Reggiani Prospero XIV
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Reggiani Prospero XIV
Humus di Fabienne Kanor: tuffarsi in mare per ritrovare le proprie radici Licia Reggiani Università di Bologna-Forlì I. L’autrice e i testi Fabienne Kanor è una scrittrice francese d’origine martinicana, cresciuta nella “Métropole”. Une «négropolitaine»1, come ci racconta nel suo primo romanzo, D’eaux douces, pubblicato in Francia da Gallimard nel 2004. Tanto la sua vita, intessuta di viaggi verso l’Altrove antillano e poi senegalese, quanto le pagine dei suoi romanzi testimoniano dell’incessante ricerca di un incontro, quello fra un là-bas, meta di partenza e luogo d’approdo, inteso come Martinica ma anche come Africa delle origini e un ici, il presente geografico, la Francia, un qui ed un altrove che sono sì luoghi fisici, ma anche e soprattutto spazi immaginari. D’eaux douces e Humus, il secondo romanzo delle scrittrice, sono infatti idealmente uniti da alcune trame di un comune tessuto narrativo tanto da un punto di vista simbolico (il tema dell’acqua, della navigazione, la ripresa della storia della schiavitù come elemento ineludibile di una memoria collettiva); quanto da un punto di vista diegetico: in D’eaux douces viene infatti preannunciato il tema centrale del successivo Humus attraverso quello che nelle primo romanzo pare un semplice flash-back, un fugace, ma significativo e gravido di conseguenze, ritorno ai tempi della schiavitù, che diverrà nel secondo la principale ragione narrativa. Tale ritorno indietro avviene per bocca della nonna di Frida, la protagonista 195 Bref de bref, la grand-grand-maman est en mer, dans les cales sales et puantes d’un bateau. Les nègres, car elle n’est pas la seule, ont beau ramer, faire des pieds et des mains pour regagner la côte, la mer court. La terre disparaît. Surgit alors cet homme taillé comme un Gaulois. (ED 191) o come luogo metaforico delle esperienze della protagonista: Dissimuler mon corps violé. Mes tétons meurtris. Mes fesses mouillées. La peur. Redescendre dans les cales, reprendre ma place comme si de rien n’était, comme si Eric n’y était plus. Silence. (ED 66-67) Proprio a causa dell’intreccio di trame e stili, porteremo la nostra attenzione su entrambi i testi, avvicinandoli come nell’immaginario della scrittrice e di conseguenza in quello del lettore. Nel primo romanzo, D’eaux douces, la storia della schiavitù e in particolare la navigazione della nave negriera è soltanto un elemento isotopico, una sorta di metafora della condizione della protagonista, Frida, immersa in una complessa storia familiare e sentimentale. Le pagine raccontano, infatti, il percorso iniziatico di una ragazza francese di origine antillana, dal distacco da una famiglia carica di pregiudizi razziali, all’approdo a una Cité Universitaire ove la questione delle proprie origini si mescola ad una ricerca sentimentale e sessuale tanto sfrenata quanto contraddittoria, alla decisione finale della voce narrante/protagonista di uccidere l’amato Eric, emblema del Negro nella visione antillana: Est nègre l’homme capable de coquer dix femmes à la minute. De fabriquer des mensonges cent fois plus gros que lui. De te voler ta vertu sans prendre de plaisir. (...) L’homme qui rement. L’homme qui repart. Qui disparaît sans scrupule. Revient sans commentaire. Est nègre celui qui te viole du regard. (...) Est nègre l’homme que tu rêves. Que ta peau, ton corps et ton sexe cherchent jusqu’à en perdre la raison. Est nègre enfin celui dont ton père te parle, ta mère te parle, les mauvaises langues te parlent depuis nannin nannan, depuis que le Noir est nègre. (ED 79) La storia della schiavitù e il viaggio affrontato dalle schiave deportate alle Antille è dunque una sorta di pre-racconto, un sostrato immaginario che spiega e sottende la vicenda narrata, che affiora e fa capolino qua e là nel testo, conferendogli una certa coesione narrativa senza condizionare in maniera decisiva la diegesi (se non nella conclusione, come vedremo più avanti). 196 Al contrario del primo, il secondo romanzo, Humus, è interamente dedicato al racconto della navigazione della nave negriera Le Soleil, partita da Nantes nel 1774, per raccogliere schiave sulle coste africane e tradurle nelle Antille Francesi, e al tentativo di fuga messo in atto da dodici schiave che preferirono gettarsi in mare che vivere in cattività per sempre2. Humus: titolo bizzarro per un testo che narra di mare, di acque, di sradicamento, di perdita di identità. L’humus è infatti l’insieme di sostanze organiche del terreno, decomposte o in via di decomposizione, materia feconda, di rigenerazione, femminile, in opposizione alla maschile sterilità del fango: Dans mes souvenirs, grand-père se noie dans sa bouteille. Ivre fou. Homme liquide, aussi flou que la boue. Boudom, boudome, boue d’homme. Tel fut le dernier mot de grand-mère. (ED 141) Proprio in quanto ricettacolo di materia viva, organica, carne e resti di esseri umani, anche se non riconosciuti come tali, il mare diventa luogo di memoria, le cui acque salmastre possono cicatrizzare, ma anche far rinascere-ridare vita. In questo senso, le parole di Derek Walcott, messe da Kanor in exergo nel testo nella traduzione francese, ci suggeriscono una possibile chiave di lettura del suo titolo, quasi ossimorico rispetto al contenuto: Où sont vos monuments, vos batailles, vos martyrs? Où est votre mémoire tribale? Messieurs, dans ce gris coffre-fort. La mer. La mer les a enfermés. La mer est l’histoire. Dunque il mare come lieu de mémoire, come non-monumento di una storia mai scritta, o meglio ancora da scrivere, partendo dal punto di vista dell’Altro, di chi non ha avuto accesso alla parola narrata; in questo senso Kanor si inserisce appieno in un’estetica postcoloniale. II. Per una poetica postcoloniale Nelle pagine di Kanor possiamo infatti reperire alcuni elementi tipici del corpus postcoloniale (Abbecedario postcoloniale 115-123). Anzitutto quella volontà di revisione della storia cui accennavamo poco sopra: lo scrittore postcoloniale, pur consapevole dell’impossibilità di 197 recuperare il proprio passato, della non-esistenza di una memoria assoluta, ricostruisce con la fantasia, nell’immaginazione, quanto ha perduto. La storia si fa ricerca di appartenenza, dinamica collettiva, rivendica la possibilità di appartenere a un gruppo, di essere in un mondo. Kanor, non a caso, riscrive la storia a partire da una breve frase ritrovata, come afferma, in un archivio di Nantes scritta dal capitano della nave negriera Le Soleil, Louis Mosnier. “Le 23 mars dernier, il se serait jeté de dessus la dunette à la mer et dans les lieux 12 femmes noires toutes ensemble...” (...) Tout est parti de là. De cette anecdote rapportée par un capitaine négrier en 1774 et retrouvée aux archives de Nantes. Tout est parti de cela. D’un désir de troc. Echanger le discours technique contre la parole. La langue des bois des marins contre le cris des captifs. Tout est parti enfin d’une interrogation. Comment dire, comment redire cette histoire – là des hommes? Sans bruit ni fards. Autrement. À contrepied des attentes du lecteur. (H 11-13) In questo senso è importante sottolineare come in tutto il romanzo si alternino alle voci femminili i canti tradizionali dei marinai bretoni, che narrano il mare dal loro punto di vista (maschile, occidentale, dominante) quasi a fare da contrappunto alle narrazioni delle donne. Si tratta di un rovesciamento del punto di vista, che mette l’Altro (la donna, l’oppresso...) al centro della storia e che è uno degli stilemi più significativi dell’estetica postcoloniale. A ciò va aggiunta la dimensione fortemente collettiva della narrazione, che non porta solo alla catarsi finale ma alla richiesta di una presa di posizione in senso ideologico da parte del lettore. Gli scrittori postcoloniali scrivono infatti (anche) per salvare la memoria dei loro paesi, la loro gente, riscrivendo la storia da parte dei vinti, dei dominati. Per raccontare, per usare le parole di Édouard Glissant la même douleur de l’arrachement, et de la même totale spoliation. L’Africain deporté est depouillé de ses langues, de ses dieux, de ses outils, de ses instruments quotidiens, de son savoir, de sa mesure du temps, de son imagination des paysages, tout cela s’est englouti et a été digéré dans le ventre du bateau négrier et l’Africain est le migrant nu et qui n’a plus même a nourrir l’espoir d’un retour au pays natal. (“Mémoire”) Potremmo aggiungere a tale dimensione collettiva l’esplicita presenza di una sorta di istanza metanarrativa che nel primo romanzo, D’eaux douces, 198 corrisponde perfettamente alla cosiddetta “sindrome di Sherazade”, vale a dire il ricorso a un narratore che racconta storie in lotta con la morte, sapendo che solo finché narra ha salva la vita (in D’eaux douces la voce narrante racconta con accanto il corpo dell’amato che ha appena ucciso e cerca, attraverso il racconto, di ritardare il momento della propria morte): Je m’appelle Frida, je viens de tuer un homme et je m’apprête à me faire sauter la cervelle. Les détails, c’est encore moi qui suis la mieux placée pour vous les fournir. Enroulée comme une bouée autour de mon cadavre, je collecte les souvenirs et épluche mon histoire en commençant par le bout (ED 7). Se qui raccontare diviene una lotta contro il tempo e il racconto è, in primo luogo, capacità di agire sul tempo, dilatandolo o affrettandolo, nel tentativo ultimo di procrastinare l’incontro-scontro con la morte, in Humus addirittura il tempo narrativo è trasgredito, violato. Vita e morte s’intrecciano dal momento che le dodici donne che raccontano la loro vicenda prendono la parola dopo la morte anziché prima. E attraverso un sapiente effetto di mise en abyme nella prefazione e nell’ultimo capitolo viene messa in scena la scrittura stessa del romanzo. Nelle prima pagine il lettore viene infatti a conoscenza della fonte d’ispirazione, e nelle pagine finali l’autrice afferma con forza la decisione di scrivere, chiamando “livre à venir” il volume che il lettore tiene saldamente in mano. Je me levai. Face au livre à venir. A ces murs où nichaient les fantômes et qui bientôt s’effaceraient. (H 247) Inoltre, sempre in un’ottica postcoloniale, la narrazione diviene sovente riscrittura del canone. Confronto con il canone occidentale sotto forma di riscrittura, di pastiche, speculazioni sui personaggi minori di opere canoniche, divagazioni narrative a latere della trama principale solitamente per contaminazione, per contagio. Tale contagio positivo sottolinea la possibilità di rinascita, la capacità di superare la fine trasmettendo ad altri la propria storia, contagiando di sé gli altri, vivendo in loro, e consente di allontanarsi nelle forme e nei temi da ciò che già è stato scritto su uno stesso argomento. Laissez toute espérance, vous qui pensez peut-être qu’une histoire sur l’esclavage est nécessairement une histoire d’aventure. Un récit épique, une épopée tragique où ça viole, pille, frappe, meurt à tout va. Va e vient dans tous les sens. Où l’on ne s’ennuie jamais parce qu’il se passe toujours quelque chose. Forcément. (H 13) 199 Fino ad arrivare a quella “surconscience linguistique”, nozione proposta dalla quebecchese Lise Gauvin che consisterebbe, nello scrittore francofono/postcoloniale, in una consapevolezza della lingua come vasto laboratorio di possibilità, come un’infinita catena di varianti i cui unici limiti sarebbero una certa soglia di “leggibilità” e la competenza dei lettori, lettori da provocare e sedurre insieme. Tale surconscience linguistique, tratto comune, elemento di coesione linguistica delle letterature francofone, e comunque di tutte le letterature emergenti, consiste proprio nel porre al cuore del testo una riflessione sulla lingua e sul mondo in cui si articolano i rapporti fra lingue e letterature in contesti differenti. La complexité de ces rapports, les relations généralement conflictuelles – ou tout au moins concurrentielles – qu’entretiennent entre elles les langues, donnent lieu à cette surconscience linguistique dont les écrivains ont rendu compte de diverses façons. Écrire devient alors un véritable “acte de langage”. Plus que de simples modes d’intégration de l’oralité dans l’écrit, ou que la représentation plus ou moins mimétique des langages sociaux, on dévoile ainsi le statut d’une littérature, son intégration/définition des codes et, enfin, toute une réflexion sur la nature et le fonctionnement du littéraire. (Gauvin 32) Gli scrittori francofoni/postocoloniali sarebbero così condannati à penser la langue, con tutte le conseguenze del caso. Ma forse potremmo dire lo stesso di ogni “production transnationale”, cioè tutta la gamma di strategie messe in atto per “rappresentare” l’eterogeneità culturale. III. Pour une littérature-monde D’altronde la poetica di Kanor viene ben articolata nella sua partecipazione al volume collettivo “Pour une littérature-monde” coordinato la Michel Le Bris et Jean Rouaud. Si tratta del volume generato da una polemica molto vivace, scatenata in Francia dalla pubblicazione su Le monde de livres del 16 marzo 2007 di un vero e proprio manifesto, intitolato “Pour une littératuremonde en français”, nel quale 42 scrittori si esprimono in favore di una lingua francese “liberée de son pacte exclusif avec la nation”; In questo manifesto gli scrittori3, fra i più noti del mondo “francofono”, affermano chiaramente che il successo dei loro testi non può essere semplice frutto del caso, ma rappresenta una vera e propria rivoluzione copernicana. 200 Plus tard, on dira peut-être que ce fut un moment historique: le Goncourt, le Grand Prix du roman de l’Académie française, le Renaudot, le Femina, le Goncourt des lycéens, décernés le même automne à des écrivains d’outre-France. Simple hasard d’une rentrée éditoriale concentrant par exception les talents venus de la “périphérie”, simple détour vagabond avant que le fleuve revienne dans son lit? Nous pensons, au contraire: révolution copernicienne. Copernicienne, parce qu’elle révèle ce que le milieu littéraire savait déjà sans l’admettre: le centre, ce point depuis lequel était supposée rayonner une littérature franco-française, n’est plus le centre. Le centre jusqu’ici, même si de moins en moins, avait eu cette capacité d’absorption qui contraignait les auteurs venus d’ailleurs à se dépouiller de leurs bagages avant de se fondre dans le creuset de la langue et de son histoire nationale: le centre, nous disent les prix d’automne, est désormais partout, aux quatre coins du monde. Fin de la francophonie. Et naissance d’une littérature-monde en français. Le monde revient. Et c’est la meilleure des nouvelles. e più avanti: Soyons clairs: l’émergence d’une littérature-monde en langue française consciemment affirmée, ouverte sur le monde, transnationale, signe l’acte de décès de la francophonie. Personne ne parle le francophone, ni n’écrit en francophone. La francophonie est de la lumière d’étoile morte. Comment le monde pourrait-il se sentir concerné par la langue d’un pays virtuel? Or c’est le monde qui s’est invité aux banquets des prix d’automne. A quoi nous comprenons que les temps sont prêts pour cette révolution. Le critiche al concetto di “francofonia”, superato da nozioni “liquide” come quella di métissage, o di hybridation, continua tuttavia a rivelarsi di una qualche utilità per cercare di capire il grande successo in tutti i paesi europei, e, in particolare, in Francia di questa letteratura “métisse” e, appunto, composita4. E d’altronde non si può negare che oggi le produzioni culturali più interessanti sono proprio quelle che sfruttano le amibiguità dello spazio nazionale. (Simon 178) Nel suo intervento al volume, Fabienne Kanor, in un testo intitolato in maniera decisamente significativa “Sans titre”, ripercorre le tappe del suo percorso di scrittrice “francofona”5 (“Acte I ou comment la narratrice devient lectrice du monde e Acte II ou comment la lectrice, devenue entretemps auteur, est faite antillaise, puis créolophone, puis francophone”) alludendo non a caso all’immagine della barca. 201 Nous sommes en 1993, après. Dans la banlieue parisienne, à Villetaneuse, là où s’enseigne la littérature périphérique. «Péri quoi?» Phérique. Périphérique. Où si vous préférez: underground, an ba fey, à part, dans l’ombre, qui se conçoit et s’énonce différemment. Détail linguistique? Fantaisie terminologique? Peut-être bien... sauf que sur le terrain (en librairie) l’expression s’ancre, justifiant ainsi la mise en quarantaine d’une bonne partie de cette littérature-là. Où que l’on aille, la réponse est la même «Allez-voir-là-bas-au-fond-du-rayon-Truc». Et ne t’avise pas, pauvre lecteur, de marroner (...) Mais dans le même bâteau (une galère, assurément) rangés de la manière la plus arbitraire qui soit (par ordre alphabétique) ces livres “à part” feront, au fil des ans, petits et émules.6 (Kanor, “Sans titre” 238) In questo testo che si vuole manifesto letterario-politico più che finzione, scopriamo la presenza della barca come forte elemento metaforico. Barca-arca che racchiude, alla rinfusa, tutta la letteratura francofona, che ne assicura il (faticoso) salvataggio, ma insieme non distingue, non sa e non vuole distinguere fra testi appartenenti a mondi diversi, a realtà che non hanno nulla (o poco) in comune. Forse soltanto il fatto di trovarsi rinchiusi nella stiva di una comune imbarcazione. IV. Isotopia dell’acqua e immagine della barca Passiamo dunque, dopo questa digressione sulla poetica di Kanor, all’universo finzionale messo in scena dalla scrittrice e in particolare al simbolo della barca, spazio dominante nelle pagine che compongono Humus. D’altronde, se il titolo del primo romanzo D’eaux douces ci immergeva a pieno nell’universo acquatico che popola le pagine di Kanor, lo faceva alludendo alle acque dolci, mentre il secondo (Humus, appunto) ci conduce lungo diversi sentieri narrativi. L’universo spaziale del romanzo si compone infatti di elementi contrapposti a tratti in un’ottica ternaria: Francia-Africa-Antille (passato-presente e futuro testuale) a tratti in un’ottica binaria: Africa-Antille; punto di partenza e punto d’arrivo; nonché nella coppia barca-mare, che può essere letta anche in termini una dicotomia fra dentro e fuori. Nel testo ognuna delle quattordici voci narranti mette in scena un proprio immaginario che meriterebbe di essere approfondito singolarmente ma ci limiteremo a osservare i tratti comuni nei racconti delle schiave che collaborano a creare un immaginario condiviso, dopo aver elencato, 202 per maggior chiarezza, i titoli dei capitoli, che corrispondono agli epiteti dati alle diverse voci femminili: 1 – La muette 2 – La vieille 3 – L’esclave 4 – L’amazone 5 – La blanche 6 – Les jumelles 7 – L’employée 8 – La petite 9 – La reine 10 – La volante 11 – La mère 12 – L’héritière Non può non colpire come si passi da una incapacità di accesso alla parola (la muette) alla possibilità di lasciare un’eredità, un patrimonio (letterario, storico, di memoria) da tramandare e diffondere (l’héritière). L’acqua è attorno (alla barca) ed è in mezzo (fra Francia e Africa; fra Africa e Antille). Separa (bisogna attraversare l’Oceano per arrivare alla meta, per quanto invisa) e al tempo stesso unisce; è pausa, limbo, luogo d’attesa fra ora e domani, ma al tempo stesso è esperienza, è tempo vissuto. Quella del mare è acqua salata, diversa dall’acqua dolce dei fiumi africani; nel primo romanzo le acque non vengono definite dolci in quanto fluviali, bensì per la dolcezza della relazione fra la schiava e il Bianco e per le parole e i gesti che quest’ultimo ha nei suoi confronti: Il parle un langage qu’elle ne comprend pas, aligne les mots d’une grande douceur quand il lui arrive d’être seul avec elle, presque le chant des sirènes en plein océan d’eaux douces. (ED 192) Eric definisce Frida come «une fille d’eau douce», fragile, gracile mentre in Humus l’acqua dolce è quella dei fiumi dei ricordi d’infanzia, diversa dall’acqua delle lacrime, lacrime che non possono sgorgare perché dalla madre contentute, o meglio trattenute: Frida se relève, se retient de pleurer. Il ne faut pas qu’elle craque devant elle. Pas maintenant. (ED 49) 203 diversa dall’acqua con cui ci si lava o con cui ci si purifica, o si purifica il mondo, sempre secondo i precetti di una madre che all’occasione si trasforma in “Monsieur Propre” (ED 48). Rien ne tangue, tout est propre, récuré à l’ammoniaque et à l’eau de Javel. Frida voit. Sa mère pliée en quatre sur le carrelage qui astique-astique tout ce qu’elle trouve sur son passage: Pas sa faute, c’est sa mère qui le lui a appris, lui a transmis ces règles d’hygiène pour être une bonne épouse, une bonne mère une bonne à tout faire. (ED 12) Il mare è cosa sconosciuta alle deportate, o almeno alla maggior parte di esse, che nemmeno sanno pronunciarne correttamente il nome: Lamer, mille fois, j’avais entendu ce nom. Des nuits entières, j’en avais rêvé. La fin du voyage. Comment aurais-je pu savoir alors qu’après Lamer viendrait la terre? Que sur cette terre pousserait de l’eau? De l’eau qui se jette dans la mer, et que ça n’en finirait jamais! (H 33) Quando viene identificato con la deportazione, il mare diviene un luogo orrendo, il cui solo rumore basta a generare terrore: “Il suffit de crier pour ne plus entendre le bruit de la mer”. (ED 136) Il mare, in contrapposizione alla terra d’arrivo (le Antille, che non rappresentano, da nessun punto di vista, un approdo, una possibilità di andare oltre) è tuttavia anche speranza di salvezza oltre la morte, è meta della fuga delle donne che decidono di tuffarsi. È luogo di rigenerazione possibile, ove la carne dei morti può diventare humus, appunto, materia organica, feconda, anzichè carne fatta per essere venduta. La schiavitù è, invece, condizione nella quale è impossibile fecondare, dare alla luce; nella condizione di schiavitù, non v’è possibile nascita. Non a caso tutti i bambini presenti sulla barca finiscono in mare, tanto in Humus che in D’eaux douces. Dans le gros bateau, les petits marins rouges s’agitent. (...) Les Rouges deplient l’échelle. Il faut grimper. C’est à mon tour d’attraper la corde. Je serre fort lorsque une vague violente me fait perdre l’équilibre. Je tombe à l’eau et hurle lorsque mon pagne se défait, que mon fils disparaît dans les flots. Mon enfant, rappelé par le tout-puissant Baé! Rentré brutalement au pays des ancêtres. (H 218) 204 E la moglie del capitano Mosnier, a Nantes, partorisce, anziché un bambino: Une mer d’un bleu nuit. Noire. Pleine de nègres. (H 207) In D’eaux douces questa impossibilità di accesso alla maternità sottende l’impossibilità di una società meticcia, e infatti il figlio non-nato, buttato nelle acque del mare è il figlio dell’amore fra un marinaio e una schiava africana. Elle et le blanc pleurent. Ils ont tué leur enfant, l’ont enveloppé dans du linge sale et jeté à la mer, priant pour que les réquins le dévorent. (ED 193) Tuffarsi nell’acqua significa dunque rimettersi in contatto con gli abissi, con le profondità del proprio io, individuale e collettivo, con il proprio inconscio, luogo privilegiato di fecondazione dell’anima. Gli uomini, i marinai, stanno sulla barca ben saldi; le donne si gettano in mare, senza timore di confrontarsi col buio degli abissi marini. L’acqua del mare diviene così da elemento temuto (La mer ne plaisante pas, il faut la connaître. La mer est pleine de tempêtes et de mauvaises courantes, H 127), fonte di vita, mezzo di purificazione, luogo di rigenerazione. S’immerger dans les eaux pour y ressortir sans se dissourde totalement, sauf par une mort symbolique, c’est retourner aux sources, ressourcer dans un immense reservoir de potentiel et y retrouver une force nouvelle. (Dictionnaire des symboles 374) In questo senso l’acqua è fonte di vita, liquido amniotico, ma anche fonte di morte, insieme creatrice e distruttrice. Sul mare, in balia del mare, naviga la nave negriera, che cerca di cavalcare le onde, di stare sopra, fuori. È una barca maschile, che del maschile contiene gli elementi di dominazione della natura, di guida, di fallica determinazione verso una meta. A conferma di ciò rileviamo come l’unica delle donne che si pone in termini di “stare sopra” le acque marine sia proprio “l’amazzone”, che invita le compagne a “March(er) sur l’eau” (H 89) facendosi quasi miracolosa salvatrice. Una barca dominatrice, occidentale, bianca, potremmo dire in un’ottica postcoloniale. La mer est bleue. Il y a un bateau posé dessus. Si lourd qu’on dirait qu’il ne va jamais pouvoir tenir. Il tient. Magie blanche. Il bouge même. (H 17) 205 Essa però nasconde, ai piani inferiori, le cales, le stive, luogo d’ogni dolore, di ogni umiliazione possibile, luogo della non-intimità: la non-casa bachelardiana. La barca, la sua parte inferiore conduce un viaggio tutto sotterraneo alle origini del dolore, alla scoperta dell’inconscio. Se la barca (berceau-redécouvert-cercueil) simboleggia il viaggio, la traversata compiuta tanto dai vivi quanto dai morti e la “nave negriera” Le Soleil (e ci chiediamo se il nome della barca non rimandi forse al mito delle barche solari con cui i morti accompagnano il Sole nell’Oceano) trasporta schiavi che sono forse “clinicamente” vivi ma la cui identità è venuta meno. D’altronde la meta non è luogo di salvezza, “la barca di Caronte si dirige sempre verso gli inferi, e rimarrà per sempre simbolo dell’ineliminabile sfortuna degli uomini” (Bachelard 59). V. La parola Le stive, taudis, cave, cloaque (H 179) sono il luogo chiuso di sofferenza e di dolore per eccellenza, la rappresentazione delle proprie paure infantili Au risque d’être technique, il me faut décrire un peu mieux la prison où vivaient les femmes. C’est un espace clos où peine à passer la lumière. Je doute d’ailleurs qu’elle y soit jamais entrée. Bien que clouées entre elles, les planches qui tiennent lieu de mur semblent pouvoir s’effondrer à la moindre bourrasque. C’est une impression. (...) L’autre problème c’est la place. Les femmes ont à peine de quoi s’allonger; ce qui complique les choses c’est lorsque l’une d’elles – et cela se produit tous les jours – est malade, chie ou vomit sur ses voisines. (H 127) e le parole con cui la vita delle cales viene narrata, l’accesso stesso alle possibilità della narrazione, aprono una finestra su quel luogo chiuso di morte e sofferenza, danno un senso alla sua esistenza. È proprio la parola, la parola dopo la morte delle dodici schiave che si contrappone alla coltre di silenzio che la storia (individuale – molti sono i personaggi che hanno perso la parola, fra questi la prima voce narrante del romanzo, la muette –, e collettiva) ha steso sulla tratta. D’altronde è lo spazio temporale che separa la scrittrice dalla tratta a consentirle di accedere alla parola, troppo dolorosa per chi quelle vicende aveva vissuto in prima persona. 206 On dit qu’elle n’a pas de mémoire, qu’elle ne se souvient de rien. Insouciante, transporte les bouteilles, celles où les morts ont glissés leurs prières. Serré leurs ultimes espérances. Moi, je crois qu’elle en sait davantage, qu’elle porte en consigne l’histoire. Nous tient, à jamais. L’hypocrite, la vieille. La mer. Je ne l’ai plus jamais revue. Me suis arrangé pour l’éviter. Sur une île, cela n’est guère facile. Il m’a fallu ruser mais j’y suis arrivé. J’ai appris à marcher la tête baissée. A fuir le jour, les arbres, le soleil. J’ai mis du sable dans mes oreilles pour ne plus entendre le bourdon des vagues. (H 52) La parola narrata appare infatti come l’unica arma possibile per liberarsi, per rompere le catene della schiavitù (metaforica e letterale) per ridare vita all’inconsio e farlo uscire dagli abissi (marini) nei quali ha preferito perdersi piuttosto che sottomettersi alle catene della razionalità maschile e minacciosa. Cette histoire n’est pas une histoire. Mais un poème. Cette histoire n’est pas une histoire, mais une tentative de glissement, là où il n’est plus témoin pour dire, là où l’homme, plongé dans l’obscurité des mers, dans cette noir-bleu qui n’en finit pas, affronte la pire épreuve qui soit: la mort de la parole, l’aporie. (H 14) Conclusioni In D’eaux douces il “deus ex machina” della vicenda viene direttamente dall’eredità che la nonna ha lasciato a Frida, irrequieta protagonista del romanzo, vale a dire un’arma, una pistola con cui mettere fine alla vita di Eric e a ciò che egli rappresenta e ritrovare il legame con la generazione di schiave che la nonna qui rappresenta: J’ouvre le paquet que m’a confié grand-grand-mère avant de partir. Je ne suis pas surprise d’y trouver une arme, c’est comme si, au fond j’avais toujours su que nous nous retrouverions, elle et moi, main dans la main, liées à la vie à la mort. Ainsi soit-il. Amen. (ED) Così nel primo testo l’arma, passata di generazione in generazione, serve a eleminare fisicamente l’alterità prepotente e dominatrice, tutta maschile e occidentale, mentre in Humus è la parola narrata ad apparire 207 come unica arma possibile per liberarsi, per rompere le catene della schiavitù (metaforica e letterale), per ridare vita all’inconscio e farlo uscire dagli abissi marini nei quali ha preferito perdersi piuttosto che sottomettersi alle catene della razionalità maschile e minacciosa, qui rappresentata dalla barca e dai marinai che la governano. Non a caso gli abissi nei quali viene gettato, nel primo romanzo, il figlio meticcio, unico, simbolico rappresentante dell’identità creola, sono forse un mezzo di rigenerazione attraverso la morte, più che una morte vera e propria, poiché dopo la discesa negli abissi viene la parola, la narrazione e la sua funzione salvifica. E tuttavia, la narrazione di questa dolorosa navigazione fra i flutti e negli abissi del nostro passato ci riporta al presente, annullando la distanza fra un Ici presente e un Ailleurs lontano, e mettendo così in luce il valore letterario della rappresentazione della navigazione. Quand l’insomnie, mal des philosophes s’accroît, je trouve un apaisement à vivre les métaphores de l’Océan. On sait bien que la ville est une mer bruyante, on a dit bien souvent que Paris fait entendre, au centre de la nuit, le murmure incessant du flot et des marées. (...) Je fais de la rêverie abstraite-concrète. Mon divan est une barque perdue dans les flots; ce sifflement subit c’est le vent dans les voiles. L’air en furie klaxonne de toute part. Et je me parle pour me reconforter; vois, ton esquif reste solide, tu es en sûreté dans ton bateau de pierre. Dors malgré la tempête. Dors dans la tempête. Dors dans ton courage, heureux d’être un homme assailli par les flots. (Bachelard 43) 208 A 1 2 3 4 5 Note, Notes, Anmerkungen, Notes B “Négropolitaine”: n. (Antilles, fr.) Péjor: Antillaise née et vivant en France. Dictionnaire Universel Francophone. Paris: Hachette, 1997, p. 865. Il racconto fa pensare alla vicenda del suicidio degli indiani Ibos, da un punto di vista femminile. Fra i quali Muriel Barbery, Tahar Ben Jelloun, Alain Borer, Roland Brival, Maryse Condé, Didier Daeninckx,Ananda Devi,Alain Dugrand, Edouard Glissant, Jacques Godbout, Nancy Huston, Koffi Kwahulé, Dany Laferrière, Gilles Lapouge, JeanMarie Laclavetine, Michel Layaz, Michel Le Bris, JMG Le Clézio, Yvon Le Men, Amin Maalouf, Alain Mabanckou, Anna Moï, Wajdi Mouawad, Nimrod, Wilfrid N’Sondé, Esther Orner, Erik Orsenna, Benoît Peeters, Patrick Rambaud, Gisèle Pineau, Jean-Claude Pirotte, Grégoire Polet, Patrick Raynal, Jean-Luc V. Raharimanana, Jean Rouaud, Boualem Sansal, Dai Sitje, Brina Svit, Lyonel Trouillot, Anne Vallaeys, Jean Vautrin, André Velter, Gary Victor, Abdourahman A. Waberi). Basti ricordare che solo nell’autunno 2006 numerosissimi premi, dai Goncourt, le Grand Prix du roman de l’Académie française, le Renaudot, le Femina, le Goncourt des lycéens, sono stati attribuiti a scrittori francesi “venus d’ailleurs”. Ritorniamo brevemente al termine di francofonia, attestato per la prima volta, come risaputo, nel 1880, unitamente all’aggettivo derivato (dunque in periodo decisamente “coloniale”) nell’opera del geografo Onésime Reclus in France, Algérie et colonies per designare i popoli che parlano fracese “hors de France”. I termini entrano nel dizionario nel 1930 (supplément au Larousse du XXe siècle) ma restano poco utilizzati fino al 1962, quando la rivista “Esprit” dedica un numero al “Français langue vivante”. Gradualmente il termine si allontana dalla nozione geografica e linguistica iniziale per avvicinarsi a quella di “francité”. A partire dal 1962 ad oggi il termine è stato usato con mille diverse accezioni e, soprattutto connotazioni. Di fronte all’incontrovertibile realtà del fatto che esso riuniva sotto una stessa etichetta un corpus di testi quanto mai eterogeneo, si è cercato di suddividere, classificare, categorizzare con un piglio quasi anatomico, a partire dalle differenti situazioni (linguistiche, cuturali, politiche, psicologiche...) che gli scrittori facenti parte di questa controversa “famiglia” si trovavano a vivere. Oggi, il termine definisce invece un universo “ibrido” che riunisce una vasta schiera di “exilés du langage” (espressione utlilizzata da Delbart). 209 A Opere citate, Œuvres citées, Zitierte Literatur, Works Cited B Opere di Fabienne Kanor Kanor, Fabienne. D’eaux douces. Paris: Gallimard, 2004. ——. D’acque dolci.Traduz. italiana Lucia Quaquarelli. Milano: Morellini editore, 2004; Feltrinelli, 2008. ——. Humus, Paris: Gallimard, 2006, “Continents noirs”. ——. Humus. Traduzione italiana di Licia Reggiani. Milano: Morellini editore, 2009. ——. “Sans titre”. In Pour une littérature-monde. sous la direction de Michel Le Bris et Jean Rouaud. Paris: Gallimard, 2007, 237-242. Opere critiche citate Albertazzi, Silvia; Vecchi, Roberto, a cura di. Abbecedario postcoloniale. Dieci voci per un lessico della postcolonialità. Macerata: Quodlibet, 2001. Bachelard, Gaston. Poétique de l’espace. Paris: Presses Universitaires de France, 1989. “Quadrige”. (prima ed. 1957). Delbart, Anne-Rosine. Les exilés du langage. Un siècle d’écrivains français venus d’ailleurs (1919-2000). Limoges: Presses Universitaires de Limoges, 2005. Gauvin, Lise. L’écrivain français à la croisée des langues. Paris: Éditions Karthala, 1997. Glissant, Edouard. Le tout-monde. Paris: Gallimard, 1993. ——. “Mémoires des esclavages et voltiges des langues”. In Le Monde des Livres, 11/05/07 Le Bris, Michel; Rouaud, Jean, a cura di. Pour une littérature-monde. Paris: Gallimard, 2007. Moura, Jean Marc. Littératures francophones et théorie postcoloniale. Paris: Presses Universitaires de France, 2005. “Ecritures francophones”. Sherry. Simon. Le trafic des langues. Traduction et culture dans la culture québecoise. Montréal: Boréal, 1994. Chevalier, Jean; Gheerbrant, Alain. Dictionnaire des symboles. Paris: Robert Laffont – Jupiter, 1982. 210