il cuore. Trasformare quell’istante in un frammento della memoria, qualcosa che è accaduta davvero e che non è andata persa. Ammiro molto Henri Cartier-Bresson. Ci siamo conosciuti e frequentati, con Robert Doisneau, a partire dagli anni Cinquanta, quando si andava ad ascoltare Edith Piaf e Juliette Gréco nelle caves del Quartiere latino. Ma non è lui il fotografo che mi ha influenzato di più. Semmai un altro parigino, Willy Ronis, che non cercava mai l’insolito, ma raccontava con immagini semplici, ordinarie. E in Italia Ugo Mulas, con i suoi reportage sull’arte americana, il suo rigore in bianco e nero. «Mi chiedono sempre perché non uso il colore, visto che sono realista e che la vita è piena di colori. D’accordo. Lo ammetto. Sono influenzato dal neorealismo di Vittorio De Sica e di Roberto Rossellini. Dalle immagini di Hôtel du Norddi Marcel Carné. Dalle prime fotografie che ho ritagliato da Life, da Time, da Paris Match, dalla mia memoria in bianco e nero. Ma il bianco e il nero sono due colori, no? Con una gamma infinita di sfumature e tracce che puoi seguire, puoi completare. L’importante di una foto, quello che la rende una buona foto, è che sia vera, nel senso pieno del termine. Che sia onesta. Senza tagli, senza trucchi. Senza troppi artifici tecnici. Proprio il contrario di quello che adesso fanno molti fotografi con le macchine digitali e il Photoshop: cambi di luce, cambi di colori, spostamento di dettagli, cancellazioni parziali. Ho letto che il 60 per cento delle foto dello tsunami pubblicate dai giornali nel mondo sono false o falsificate. In questo modo finisce il reportage, la foto documento: quella ti racconta cosa accadeva quel giorno, in quel luogo, a quell’ora. Mi hanno sempre fatto ridere quelli che guardando il lavoro ti dicono: “A queste persone gli hai fotografato l’anima”. Che vuol dire? Se sono riuscito a fotografar loro la faccia è già tanto. Il racconto da tramandare di quel giorno, quel luogo e quell’ora è lì dentro». [...] Quante volte è tornato in Sardegna? «Altre tre volte, forse quattro. Una delle prime con Renzo Piano che aveva ricevuto l’incarico di ridisegnare un pezzo della periferia di Cagliari. Rimanemmo un paio di settimane. Poi l’incarico sfumò. Io andai a nord, in Costa Smeralda, e feci uno dei più grandi sbagli della mia vita. Rifiutare una casa bellissima, bianca, in mezzo alla campagna, su un’altura. Circondata dai boschi e dal mare, incantevole. Costava una cifra ridicola. Ma io neanche mi resi conto… Pensai: che me ne faccio? Il traghetto arriva solo tre volte alla settimana, tutte le strade sono sterrate, non avrò mai abbastanza tempo…». [...] Repubblica Nazionale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 GENNAIO 2007 Cinquant’anni fa lo scrittore vicentino attraversò in lungo e in largo la penisola ricavandone “un inventario”. Descrisse città e paesaggi, incontrò contadini e Adriano Olivetti, Salvemini e Padre Pio,e intercettò i primi sintomi della malattia nazionale: il ristagno della classe politica e la corsa verso le sole cose che interessavano la gente, denaro e cibo. Ma intravide anche la cura: l’Europa Viaggioin Italia Piovene, reporter per caso nel “Paese oscuro a se stesso” FRANCO MARCOALDI l 30 novembre del 1957, recensendo il Viaggio in Italia, Eugenio Montale scriveva: «Guido Piovene ha compiuto per conto della Rai un viaggio di ricognizione di una completezza che non ha precedenti, e ci ha dato un inventario, com’egli lo chiama, delle cose d’Italia che scoraggerà per molti anni chi vorrà ritentare l’impresa». Montale aveva talmente ragione che oggi, a cinquant’anni esatti dalla pubblicazione di quell’«inventario», faremmo fatica a individuare un altro libro di viaggio che sia stato in grado di penetrare così a fondo nelle viscere del paese. Tanto da essere letto con grande profitto anche pensando al nostro presente. Così come accadrà per gli altri suoi libri di viaggio, precedenti e successivi (dal De America a Madame la France a L’Europa semilibera), nel grand tour italiano Piovene si abbandona interamente ai fatti, agli incontri, ai paesaggi, per come gli si presentano davanti agli occhi. Nella loro inevitabile contraddittorietà. Non cerca mai di aggiustare quel che vede, quel che incontra, in un disegno interpretativo precostituito. Perciò sono tanto più interessanti le sue conclusioni diagnostiche, a cui giunge dopo tre anni e mezzo d’indagine. «L’Italia è varia, non complessa», annota lo scrittore vicentino. «Cambia da un chilometro all’altro, non solo nei paesaggi, ma nella qualità degli animi; è un miscuglio di gusti, di usanze, di abitudini, tradizioni, lingue, eredità razziali. Sono però diversità vissute come fatti della natura, che fomentano umori litigiosi ed in- I comprensioni, ma non conducono al distacco». Il nostro, del resto, non è un paese di distinte «famiglie spirituali», come la Francia. Né coltiva particolarmente il proprio passato, come accade ai cugini d’oltralpe. Di primo acchito potrebbe apparire statico, immobile, perché da noi «quasi nulla appare con la sua vera faccia». Ma una ricerca accurata e in profondità ci mostrerà «la società più mobile, fluida e distruttrice d’Europa». Addirittura «futurista», incalza Piovene da vero rabdomante, prefigurando gli effetti di una trasformazione sociale irreversibile. Peccato che i vistosi avanzamenti economici avvengano in un quadro generale di confusione e inconsapevolezza, essendo l’intelligenza e la cultura tenute in pochissimo conto dalla politica, mentre la scena pubblica è occupata da due unici problemi, denaro e cibo, «quasi per un tacito accordo tra affaristi e sociologi». Il panorama dunque «è quello di un paese attivo, la cui azione rimane buia». Quanto alla Chiesa — e a dirlo è un signore che afferma: «Non sono laicista» — si sostituisce troppo spesso al laico in ciò che al laico compete: «Amministrare il bene pubblico, difendere la cultura, tutelare la legge». Ma trattare la vita di un’industria alla stregua di «un istituto di carità» offre inconsapevolmente la sponda a chi «considera la ricchezza pubblica un terreno di caccia». Così, mentre «nello Stato distrutto si sostituisce un vuoto nel quale scorrazzano gli appetiti, [...] il paese precipita nel vitalismo puro, nella fisicità pesante». La vera speranza, conclude Piovene, risiede nella comunità europea, all’interno della quale l’Italia potrà conquistare «un posto come forse non ebbe mai dopo l’unità, sempre che non decada nel vitalismo grossolano, nel politici- “Cambia da un chilometro all’altro non solo nei paesaggi ma nella qualità degli animi Sono però diversità vissute come fatti della natura” IL LIBRO E LE IMMAGINI Le immagini della pagina di sinistra sono tratte dal libro Guido Piovene o della vicentinità, a cura di Clelia Martignoni, Rossana Saccani, Vanni Scheiwiller (Banca Popolare Vicentina, Libri Scheiwiller, 1993), nel quale compaiono anche i testi di Eugenio Montale e Goffredo Parise citati nell’articolo. Nel 2007 ricorre anche il centenario della nascita dello scrittore smo affannoso, nella sfiducia intellettiva». Quei fantasmi, che continuano ad aleggiare inalterati nell’Italia odierna, compaiono a Piovene via via che percorre la penisola in auto al fianco della moglie Mimy, suo pilota di fiducia. Già, perché il nostro non sa guidare, e in La coda di paglia lo dichiara con una certa civetteria, enumerando contemporaneamente tutti i suoi altri “handicap”: «Non so sciare né ballare, né fare una valigia, non guido l’automobile, e non ho mai posseduto una chiave senza romperla nella serratura». Ecco perché, conclude, «il caso più straordinario della mia vita è l’essere riuscito a fare anche del giornalismo essendo interamente incapace di avvicinare le persone che non conosco, e “reportages” di viaggi non sapendo viaggiare». In realtà, come testimoniano i risultati dei suoi libri, Piovene è un fior di viaggiatore, a dispetto delle sue inettitudini. Anzi, proprio qui si combina al meglio la sua natura bifronte di scrittore e giornalista, grazie alla quale il suo sguardo e la sua lingua possono mettere in movimento razionalità e invenzione, scetticismo e passione. Sandro Gerbi, introducendo un’altra raccolta di reportage, In Argentina e Perù (1965-1966), riporta una dichiarazione dello scrittore vicentino quanto mai significativa: «Le lunghe inchieste giornalistiche (sull’America, sull’Italia, ecc.) mi hanno obbligato per anni ad interessarmi di fatti che la mia naturale pigrizia avrebbe rifiutato in gran parte, e ad interessarmene in vista del vero e dell’utile. Sono state la mia vera scuola, l’antidoto im- posto volontariamente, direi criticamente, a un’indole il cui principale pericolo era appunto l’irrealtà, con le sue conseguenze: intellettualismo, riscaldi d’immaginazione, acume esasperato, ma non equilibrio, ecc. Non sono un giornalista nato, ma ho voluto diventarlo». L’autore tormentato di Lettere a una novizia e La Gazzetta Nera; lo scrittore che sprofonda con coraggio negli abissi della coscienza, scopre ben presto il fascino di una ricerca tutta esterna, «in vista del vero e dell’utile». E mette a frutto l’eleganza aristocratica della sua prosa, la prensilità di una cultura vasta e curiosa, il connaturato abito del moralista, nell’osservazione diretta di uomini, luoghi, fatti. Le diverse città attraversate passano così al vaglio di un occhio fulminante che ce le restituisce in un’indimenticabile sequenza d’istantanee. A cominciare dal luogo natio, Vicenza, «una città in bianco e nero, con le tinte di un’acquaforte, in un paese dalle luci morbide, rosee, in cui l’aria sembra portare un colore disciolto». Quanto a Milano, gli appare come «un’America a cui manca la crudeltà». Mantova «è una città viva che reca dentro di sé una città morta». Ferrara «è insieme aerea e cupida. Si ha l’impressione di bere un liquore distillatissimo tra i fumi d’una cucina densa di sughi». Se Firenze «è magra, longilinea», a Bologna «i portici, gli archi, le cupole, tutto fa pensare a una rotondità carnosa». Genova «è una città dura che si compiace d’essere sentimentale. Immagina se stessa rude, ma dolce nel segreto». Cosenza, infine, è uno strano mix borbonico-americano, visto che «il corso Mazzini è una piccola Broadway. Quei palazzoni, quei caffè, quei negozi che espongono i più recenti modelli di Dior e di Fath, e ostentano vetrine di un modernismo milanese, quando Milano vuol dare dei punti all’America, ricordano come Cosenza sia la città della Calabria Repubblica Nazionale DOMENICA 28 GENNAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 Genova Sottoripa, purtroppo offesa dai bombardamenti ed oggi dalle luci al neon, è tutta traforata di ristoranti sotterranei […] nelle viuzze, i friggitori espongono pesci e torte di riso, uova sode, carciofi, spinaci; odore di fritto, di pesto e d’aglio Roma Il romano, essere contraddittorio, è incarnato nella sua città, di cui decanta la bellezza, e insieme indifferente a questa bellezza; […] ritiene tutto transitorio, e stabile Roma sola Bellagio La letteratura lombarda è una letteratura di “laghi e colline” […] Non so se questo sia il più bello, certamente è il lago più nobile, anche perché è il più carico di storia e di letteratura divenute paesaggio Assisi Assisi soffre del declino del turismo contemplativo, lento, che amava le soste nei piccoli centri […] I suoi nemici sono l’automobile e, ancor più, l’autopullman Napoli Venezia Il risanamento urbanistico dev’essere preceduto dalla industrializzazione, e anche dalla educazione delle maestranze Questo popolo mite appare sempre risentito, recita la commedia dell’arrabbiatura perpetua Si parla e lavora all’aperto, facendo reti, corde, ceste, merletti Lo Stretto Si spalanca davanti uno stretto sempre agitato, decorato di spume […] Su queste acque messinesi si pesca alla fiocina il pescespada, inseguendolo lungo la scia lasciata dalla pinna, su barche dalla chiglia nera a sei rematori Portovenere Chiedo una barca, ma i vecchi pescatori, occupati lungo la riva a verniciare lentamente uno scafo o a fumare la pipa, rifiutano di accompagnarmi, col pretesto che le acque del porto sono un po’ agitate che paga più ricchezza mobile». Ben note sono le doti letterarie del Piovene paesaggista. E poiché i paesaggi rimandano per lui — come ha scritto Clelia Martignoni — al carattere degli uomini, non esiste occasione migliore per verificare sul campo tale teoria. «A differenza della collina veneta, languida e fantasiosa, quella toscana si direbbe disegnata da un artista cosciente, che non lasci nulla al caso e aborra dal superfluo, anche se poi, a lavoro finito, cosparge di gentili ornati la fondamentale secchezza della sua concezione». In questi due differenti paesaggi si rispecchiano i due caratteri regionali più antitetici. Mentre il temperamento veneto «tende al felice edonismo, e per questo è condotto a manipolare se stesso, a colorirsi e a rivestirsi di favole», il toscano invece, «anche di fronte a se stesso, è spietato». Se comunque volete conoscere il distillato paesaggistico dell’Italia, che a sua volta è il distillato del mondo, andate nelle Marche: «Qui abbiamo l’esempio più integro del paesaggio medio, dolce, senza mollezza, equilibrato, moderato, quasi che l’uomo ne avesse fornito il disegno. Non esiste una terra meno gotica, o meno barocca». Naturalmente ogni città, ogni paesaggio, è abitato da uomini concreti, in carne ed ossa. E Piovene ne incontra a decine: prelati, contadini, giornalisti, uomini politici, industriali. Enzo Ferrari gli ricorda che i prezzi dei suoi gioielli automobilistici, «macchine dotate d’anima», variano di caso in caso: «Seguono le leggi della simpatia; il prezzo è un compromesso tra il valore dell’automobile e la faccia dell’acquirente». Gaetano Salvemini, incontrato in casa di Bernard Berenson, gli appare «ispido e caloroso, espansivo e selvatico, simile a un vecchio cinghiale canuto». Padre Pio, già avvolto da una «efflorescenza magica», «si nutre di qualche erbaggio e di un bicchiere di birra» e dice Messa alle cinque del mattino «in uno stato, “Queste lunghe inchieste sono state la mia vera scuola, l’antidoto a un’indole il cui principale pericolo era l’irrealtà con le sue conseguenze” certo autentico, di estasi e rapimento: non un rapimento immobile; un rapimento travagliato, in cui si alternano sentimenti diversi, con una specie di altalena tra l’ebbrezza e l’affanno». Infine, a Ivrea, ecco Adriano Olivetti che gli parla del «moralismo-dolorismo dell’industria italiana, questo feticismo nazionale per la fatica, il lavoro domenicale e il dormire poco». Sì, perché nel libro il lavoro ha una parte importante, decisiva. E Piovene snocciola cifre e dati di ogni genere. Ma aggirandosi per le fabbriche e gli uffici della Lombardia, comprende quanto poco arido sia quel genere di inchiesta: «Si crede di viaggiare tra macchine e bilanci, e invece è un viaggio per le regioni del cuore. Il lombardo corre in ufficio con tanto desiderio e con tanta felicità che l’impregna di sentimento, e il registro del ragioniere è carico di speranze, di sogni e palpitazioni amorose». Naturalmente, lo scrittore vicentino riconosce perfettamente la caducità intrinseca di molte parti del suo inventario. Via via che passa il tempo, i personaggi incontrati muoiono, le statistiche cambiano, i paesaggi si alterano. D’altronde non si può rifare ogni anno un nuovo viaggio in Italia, nell’ambizione di un permanente aggiornamento. Meglio lasciare il libro così com’è, nella speranza che le permanenze siano altrettanto importanti delle variazioni. L’autore ne è convinto, tanto che in SCATTI D’EPOCA Nella pagina di sinistra in alto, Piovene in una foto degli anni Settanta e, sullo sfondo, una pubblicità per le trasmissioni radiofoniche del Viaggio in Italia del 1953 da cui sarà tratto il libro In basso, Piovene con la moglie Mimy. Le immagini e le citazioni della pagina di destra sono tratte da un’edizione del 1957 del Viaggio in Italia, (Mondadori) un post scriptum successivo di una decina d’anni alla prima edizione, ribadisce alcune sue precedenti affermazioni: cominciando dal disamore che corrode il Mezzogiorno («quella specie di fuga da se stesso che l’uomo meridionale sta compiendo») e finendo con «il realismo praticone» della nostra politica. Quanto alle differenze, l’Italia gli appare indurita; è il paese europeo più assillato dalla «lotta per il denaro ed il successo»; e in apparenza, ma solo in apparenza, il più politicizzato: «Esiste infatti un impegno totale, che viene soprattutto dalla poca coscienza reale; mancano i limiti segnati dai veri sentimenti, dalle convinzioni sincere, ci si butta un po’ a capofitto, trasportati dal meccanismo delle idee, dalla loro forza d’inerzia, dai richiami della convenienza». Nei piani alti — quelli delle élite — c’è «opacità e ristagno», mentre appena sotto si assiste a uno squagliamento progressivo della vecchia civiltà. Si potrebbe dire a un tempo che il nostro è «un paese ritardato e un paese di punta [...] Certamente anche un paese oscuro a se stesso, nel quale tutti soffrono più malesseri che dolori, senza capirne con chiarezza il perché». Leggendo queste pagine così acute, torna di nuovo — pressante — la domanda su come si spieghi tanta lungimiranza in uno scrittore di viaggio malgré lui, quale Guido Piovene. Forse aveva ragione il suo amico e concittadino Goffredo Parise, quando sottolineava «il suo “naturale” internazionalismo», «il suo scetticismo anglo-francese», un carattere, uno stile letterario, modi e atteggiamenti poco o punto italiani. Vuoi vedere che Piovene raccontò così bene il nostro paese proprio perché «era un italiano non italiano»? Repubblica Nazionale 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la lettura Catastrofi DOMENICA 28 GENNAIO 2007 Agosto 2005, New Orleans viene travolta dalla furia delle acque che rompono dighe secolari. Il colpevole è un uragano dal nome di donna dolce e terribile In poche ore sono migliaia le case spazzate via, migliaia i morti e gli sfollati. Ora quella tragedia è raccontata in un libro fotografico commentato da un grande scrittore Il cuore nero dopo Katrina JOHN UPDIKE atrina, come si dice per far presto, è stato un nero disastro che ha messo in luce la povertà nera che allignava nelle zone basse della metropoli, fuori dalla vista dei turisti che inondano Bourbon Street per assaggiare la cucina Cajun e centellinare il jazz vecchio stile. Dopo tutto, la città aveva solo questo da vendere, facendo tesoro del suo passato di porto francofono del Sud. Fondata nel 1718, sin dall’inizio New Orleans flirtava con il livello del mare mentre alle sue spalle incombevano il Mississippi e il lago Pontchartrain, pronti anche loro a innalzare le loro acque minacciose. Un po’ come Los Angeles ha la sua faglia, e New York il suo traffico, New Orleans traeva vanto dalla sua ipotetica precarietà. Katrina non si è dimostrato per nulla ipotetico: centosessantamila case sono state spazzate via e, per dirla con Jeff L. Rosenheim, autore di una succinta introduzione al massiccio album di Robert Polidori After the flood (Göttingen, Steidl, 2006), strada dopo strada, isolato dopo isolato, l’uragano ha accatastato estese rovine urbane e una massiccia disintegrazione del tessuto umano. Molte migliaia di sfollati non sono ancora tornate a casa, e circa duecentomila non lo faranno mai. Una grande città americana è stata spopolata con una rapidità che nessuna guerra potrà mai eguagliare. Quando Polidori giunse a New Orleans il 20 settembre, l’ottanta per cento della città era ancora sott’acqua. La temperatura sfiorava i 38 gradi e l’odore della carne in decomposizione rendeva putrida l’aria. Cavi elettrici abbattuti drappeggiavano strade e vicoli. Querce sradicate giacevano ancora vive come colossi caduti, eppure non vi era grandezza nella scena, ma solo disperazione. Semafori e lampioni avevano cessato di funzionare da tempo, esausti soccorritori stavano ancora scoprendo e raccogliendo cadaveri. La prima fotografia della mostra New Orleans After the Flood: Photographs by Robert Polidori (Metropolitan Museum of Art, New York, 19 settembre-10 dicembre, 2006), intitolata Industrial Canal Breach, Reynes Street, raffigura, sotto un cielo settembrino blu polvere, dell’acqua che scorre tra banchi di legname accatastato dall’acqua, materiali isolanti, automobili rovesciate. Le automobili, questa stolida necessità americana, si rivelano molto sensibili e comicamente quasi spumeggianti in un’inondazione; la seconda foto, 2600 Block of Munster Boulevard, ne cattura due con la coda sollevata, come fossero due ballerine di fila, stagliate contro una linea di bungalow in mattoni. Nell’onda di piena delle 333 pagine dell’album di Polidori, le automobili distrutte — rovesciate, rigurgitanti fango, intrappolate sotto edifici crollati, inforcate su palizzate, sepolte sotto travi di legno, ammucchiate le une sulle altre come in una bizzarra orgia — si contendono il primato con alberi sradicati e case in legno separate dalle loro fondamenta in cemento. 2732 Orleans Avenue, la foto che figura sulla copertina dell’album, mostra un coupé bianco, intatto, parcheggiato ad angolo di fronte a una piccola ma apparentemente intatta casa bifamiliare. Il sottile messaggio della fotografia, reso chiaro dall’ingrandimento che è esposto al Met, è rivelato dalle linee oriz- K IL LIBRO Le immagini pubblicate in queste pagine sono tratta dal libro After The Flood di Robert Polidori (Steidl, 335 pagine, 78,10 euro, distribuito in Italia da Hoepli). In alto, un interno a 5000 Cartier Avenue; in basso 1401 Pressburg Street Per quanto le foto all’aperto ci mozzino il fiato sono gli interni desolati che aumentano l’ansia zontali di melma sulla carrozzeria dell’automobile, che segnano il progressivo recedere delle acque. Per quanto le foto all’aperto ci mozzino il fiato per la testimonianza che offrono di una catastrofe che ha spazzato umili quartieri usi all’anonimato, sono gli interni desolati che attirano lo sguardo e aumentano il ritmo della nostra ansia. Un interno ingrandito, moderno nello stile, 1401 Pressburg Street, è vittima di uno sconquasso senza rimedio per l’aspirazione delle sue pareti blu vivace, dello squadrato sofà e del dipinto di paesaggio artico, della sua lampada di ottone da terra al soffitto, con i tre lampion- Los Angeles ha la sua faglia, New York il suo traffico Qui era un vanto la precarietà L’AUTORE John Updike è nato a Shillington, Pennsylvania, ma vive nel Massachusetts Ha esordito nel ’59 con Festa all’ospizio. Tra i suoi successi: Verso la fine del tempo, Una storia in Danimarca e Nella fattoria Il suo ultimo romanzo, uscito in questi giorni, è Terrorista pubblicato in Italia, come tutti gli altri, da Guanda cini cilindrici avvolti nei colori primari dello spettro, e del testo incorniciato sulla destra con una piccola didascalia che dice «Rimani qui». Un altro interno in mostra, 5000 Cartier Avenue, potrebbe essere stato una stanza di servizio o un atelier, mattonelle al suolo, un organo elettrico, un piano sullo sfondo, una cyclette, un piccolo tavolo di quercia, un motto incorniciato che dice «Tu sia benedetto». Si vedono anche delle foto da cerimonia di bambini di colore e in grande evidenza, come se appartenesse a un abitante della casa tornato ad abitarla, la foto di una giovane donna di colore che indossa una divisa militare ornata di nastrini. Per noi frequentatori di gallerie d’arte, non credo vi sia altra occasione di entrare nelle case di afroamericani. Lo fecero prima di noi le acque melmose, invadendo le stanze, poi la polizia e i soldati, alla ricerca di morti e di animali domestici sepolti nel fango, infine Robert Polidori con la sua vorace macchina fotografica. E infine noi stessi, col nostro affascinato sguardo da sociologici benpensanti. After the Flood è un volume opulento, brillantemente a fuoco con le sue riproduzioni in grande formato, rilegato in tessuto color lavanda, difficile da manipolare se non su un tavolino da salotto. Pesa circa quattro chili e mezzo e costa 90 dollari. Una sorta di paradosso consumistico aleggia sull’esistenza di un volume tanto caro che vuol testimoniare la riduzione di una zona urbana prevalentemente povera — «l’ambiente urbano funky che diede vita al jazz», recita una scritta su un muro — in uno stato di privazione assoluta e di ancor più grande desolazione. A chi è diretto questo libro? Non alle vittime dell’inondazione, che non potrebbero certo permetterselo. E neppure, vien da pensare, alla maggior parte dei raffinati conoscitori di fotografie d’autore, anche se gli studi ravvicinati che Polidori offre delle contorte trame di fango e pitture d’interni non sono privi di una sorta di bellezza astratta. Con alcuni momenti di umorismo pop che si esprimono nell’ornato modesto e volgare di un paio di scarpe o in pareti dipinte con vernici scintillanti che le vittime si sono lasciate dietro col montare delle acque, o in una sorta di installazione di Art Brut in stanzette in penombra, affollate di mobili a poco prezzo, pigiati come passeggeri in una nave che affonda. L’album non è tuttavia privo di destinatari. È per i nostri figli e i nostri nipoti — per la documentazione storica — che Polidori ha lavorato per mesi e mesi al fine di catturare su pellicola (un’espressione che l’apparecchio digitale potrebbe presto rendere arcaica) le conseguenze di uno dei maggiori disastri occorsi sul suolo americano in questo giovane secolo. Ecco che aspetto aveva; ecco quel che non vogliamo accada più. Dal momento in cui lo studio Brady si mise a fotografare i campi di battaglia della Guerra Civile americana, la guerra ha assunto un volto nuovo, molto poco gradevole. La fotografia, diceva Susan Sontag, è naturalmente portata a ritrarre le disgrazie e i disgraziati. In alcuni casi, come a esempio le foto degli slums di New York scattate da Jacob Riis, o di sfruttamento del lavoro minorile scattate da Lewis Hine, l’opinione pubblica ha reagito, e si sono fatte delle riforme. La borghesia ha sempre bisogno di sentirsi a disagio. Se il disagio che After the Flood ha suscitato contiene una percentuale aggiuntiva di disagio generata dalla sontuosità del volume e dall’aura di elegante indifferenza che aleggia sui fotografi e sulle loro appropriazioni fotografiche, allora il valore documentario risulta ben maggiore per coloro che consulteranno l’opera nel futuro, e per usarla in modi che non riusciamo neppure a immaginare. Traduzione di Pietro Corsi Per gentile concessione di “The New York Review of Books-la Rivista dei Libri” Repubblica Nazionale DOMENICA 28 GENNAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 SCARPE E CASSETTI 6539 Canal Street e 5417 Marigny Street MUSICA E DIVANI 6042 Pratt Drive e 1908 Wickfield Drive LETTI DISFATTI 6328 North Miro Street e 2520 Deslondes AMBIENTI DISTRUTTI 6650 Memphis Street e 5603 Dauphine Street Repubblica Nazionale 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 GENNAIO 2007 Alla fine di febbraio Ennio Morricone, il più celebre compositore vivente di musica da film, riceverà finalmente l’Academy Award alla carriera, un riconoscimento che finora gli era stato negato. Alla vigilia della partenza per l’America, ci ha aperto le porte della stanza dove sono state ideate le più belle colonne sonore del Novecento GINO CASTALDO Q ROMA uando il Maestro Ennio Morricone apre le porte del suo studio privato, si spalanca una soglia magica su un gioioso caos di fogli di musica, libri, dischi. Siamo perfettamente consapevoli di essere entrati nel Sancta Sanctorum, nella stanza dove sono state immaginate le più belle musiche da cinema del Novecento. Forse il tema di C’era una volta in America è stato scritto guardando da queste finestre che si affacciano sul Campidoglio. Forse il fischio di Per un pugno di dollari è nato da uno sberleffo ascoltato nelle strade che brillano di vita, molti piani qui sotto, nel centro di Roma. Lo “scion scion” di Giù la testa potrebbe essere il sussurro di un fantasma dei vecchi palazzi che sono qui intorno. Lo studio è invaso: montagne di spartiti, un tavolo in- gombro di oggetti. Una parte dell’armadio gronda premi, sono tanti, ammassati: diversi Golden Globe, un piccolo Grammy, i David di Donatello in bella fila, molte maschere teatrali con gli occhi vuoti e sono i Bafta, il più importante premio cinematografico inglese, poi un Leone d’oro, altri più insoliti, un grande cono appuntito, sporgono dalle mensole, sembrano lì lì per cadere. Il Maestro ne sposta un paio, «vede, sono talmente tanti che non so più dove metterli», dice maneggiandoli con disinvoltura, come fossero inezie. Ma un po’ di spazio dovrà trovarlo per forza. Sta arrivando l’Oscar, il premio dei premi. Un musicista del suo calibro è allo stesso tempo mago e artigiano, un gran lavoratore, instancabile. Del resto 470 colonne sonore, per non parlare degli arrangiamenti di canzoni e delle composizioni pure, non si fanno senza un prodigioso attaccamento al lavoro. Anche ora, sul tavolo c’è una partitura in lavorazione. Cos’è, Maestro, un nuovo film? «No, è un pezzo di musica assoluta, un divertimento scherzoso intitolato Ricercare patriottico, uso la melodia di Fratelli d’Italia, così, e poi così», dice mostrando lo spartito, «in tutte le forme, quella originale, l’inverso, l’ottava… è diventato un pezzo astratto, ma sotto c’è sempre l’originale, è insieme una rivalutazione e uno sfottimento, ma ho l’impressione che cambierò titolo. Lo chiamerò Rebus italiano. Lo scrivo perché l’Istituzione universitaria dei concerti mi ha chiesto un concerto di musica assoluta, a maggio, con un pezzo inedito, per onorare il mio Oscar». Notiamo un furtivo, sorridente lampo di compiacimento nei suoi occhi. Sulla questione dell’Oscar Morricone ha mantenuto sempre un ferreo understatement. Diceva che non gliene importava nulla, che era in buona compagnia, con altri prestigiosissimi esclusi. Vero, ma alla fine sembrava un’ingiustizia troppo fragorosa. Lui che ha creato il suono dei film di Leone, Bertolucci, Tornatore e tanti altri. E l’ingiustizia in qualche modo la sentiva anche lui. «Sì», ammette, «soprattutto per Mission, è un film capolavoro, e fu maltrattato. Lo dissero i colleghi seduti accanto a me, mi dicevano ci dispiace, mi facevano le condoglianze, poi ci furono i fischi in sala, l’ingiustizia era dovuta al fatto che la colonna sonora che ha vinto, quella di Herbie Hancock, non era di musiche originali, era sbagliato metterlo in quella categoria. Non c’era paragone, non c’era la sostanza. Lo stesso Hancock andò a scusarsi col produttore di Mission, Fernando Chia. Anche lui sapeva benissimo che era ingiusto. In altri casi, che dire?, The untouchablessi è trovato a combattere con i nove Oscar dell’Ultimo Imperatoredi Bertolucci, quando va così un film se li becca tutti». Due casi, tra tanti, ma c’è un caso ancora più inspiegabile: C’era una volta in America, una musica di incomparabile bellezza, sicuramente tra le pagine più importanti del secolo scorso. Come è possibile che non abbia vinto un Oscar? «Glielo spiego subito», ribatte il Maestro, «gli americani lo ritenevano troppo lungo, lo rimontarono in ordine cronologico, accorciandolo e rovinandolo del tutto. Faceva schifo e quindi non lo presentarono nemmeno. Hanno fatto una brutta figura e hanno dovuto ripristinare l’originale. A quel punto, l’anno dopo, non si poteva più». E i primi film di Leone, i western? «Anche quelli non furono mai presentati». Il maestro lavora direttamente sulle partiture, per scrivere non usa il pianoforte, le musiche prendono forma nella sua testa e le mette giù pazientemente, scrivendo con matite di diversi colori («per non confondere i diversi livelli», dice). In fondo l’aspetto più sorprendente della personalità di Morricone è la sua passione, ancora intatta, ancora vigile dopo tanti riconoscimenti, mista a un acuto senso della razionalità. Quando parla delle sue musiche lo sguardo diventa febbrile. È ancora alla ricerca dell’inesprimibile. Vive la sua ricerca come un’evoluzione continua. «Ne sto prendendo coscienza soprattutto adesso», racconta. «Proprio nell’ultimo film, La Sconosciuta di Giuseppe Tornatore, c’è stato uno scatto in avanti. C’erano tante strade da percorrere, la storia svicola spesso e poi porta a una foce importante che è la chiusura del film, quindi ci chiedevamo che strada percorrere e da questa indecisione ho pensato che tutto FOTO MARIA LAURA ANTONELLI/AGF Nella bottega dell’Oscar quello che avevo fatto prima poteva prendere una forma più conclusiva, almeno per adesso». All’età di 78 anni Morricone è lontanissimo dalla pensione, cerca ancora di affinare la sua arte di compositore. E confessa i segreti del mestiere. «Parlavo con mia moglie di un vecchio arrangiamento che senza volerlo ho rifatto nel film di Simona Izzo, Tutte le donne della mia vita, ma era già germinato in un film del 1979 di Aldo Lado, L’Umanoide, una buona risposta ai film di fantascienza americani. Il pezzo iniziava con poche note che a poco a poco si coagulavano, si accumulavano con altre fino a che il tema scoppiava finalmente a piena orchestra con l’Inno alla gioia. Nella Sconosciuta questo coagularsi, che c’era in piccola parte in alcune cose televisive, tipo La Piovra, è diventato un lavoro in tre fasi: la prima serie di registrazioni è stata quella tematica, diciamo i temi che alla gente rimangono in mente; la terza serie, quella più classica di accompagnamento al film; poi la seconda sezione, la dico per ultima perché è la più interessante, era di pezzi astratti, con la possibilità che fossero ognuno un pezzo a se stante ma allo stesso tempo fossero sovrapponibili l’uno all’altro; e alla fine la novità si è sentita, molti l’hanno trovata una colonna sonora incredibile». A volte i segreti possono sembrare prosaici, se si pensa all’aspetto sublime e misterioso dell’ispirazione pura. Ma considerando i processi industriali che coinvolgono un film, non si possono ignorare. E Morricone ne è perfettamente consapevole. Anzi, il suo è un genio squisitamente pragmatico. «Non nascondo che certi processi nascono anche come esigenza di risparmio. Perché la musica costa sempre molto. Queste sono confessioni gravissime, pesanti, ma mi piace parlare sinceramente. Avevo escogitato un sistema: magari un film aveva bisogno di cinquanta pezzi, e questo significa tenere l’orchestra in studio per almeno dieci turni, con costi altissimi, allora facevo un pezzo solo in varie sovrapposizioni, pri- Repubblica Nazionale LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 FOTO FABIO LOVINO / CONTRASTO DOMENICA 28 GENNAIO 2007 PELLICOLE E PENTAGRAMMI Accanto, un primo piano di Ennio Morricone. Nella foto centrale il Maestro nel suo studio. Nell’altra pagina in alto: le prime note della colonna sonora di Mission e alcune locandine dei film di cui ha firmato la colonna sonora In basso, lo scaffale con i premi del compositore e la sua mano mentre scrive uno spartito QUANDO FIRMÒ INSIEME A PASOLINI In un caso Morricone ha messo la sua firma accanto a uno dei grandi registi con cui ha lavorato Un caso decisamente singolare. Al momento di completare Uccellacci e Uccellini a Pier Paolo Pasolini venne in mente di far cantare i titoli di testa a Domenico Modugno, perfettamente a suo agio nel ruolo di cantastorie Il testo è elementare ma Morricone dovette inventare una composizione a filastrocca per sostenere l’insolito canto È un esperimento di cui va particolarmente fiero e ci tiene a ribadirlo visto che spesso la musica viene erroneamente attribuita a Modugno, il quale di solito cantava musiche che lui stesso scriveva Ma non in quel caso ma gli archi, poi altri strumenti, poi quelli solisti, altri strumenti ancora, avendo le 24 piste poi le 48, così io avevo la combinazione di una versione, l’altra versione, poi queste versioni potevano essere messe insieme, da un pezzo solo ne venivano fuori dieci o dodici, un gioco combinatorio. Però bisogna saperlo scrivere. Questo ha portato a risparmiare dei soldi senza rinunciare a nulla». Come i figli, tutti i film sono eguali, ma qualcuno lo è più degli altri. Quando si parla di Mission, il film di Roland Joffè del 1986, Morricone mostra una speciale predilezione. «Non ho avuto sempre la coscienza di quello che facevo, ma in quel momento sì, sapevo che stavo facendo qualcosa di diverso. In Mission successe questo: è un film che si svolge nel 1750 con i gesuiti che vanno in Sudamerica, fondano la missione e siccome uno suona l’oboe si porta appresso il progresso della musica strumentale del Rinascimento; poi la musica liturgica, quella uscita dal Concilio di Trento alla fine del Quattrocento; e per forza di cose c’era la musica etnica. Quale fu l’idea? Ho già detto che cerco di sovrapporre temi, qui ho sovrapposto tre idee, la musica del Rinascimento, la musica liturgica, nel senso del mottetto reso forte storicamente da Palestrina, e la musica etnica. Queste tre idee sono presentate da sole, e nel finalissimo tutte e tre insieme, fu uno sforzo tecnico notevole, ma mi ha dato anche una soddisfazione morale e spirituale. Uno può essere credente o non credente, ma queste tre componenti mi davano l’impressione della realizzazione musicale e del sacrificio dei gesuiti, nella comunione che avevano con gli indios fino a morire insieme a loro, il prete Gabriel che muore con l’ostia in mano. Le tre parti arrivano insieme quando la ragazzina dopo la strage sta sul fiume e vede galleggiare il candelabro rotto e il violino, prende il violino e parte la musica, è un momento bellissimo, ma in queste tre cose vedevo la trinità di Dio, questo mi ha dato una grande soddisfazione morale e tecnica. La gente non lo sa, ma non importa». Ma alla gente in realtà qualcosa arriva, magari non il codice che l’ha generato, ma di sicuro l’effetto finale della musica è prodigioso, smuove i cuori, partecipa in modo fondamentale alla riuscita del film. Ma come si fa a essere sicuri dell’efficacia di un tema? «Qualche volta io scarterei dei pezzi che piacciono al regista o a mia moglie, ma in genere sbaglio io. Delle orchestrazioni mi rendo conto, ma sui temi non so giudicare, è molto difficile immaginare se nel tempo rimarranno. Faccio un esempio: quando è venuto qui Adrian Lyne per il tema di Lolita, ha sentito questi temi e ha detto “bellissimi ma non sono immortali”. Io gli ho risposto “per essere immortali bisogna aspettare un po’ di anni”. Poi ne ha sentiti altri e ha detto “questi sì sono immortali”. “Ma immortali di che?”, dico io, “nessuno può saperlo al momento”». Il rapporto coi registi è l’impalcatura di questa miracolosa carriera. Anche qui si capisce che ci sono stati registi più vicini e altri più lontani. Di alcuni parla con amicizia e stima incondizionata (Pontecorvo, Petri, Pasolini, l’unico con cui ha firmato dei pezzi, Leone, Tornatore); ad altri non lesina puntute osservazioni («Fellini voleva sempre la stessa canzone, ovvero Io cerco la Titina, la sua cultura musicale non andava oltre»); con altri ancora ha lasciato perdere per questioni di metodo («con Faenza siamo amici ma non può dirmi “e se poi in montaggio le musiche non mi piacciono?”. E lo stesso coi Taviani, grandi registi, ma loro di solito scrivono utilizzando musica classica e poi vorrebbero che io rifacessi quello che hanno già scelto»). Ma si è fortificato, anche umanamente, nel confronto con questi grandi artisti, accettando di buon grado alcune necessità primarie, la melodia innanzitutto: «La melodia è sempre decisiva perché al regista non gli puoi far sentire l’orchestrazione, e io ne presento sempre tante, per fargliene scegliere due o tre. Ma dobbiamo sapere per coscienza che è consumatissima. Qualcuno contesta questa idea, ma io ne sono certo, è come dico io, per essere orecchiabile la melodia deve giocare su pochissimi suoni, tre, massimo quattro. Ma da questa deduzione di materiale doveva nascere qualcosa di diverso. Esempio: Metti una sera a cena, siamo sempre lì, certo sotto cambiano le armonie, ma la melodia è semplicissima, e per fare qualcosa di originale ho cominciato a giocare sugli intervalli tra le note. Ognuno degli intervalli ha una caratteristica diversa, lo sanno bene i cultori: la terza minore ha una caratteristica di tristezza; la terza maggiore è più splendida, dà un certo ottimismo; la sesta dà ampiezza. Allora ho detto: adesso faccio un tema sulla sesta, ed è C’era una volta il West. Per Metti una sera a cena ho lavorato su un intervallo di settima, ed è venuto fuori un tema interessante, importante, la gente non sa niente di queste cose, spesso neanche i registi, per esempio Peppino Patroni Griffi di queste cose non ne sapeva niente, ma io ne ho bisogno perché non credevo più alla melodia. Non dico che non si può fare una melodia, ma bisogna trovare delle strade». Clint Eastwood ha detto che nei film western di Leone il merito era al 75 per cento della musica, affermazione un po’ forte, di sicuro esagerata, ma che svela un elemento importante. Quando l’abbinamento tra immagini e musica riesce, si crea un’unità inscindibile, nessuno può più immaginare quella scena senza la musica, sembra un incontro inevitabile, naturale. E invece è frutto di un evoluto pensiero musicale. Morricone ha sempre coltivato ambizioni altissime, e forse proprio grazie a questa spinta ha portato la musica da cinema così in alto. «Ho studiato con la speranza di scrivere musica assoluta. Il mio primo concerto per orchestra è stato eseguito a Venezia nel 1957, esattamente cinquant’anni fa, ci ho lavorato nove mesi e ho preso sessantamila lire di allora come diritto d’autore, non ci potevo vivere. Allora ho accettato le offerte di fare l’arrangiatore, e questo mi ha portato un bene di esperienza, lì ho cominciato a fare esperimenti. Quando ho fatto il primo film, nel 1961, ero già scafato, come si dice a Roma, già facevo gli arrangiamenti mentre studiavo con Petrassi. Cercavo sempre la dignità compositiva, non che mi faccia schifo il cinema, anzi sono contento, non solo perché ho guadagnato molto, ma passare al cinema con questo ideale mi portava a non essere passivo di fronte a questo condizionamento». È la chiave della sua storia? «Senza dubbio. Non potrei mai fare questa professione se non tentando di contrabbandare le mie idee, facendole passare in maniera clandestina, anche al regista. Ormai con Tornatore posso, gli racconto tutto, è talmente un amico, ma normalmente queste cose non si raccontano, è come se gli facessi vedere le mutande, sono cose intime. Non è una strategia verbale, è sui fatti: al regista che sta con le orecchie attente, il cervello vivo, bisogna dargli le suggestioni che servono al film e poi dentro quelle suggestioni uno gratta. Tutte queste cose, è una confessione che le faccio, sono il riscatto della mia professione di fronte al condizionamento». Tra i mucchi di libri e riviste spicca una pila di cartelline con altri fogli di musica. Cosa sono? «Sono i temi scartati. Leone ad esempio voleva sentire sempre quelli scartati da altri registi, per dire: guardate, quello non capisce niente, lui. Ci sono stati altri registi che hanno scartato buoni pezzi e ne hanno scelto di inferiori. Allora, quando ho preso coscienza di questo, ho deciso di fare ascoltare questi pezzi a mia moglie, sa benissimo quello che serve al cinema, è un’amante del cinema più di me, e allora li faccio ascoltare a lei, per evitare che i registi scelgano le cose peggiori la prima selezione la faccio con lei, è il mio primo ascoltatore, e infatti dedicherò a lei l’Oscar». Ha una idea di quello che dirà? «Vorrei citare gli altri che non l’hanno preso, alcuni vivi, altri no, sempre che mi diano il tempo: consideriamo che dovrò avere un interprete perché non riesco a spiegarmi bene in inglese, quindi il tempo è doppio, ma mi piacerebbe dire che arriverò a prendere l’Oscar alla carriera quando ancora sono in piena attività, altri erano in condizioni peggiori... Antonioni non ce la faceva già quasi più, Fellini lo prese quando aveva già fatto il meglio, la Loren era bella matura. Io sono ancora in piena attività. Dovrei dire questo, ma forse non lo dirò». Per terra, vicino al tavolo ci sono due borse piene di materiali. Sono già pronte per la partenza per l’America. Prima ancora dell’Oscar ci sono i concerti a New York, all’Onu e al Radio City Music Hall. È la prima volta che il Maestro dirige nel nuovo mondo, come in una favola, per una volta in America. Repubblica Nazionale 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 GENNAIO 2007 i sapori Si andava nella selva di grattacieli di Manhattan per mille ragioni tranne che per il cibo: accozzaglie di piatti etnici, pochi e carissimi chef francesi in trasferta. Ma negli ultimi cinque anni molto è cambiato. Piccoli cuochi made in Usa crescono, studiano, girano il mondo e poi sperimentano con successo una cucina “contaminata” eppure originale America in tavola Asiatico-Cinese Tradizione gastronomica declinata in migliaia di locali, molti dei quali a Soho, in un mix inestricabile di indirizzi raffinati e popolari. Economico e buonissimo, Nyonya offre piatti “contaminati” con la cucina della Malesia NYONYA CUISINE PENANG 194 Grand Street Soho Tel. (001) 212.3343669 Sempre aperto, menù da 20 euro Nouvelle Vague Malgrado l’ispirazione alla cucina francese, sta nascendo una cucina metropolitana originale, realizzata con ottime materie prime, cotture pulite, poche salse Craft è uno dei ristoranti-simbolo della nouvelle vague newyorkese CRAFT 43 East 19th Street Union Square Tel. (001) 212.7800880 Aperto tutte le sere, menù da 50 euro NY fusion Italo-americano Giovani cuochi americani vengono in Italia a imparare, portandosi a casa tecnica, ricette e indirizzi di produttori. È il caso di Scott Conant, che ha aperto L’Impero e Alto dopo una lunga pratica al glorioso San Domenico di Tony May L’IMPERO 45 Tudor City Place Midtown East Tel. (001) 212.5995045 Chiuso domenica, menù da 50 euro Grande Mela, tutta da mangiare Will Goldfarb, talentuoso pasticcere con moglie emiliana, ha lanciato la moda dei dessert-restaurant Nel suo “Room 4 Dessert” - Cleveland Place, Nolita propone originali degustazioni accompagnate da selezioni di vini, tè e tisane in tema LICIA GRANELLO M NEW YORK ai visto Criminali da strapazzo di Woody Allen? Riparate alla mancanza. Ray Blinker (Allen), lavapiatti squattrinato, decide di tentare il colpo della vita: svuotare il caveau di una banca. Affitta una biscotteria (cookie shop) nel cuore di Manhattan, con la moglie Francis dietro al banco. Mentre lei impasta, lui e soci scavano una galleria. Naturalmente il piano fallisce, ma il negozio diventa famosissimo rendendo i Blinkers milionari. La versione newyorkese de I soliti ignoti è il film perfetto per entrare nella Grande Mela dalla porta della cucina. Come se si andasse a New York per mangiare… Verissimo. Ma se fino a qualche anno fa il melting pot produceva grandi accozzaglie di cibo mediocre — a meno di accendere mutui per una super-cena dai grandi chef francesi in trasferta — oggi mangiare qui è diventato un piacere nuovo, una sorta di allegra caccia al tesoro gastronomica tra locali e negozi. Tutto è cambiato nelle migliaia di cucine all’ombra dei grattacieli. Perfino il primato della cucina etnica è sotto scacco. Piccoli cuochi americani crescono, studiano, girano, tornano, provano. E spesso hanno successo. Se si può trovare una microconsolazione nella tragedia delle Torri Gemelle, è che negli ultimi cinque anni la città si è come ricompattata, declinando le nuove priorità di spazi, tempi e sentimenti. La cucina, come luogo d’incontro di anime e non solo di business, se n’è giovata moltissimo. La città che corre ha imparato a fermarsi davanti a un buon piatto, spesso elaborato da chef made in Usa. Nel cuore di Soho, lo storico, glorioso French Culinary Institute, si è trasformato da poche settimane in International Culinary Institute. Il toscano Cesare Casella, ex chef patron dello stellato Le Vipore in Lucchesìa, oggi dirigente della scuola e proprietario del ristorante Maremma, ha ribaltato immagine e sostanza del Fci: via libera agli stage da una parte all’altra del mondo, con Italia e Francia prime scelte, varo di corsi di cucina monogeografici — quello italiano, comprensivo di lezioni di lingua, è il più ambito — e soprattutto un inesausto tourbillon di visiting professor. I migliori cuochi del mondo — dall’iper-sperimentale Ferran Adrià al tradizionalissimo Joel Robuchon — si alternano in giornate monografiche, dove più della ricetta conta l’approccio e prima della tecnica viene inculcato l’amore per le materie prime. Il new american food cresce giorno dopo giorno tra la scoperta dei fagioli zolfini e l’abbinamento con i fioriti pepi indiani. Perché se è vero che nel quadrato del Greenwich Village si contano locali di venti nazionalità diverse, le contaminazioni tra cucina e cucina sono sempre più attente, mirate, di qualità. Massimo della fusion-non fusion, il ristorante delle Nazioni Unite, aperto a tutti i visitatori (ma lo sanno in pochissimi, basta prenotarsi e presentarsi muniti di passaporto, giacca e niente jeans), dove a seconda delle delegazioni presenti, vengono allestiti menù di questo o quel Paese, serviti da camerieri poliglotti. In scia ai ristoranti, per obbligo di approvvigionamento, è aumentata in maniera esponenziale la qualità degli ingredienti sul mercato. L’intera Manhattan ormai è punteggiata di strepitosi spazi gastronomici, divisi tra il concetto di “supermercato di supernicchia” e il mercato coperto con banchi e negozi interni che sembrano boutique. Una sorta di miscellanea golosa del milanese Peck e il nuovissimo Eataly inaugurato venerdì a Torino. Tale e tanta l’offerta, che i turisti cominciano a godersi l’alternativa dell’appartamento — Internet pullula di siti — da affittare al posto della camera d’albergo. Cresce il piacere di andare a fare la spesa e regalarsi una colazione con le migliori materie prime in arrivo da tutto il mondo, o preparare una cenetta casalinga dopo un’intera giornata tra musei e vetrine. Gli allergici ai fornelli possono fruire di un’infinita rete di catering, dal sushi alle rib-eye-steack. Pancia piena e palato allegro, ci sarà più facile essere d’accordo con Woody Allen (in concerto nel dopo-cena del lunedì al Cafè Carlyle): «L’ho amata appena l’ho vista, all’uscita della metropolitana di Times Square». Oggetto del desiderio, non una donna, ma la sua città. I DISEGNI DI JULIA I disegni che illustrano le pagine sono di Julia Binfield L’autrice, laureata in graphic design alla St. Martin’s School of Art di Londra, ha lavorato con Alan Fletcher e collaborato a numerosi progetti e libri come illustratrice Ha ottenuto riconoscimenti dal British Design and Art Direction, dall’European Illustration, dall’Art Directors Club Italiano e dall’Associazione illustratori italiani Repubblica Nazionale FOTO ILAN RUBIN il testimonial DOMENICA 28 GENNAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 Dove dormire AKWAABA MANSION BED & BREAKFAST HOTEL 57 ON THE AVE BLUE MOON HOTEL 130 East 57th Street (Midtown) Tel. (001) 212.7538841 Camera doppia da 185 euro senza colazione 2178 Broadway (Upper West Side) Tel. (001) 212.3621100 Camera doppia da 150 euro senza colazione 100 Orchard Street (Lower East Side) Tel.(001) 212.5339080 Camera doppia da 155 euro senza colazione MARCEL DESIGNER HOTEL ABINGDON GUEST HOUSE WASHINGTON JEFFERSON 49 Warren Street (Tribeca) Tel. (001) 212.732 9666 Camera doppia da 150 euro 201 East 24th Street (Gramercy Park) Tel. (001) 212.6963800 Camera doppia da 105 euro senza colazione 21 Eighth Avenue (Greenwich Village) Tel. (001) 212.2435384 Camera doppia da 140 euro senza colazione 318 West 51st Street (Theatre District) Tel. (001) 212.2467550 Camera doppia da 120 euro senza colazione BALDUCCI’S DEAN & DE LUCA CHELSEA MARKET MAX BRENNER 155 A West 66th Street Tel. (001) 212.6538320 Metà mercato e metà gastroboutique, con degustazione ai tavoli con vista sui banchi 1150 Madison Ave. Tel. (001) 212.7170800 Gastronomia-culto (anche in Broadway) con i migliori prodotti italiani sugli scaffali 75 9th Avenue between 15th and 16th Streets Splendido mercato coperto con 24 negozi. Si comprano dalle aragoste ai fiori 841 Broadway Union/ 13th-14th Street (Union Square) Tel. (001) 212.3880030 Come entrare nel film La fabbrica del cioccolato GOURMET GARAGE MURRAY CHEESE LA MARQUETA ZABAR’S 453 Broome Street/Mercer Tel. (001) 212.9415850 Cinque sedi a Manhattan per il magazzino old style con frutta biologica 254 Bleecker Street/6th-7th Tel. (001) 212.2433289 Formaggi (anche a latte crudo) in arrivo da Francia e Italia, con scuola annessa East 115th Street &P.Avenue Tel. (001) 212.5344900 Storico mercato della comunità latinoamericana, miniera di ingredienti etnici 2245 Broadway Tel. (001) 212.7872000 Cibi assortiti, ma pure piccoli elettrodomestici e accessori per cuochi in divenire 347 MacDonough Street (Brooklyn) Tel. (001) 718.4555958 Camera doppia da 120 euro Sperimentale La mancanza di una tradizione forte e coesa rallenta la sperimentazione gastronomica. Fanno eccezione Dan Barber del Blue Hill e Wylie Dufresne (WD-50), con la loro cucina immaginifica, ricca di piatti insoliti, colti, futuribili NICOLENA BED & BREAKFAST WD-50 50 Clinton Street Lower East Side Tel. (001) 212.4772900 Aperto tutte le sere, menù degustazione a 85 euro Dove comprare Nippo-tropicale Nella città del melting pot, la parola “fusion” è pratica quotidiana Diversa, la miscellanea mirata e creativa di due scuole distanti Sushi Samba – due locali in città – unisce Giappone e cucina tropicale Con risultati deliziosi I ristoranti-teatro di Gay Talese ANTONIO MONDA F NEW YORK in dai tempi in cui era uno dei reporter più prestigiosi del New York Times, e soprattutto in seguito, quando insieme a Tom Wolfe divenne un protagonista del 87 7th Avenue South “new journalism”, Gay Talese è stato un frequentatore Greenwich Village abituale dei migliori ristoranti newyorkesi, che ha celeTel. (001) 212.6917885 brato in numerosi articoli e saggi, analizzandone il valoSempre aperto, menù da 20 euro re sociale e culturale. «Un pranzo o una cena in alcuni ristoranti di New York ha un valore significativamente diverso da quello che può avere lo stesso pasto in un altro luogo», spiega nel suo brownstone nel cuore dell’ Upper East Side. «E ovviamente non mi sto riferendo solo al cibo: ancora oggi, New York è la più internazionale tra le grandi metropoli. In un locale di Manhattan, ma lo stesso si può dire per molIl termine è improprio, ti locali di Brooklyn e degli altri sobborghi, gli perché a New York tutto si evolve avventori si trovano seduti vicino a gente che continuamente. Ma la tradizione non parla inglese, e con persone di razze, culdelle bistecche – le mitiche ture e religioni diverse. Si ha immediatamenPorterhouse – è reale, tanto te la percezione di essere in un luogo dove la che i soliti noti – Gallagher, Sparks, cultura passa e viene creata». Peter Luger – sono sempre affollati Quali sono i locali che hanno segnato maggiormente la vita culturale di New York? PETER LUGER LO SCRITTORE «I primi nomi che vengono in mente sono 178 Broadway Gay Talese Le Cirque, Daniel, e ovviamente Elaine’s, ma Brooklyn protagonista del io non trascurerei una trattoria come Gino, Tel. (001) 718.3877400 “new journalism” uno di quei posti dove conosci per nome i caSempre aperto, merieri, il proprietario e lo chef». menù da 35 euro Lei ha sempre attribuito molta importanza al ruolo dei camerieri. «Perché, in particolare a New York, hanno una natura girovaga, ma sono nello stesso tempo al tuo servizio. Il cameriere ti ascolta, ti osserva, ti conosce ma raramente ha il tuo stesso background. Partecipa alla tua cena in forma vicaria, finendo per esserne un partner spirituale. È un consulente sia per il cliente che per il proprietario, che a sua volta, per il suo obbligo di essere deferente appartiene inevitabilmente alla categoria della servitù». Elaine’s, celebrato anche in Manhattan, ha riunito sin dalla sua apertura i migliori giornalisti americani, e con l’andare del tempo anche artisti come Robert Altman e Woody Allen. «Il successo in quel caso è stato costruito dalla proprietaria Elaine, che siede sempre al tavolo numero uno, ti accoglie, e spesso decide con chi dovrai sederti. E organizza combinazioni molto stimolanti». Ma il cibo non è esattamente indimenticabile. «Nei ristoranti newyorkesi il cibo è solo un elemento, e non il più importante. La cosa più importante è quanta gente c’è e quanto è invitante. Poi, mentre entri in un luogo pieno di sconosciuti, è importante che tu sia conosciuto o almeno accolto dal proprietario. In quel momento sai che non sei più uno straniero, che non esisti solo sul tuo luogo di lavoro. A New York ci sono 1800 ristoranti con tavoli apparecchiati e sono il luogo dove si rifuModaiola e salutista, la cucina Se la guida Michelin è sbarcata giano coloro che non hanno piani per la notte. Rappredel Sol Levante ha conquistato in città premiando ben quattro locali sentano un modo per vincere la solitudine, per stabilire la città anche grazie al sontuoso francesi comme il faut nella Top un rapporto con qualcuno o qualcosa». mercato del pesce. Da Sumile, Seven, nei nuovi ristoranti la cucina Nella guida Zagat, dove sono classificati i migliori riche ha un suo doppio a Tokyo, sushi dei sauciers si lega alle influenze storanti, c’è una categoria denominata “peoplewate sashimi sono le basi di una orientali (Vong) o latinoamericane ching”. elaborazione gastronomica originale come nel piccolo Tocqueville «Viviamo in un mondo ossessionato dalla celebrità. Ma c’è da osservare che il ristorante rappresenta un’inSUMILE TOCQUEVILLE troduzione al teatro: uno spettacolo costruito con entra154 West 13 Street 15 East 15th Street te e uscite, in cui puoi ascoltare i dialoghi e vedere una West Village Flatiron District bella donna». Tel. (001) 212.9897699 Tel. (001) 212.6471515 C’è chi dice che a New York si trova ogni cucina del Chiuso domenica e lunedì in estate, Chiuso domenica a pranzo, mondo, ma nessuna di queste è al livello del luogo orimenu da 50 euro menù da 25 euro ginario. «A New York puoi mangiare in maniera eccellente ma devi essere pronto a pagare molto. Quello che dice ha un elemento di verità rispetto a alcuni tipi di cibo fresco. A Pechino ho provato dei broccoli con un sapore assolutamente straordinario. Da quando sono tornato tento di ordinarli nei migliori “cinesi” di New York, ma non è la stessa cosa». Nel suo ultimo libro, A Writer’s life, lei ha dedicato un capitolo a un locale che ha definito il «Willy Loman dei ristoranti» (Loman è il protagonista di Morte di un commesso viaggiatore, ndr). Il simbolo culinario della nostra emigrazione «È un locale in un posto prestigioso dell’Upper East Siè assurto a piatto-culto. Due le scuole: locali de dove si sono succeduti ben dodici diversi ristoranti di vecchia generazione, come Lombardi che sono falliti regolarmente dopo pochi mesi. Adesso e Grimaldi’s e nuovi pizzaioli italiani come c’è un ristorante giapponese kosher e dubito che avrà il napoletano Miche-Luzzo, che fa una pizza una sorte migliore. Eppure Gino, di cui ho parlato prima, strepitosa è solo a due isolati. Penso che il motivo sia nell’impersonalità del locale: non ti ci senti a casa, non c’è un proLUZZO’S prietario carismatico o il cameriere che potrebbe essere 211-213 First Ave between tuo zio. È una specie di maledizione, ma nel paese delle 12th -13th Streets opportunità prima o poi anche in quel posto aprirà un riEast Village storante che avrà successo: la grandezza di New York è Tel (001) 212.4737447 nella capacità di non perdere mai la speranza e di scomChiuso lunedì, pizza da 12 euro mettere sempre». 7 SUSHI SAMBA Tradizionale Usa Sol Levante Franco-orientale Pizzerie cult Repubblica Nazionale 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA le tendenze Accessori culto DOMENICA 28 GENNAIO 2007 In nappa, cuoio o pitone, con inserti colorati e borchie o magari in vernice: trionfano la supersacche da donna, meglio se griffate. La parola d’ordine per tutte adesso è esagerare, nel volume, nel contenuto e nella voglia di esibirle di giorno e di sera. Ma non chiamatele shopping bags perché stavolta sembrano quasi gioielli... DED OmaICATA Gau ggio allAL GAU dise cho di C ’ArgentCHO Que gnata d hristian ina per (la p sta vers a John G Dior, la borsa elle dellaione in m alliano razz e a) co tallo e g sta 1 a .000 luscia euro maxi borse Uscire con la casa addosso LAURA ASNAGHI e chiamanojumbo bag perché sono giganti, extra large. Grandi quasi quanto quelle che si usano da Ikea per fare shopping. Per chi non è abituato a seguire i nuovi trend della moda, quello delle borse king size può sembrare una assurdità. Perché mettersi in spalla borse sproporzionate, pesanti come zaini? I fisioterapisti le sconsigliano, i personal trainer pure perché, se caricate male, sbilanciano la schiena. Ma la moda è la moda e chi si appassiona ai nuovi trend ne paga volentieri lo scotto. Le borse diventano giganti e il fenomeno è praticamente dilagante. Non c’è marchio che non abbia un modello dalle proporzioni esasperate. Da Chanel, il più gettonato è in vernice nera, con catenelle oro; da Yves Saint Laurent l’oggetto del desiderio extra large si chiama Muse; Burberry ha la sua Manor in pelle trapuntata; mentre da Moschino la borsa con taglia lievitata si chiama Muffin. Ogni stilista insomma — da Armani a Prada, da Versace ai Dolce e Gabbana, da Fendi a Versace, da Ferrè a Krizia, da Louis Vuitton a Hogan — ha la sua proposta contenitore dove ci può stare davvero di tutto. «Se le borse sono così grandi una ragione c’è — spiegano i Dolce e Gabbana — oggi le donne lavorano, sono madri, hanno mille impegni e per reggere al meglio su tutti questi fronti devono portarsi apB presso la casa. Dentro le borse finiscono Il IAN telefonino, blackberry, computer, sand’ bian CO p inv co INV dali da sera (per quando dall’ufficio si ER in er la erno arriva direttamente al ristorante), NO co can bo porta trucco, giochini per il figlio. r n v s d p a a Insomma, di tutto di più. E così i so i ver rofi s di Fen at no nic li cot di volumi delle borse si gonfiano on Gr torc di c e. I m inesorabilmente». e a a ig o Anche Gianfranco Ferrè c l log nde liat rda anic a o e i conferma che oggi le donne a n o o re vid Co vela cch aliz enz non possono vivere senza sto sm iel zat a maxi bag. «Io, personalo 97 alta li mente, sono per il plu5 e ti ur ralismo e nel guardao roba di ogni donna dovrebbero esserci borse piccole, medie e grandi, che si adattano ai vari momenti della giornata — spiega Ferrè —. Un tempo le borse grandi erano solo quelle del week-end, adesso si usano quotidianamente in città. Ma la sera non è fatta per i grandi sacchi da portare in spalla». Come dire: se si esce e si va al ristorante o a una festa, meglio “parcheggiare” il sacco in guardaroba, estrarre una piccola pochette e con quella affrontare più agilmente la serata. Ma se le borse lievitano lo fanno anche i prezzi. E nonostante le “quotazioni” oscillino mediamente tra i 700 e i 2.500 euro, gli acquisti vanno a gonfie vele. Da Bottega Veneta, per avere il modello Cabat, una shopping bag in pelle intrecciata a mano che sfiora i 4.500 euro, occorre mettersi in lista d’attesa. Da Prada le proposte in pelle arricciata o con frange vanno fortissimo e furoreggiano anche sulle bancarelle del falso, insieme alle borse Louis Vuitton. Nella (ipotetica) classifica delle borse più desiderate a farla da padrona è la Gaucho di Dior, mentre da Balenciaga continua aver avere grande fortuna la Bycker bag. L’elefantiasi ha contagiato anche Malo, Costume national, Furla, Etro, Kristina Ti e tra le antesignane di questo fenomeno c’è la Spy di Fendi, adesso anche in versione Moncler con il nylon imbottito. Tra le new entry, subito convertite al king size, c’è pure il marchio Mcm, con la sua borsona in vernice rossa. Ma quanto durerà questa moda? «Indietro non si torna — dice lo stilista Gaetano Navarra — la superborsa non è uno sfizio ma una necessità». D S OL B i c CE la ig M hiam FO d b u R “ i M ors ff a MA il t liev osc a d in a ip ita h i c L me ico ta ino ul za ’im ric do ” co , to c m m an lc m g on pa an o e e Il c li ac tam ta cab è d os ce in iro ile i 1 to ss a a nic or nc a .0 i he 90 eu ro L CK RO ne n IE uri ga rie OR bo Ho a se k EM am lla ell oc ea M T de d al r lin La ag arte ta ssa g ma B p ica te Ba or fa d s r f o de ella uita sa a rell D G or u li la a b mb tag o L ta et llo an di a d eta ord s uro h m ric ho 0 e in e c 5 ch con to 5 i os C TR Bo ATTA sot rsone MENT tra topos in an O SP mo ttame ta a u acondECIA Kri rbida nto c no sp a na LE Co zia ha . La m he la r ecial turale e sto e i e 1.3 mani ga bo nde m 50 ci in rsa olt eur o o coton griffa ta e Repubblica Nazionale DOMENICA 28 GENNAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49 CO È NT ch la bo RO I da e la rsa PAP In ll’inv usa prefe ARA Co vern ade anc rita ZZ Co co’s ice n nza he p da KI sto ca er de er p at 95 bas a, si i pa rot e M 0e ch par egg oss uro iam az er a zi si STE iss URIorsa M a, T U F b a, an NZE ta la abb inat etto ARE-futurisce & G lle lamdi cors P S l e i TRApazial dei Dordi in pi munit uro È s stall n bo abit se 715 e Cry vc co e con , in ba 75 ai in p portar ariano i, dai 4 da ezzi v nsion I pr dime alle Sporte per donne eccezionali Colte da sindrome di Mary Poppins LAURA LAURENZI n modo per portarsi la casa dietro, o un modo per nascondersi, o forse per punirsi e insieme esaltarsi, o per fare una strana ginnastica, o per imitare le star. Non è facilissimo capire il perché del fenomeno, scoprire come mai le borse giganti abbiano tanto successo, e continuino a lievitare. Le borse esagerate, mai di moda come quest’anno, sono un simbolo di privilegio. Non soltanto per il loro costo — gli accessori sono diventati i nuovi gioielli e rappresentano l’undici per cento del mercato del lusso mondiale — ma per il tipo di donne che le usano. Per intendersi: in principio dive & principesse. La prima borsa grande della storia moderna e cioè la Kelly — oggi ulteriormente ingigantita — fu studiata da Hermès per la principessa di Monaco che desiderava occultare ai paparazzi i primi segni della sua maternità. Quanto alla Birkin, fu ideata, disegnata e realizzata ad personam per la nota attrice che si era lamentata con il presidente della medesima selleria di non riuscire a trovare una borsa abbastanza capiente per contenere tutto ciò che le serviva. Ma sono borse o sono sporte? Studiate per donne eccezionali, le borse oversize comprensibilmente non donano a tutte. Se l’eleganza è una questione di proporzioni, la signora alta un metro e cinquanta sarà resa più goffa da una shopping gigante, e sicuramente una donna in sovrappeso risulterà ancora più minacciosa se armata di una borsa kolossal. In pugno a Naomi Watts invece, ma anche a Gwineth Paltrow, a Naomi Campbell e alla non simpatica Paris Hilton, la big bag appare un accessorio irrinunciabile. La borsa king size è tendenzialmente un oggetto prezioso, quasi un investimento: dunque è in pellame pregiato; il pellame pregiato è morbido per definizione; parliamo di borse immense che, se non riempite a dovere, rimangono flosce. Sono molto più belle piene: ecco così innestarsi il meccanismo perverso secondo cui più le riempi, più roba ci metteresti dentro. Chi più ne ha più ne metta, insomma. Risultato: una zavorra di cinque chili in media da trascinarsi non sempre sul red carpet, come fanno Madonna, Sharon Stone e Kate Moss, ma anche su e giù per le scale della metropolitana, al supermercato, in fila alla posta. Tendiniti, mal di schiena, articolazioni infiammate, polsi gonfi, dolori lombari e cervicali sono segnalati in aumento. Se poi la borsa jumbo è abbinata al tacco a spillo, la visita dall’osteopata può rendersi indispensabile. Le megaborse sono un fenomeno speculare — e forse anche una reazione — alle borse miniaturizzate, quasi dei ninnoli, dei gingilli: così piccine da contenere a stento una banconota, un rossetto, una chiave, forse neppure un microcellulare. C’è chi si adegua alla doppia moda con doppia borsa: o col sistema delle scatole cinesi — la borsa piccola inabissata dentro a quella grande — oppure, se entrambe le borse sono di dimensioni ragguardevoli, con il sistema una per braccio: più bilanciate, ma che fatica. Tutte come Mary Poppins o come Eta Beta, però con glamour. La motiTRI vazione È in ONF mo nappO DI F psicologica r R ANG la b bidis a che secondo E rea orsa sima gli esperti si P l i z r con zat ada nasconde die, che la st a tro l’esigenza per si us essa pel della borsa extraLa i gua a le large è «il bisogno noc borsa nti di nido» e anche una rico e, è t , colo buona dose di insicudi f perta utta r rezza. O, più banalè in range Co meta . Il log mente, il desiderio di sto l let o adeguarsi a una moda 1.7 ter i 20 ormai imperante. Anche eur ng o se il confine fra borsa grande e valigia piccola ai neofiti può apparire labile, mai fare confusione fra le due categorie, del tutto indipendenti una dall’altra: per le fashion victims sarebbe imperdonabile. Che al gigantismo corrisponda una certa razionalità. Una caratteristica indispensabile alle borse XXL è che siano organizzate al loro interno, con scomparti attrezzati e tasche ben definite, cellulari, agenda, portafoglio, chiavi. «Ogni cosa al suo posto, per evitare di pescare annaspando senza trovare mai niente», afferma Silvia Venturini Fendi, che dopo avere ideato la piccola Baguette ha sfornato l’imponente Spy. E un altro requisito indispensabile, mette in guardia la stilista, è la morbidezza, la consistenza: «Terribili le borse grandi con gli angoli che quasi ti feriscono. La maxiborsa deve essere tondeggiante, accogliente, deve sembrare quasi un cuscino, il nostro ultimo modello è addirittura imbottito con piume d’oca. Oltre a essere comoda ti deve proprio offrire conforto. Sì, deve essere come un cuscino, sul quale ti puoi sdraiare e appoggiare, prima di svenire non appena hai saputo il prezzo». U LE EGA R LO DEL a tile MOi chiame lo s S inni ra al Qu i ispi gina , no e s lla re terra avalli de nghil in c nata d’I orsa iseg la b iaro d tivo ch l crea da lese er o ing xand en eur Ale Que .540 Mc sto 1 Co g Ba e te a artir u r b A Tri po a p , T ITA a la cor ati, son to LIM itat he inealizz mai euro frena A m R a li on c lto r ella ila so s U AT tur itt cu a d 5m us TIRa tira is Vu lli di stilist sta 2 . Un l È Lou ode llo Co sta di 5 m , da bs. chie i 1 l ’98 Jaco u ri da arc tta s M odo Pr Repubblica Nazionale 50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 GENNAIO 2007 l’incontro È il più famoso cantante latino, entrato nel Guinness dei primati per i 250 milioni di dischi venduti A 63 anni, asciutto, affascinante come esige la sua fama di infaticabile seduttore, parla con candore di se stesso e della sua vita “selvaggia e sfrenata”: “La verità è che non ho una bella voce, non l’ho mai avuta. Per avere successo in questo mestiere ci vogliono piuttosto onestà, umiltà, disponibilità a impararegiorno dopo giorno” Intramontabili Julio Iglesias ovesciando i ruoli previsti dal canone, le domande comincia a farle lui, appena ci incontriamo. «Cos’ha fatto di male per essere mandato a intervistare me?», è la prima che pone, suadente. Julio Iglesias lo chiede in italiano, seduto in una poltrona, nella suite all’ultimo piano di un albergo di lusso affacciato su Hyde Park, con indosso un pesante cappotto blu vecchio stile, di quelli con la cintura. Non fa certo freddo, nella suite, ma terrà il cappotto addosso, con la cintura allacciata, per tutta la durata della nostra conversazione. Le sue domande successive, nell’ordine, sono: quali personaggi famosi ha intervistato nella sua carriera? Da quali paesi è stato corrispondente estero per il suo giornale? Quanti anni ha trascorso in Russia? Si è divertito con le russe? È sposato? Da quanto tempo? È fedele a sua moglie? Ascolta le mie risposte concentrato, assentendo con la testa. Poi stringe gli occhi come per ricordare meglio, e dice, mescolando inglese, italiano, spagnolo: «In Russia ho cantato la prima volta quando c’era Andropov. Ci sono tornato molte volte. Lei crede ai politici, quando li intervista? Crede che quello che dicono sia la verità? Io di politici ne ho conosciuti tanti. Di qualcuno mi fido, di altri meno». E il più famoso cantante latino di tutti i tempi — sebbene la definizione gli vada stretta, essendo entrato Frank. «Sì, ma quando glielo proposero, non sapeva neanche chi fossero, Bono e gli U2. Ma è normale, Frank veniva da un altro mondo, un’altra epoca». E a lui, Bono piace? «Sì, è un bravo cantante, ha grande personalità». E Madonna? «La sua musica non m’interessa, ma ha talento da vendere, è capace di sopravvivere a tutto, è una dura, l’ammiro». E del cantante Enrique Iglesias, di suo figlio, cosa dice? «Mio figlio ha l’istinto del campione. Sa correre rischi e vincere. Non ha bisogno di me». Anche el señor Julio ha corso rischi e ha vinto. «Ho avuto il mio periodo di declino. Poi sono risalito. Io amo la musica melodica, credo che, quella buona, non passerà mai. La gente si stanca forse di ascoltare Mina? “Quando un uomo tradisce, tradisce a metà”, dice il verso di una sua canzone “No, non è più così: le donne di oggi non perdonano, non ti riprendono Ed è giusto... Però che nostalgia” FOTO OLYCOM R LONDRA nel Guinness dei primati come il cantante che ha venduto il maggior numero di dischi nel maggior numero di lingue — dice la verità? Iglesias ride, divertito dal quesito. A 63 anni è dritto, asciutto, affascinante come esige la sua fama di infaticabile seduttore, con due mogli (la seconda e attuale ha trent’anni meno di lui), sette figli (gli ultimi quattro sono ancora dei bambini), e un’infinità di avventure dietro le spalle. Ma quando si alza dalla poltrona, per rispondere al telefono, zoppica, muovendo a fatica i suoi piccoli piedi inguainati in eleganti scarpe nere coi lacci: l’eredità dell’incidente automobilistico che a diciannove anni lo lasciò paralizzato per tre anni, troncando una promettente carriera di calciatore (era portiere del Real Madrid) e lanciandone una d’altro tipo, grazie alla solitudine, alla malinconia e alla chitarra regalatagli da un infermiere. Una carriera che gli ha fatto vendere, finora, 250 milioni di dischi: l’ultimo album, uscito da poco, è Romantic Classics, tutte canzoni in inglese. «Vuole la verità? La verità è che non ho una bella voce. Non l’ho mai avuta. Non serve, per avere successo in questo mestiere». E allora cosa serve? Qual è il segreto? Alza le spalle. «Determinazione? Volontà di ferro? Fortuna? E tutte quelle altre banalità che si dicono in questi casi? Sì, certo, un po’ ci vogliono. Ma il segreto, perlomeno il mio, se un segreto esiste, è un altro. L’onestà. L’umiltà. La disponibilità a studiare, a imparare, a fare sempre le cose come si deve. Dal primo giorno, quando ero nessuno, ad oggi che sono qualcuno». Venne a Londra per la prima volta nel 1969, figlio di un ginecologo, fresco di laurea in legge, per perfezionare l’inglese. Cominciò a suonare in qualche pub, tornò in patria, vide il festival di Sanremo in tivù, partecipò al più importante concorso canoro di Spagna, a sorpresa lo vinse, e il resto è storia nota. Com’era Londra? «Era la swinging London. Minigonne, capelloni, figli dei fiori, il rock». Ecco, appunto, il rock: erano gli anni dei Beatles e dei Rolling Stones, lui era un cantante melodico, non si sentiva sorpassato, fuori moda? «Dicono che ad Elvis Presley, quando arrivarono i Beatles, venne la depressione. Ma Elvis è sopravvissuto, è diventato un classico, immortale». A proposito di immortali, Iglesias cantò con Frank Sinatra, ne divenne discepolo e amico. «Il Sinatra che ho conosciuto io, il Sinatra della fase finale, era un uomo buono, fragile, vulnerabile. Aveva comunque l’intonazione di voce più bella che abbia mai sentito. I più grandi, per me, restano lui, Nat King Cole ed Elvis». Fece un duetto con Bono, il grande Non mi pare proprio. Non è questione di essere moderni o all’antica, è questione di essere bravi cantanti o non bravi cantanti». Parlando di passato e presente, viene in mente la Spagna del generalissimo Francisco Franco, la dittatura franchista in cui lui è cresciuto, così diversa dalla Spagna odierna di Zapatero, di Almodóvar, della movida. Julio Iglesias, domando, è di destra o di sinistra? «Ho votato a destra, a sinistra, sono stato agnostico. Forse, più di tutto, sono un liberal (lo dice in inglese, che non significa “liberale”, casomai “progressista”) ma in generale apprezzo la buona amministrazione. Aznar aveva amministrato bene la Spagna. Zapatero ha bisogno di tempo, ma anche lui ha buone intenzioni». Dica la verità, per riprendere il refrain dell’inizio della nostra chiacchierata, chi è l’uomo politico che oggi le piace di più? «Il mio uomo politico preferito è una donna. Hillary Clinton. Sono diventato molto amico di Bill e Hillary, ho avuto entrambi ospiti a casa mia a Marbella molte volte. Bill ha un cervello formidabile. E Hillary è eccezionale. Spero che diventi presidente degli Stati Uniti. Se uno ha dei pregiudizi nei suoi confronti, quando la conosce cambia idea». Hillary è una buona scusa per parlare di femmine. Iglesias non serba soltanto il segreto del grande cantante, ma pure quello del grande dongiovanni. Cosa serve, a un uomo, per conquistare le donne? «Le donne… Io amo le donne, rispetto le donne, ho imparato molto dalle donne». Va bene, ma il segreto del seduttore? «Il segreto?», ripete, quindi tace un momento. «Flirtare. Ci sono uomini che hanno il flirt nel sangue. Basta guardarli negli occhi. Si vede dagli occhi, se un uomo ama le donne. È qualcosa che si riconosce all’istante, appena uno entra da una porta. Una cosa naturale, vitale, salutare». Leggo dal mio taccuino: «Quando un uomo tradisce, tradisce a metà, sono cinque minuti e non ero più là». Parole di Julio Iglesias. E ancora: «Dentro quella valigia, il nostro passato non ci può stare». È il manifesto del maschio mediterraneo? Dell’uomo che pretende sempre di essere perdonato, che non vuole rinunciare a nessuna delle donne che ha avuto? «Quando un uomo tradisce, tradisce a metà», accenna il motivetto don Julio, ma poi si arresta a metà: «Non funziona più, non è più così. Le donne di oggi non perdonano, non ti riprendono se le hai tradite. Ed è giusto così. Sì, è giusto. Però…». Però? «Però che nostalgia di trent’anni fa. Ho avuto una vita sfrenata, scatenata, selvaggia. Era bello. Stupendo. Ma la vita non si è fermata, è andata avanti, è bella anche adesso, sia pure in modo differente». Leggo ancora, dal taccuino: «Io non confondo il sesso con l’amore, ma mi presento sempre a un appuntamento con un fiore». Parole di Julio Iglesias. Esiste ancora il romanticismo? «Esiste. Un fiore fa sempre piacere a una donna. Che si tratti soltanto di sesso o anche di amore». Non abbiamo parlato di un altro suo grande amore: il football. «Vado ancora allo stadio, qualche volta. E tifo sempre per il Real». Che pensa di Fabio Capello? «Un allenatore con le palle. Quel che ci voleva per una squadra di superstar. Capello farà bene a Madrid». E dell’Italia che pensa? «L’Italia batte sempre la Spagna, nelle partite che contano. Ho tifato per voi, nella finale con la Francia. Del resto, quando canto in giro per il mondo, in tanti mi prendono per italiano. E quando canto in italiano, nel vostro Paese, mi sento italiano io per primo». Allora, prima di salutarci, dica ancora una volta la verità, senza paura di indispettire nessuno. Qual è la canzone italiana che preferisce cantare? «È Caruso. L’ho cantata anche con Lucio Dalla. Mi commuovo ogni volta. Ma c’è un altro italiano con cui mi piacerebbe cantare. Zucchero. Ci siamo incrociati di recente, in Svizzera. Chissà. Prima o poi...». Leggo dal taccuino, in spagnolo: «La vida sigue igual». La sua prima canzone. La vita continua. «Have a good life!», risponde, in inglese, il cantante latino più famoso del mondo, alzandosi dalla poltrona. Buona vita anche a lei, señor Julio Iglesias. ‘‘ ENRICO FRANCESCHINI Repubblica Nazionale