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BAIG IV, supplemento novembre 2011
JOHANN ADAM BERGK
E L’ARTE DI LEGGERE I LIBRI
Marco RISPOLI (Padova)
Non capita di rado che, nel leggere un libro, un lettore si imbatta in qualche
espressione di sospetto o di condanna nei confronti della lettura stessa e dei libri. Quasi
che la cultura letteraria moderna abbia vissuto con qualche imbarazzo, forse con
cattiva coscienza, la propria diffusione. Un simile problema appare per esempio assai
diffuso a cavallo tra Ottocento e Novecento. Negli anni attorno alla svolta del secolo la
diffidenza verso i libri diviene particolarmente intensa, per diversi motivi: non soltanto
come riflesso della sfiducia nel linguaggio che in quell’epoca trova particolare alimento,
ma anche perché la pratica della lettura partecipa della confusione stilistica e
dell’eclettismo storicistico caratteristico di quella stagione, ed è oggetto di critica tanto
più radicale in quanto essa sembra allontanare da quel principio – la “vita” – cui si
ispirarono, in modo necessariamente vago, molti tentativi di reagire alla «decadenza» e
al peso della storia. Basterà qui ricordare, tra le molteplici espressioni di questo sentire,
lo sgomento con cui Rainer Maria Rilke, ormai maturo (siamo nel 1907), dopo aver
accennato alle sue giovanili difficoltà con la lettura, guarda alla vastità di ciò che è
stato tramandato nei libri:
Noch jetzt sind meine Beziehungen zu Büchern nicht ohne Befangenheit und es
kann geschehen, daß ich mich in großen Bibliotheken geradezu einer feindlichen
Übermacht ausgeliefert fühle, gegen welche jede Gegenwehr eines einzelnen
sinnlos wäre.1
La confessione di Rilke è certo anche un sintomo tardivo del carattere irregolare che
aveva avuto la sua formazione culturale, e tuttavia essa non costituisce un caso isolato,
ma trova piuttosto riscontro nelle parole di chi, all’opposto, fin da giovanissimo aveva
avuto dimestichezza con un’ampia tradizione letteraria. Essa trova cioè riscontro nel
disagio del giovane Hugo von Hofmannsthal, che proprio in virtù della sua precoce
erudizione arrivò precocemente a osservare come attraverso la lettura di molti e
svariati testi letterari vi fosse il rischio di perdere ogni spontaneità, perché le parole
scritte dagli altri inquinano fatalmente il nostro modo di sentire e di pensare:
Unserm unklaren Gedanken bietet sich, da wir mit Ererbtem Anempfundenen und
Anerzogenem erfüllt sind, sofort eine fertige Ausdrucksform; wir sprechen ihn
biblisch oder philosophisch aus, rhetorisch oder plaudernd, im Stile Goethes,
Schopenhauers oder eines ephemeren Feuillettonisten, wir lassen ihn als echte
Dilettanten in einer beliebigen historischen oder Charaktermaske am
1 Rainer Maria Rilke, Sämtliche Werke, a cura del Rilke-Archiv in collaborazione con R. Sieber-Rilke, Frankfurt am
Main, Insel, 1955-1966, vol. VI, pp. 1020-1021.
1
Liebhabertheater spielen; wir geben ihm beinahe die richtige Form, aber nur
beinahe; es bleibt immer ein Rest, der nicht aufgeht, eine Lüge. 2
La lettura sembra dunque condizionare l’esistenza umana, senza contribuire in alcun
modo alla formazione e all’affermazione del singolo individuo: davanti alla massa dei
libri ogni resistenza in nome delle peculiarità individuali non può che essere vana,
proprio perché attraverso i libri il singolo va assumendo i più disparati vezzi linguistici,
travestendo il pensiero e il sentimento con pose e maniere che non gli è dato di
controllare. Non è un caso, allora, che Hugo von Hofmannsthal abbia speso non poche
energie a dimostrare che i «libri sono un elemento della vita», 3 così come non è un caso
che il brano di Rilke citato sopra facesse parte di un’inchiesta, promossa dal libraio
Hugo Heller, che intendeva raccogliere le voci di alcuni dei maggiori scrittori del tempo
sotto il titolo Die Bücher zum wirklichen Leben: fin da questo titolo è infatti possibile
intuire il proposito di rendere l’atto della lettura un’esperienza autentica e centrale
nella vita e nell’educazione degli uomini (nella loro «vera vita», appunto), facendo
ricorso al consiglio di celebri poeti e scrittori; al contempo proprio dal titolo è però facile
intuire come l’esperienza della lettura fosse pedagogicamente screditata, come
implicitamente venisse riconosciuto che la maggior parte dei libri potessero indurre a
vivere una vita inautentica.
Che la lettura venga rappresentata come esperienza ambivalente dagli stessi scrittori
non è peraltro una novità di quella stagione culturale. Sembra che negli stessi libri vi
sia spesso stato un gusto nell’indugiare sui danni della lettura per la vita. Gli esempi
potrebbero essere molti, e molto illustri, dal medioevo alla modernità: per andare di
vetta in vetta si pensi qui soltanto a Dante, al quinto canto dell’Inferno, in cui il libro si
fa «galeotto» e contribuisce alla dannazione di Paolo e Francesca; si pensi all’inizio del
Don Chisciotte, dove la lettura dei poemi cavallereschi appare come il fattore
determinante allo sviluppo della follia del protagonista; si pensi alle
Wahlverwandtschaften, là dove Ottilie prende l’abitudine di leggere durante le
passeggiate nel parco dimenticandosi del tempo e dello spazio, fino al momento fatale
in cui il libro le risulterà d’impaccio nel tenere il povero Otto in braccio; si pensi a
Madame Bovary, alla sua lettura solitaria di romanzi. In tutti questi casi il lettore appare
vittima di qualcosa di simile a quella «potenza ostile» cui ancora Rilke si sentirà esposto
davanti a una grande biblioteca, a qualcosa che immancabilmente provoca un danno
sulla sua vita, portandolo a perdere il bene dell’intelletto, a trasgredire le convenzioni
morali, a commettere funeste sbadataggini o anche semplicemente a perdere contatto
con la propria concreta esistenza e i suoi limiti, vivendo al posto di questa innumerevoli
esistenze virtuali.
Come spiegare questo fenomeno? Ciascuno dei casi menzionati meriterebbe un’analisi
dettagliata, che qui ovviamente è impossibile fare. Tuttavia è opportuno formulare
qualche ipotesi, e osservare poi quali rimedi vengano poi suggeriti al lettore perché la
lettura non rechi con sé danno, ma una qualche utilità. L’insistenza con cui gli scrittori
hanno dipinto negativamente l’esperienza della lettura può essere ricondotta alla
volontà di affermare il proprio libro a scapito degli altri, esercitando una severa critica
2 Hugo von Hofmannsthal, Gesammelte Werke in 10 Einzelbänden, a cura di Bernd Schoeller, Frankfurt am Main,
Fischer, 1979, vol. X (Reden und Aufsätze III. Aufzeichnungen), p. 324-325.
3 Ivi, vol. VIII (Reden und Aufsätze I), p. 77.
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ai potenziali concorrenti, a dare insomma voce a quella pretesa di assoluto che, come
sostiene Adorno in uno dei Minima Moralia, ogni opera d’arte reca con sé, non
tollerando di dividere i propri pregi con altre opere. 4 Inoltre, dietro a questo indugiare
sui danni recati dalla lettura, vi potrebbe essere l’intento, più o meno consapevole, di
esibire il potere che possiede la letteratura: quasi a mo’ di avvertimento nei confronti
del proprio lettore, quasi a chiarire chi comandi nell’ambito di quella esperienza
estetica e a celebrare il potere dei libri. E d’altronde con ogni probabilità non è un caso
che la denuncia dei danni recati dalla lettura diventi poi assai meno frequente nel corso
del XX secolo, con l’affermarsi di altri media come cinema, radio, televisione, e con il
conseguente declino della potenza incantatrice della parola scritta. Effetti deleteri
analoghi a quelli che un tempo sembravano discendere da un eccessivo attaccamento
ai libri vengono via via imputati ad altre forme di intrattenimento, dalla televisione ai
videogiochi, mentre la lettura sembra assumere i tratti di una attività decorosa e
altamente educativa, oltre che di un prezioso rifugio dalla brutalità della vita e del
mondo. Effetto collaterale della sua marginalità, la lettura diventa insomma oggetto di
celebrazioni, a prescindere dai suoi contenuti e dalle sue forme: come per esempio
quando Botho Strauß in Die Widmung, capovolgendo per molti versi la critica un tempo
rivolta ai libri in polemica con l’erudizione dello storicismo e in nome della vita
presente, esalta proprio la possibilità di comprendere il passato attraverso la lettura;
oppure, più in generale, in diverse recenti rappresentazioni letterarie, dove il piacere
legato alla lettura diventa motivo centrale, da Michael Ende con Die unendliche
Geschichte (1979) a Ernst Augustin con Der amerikanische Traum (1989) fino a Corinna
Soria con Leben zwischen den Seiten (2000).5
Dal momento che, tuttavia, la lettura per secoli fu rappresentata come pratica in cui si
manifesta una potenza ostile, viene spontaneo chiedersi se e in che modo si
svilupparono strategie volte a difendere il lettore dal potere del testo. Per trovare
risposta a questo problema è opportuno spostare la propria attenzione dai testi letterari
alle riflessioni teoriche sulla lettura, a un tipo di trattatistica che almeno nello spazio di
lingua tedesca fiorisce in modo particolarmente copioso proprio nel momento storico in
cui i sospetti che gravano sulla lettura si fanno particolarmente intensi e diffusi: al
tempo della cosiddetta «Leserevolution», quando, negli ultimi tre decenni del
Settecento, il numero dei lettori e la loro smania di leggere andò aumentando
considerevolmente, tanto da indurre qualcuno a vedere nella diffusione dei moderni
romanzi in Germania un evento la cui rilevanza era paragonabile soltanto alla
Rivoluzione Francese, e meritava di essere considerato una «peste»: così almeno
veniva definita la moda letteraria nel 1795 dal libraio svizzero Johann Georg
Heinzmann.6
4 Theodor W. Adorno, Gesammelte Schriften, a cura di Rolf Tiedemann, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 2003,
vol. IV, pp. 84-85.
5 Sul piacere della lettura in certi testi recenti, in contrapposizione alle tradizionali rappresentazioni di questa attività vedi
Thomas Anz, Literatur und Lust. Glück und Unglück beim Lesen, München, Beck, 1998, pp. 11-20; Günther Stocker,
Vom Bücherlesen: Zur Darstellung des Lesens in der deutschsprachigen Literatur seit 1945, Heidelberg, Winter, 2007.
6 Su questo libello e più in generale sulla «Leserevolution» vedi Reinhard Wittmann, Una «rivoluzione della lettura»
alla fine del XVIII secolo?, in Storia della lettura, a cura di Guglielmo Cavallo e Roger Chartier, Bari, Laterza, 1995, pp.
337-369.
3
La preoccupazione per gli effetti dannosi di un’abitudine alla lettura che, nel giro di
qualche lustro, da pochi testi canonici, per lo più di carattere religioso, si era aperta a
una produzione letteraria sempre più ampia – in questo si è voluto vedere il passaggio
da una lettura «intensiva» a una lettura «estensiva», anche se certi testi letterari, primi
fra tutti i romanzi sentimentali del tempo quali Julie ou la Nouvelle Héloïse o Pamela,
erano oggetto di letture la cui intensità era spesso maggiore rispetto alle tradizionali
letture del canone religioso7 – non era però sentita soltanto da critici della cultura di
orientamento conservatore. La convinzione che la lettura potesse avere perniciose
conseguenze sulla salute degli uomini era presente anche tra alcuni degli esponenti più
avanzati della cultura di lingua tedesca. Anche da loro la lettura viene a essere
considerata come una pratica alienante, foriera di diversi malanni fisici e psichici, tanto
da essere ostinatamente paragonata all’assunzione di droghe. Karl Philipp Moritz, con
l’Anton Reiser, narra anche lo sviluppo di una simile dipendenza: per il protagonista la
lettura era infatti «un bisogno come per gli orientali è l’oppio, qualcosa attraverso cui
portare i propri sensi in un gradevole stato di indolenzimento». 8 Lo stesso paragone
viene ripreso alla lettera da Herder, in un dialogo nei Briefe zur Beförderung der
Humanität in morte dell’Imperatore Giuseppe II, in cui, a proposito di Federico di
Prussia, si parla di un solitario «diletto, che presto gli divenne così insostituibile come è
l’oppio per gli orientali»9.
Anche Johann Gottlieb Fichte, nelle lezioni raccolte sotto il titolo Grundzüge des
gegenwärtigen Zeitalters , vede nella lettura qualcosa di affine a certi «narcotici» – là
dove il paragone avviene stavolta con il consumo del tabacco – soprattutto per quel che
riguarda il nuovo genere di lettura che si è venuto a creare con l’espansione del
mercato e con la diffusione delle mode, una pratica che rende i lettori moderni simili a
tossicodipendenti sempre inappagati e sempre sospinti a cercare nuove esperienze:
Froh, das alte notdürftig durchlaufen zu haben, greifen sie nach dem neuen,
indem das neueste schon ankommt; und es bleibt ihnen kein Augenblick übrig,
jemals wieder an das alte zu gedenken. Nirgends können sie in diesem rastlosen
Fluge anhalten, um mit sich selber zu überlegen, was sie denn eigentlich lesen;
denn ihr Geschäft ist dringend, und die Zeit ist kurz: und so bleibt es gänzlich
dem Ohngefähr überlassen, was, und wie viel, bei diesem Durchgange, an ihnen
hängen bleibe, wie es auf sie wirke, welche geistige Gestalt es an ihnen gewinne.
Nun ist diese Art des Lesens schon an und für sich selber, eine, von allen
andern Gemütsstimmungen, spezifisch verschiedene Stimmung, die etwas
7 Vedi al proposito Robert Darnton, First Steps towards a History of Reading, in «Australian Journal of French Studies»,
23 (1986), pp. 5-30, poi in R. D, The Kiss of Lamourette: Reflections in Cultural History, London, Faber & Faber, 1990
(tr. it. di Luca Aldomoreschi, Primi passi verso una storia della lettura in R. D., Il bacio di Lamourette, Milano, Adelphi,
1994, pp.117-153, in particolare p. 130).
8 Karl Philipp Moritz, Werke in zwei Bänden, a cura di Heide Hollmer e Albert Meier, Frankfurt am Main, Deutscher
Klassiker Verlag, 1999, vol. I (Dichtungen und Schriften zur Erfahrungsseelenkunde), p. 255 «Das Lesen war ihm nun
einmal so zum Bedürfnis geworden, wie es den Morgenländern das Opium sein mag, wodurch sie ihre Sinne in eine
angenehme Betäubung bringen».
9 Johann Gottfried Herder, Werke in zehn Bänden, Frankfurt am Main, Deutscher Klassiker Verlag, Band 7: Briefe zu
Beförderung der Humanität (1991) Herausgegeben von Hans Dietrich Irmscher «B: […] eine […] Ergötzung, die er
unausgesetzt, obwohl sehr regelmäßig trieb, ja die ihm bald so unentbehrlich ward, als den Morgenländern das Opium
– // A: Sie meinen die Lektüre?»
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höchst angenehmes hat, und gar leicht zum unentbehrlichen Bedürfnisse werden
kann. So, wie andere narkotische Mittel, versetzt es in den behaglichen
Halbzustand zwischen Schlafen und Wachen, und wiegt ein, in süße
Selbstvergessenheit, ohne daß man dabei irgendeines Tuns bedürfe. Mir hat es
immer geschienen, daß es am meisten Ähnlichkeit mit dem Tabakrauchen habe,
und durch dieses sich am besten erläutern lasse. Wer nur einmal die Süßigkeit
dieses Zustandes geschmeckt hat, der will sie immerfort genießen, und mag im
Leben nichts anderes mehr tun; er lieset nun, sogar ohne alle Beziehung auf
Kenntnis der Literatur, und Fortgehen mit dem Zeitalter, lediglich damit er lese,
und lesend lebe, und stellt in seiner Person dar den reinen Leser.10
Resosi schiavo del materiale sempre cangiante che scorre in forma di lettere sotto i suoi
occhi, il «lettore puro» qui evocato da Fichte diventa in questo modo incapace di
leggere davvero, egli diventa cioè incapace di fare proprie o anche solo di memorizzare
le cose lette, tanto che, come osserva Fichte immediatamente dopo il passo citato, là
dove si giunge a questo estremo la lettura e la scrittura cessano di esistere
propriamente, esse sembrano implodere, vanificando il proprio influsso potenzialmente
benefico proprio perché esercitano in modo eccessivo il proprio potere. 11
La moderna riflessione sulla lettura e sulle sue tecniche appare allora di frequente, in
quel volger d’anni, come un tentativo di emancipazione dalla schiavitù che i libri
rischiano di esercitare sul lettore e come un tentativo di affermare il potenziale
pedagogico del libro nonostante i sospetti che su di esso gravano. Questo intento si
traduce in modo di volta in volta diverso, finendo tra l’altro per contribuire
profondamente alle trasformazioni che investono la storia dell’ermeneutica tra
settecento e ottocento, così come sono queste state indagate da Peter Szondi. 12
Accanto alla nascita e allo sviluppo di una moderna ermeneutica che, con
Schleiermacher, vede il processo della comprensione di un testo non più legato
all’interpretazione di singoli passi dal senso oscuro, ma alla comprensione dello spirito
dell’autore e della genesi del testo o del discorso, si può tuttavia anche assistere, negli
anni centrali dell’età di Goethe, allo sviluppo di una tecnica di lettura che in primo
luogo, ancor più che alla comprensione, vuole condurre al controllo di quel che si ha
letto, al dominio intellettuale e alla dimostrazione della propria indipendenza e
superiorità nei confronti dell’autore, quasi che l’atto della lettura venisse inteso come
un confronto agonale tra autore e lettore.
A questa tendenza è per molti versi possibile riportare Fichte, poiché nel testo già
ricordato, dopo aver denunciato i guasti di una lettura frenetica e perennemente
insoddisfatta, il filosofo andava tratteggiando i lineamenti di una «Kunst des Lesens»
che dovrebbe portare il lettore a comprendere e di conseguenza a dominare l’autore, a
10 Johann Gottlieb Fichte, Schriften zur Angewandten Philosophie. Werke II, a cura di Peter Lothar Oesterreich,
Frankfurt am Main, Deutscher Klassiker Verlag, 1997, pp. 159-160
11 Ivi, p. 160: «Und an diesem Punkte hat denn die Schriftstellerei, und die Leserei ihr Ende erreicht; sie ist in sich selbst
zergangen, und aufgegangen, und hat durch ihren höchsten Effekt ihren Effekt vernichtet. An den beschriebnen reinen
Leser, ist auf dem Wege des Lesens, durchaus kein Unterricht mehr, noch irgendein deutlicher Begriff zu bringen; denn
alles Gedruckte wiegt ihn alsbald ein, in stille Ruhe, und in süße Vergessenheit seiner selber».
12 Vedi Peter Szondi, Einführung in die literarische Hermeneutik, a cura di Jean Bollack e Helen Stierlin, Frankfurt am
Main, Suhrkamp, 1975, in particolare pp. 135ss.
5
esserne superiore nel momento stesso in cui è in grado di ricostruirne le intenzioni e di
formulare un giudizio su di lui:
Es ist ebenso klar, dass bei dieser Weise zu lesen man bald entdecken werde,
wenn etwa der Autor selbst in der Wissenschaft, über welche er zu schreiben
begehrt, nicht zu Hause ist und die Höhe des Zeitalters in ihr gar nicht kennt;
oder, wenn er ein verworrner Kopf ist. […] Und so wäre denn der nächste Zweck,
des Verstehens und historischen Erkennens des Sinnes des Autors, erreicht. Ob
nun dieser Sinn des Autors der Wahrheit gemäß sei, — was der zweite Zweck des
Lesens war, — zu beurteilen, wird nach einem so durchdringenden Studium sehr
leicht sein.13
Ancora più evidente appare questo aspetto agonistico se ci si volge a uno dei più ampi
trattati sull’argomento, alla Kunst, Bücher zu lesen, pubblicata nel 1799 da Johann
Adam Bergk.14 In questo testo, che vuole replicare a tutti coloro che rilevano gli effetti
perniciosi della lettura sull’animo umano, Bergk fa della «Selbstständigkeit» del lettore,
della sua «Selbstthätigkeit» durante l’atto della lettura il perno su cui incentrare le sue
considerazioni e riproporre il valore pedagogico dei libri, secondo una tradizione
illuministica. L’arte della lettura non consiste tanto nel ricostruire le intenzioni
dell’autore – come è per Fichte, che da questo fa discendere la possibilità di
comprendere il testo e quindi di giudicarlo 15 – ma nell’attivare le proprie autonome
facoltà produttive:
Jedes Buch, das wir lesen, muss in uns die Kräfte in Thätigkeit setzen, die dazu
gehören, eine gute Composition zu machen. Der Dichter muss unsere
Einbildungskraft und unsern Verstand, der Philosoph unsere Vernunft
beschäftigen.16
Bergk, nella sua trattazione, pone l’accento sugli aspetti più attivi della lettura soltanto
dopo aver ricordato i potenziali danni di una lettura indiscriminata e passiva.
L’attivismo da lui proposto non è altro che il rimedio necessario ad allontanare il
pericolo che, al pari degli altri intellettuali del tempo, anch’egli non manca di ricordare,
quello per cui i libri rischierebbero di essere simili a narcotici, che di essi si possa cioè
fare «lo stesso uso che i turchi fanno dell’oppio». 17 Nel proporre una lettura
spiccatamente attiva è allora possibile ravvisare traccia di un più generico timore che
coglie la borghesia del tempo davanti alla diffusione del lusso e delle mode: vi è cioè in
queste parole il timore che gli stessi mezzi che hanno reso possibile un’emancipazione
13 Fichte, Schriften zur Angewandten Philosophie, cit., p. 164.
14 A Bergk dedica la propria attenzione Friedrich A. Kittler, Aufschreibesysteme 1800/1900, München Fink, 1985, pp.
149ss.
15 Fichte, Schriften zur Angewandten Philosophie, cit., p. 165: «damit das Kunstwerk auch nur an uns komme und wir
mit demselben in Berührung treten, muss es vorläufig verstanden werden; d.h. wir müssen die Absicht des Meisters, und
was eigentlich er durch sein Werk habe liefern wollen, vollkommen begreifen».
16 Johann Adam Bergk, Die Kunst, Bücher zu lesen, Jena, Hempel. 1799, p. 66.
17 Ivi, p. 60.
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culturale, primo fra tutti la diffusione della lettura, possano poi condurre a smarrire la
propria tempra morale e la propria ragione nella ricerca di piaceri che seguono
esclusivamente le leggi del consumo.
La celebrazione della capacità del lettore di rifuggire un atteggiamento passivo davanti
diventa d’altronde la condizione affinché possa esservi una vera comprensione di
quanto viene letto:
Da wir nun uns so oft beim Lesen bloß leidend verhalten, so verstehen wir vieles
nicht: wir bleiben daher gleichgültig und unbelehrt bei der Lektüre der
lehrreichsten Bücher. […] Wir scheuen jede Mühe und jedes Nachdenken, und
fahren daher leichtsinnig über Stellen hinweg, deren Sinn uns nicht auf den
ersten Blick einleuchtet, und wir mißdeuten den Verfasser, weil wir nicht die
Kräfte in uns in Thätigkeit sezzen, die in ihm wirkten, als er sein Buch schrieb. 18
(64)
Alla luce di questo passo sembrerebbe che Bergk occupi una posizione mediana
nell’ambito delle trasformazioni della ermeneutica: in lui risultano infatti convivere da
un lato un’ermeneutica tecnico-grammatciale, imperniata sulla comprensione di passi
che si sottraggono a una immediata comprensione da un lato, dall’altro un’arte
interpretativa di tipo nuovo, che nel superare gli ostacoli si concentra non tanto
sull’opportunità di diradare le ambiguità di singoli passaggi e di apparenti
contraddizioni, come ancora prevaleva nell’ermeneutica settecentesca, quanto sulla
necessità di ricostruire e rivivere le energie che hanno dettato all’autore il suo libro, di
coglierne quindi lo spirito.19 Per Bergk, tuttavia, L’opportunità di mettere in azione le
stesse forze che hanno agito nell’autore non è determinata in primo luogo dal bisogno
di riprodurre ciò che dall’autore era stato prodotto in precedenza, in modo tale da
comprenderlo; sopra ogni altra cosa vi è piuttosto dal bisogno di dominare la materia
che ci si trova davanti, disponendone in modo autonomo. E’ quanto è possibile
desumere dai molti passi in cui Bergk, con un vocabolario che non lascia dubbi circa il
fatto che nella lettura vi sia anche un confronto agonistico, un gioco di potere, vuole
affermare una netta gerarchia tra il lettore e il testo, a tutto vantaggio del primo:
Das Buch, das wir lesen, darf uns nicht als Sklaven behandeln, sondern wir
müssen als freies Wesen über seinen Inhalt herrschen. Wir müssen in uns die
Thätigkeit hervorbringen, die erforderlich ist, um uns eine Reflexion, ein
Gemälde, eine Charakterschilderung und eine Thatsache verständlich zu
machen. Wir müssen uns von dem Stoffe des Buches nicht unterjochen lassen,
sondern wir müssen ihn als Selbstdenker bearbeiten, und ihn als Eigenthum
unsers Geistes behandeln. Unser Bestreben beim Lesen muß stets dahin gehen,
uns über den Stof zu erheben, um ihn beherrschen zu können. 20
18 Ivi, p. 64.
19 In questo decisivo spostamento d’accenti, reso ancor più vistoso dalla successiva lettura segnata dalla
Lebensphilosophie di Dilthey, si manifesta in modo particolarmente evidente la svolta che la storia dell’ermeneutica
conosce all’inizio del XIX secolo con Ast e poi soprattutto con Schleiermacher: vedi Szondi, Einführung, cit., pp. 157ss.
20 Bergk, Die Kunst, Bücher zu lesen, cit., p. 63
7
La possibilità di comprendere un testo appare dunque in Bergk strettamente legata alla
capacità del lettore di mantenersi autonomo di fronte al materiale, dominandolo: non
sono più i segni e la loro più o meno mediata referenza alle cose del mondo a garantire
la comprensione del testo, ma la libera «attività» del lettore. Di conseguenza nel testo
di Bergk finiscono per prevalere le componenti di un’ermeneutica decisamente
ottocentesca, volta alla comprensione non già del significato dei singoli termini, ma
della «totalità» di un testo:
Wir müssen das in uns lesen, worüber nachzudenken uns ein Buch Gelegenheit
giebt. […] Alles, was ist und geschieht, muß sich um unser Ich drehen, wie die
Erde um die Sonne. Lesen heißt daher nicht Begriffe, die uns von außen gegeben
werden, auffassen, sondern den Stof dazu in sich selbst ins Leben rufen […] es
heißt nicht den Sinn der einzelnen Worte verstehen, sondern das Ganze
überschauen.21
La centralità che qui viene assegnata alla personalità del lettore è tuttavia un fattore
che non rimane senza profonde conseguenze, portando Bergk ad assumere una
posizione singolare rispetto allo sviluppo che conosce l’ermenuetica nel corso dei primi
decenni dell’ottocento, spingendolo oltre: facendolo rovesciare mediante una forma di
illuminismo particolarmente radicale la tradizionale gerarchia tra la scrittura e colui che
legge, e portandolo così presagire con largo anticipo quella vena nichilistica della
moderna ermeneutica che si manifesta soprattutto nel corso del XX secolo. Certo,
Bergk insiste sulla autonomia del lettore, sulla sua libertà davanti a ciò che legge,
anche perché attraverso questo atteggiamento appare possibile mantenersi liberi dalla
coazione al consumo che l’espandersi del mercato letterario sembrava voler imporre
agli stessi lettore. E’ insomma fuori di dubbio che per Bergk si trattasse di difendere, al
di là di ogni vana erudizione, la solidità morale dell’uomo davanti alla complessità e alla
mutevolezza dei fenomeni e degli stimoli cui era esposto:
Ein Mensch, der sich zwar viele Kenntnisse, aber keine Selsbtthätigkeit erworben
hat, hat eben so wenig moralischen Werth, als Brauchbarkeit für die Welt, die alle
Augenblicke mit neuen Erscheinungen schwanger ist […] Man muß sich daher
durch Freiheit und Selbstbeherrschung einen gewissen Takt zu erwerben suchen,
um jeder Erscheinung gleich im Gesichte ansehen zu können, welches Geistes sie
Kind ist, und man muß sich eine Fertigkeit im Combiniren verschaffen, um jedes
Gift gleich durch ein Gegengift unwirksam zu machen. 22
Il bisogno di fronteggiare criticamente il susseguirsi degli stimoli estetici porta però
Bergk, come appare evidente da questo e dagli altri passi citati, ad accentuare in modo
affatto singolare la libertà individuale e l’attività del lettore. La facoltà di «combinare»
riconosciuta al lettore non appare più regolata da vincoli riconosciuti da tutti, ma dal
bisogno di creare antidoti ai possibili influssi negativi provenienti dalla lettura stessa.
21 Ivi, p. 62.
22 Ivi, p. 84.
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Tenendo presente il carattere almeno potenzialmente arbitrario di questa pratica – forse
non così lontana da quella Kombinatorik inseguita dal primo romanticismo – è
opportuno intendere il termine «Kunst» che appare nel titolo del trattato di Bergk non
tanto come il riferimento a una «tecnica» di lettura universalmente condivisibile,
quanto come un’allusione al carattere artistico che dovrebbe avere la lettura stessa, e
quindi alle affinità che vi sarebbero tra l’arte di scrivere e l’arte di leggere. «Man muß
kämpfen, wenn man ein vollkommener Künslter werden will»: 23 così scrivendo Bergk,
oltre a ribadire gli aspetti più agonali che caratterizzerebbero la pratica della lettura,
sottolinea come la lettura sia un’arte il cui sviluppo dipende in buona parte dalle
energie e dai talenti dell’individuo, al pari di quanto avviene nelle altre arti. Si crea così,
tra il lettore e l’autore, un rapporto che da un lato è di collaborazione, dall’altro tuttavia
non è privo di aspetti antagonistici, là dove il lettore è invitato a liberarsi da eccessive
riverenze davanti al libro e alla sua materia:
Der Leser eines Buches muß das thun, was der Schauspieler, der Künstler ist,
thut. Er muß dem Schriftsteller nachhelfen: Er muß das Selbstdenken nicht
aufgeben, sondern er muß ihm vor- und nachdenken. Er muß nicht ein Sklav
fremder Materialien werden, sondern er muß als Selbstherrscher über sie
regieren.24
Nel momento in cui il lettore deve affermare la propria autorità, simile a un artista,
simile quindi allo stesso autore, egli afferma una sorta di autocrazia. Inevitabile diventa
allora per Bergk riconoscere un certo relativismo nel valore dei libri: la possibilità che
una lettura divenga produttiva dipende infatti non tanto dalla qualità del libro, ma
anche da molte altre variabili, che riguardano il carattere, la cultura e lo stato d’animo
momentaneo del lettore. Le gravia conseguenze che da questo discendono vengono
tuttavia implicitamente messe in conto da Bergk, pur di sottrarre la lettura al potere
che su di essa andavano assumendo le logiche di mercato. La celebrazione della libera
autorità del lettore da parte di Bergk costituisce una delle più radicali risposte al
trauma che coglie gli intellettuali di lingua tedesca quando, negli ultimi decenni del
Settecento, osservano come il mondo delle lettere sia dominato dai meccanismi di
produzione e consumo, con la conseguente dicotomia tra una élite intellettuale e una
massa anonima di lettori, che di lì in avanti caratterizzerà la cultura di lingua tedesca. 25
A questo problema Bergk risponde per molti versi facendo incontrare l’autore e il
lettore nella stessa attività produttiva, quasi che ognuno avesse il diritto di essere
poeta:
Er muß beim Lesen der Dichter und beim Anschauen der Natur selbst dichten, er
muß das Angeschauete in neue Verbindungen bringen, er muß sich bestreben,
23 Ivi, p. 76.
24 Ivi, p. 66.
25 Anche a distanza di tempo non perdono di interesse e di validità, a questo proposito, gli studi raccolti da Christa
Bürger (a cura di), Zur Dichotomisierung von hoher und niederer Literatur, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1982.
9
eine neue Ordnung der Dinge einzuführen, und einen neue Welt zu schaffen. Er
muß immer selbstthätig seyn.26
In questo modo, il tentativo di difendere l’autonomia del lettore, sottraendolo alle
logiche del mero consumo, conduce Bergk a occupare una posizione particolarmente
avanzata nella riflessione sulla lettura e, più in generale, sulla ricezione dell’arte. In
maniera non dissimile da quanto avviene in certi frammenti di Novalis – là dove per
esempio si può leggere che il lettore può «porre gli accenti in modo arbitrario, facendo
ciò che vuole di un libro»27 – Bergk concede al lettore la facoltà di reinventare quel che
legge, aprendo a un numero potenzialmente infinito di interpretazioni, pur di adempiere
all’imperativo della libera attività. Il suo caso mostra come fin dagli ultimi anni del
settecento si sviluppi, in risposta ai potenziali danni della lettura, accanto a una
riflessione ermeneutica volta a ricostruire le intenzioni dell’autore riconoscendone
l’autorità, la tendenza a pensare all’atto della lettura come a qualcosa di autonomo,
che al di sopra della possibilità di una comprensione univoca pone la facoltà di
esercitare liberamente le proprie energie creatrici, foss’anche necessario affrontare, in
prospettiva, il carattere soggettivo e potenzialmente arbitrario di questo processo.
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26 Bergk, Die Kunst, Bücher zu lesen, cit., p. 125.
27 Novalis, Schriften. Die Werke Friedrich von Hardenbergs, a cura di Paul Kluckhohn e Richard Samuel, Stuttgart,
Kohlhammer, 1960–1977, vol. 2, p. 609: «Der Leser setzt den Akzent willkürlich; er macht eigentlich aus einem Buche,
was er will».
BAIG IV, supplemento novembre 2011
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