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Con la collaborazione di Dory D’Anzeo e Stella Teodonio
Prima edizione: gennaio 2012
© 2012 Lit Edizioni Srl
Largo Giacomo Matteotti 1
Castel Gandolfo (RM)
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Sede operativa:
Via Isonzo 34
00198 Roma
Copertina: Laura Oliva
www.arcanaedizioni.com
Dario Salvatori
Pop Story
1900-1909
L’alba della musica pop
Un ringraziamento speciale
ad Amanda Ahronee e Lorenzo Fantacuzzi.
INDICE
Premessa
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La Rivista, grande madre dell’intrattenimento
L’arte di Fregoli
Belle Epoque: Mata Hari, Bella Otero e false ballerine
Il formato-canzone
Operetta: fra cincillà, geishe e vedove allegre
Cabaret: decadenza della borghesia fra maliarde e perdizione
Buddy Bolden, primitivo afro-americano
Music Hall: Europa e America si divertono allo stesso modo
West Song: fra cowboy e banditi idealizzati
Ragtime, uno stile sincopato che annuncia benessere
Il terremoto di San Francisco,
importante scossa, non solo sismica, del Ventesimo secolo
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1900-1909. BREVE STORIA SOCIO-CULTURALE
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Le manie
La nascita del calcio
La gabbia di Venere
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Model T, il “macinino” tutto nero
che rivoluzionò il mondo del trasporto
Cambia il vento, iniziano le proteste.
Lo spirito rivoluzionario dello sciopero generale
Una passione chiamata ciclismo. Tour de France e Giro d’Italia
Zeppelin, il gigante che non fatica a dominare il cielo
Donne vestite “alla mascolina”: il tailleur
Panama e cappelli piumati
Natura e aerodinamicità: nasce lo stile Liberty
Il fonografo: riprodurre i suoni è possibile
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La musica classica, borghese ma passionale
Claude Debussy
Maurice Ravel
Pietro Mascagni
Giacomo Puccini
Ruggero Leoncavallo
Umberto Giordano
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I miti
Lina Cavalieri
Eduardo Scarpetta
Arturo Toscanini
Enrico Caruso
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Negli USA nasce la Hit Parade
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L’alba della musica pop
PREMESSA
Il Novecento è stato un secolo molto lungo per la musica. Materiali, ricchezza di idee, evoluzioni tecnologiche impensabili, un ricchissimo universo sonoro che ha finito per influenzare anche la storia del costume, il rapporto fra le persone, la nostra stessa esistenza. Ma è stato anche il secolo delle contraddizioni, di una euforia creativa mai vista prima, una stagione caratterizzata anche dalle più spericolate “convivenze”: la dodecafonia con il
ragtime, il gospel con la grande canzone napoletana, la musica contemporanea con il jazz, il rock con la new age. Entusiasmi stridenti che hanno accolto e condannato, in stagioni diverse, tutto e il contrario di tutto.
Il Novecento è il secolo in cui nasce la musica riprodotta, che diventa spettacolo, arte, industria. Sono anni in cui sembra prevalere l’entusiasmo e la
nascita di una “terribile bellezza”, difficile da gestire, all’interno della quale
fanno scuola procedure eroiche. E pensare che il nuovo secolo era iniziato in
maniera ingombrante. Thaddeus Cahill inventa il telharmonium, uno strumento che pesa oltre duecento tonnellate, in grado di generare suoni in maniera elettronica. È il primo tentativo commerciale di distribuire musica attraverso il telefono. Forse è per questo che Cahill sarà considerato il padre
della musica di sottofondo. Gli strumenti della comunicazione di massa e la
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specializzazione nel lavoro consentono, a partire dai primi anni del secolo, di
parlare in termini di “generi”, forme di convivenza sociale. La musica scopre
sentieri socialmente favorevoli e non li abbandonerà più. Il cambiamento
più rilevante prodotto dal Novecento consiste nell’aver trasformato la musica da qualcosa che la gente suonava a qualcosa che consumava. La registrazione ha separato il suono dall’esibizione. Prima della registrazione, la musica non esisteva se non c’era qualcuno che la suonasse e dunque l’ascolto della musica era necessariamente sociale. Era impensabile ascoltare un solista,
un duo o un gruppo senza che ci fosse qualcuno ad ascoltare. Superfluo aggiungere che i supporti della nostra epoca, dal walkman al lettore MP3, hanno spinto la fruizione di musica verso la solitudine.
Dal momento della sua comparsa, e per diversi lustri, la musica registrata ebbe un’importanza molto limitata. Con il passare degli anni, e soprattutto con la dipartita di molti pionieri di vari generi, si iniziò ad attribuire ai
dischi un valore documentale, ma fino a quel momento erano state considerate delle immagini istantanee, brevi e confuse, di ciò che stava accadendo.
Nessuno avrebbe immaginato che un giorno il complimento più ambito
per un musicista sarebbe diventato “suoni come un disco”.
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LA RIVISTA
GRANDE MADRE DELL’INTRATTENIMENTO
È la forma di spettacolo di intrattenimento più popolare in Italia a partire
dall’inizio del Novecento. Antenati nobili. Idee “da Rivista” erano già presenti nei Fâcheux di Molière e nel Mercure Galant di Boursault. Un genere
che, pur mutuato dal Varietà, nasce in quegli anni, riproducendosi gagliardamente, pur con tutte le variazioni temporali, con prodigiosa attenzione
agli usi e ai costumi e addirittura ai suoi stessi modelli. A caratterizzare questo genere, fin dall’inizio, è il suo sapore ironico, parodistico, caricaturale e
non certo lo sfarzo dei costumi e delle trovate sceniche. Scopo principale del
genere era divertire, possibilmente beffando qualcuno o qualcosa per suscitare riso e divertimento.
Esempio di Rivista era già La cortigiana dell’Aretino e in tempi successivi quelle che Teofilo Gautier ed Eugenio Scribe rappresentavano a Parigi.
Gautier, autore di Capitan Fracassa, e Scribe, librettista per Verdi, Rossini e
Donizetti, non disdegnavano affatto il genere disinvolto, scanzonato e leggero. Negli ultimi anni dell’Ottocento debutta al Teatro Fossati di Milano il
compositore brasiliano Carlos Gomez. Ma nella sua Rivista di brasiliano
non c’era nulla, anzi il titolo era addirittura in dialetto milanese, Se sa min-
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ga. Testo italiano, ragazze piccanti, Compagnia Scalvini e un successo addirittura frenetico. Qualche mese dopo Gomez bissa con Nella luna, una fantasia burlesca, con immediati richiami d’attualità. La canzone Il fucile ad
ago, ispirata alla vittoria di Sadowa, manda letteralmente in delirio il pubblico. Le lodi e i battimani, tuttavia, non entusiasmano più di tanto Gomez,
che a quel punto, per dimostrare il suo valore di compositore, scrive un’opera decisamente complessa, Guarany, accolta alla Scala da tonanti applausi
e lodata senza riserve dalla critica. Era indubbiamente un’epoca molto disinibita quella in cui un compositore poteva passare dalla ribalta di Rivista
del Fossati a quella solenne del massimo teatro lirico del mondo e ottenere
su entrambi il medesimo successo.
Nei mesi a cavallo fra Ottocento e Novecento, la Rivista vive a Milano un
periodo di importanti traguardi. Carlo Bertolazzi e Francesco e Giovanni
Pozza mettono in scena El sogn de Milàn al Teatro Carcano con la compagnia
diretta da Davide Carnaghi. Replica dopo replica, il copione viene aggiornato frequentemente per aggiungervi satira riguardante nuovi personaggi e
nuovi argomenti. Il merito è soprattutto di Carnaghi, impareggiabile comico che per quella commedia creò un personaggio indimenticabile: Togasso.
Il 1902 è l’anno in cui inizia a farsi strada Renato Simoni, più o meno impropriamente definito in seguito il “papà della Rivista italiana”. Dopo i successi riportati con La vedova e Congedo, tesori di arguzia e spirito, Simoni mette in scena Turlupineide, summa e perfezionamento dei precedenti allestimenti. Simoni ridicolizza Dante Alighieri, intimidito e ossequioso, trasformato in maggiordomo di Gabriele D’Annunzio, n. 1 della cultura italiana. In
un altro quadro presenta due enormi tartarughe, il Vittoriano e il Palazzo di
Giustizia (due monumenti romani che sembravano destinati a non essere mai
ultimati) che si prodigano in una gara di corsa. In un altro ancora le ballerine
apparivano vestite per metà con un’austerissima giubba gialla e viola e con
una sottanina da chierichetto (trasparente allusione alla destra moderata e
cattolica) e per metà di un trasandato abito scarlatto: quando le ragazze si vol-
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gevano da un lato sembravano una gigantesca siepe di viole del pensiero,
quando si volgevano dall’altro diventavano una barricata di papaveri. Addirittura Filippo Turati appariva sulla scena per esprimere le sue aspirazioni innovatrici con la più bonaria mitezza cantando l’inno dei lavoratori.
A Milano qualcuno pensa ad aprire un teatro stabile per questo tipo di attrazioni. Le influenze francesi sembrano prevalere e, siccome a dettar legge è ancora il Moulin Rouge, il nome è già pronto: Cabaret Rouge. I classici conti senza l’oste. Qualche giorno dopo appare sul «Corriere della Sera» una lettera di
protesta di Luciano Zuccoli, l’autore di Farfui, che accusa di inguaribile esterofilia gli ideatori del nuovo teatro, che infatti finisce per chiamarsi Taverna Rossa. Stesso discorso per il vecchio Trianon, che il furore innovativo del nuovo secolo cerca di rinnovare. Scelto un nome francese, fu un altro celebre romanziere, Guido da Verona, a protestare, e dunque nacque il Mediolanum.
Nei primi anni del Novecento si scatena una vera e propria febbre per lo
spettacolo notturno. Uno spettacolo non ancora per tutti, anzi per pochi:
artisti, alto borghesi, nobili, ricchi faccendieri, donne disposte a tutto. Sorgono numerosi nuovi teatri e locali pubblici, ma ancora più numerose sono
le riunioni private, dette “periodiche” perché si tengono in determinati
giorni della settimana e costituiscono dei veri e propri teatrini allestiti sia
nelle case nobiliari e borghesi, sia nei casamenti e negli appartamenti più
modesti. Vi si esibiscono musicisti e cantanti, ma anche attori, dicitori, comici, che con le loro canzoni e con le loro macchiette offrono un’evasione
dalla realtà quotidiana, allora piuttosto dura. Negli Stati Uniti vengono denominati “rent party”, una sorta di “intrattenimento in affitto” e sono molto popolari negli anni d’oro del jazz. In Italia le periodiche durano più a lungo, tanto da divenire importante occasione di lavoro fra il 1940 e il 1945, in
pieno periodo bellico, quando i teatri funzionano poco e male. Questa sete di spettacolo, così viva e sentita a tutti i livelli, esce ben presto dalla sua
espressione artigianale e familiare e darà luogo a quel genere tanto particolare che fu il café-chantant. Le origini del caffè-concerto sono piuttosto mo-
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deste. All’inizio assume questo nome ogni caffè nel quale esista una pedana
destinata all’esibizione di un cantante, di un piccolo complesso o di un solista. I cantanti generalmente si presentano in abito da concerto e hanno un
repertorio composto da noiose romanze, scritte a imitazione delle grandi
arie liriche, alle quali essi tentavano invano di dare un respiro operistico. È
l’epoca del cosiddetto “bel canto” e soltanto il genere “serio”, corredato da
tutto il suo armamentario di arabeschi e di virtuosismi canori, sembra avere
diritto di cittadinanza nel mondo dello spettacolo minore, quale degno surrogato della grande arte di Donizetti, Bellini e Verdi. Le cose cambiano radicalmente quando, tramontata l’epoca della romanza, sotto lo stimolo delle nuove esigenze musicali, la canzone popolare, principalmente quella napoletana, irrompe, fresca e vitale, anche sulle pedane dei nascenti caffè-concerto. A quel punto le anemiche esecutrici di romanze spariscono cedendo
il passo a cantanti molto più spigliate e sanguigne, le cui forme procaci tradiscono le loro origini popolane e le cui movenze sono molto spesso tutt’altro che ortodosse. Cantanti che possiedono tutti i numeri per trascinare il
pubblico maschile, e il loro successo è talmente clamoroso che si devono
ampliare i caffè e poi sostituire le pedane, ormai insufficienti a contenere
tanta scatenata irruenza, con dei veri e propri palcoscenici sull’esempio dei
ritrovi parigini. La platea è ingombra di sedie e tavolini, che alla fine dello
spettacolo possono essere tolti di mezzo per far posto alle danze. Il primo
caffè-concerto di cui si abbia notizia è il Salone Margherita, aperto a Napoli nel 1890 dai fratelli Marino nei sotterranei della Galleria Umberto I. Così chiamato, naturalmente, in onore della popolare regina d’Italia. All’inizio
il Salone Margherita ingaggia le più popolari vedette europee, da Cleo de
Merode alla Bella Otero, ma ben presto si forma una scuola italiana e napoletana di “chanteuse” (poi sciantose); ecco allora Amelia Faraone, Virginia
Marini, Emilia Persico, Pina Ciotti, che in seguito diventerà una primadonna dell’operetta, e Lina Cavalieri, che si trasferirà a Parigi dedicandosi alla lirica. Nasce il fenomeno dell’idolatria, che vede gaudenti figli di papà, nobi-
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li di provincia, politici, pubblici amministratori e studenti di buona famiglia letteralmente sconvolti dal fascino di queste femmine. Molti di loro finiranno in rovina o coperti da scandali. Ma c’è anche il fenomeno, non meno grave socialmente, del proselitismo, che porta molte adolescenti sprovvedute a seguire l’esempio delle maliarde dalla vita dissoluta. Il fenomeno
diventa talmente ampio che il poeta Ferdinando Russo sente l’esigenza di
scriverci su qualcosa:
Nu mese fa (sentite) sta carnetta
È fuggita di casa travestita!
S’ha appiccicata ’na bona sigaretta
E è sciso ’int’ ’o Salone Margherita
Quanno è asciuta ’a Faraone:
“Burro! Burro! Quella llà!
Quant’è bbona, quant’è bbona!
M’a vulesse… cunfessà!
Have voglia ’o ggenitore
De fa pazzo e de sparà.
Neh, ma fateme ’o favore!
Pozzo fa ’o prèvete? Bbbù bbà!
Nell’ambito maschile funziona lo “scettico”, ovvero quello rovinato dalla maliarda, un fine dicitore impomatato e agghindato a puntino, specialista in manfrine a sfondo patriottico. Un giorno, a una periodica in casa di
nobili napoletani viene notato un giovane comico destinato ad aprire
un’epoca nuova, nonché capostipite di tutta una scuola di macchiettisti:
Nicola Maldacea. Napoletano, allievo della scuola di declamazione di Carmelo Marroccelli, Maldacea aveva affinato le sue doti di attore nella compagnia di Eduardo Scarpetta, anche se, più dicitore che cantante (anche se incise il suo primo disco nel 1912), possedeva una grande abilità nel ritrarre
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dal vivo i tipi più singolari della popolazione napoletana. Principale attrazione maschile del Salone Margherita già negli ultimi anni dell’Ottocento,
Nicola Maldacea perfeziona tutto il suo repertorio popolaresco, ricco di
doppi sensi e di scurrilità e quindi tale da entusiasmare un pubblico ancora inibito da un’educazione e da una reattività tipicamente ottocentesca.
Nei primi anni del Novecento i suoi personaggi, ampiamente conosciuti e
apprezzati dal pubblico, diventano irresistibili.
Ecco l’Elegantone:
La sera vado al circolo
Il giorno a via Caracciolo
Sono il conte Mammocciolo
Y de Cavaturacciolo
Non bado, sa, allo spicciolo,
Mille, duemila, che!
Sono sciocchezze, inezie!
Oh! Ciao, addio, Marchè!
Il Collettivista:
Il tuo non è più tuo;
il mio non è più mio;
se producevate voi,
debbo produrre anch’io?
Avete dei risparmi?
Embè, mettite ccà…
Bisogna riconoscere
la Collettività!!
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La sua idea del libero amore:
L’amor dev’esser libero,
v’ha diritto ogni persona.
Non posso morir tisico
se tua sorella è bbona!
Innumerevoli le sue macchiette: la guardia, il tenentino, il balbuziente, il
viveur, ’o jettatore, il reduce, il deputato, lo spazzino, il camorrista, compresa quella espressamente dedicata a Gabriele D’Annunzio:
Signori, io non son uomo, né sono un gentiluomo,
Né sono un galantuomo, io sono un superuomo!
Perché nel protoplasma del padre mio che fu
Del tipo antropologico c’era qualcosa in più!
D’Annunzio reagisce con molto spirito, andando a sentire Maldacea. Si
siede in prima fila e alla fine dello spettacolo gli invia un biglietto pregandolo di replicare la macchietta. Purché si parlasse di lui come il Vate d’Italia.
Nicola Maldacea, modello assoluto di fantasista e macchiettista di memorabile buon gusto, lavora con le più grandi chanteuse della sua epoca, da
Consuelo Tortajada a Eugénie Fougère, effettuando numerose tournée all’estero, compresa quella negli Stati Uniti nel 1922 insieme a Ria Rosa.
Sperpera tutti i suoi ingenti guadagni, lavorando fino all’ultimo in piccole e
dimenticate compagnie. Muore a Roma nel 1945 all’età di 75 anni.
Il genere creato da Maldacea ha un enorme successo e trova subito numerosi imitatori. Tra questi Berardo Cantalamessa, il creatore della celebre
canzone ’A risa, in cui la sua ilarità si comunicava a tutto il pubblico, e soprattutto Peppino Villani, che dà vita a ben 1.500 macchiette interpretate
con una comicità basata soprattutto sul modo di incedere, di ammiccare e
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sulla mimica facciale, al punto di influenzare il giovanissimo Totò. Tra le sue
creazioni più famose: ’O scuraliello, Frate Briscola, ’O Zì Monaco mbriacone,
Il gerente responsabile. Questo nuovo genere macchiettistico ha anche i suoi
poeti e i suoi musicisti colti, tesi a cogliere soprattutto l’aspetto umano o sociale del personaggio. Tra questi: Salvatore Di Giacomo, Ernesto Murolo,
Michele Galdieri, Mario Costa, Eduardo Di Capua, Vincenzo Valente. Oltre agli artisti delle periodiche, anche i cosiddetti “posteggiatori” danno il
loro contributo alla formazione dei quadri del café-chantant. La “posteggia”, che molto rapidamente diventa un genere, è costituita da un cantante, assecondato da un mandolinista, un chitarrista e un violinista. Sono di
fatto artisti di strada, sia pur stanziali, in possesso di un vastissimo repertorio, che si esibiscono soprattutto nei ristoranti e nelle trattorie, principalmente per un pubblico di stranieri e turisti. È noto che Richard Wagner fu
un ammiratore del celebre posteggiatore ’O Zingariello e che molti di questi complessi furono invitati anche all’estero, soprattutto in Russia, dove la
tarantella era molto popolare. Fra i posteggiatori più noti del periodo, da ricordare Diego Giannini, Mimì Maggio e lo stesso Enrico Caruso, il quale
iniziò la sua carriera giovanissimo cantando serenate sulle barche che trasportavano i turisti a visitare il golfo di Napoli. Se alla fine dell’Ottocento la
canzone napoletana veniva presa quasi di peso dai vicoli e dalle periodiche
per essere riproposta sui palcoscenici dei tabarin, nei primi anni del Novecento si verifica il fenomeno contrario. La canzone, ormai sostenuta da una
nascente ma già apprezzabile industria, viene direttamente confezionata per
il café-chantant e da lì si espande e viene ripresa dal resto della città. Vicoli
compresi. È l’epoca di Gennaro Pasquariello e di Elvira Donnarumma.
Ex apprendista sarto, come il padre, privo di studi ma in possesso di un notevole temperamento artistico, Pasquariello debutta a Napoli, all’età di tredici anni, anche se il primo contratto professionale lo firmerà a diciotto anni
con il caffè Allocca in via Foria e successivamente con altri importanti caféchantant, quali Scotto Jonno e Monte Maiella, dove debutta per la prima vol-
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ta in coppia con la Donnarumma. Rapidamente, il suo repertorio diventa
sterminato, consentendogli spettacoli articolati e di vario genere, all’interno
dei quali sono inseriti brani carichi di sentimentalismo e macchiette irresistibili. Nella lunghissima carriera, costellata da successi e da notevoli guadagni,
Pasquariello, dopo aver sperperato gran parte dei suoi beni (nonostante gli
aiuti dei grandi poeti della canzone napoletana che infoltirono di gemme il
suo repertorio, da E.A. Mario a Libero Bovio, da Ernesto Murolo ai fratelli De
Curtis), è costretto a calcare il palcoscenico ben oltre gli ottant’anni, spesso
deriso dal pubblico. Scompare nel 1958.
Il maggior rivale di Pasquariello è Rodolfo Giglio, ex garzone fornaio. Fino all’età di dodici anni aiuta il padre in sartoria, poi con un una piccola vincita al lotto acquista un frac e delle partiture di canzoni. Cantante napoletano tipico, dal sorriso smagliante, capelli corvini, anima portata a tutti gli eccessi del sentimento. I primi successi li ottiene all’Eden di Roma nel 1907,
ma già l’anno dopo è un divo di prima grandezza. È il Rodolfo Valentino del
suo tempo, idolo di tutte le donne, e per un buon decennio ottiene vasti riconoscimenti in Italia e all’estero. Nel 1917 al Teatro Maffei di Torino conosce
la celebre canzonettista Renata Carpi e se ne innamora perdutamente. Per lei
lascia moglie e figli e tenta il suicidio. La tormentata relazione finisce nel
1918, quando Giglio si toglie la vita dopo aver ucciso l’amante.
Altri celebri interpreti dell’epoca sono Nina De Charny, Tecla Scarano,
Vittorio Parisi, Mario Mari (per il genere passionale); Fulvia Musette, Ada
Bruges e Luisella Viviani (per quello popolaresco). Artisti molto bizzosi, abituati a ottenere tutto, sul palco e nella vita privata, salvo improvvisi rovesci,
con il loro comportamento favoriscono in qualche modo la spinta concorrenziale degli editori musicali. È nato il fenomeno del divismo con i suoi capricci e con le sue ripicche. Un fenomeno accentuato dal fatto che la maggior
parte degli impresari è costituita da guappi che lavorano con metodi molto
particolari: assoldando le claque, suscitando manifestazioni ostili nei confronti dei rivali con minacce e violenze non da poco. L’industria del caffè-
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concerto intanto esce da Napoli e raggiunge le principali città. Aprono locali di ogni tipo, da quelli da una lira, forniti di poltroncine, a quelli da venti
centesimi, una sorta di baracconi frequentati soprattutto da militari e ragazzi. Ci sono poi dei locali ancora più scadenti in cui, anziché pagare il biglietto d’ingresso, si pratica la “chetta”, cioè la raccolta a fine spettacolo di un obolo il cui ricavato viene suddiviso fra gli artisti e il proprietario. Ma naturalmente esistono già i café-chantant d’alto bordo, quelli in cui il pubblico è
“scelto e distinto”, con un “grande elenco musicisti”, e dove addirittura i contratti sono stipulati in francese. Così gli artisti firmano “l’engegement” con
i “directeurs-proprietaires” e si obbligano a “chanter une fois par soir en costume indiqué par la Direction”. Naturalmente le consumazioni, i liquori e
gli spumanti hanno tutti degli altisonanti nomi francesi. È questa l’epoca in
cui nascono i nomi francesi per le sprovvedute cantanti napoletane che a
stento parlano italiano. Dal punto di vista del cartellone e del richiamo il
trucco funziona, anche se talora con risultati grotteschi, visto che la mania
viene ridicolizzata perfino dalla celebre canzone umoristica ’A frangesa.
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