La conciliazione attraverso lo strumento della
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La conciliazione attraverso lo strumento della
La conciliazione attraverso lo strumento della riorganizzazione dei tempi di lavoro in Europa e in Italia. Di Francesca Bergamante* Paper for the Espanet Conference “Innovare il welfare. Percorsi di trasformazione in Italia e in Europa” Milano, 29 Settembre — 1 Ottobre 2011 *Ricercatrice Isfol Area Analisi e valutazione delle politiche per l’occupazione Corso d’Italia 33 – 00198 Roma Tel. 0685447071 e-mail: [email protected] http://www.isfol.it 1 Introduzione La disponibilità e la diffusione di strumenti di work-life balance1 e di politiche di conciliazione è ormai un tema ampiamente discusso a livello scientifico e istituzionale sia in ambito italiano, sia europeo. E’ largamente documentato il ruolo positivo di questi sistemi nel favorire un equilibrio tra la sfera familiare e quella lavorativa e nell’incoraggiare, dunque, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Al concetto di conciliazione va sempre più affiancandosi quello di condivisione che pone l’accento sulla partecipazione di entrambi i genere al lavoro di cura (Piazza, 2011; Giannini, 2009, Gregory e Milner, 2009). Il fatto che le donne, facendosi carico in misura prevalente delle attività di cura familiare, utilizzino più degli uomini gli strumenti di conciliazione (congedi, part-time, orari flessibili, etc.) spesso, infatti, crea uno squilibrio di genere con un impatto negativo sulla loro posizione professionale e sull’indipendenza economica (CEC, 2006). Nello sviluppo di strumenti di conciliazione e di work-life balance, un attore principale è la struttura aziendale che può dar vita a sistemi virtuosi di flessibilità oraria, di organizzazione e di offerta di servizi aziendali. L'importanza di creare una situazione win-win e trovare soluzioni che rechino benefico reciproco fra le aziende e i dipendenti, è stato anche sottolineato dalla Commissione Europea nella Comunicazione del 2007 sui principi comuni di flexicurity, in cui si evidenzia che una moderna organizzazione del lavoro deve promuovere la soddisfazione dei dipendenti e, allo stesso tempo, rendere le imprese più competitive (CEC, 2007). In molti contributi sul tema della compatibilità tra sfera lavorativa e familiare, sono considerate le politiche finalizzare allo sviluppo della flessibilità degli orari di lavoro, intese come meccanismo importante per il sostegno all’accesso ed alla permanenza delle donne nel mercato del lavoro2 (Cnel 2010; Ferrera, 2008); allo stesso tempo un ruolo determinante gioca anche la diffusione dei servizi per la prima infanzia (Borra, 2006; D’addio, 2005; Del Boca, 2003; Aaberge et alia, 2005, Istat, 2011a). Diverse sono invece le interpretazioni sulla funzione ricoperta dal lavoro con orario ridotto. In linea teorica il part-time consente un minore impegno nell’ambito produttivo, particolarmente richiesto in alcune fasi del ciclo di vita (quasi sempre coincidenti con la maternità), nell’ottica di contrastare l’uscita dal mercato del lavoro. La forma reversibile del part-time, introdotta dalla L. 53/2000 ancor meglio si adatta alle specifiche esigenze temporanee di riduzione dell’orario di lavoro ed evita che si possano determinare ostacoli allo sviluppo di un percorso professionale. 1 L’espressione “work-life balance” è nata alla fine degli anni ’70 per indicare l’equilibrio tra il lavoro di un individuo e la sua vita privata. Per un definizione di work-life balance si veda il sito http://www.worklifebalance.com. 2 A marzo di quest’anno, ad esempio in Italia, le parti sociali hanno firmato con il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali un’intesa sulle “Azioni a sostegno delle politiche di conciliazione tra famiglia e lavoro”, in cui la flessibilità dell’orario di lavoro è fortemente sottolineata. La versione italiana dell’Accordo è consultabile all’indirizzo: http://www.lavoro.gov.it/NR/rdonlyres/36066FDD-0BD8-47D2-B054-5E1F32242B25/0/Accordo_Conciliazione_07032011.pdf 2 L’ipotesi di un part-time reversibile può risultare di migliore utilità perché alternabile a periodi di lavoro full-time, configurandosi dunque come forma di flessibilità “buona” (Gasbarrone, 2011). Il ruolo positivo del part-time nello stimolare la partecipazione femminile al mercato del lavoro è evidenziato anche dal fatto che oltre la metà delle donne inattive sarebbe disponibile a lavorare fino a 25 ore settimanali (Addabbo e Favaro, 2010). I modelli di conciliazione spesso posano sull’utilizzo del lavoro part-time quale incentivo all’occupazione delle donne, ma nella pratica il ricorso all’orario ridotto non è sempre associato ad alti tassi di attività femminile. Va inoltre considerato che se il lavoro part-time è in grado di favorire il rapporto di equilibrio fra lavoro e vita familiare per le donne, non è possibile rilevare effetti simili per la componente maschile; in tal senso sviluppare fortemente questa modalità di lavoro potrebbe avere come conseguenza quella dello sviluppo di un modello familiare one-and-half earner (Köllő, Scharle, 2007). Tra i paesi europei sono molto diverse le quote di donne che lavorano con un orario ridotto e variabili le motivazioni alla base del lavoro part-time: laddove è più diffuso maggiori risultano le percentuali di donne che volontariamente scelgono di lavorare con un orario breve a causa delle responsabilità familiari; nei paesi in cui è ridotto l’utilizzo, è invece maggiore la quota di donne con un part-time involontario. Negli ultimi anni in Italia si è registrato un incremento del lavoro part-time che ha consentito una relativa diminuzione della distanze tra i tassi di occupazione e di inattività femminile, ma rispetto al resto dell’Europa il lavoro part-time risulta ancora poco diffuso, soprattutto considerando le donne (e gli uomini) con figli (Istat, 2011c). E’ anche cresciuta l’incidenza del part-time involontario che nel 2010 ha raggiunto il 42,7% a fronte del 22,3% della media europea (Istat, 2011c), aspetto che conduce ad escludere che in questo caso di tratti di uno strumento di conciliazione. Affinché, dunque, il lavoro a tempo ridotto sia in grado di sostenere il wok-life balance è fondamentale che assuma un carattere volontario e coinvolga anche la componente maschile dell’occupazione (Rustichelli, 2010; Bettio, Smith, Villa, 2009; Köllő, Scharle, 2007) e non comporti alcuna penalizzazione in termini di welfare, di stabilità lavorativa e di sviluppo della carriera (Paci, 2005). Solo con i presupposti della reale possibilità di scelta, e dell’adeguata protezione sul lato della legislazione del lavoro e della previdenza è possibile far emergere il forte contributo del lavoro part-time in termini di equilibrio tra responsabilità familiari e lavorative, anche nella direzione di una parità tra i generi. (Altieri, 2007; Bergamante, 2010). Con questo contributo, si intende offrire un’analisi di alcuni aspetti ritenuti fondamentali nello sviluppo di politiche family-friendly, riguardanti in particolar modo i tempi di lavoro. Il lavoro è così strutturato: nella prima parte si analizza la flessibilità oraria in Europa e le variazioni tra i paesi; nella seconda parte si sviluppa il tema dell’organizzazione dei tempi di lavoro nel contesto italiano; infine sono presentate alcune riflessioni conclusive. 3 I sistemi di lavoro europei e la flessibilità degli orari L'etimologia del termine flessibilità, dal latino flexibilitas, va ricondotta al verbo flectere, piegare, e al suffisso bile, che si lascia piegare più o meno facilmente fino ad un certo punto senza rompersi. Questa parola evoca il concetto di duttilità, plasticità, ossia la capacità di adattarsi perfettamente ed eventualmente riprendere la forma iniziale. Attualmente questo termine è entrato a far parte del linguaggio corrente ed è utilizzato nel mondo del lavoro per parlare sia della flessibilità del posto di lavoro, ossia facendo riferimento a quelle forme contrattuali meno stabili e/o temporanee, sia della flessibilità sul posto di lavoro, ossia riferendosi alle modalità (orari flessibili, telelavoro, etc.) differenti con cui può essere svolto il proprio lavoro. Questa differenziazione, presente e diffusa nel senso comune, è stata ben concettualizzata da due sociologi, Barbier e Nadel, che hanno introdotto l’idea che è necessario operare una distinzione fra flessibilità dell’occupazione e flessibilità del lavoro. Flessibilizzare l’occupazione significa renderne variabili le caratteristiche, in termini di tempo, di luoghi, di condizioni del suo esercizio, di regole e norme, rimettendo a volte in gioco gli elementi di sicurezza e di garanzia del lavoro. Flessibilizzare il lavoro vuol dire, invece, fare in modo che l’attività umana divenga malleabile, adattandosi alle esigenze specifiche della produzione, senza necessariamente mettere a rischio la sicurezza dell’occupazione (Barbier e Nadel, 2003). L’aumento della flessibilità dell’orario di lavoro, è un elemento presente nelle Employment Guidelines 2008-10 e, in particolare nella Linea guida 21 “Promote flexibility with employment security and reduce labour market segmentation, having due regards to the role of the social partners”). Si chiede alle imprese di diventare più flessibili per rispondere ai cambiamenti improvvisi della domanda, di adattarsi alle nuove tecnologie e di essere in grado di innovarsi costantemente per rimanere competitive. Inoltre, anche sul fronte dei lavoratori vi è un crescente desiderio di flessibilità oraria per rispondere alle mutate esigenze e responsabilità di cura, di apprendimento e di svago (European Commission, 2010). Un’analisi comparativa sul lavoro flessibile, realizzata della commissione europea in 30 Paesi, ha evidenziato che le differenze tra gli Stati membri sono ancora molto consistenti (European Commission, 2010); tal differenze emergono osservando sia la flessibilità nella durata dell’orario di lavoro, facendo quindi riferimento all’orario part-time, all’utilizzo del lavoro straordinario e dell’orario lungo3, sia la flessibilità nell’organizzazione dell’orario di lavoro, esaminando quindi i paesi in cui sono diffusi strumenti come gli orari flessibili in entrata e in uscita, la banca delle ore, il telelavoro o gli orari atipici. 3 Per orario lungo, utilizzando la classificazione di Eurofound, si intendono tutti quegli impieghi che hanno un orario settimanale superiore alle 48 ore. Cfr. Parent-Thirion, A., E. Fernández, J. Hurley and G. Vermeylen, Fourth European working conditions survey. Luxembourg, 2007. 4 La durata della settimana lavorativa è un importante elemento del contratto di lavoro. Per molto tempo, in Europa la tendenza è stata quella di andare verso una regolazione progressiva e una riduzione, in termini di ore, della settimana lavorativa. Tuttavia, alla fine del ventesimo secolo, l'enfasi si è spostata sull’orario di lavoro flessibile e individualizzato. Al fine di accogliere questi sviluppi, il quadro normativo in molti paesi è diventato più mirato, il che ha consentito di adottare, in alcuni casi, soluzioni su misura all'interno dei confini di un quadro normativo concordato. Ciò nonostante, la legislazione non ha prodotto gli stessi effetti in tutti i paesi e non ha sempre determinato una posizione migliore per i dipendenti. Inoltre le differenze nella durata del tempo di lavoro tra gli Stati membri europei sono ancora molto grandi. Per esempio, gli orari di lavoro individualizzati sono relativamente diffusi tra i paesi dell’Europa nord occidentale, mentre, soprattutto nei nuovi Stati membri, le tradizionali 40 ore di lavoro settimanali rappresentano ancora il modello di lavoro imperante (European Commission, 2010). Anche per quanto riguarda la flessibilità dell’organizzazione dell'orario di lavoro, i divari in Europa sono significativi. In Danimarca, Svezia, Germania, Finlandia e Norvegia poco più della metà dei lavoratori utilizza un qualche tipo di flessibilità nel loro orario di lavoro, mentre nei paesi del Sud Europa e, soprattutto nei nuovi Stati membri, gli orari di lavoro flessibili sono un fenomeno ancora piuttosto sconosciuto (European Commission, 2010). In questo studio sono utilizzati i dati della 5a Indagine Europea sulle Condizioni di Lavoro (European Working Conditions Survey – EWCS) del 2010 realizzata da Eurofound, con l’obiettivo di confrontare i paesi europei sul tema dei tempi di lavoro. Le analisi qui proposte sono relative alle caratteristiche dei tempi di lavoro di donne e uomini, partendo dal concetto che i temi della conciliazione e del work-life balance, debbano essere trattati prendendo in considerazione entrambe le componenti dell’occupazione. Se da una parte si va evidenziando una crescita nelle richieste di congedi da parte dei padri ed anche del tempo dedicato alle responsabilità familiari, dall’altra, però il modello del male-breadwinner continua a dominare alcuni paesi (Trifiletti, 1999 e 2005; Naldini, 2002) e per certi versi è un ostacolo allo sviluppo di politiche di conciliazione destinate anche alla componente maschile. Una prima informazione sul rapporto tra tempi di lavoro e tempi di vita ci viene fornita dalla lettura dei dati relativi a quanto gli orari di lavoro si conciliano con gli impegni familiari o sociali. Nella media europea a 15 si osserva che il 18,7% dei lavoratori è insoddisfatto, dato che se confrontato con il 19,2 del 2000 mostra un calo, se pur limitato. Una lettura di genere dei dati evidenzia che ad essere maggiormente problematica è la situazione della conciliazione maschile (Figura 1). Per gli uomini le maggiori difficoltà nel “bilanciamento” delle responsabilità e dei tempi si riscontrano nella fascia d’età tra i 30 ed i 49 anni; per le donne, invece emerge una minore insoddisfazione che 5 rimane però costante lungo tutto il percorso professionale. Queste caratteristiche possono essere spiegate a partire dal fatto che le donne, più degli uomini, adattano la propria vita professionale alle esigenze familiari, aspetto questo che riduce al minimo le possibilità di conflitto tra la sfera lavorativa e la sfera familiare (Eurofound, 2010). Se si considerano le variazioni nella soddisfazione per la conciliazione rispetto ai paesi, emergono sostanziali differenze. In alcuni Stati membri vi è una quasi totale adeguatezza degli orari di lavoro alle esigenze di conciliazione per entrambi i generi. La Danimarca ne è un esempio ed è il paese in cui alla soddisfazione generale si osserva anche una sua crescita tra il 2000 ed il 2010, sia per gli uomini, sia per le donne. Tali dati sono probabilmente il risultato di una diffusa flessibilità degli orari di lavoro (come vedremo), ma anche di un’adeguata diffusa offerta di servizi per l’infanzia con una copertura oraria settimanale a tempo pieno (Bergamante, 2011a). Altri paesi mostrano invece una più alta insoddisfazione per il rapporto conciliazione-orari di lavoro che si declina in modo diverso rispetto al genere. Nei paesi con un welfare di tipo “Mediterraneo” l’insoddisfazione delle donne e degli uomini è elevata, nonostante nel tempo si sia registrata una sua diminuzione. In Italia si assiste a valori superiori alle medie europee, con il 21,7% per le donne a fronte del 27,5% degli uomini. Confrontando i dati nel tempo si nota una crescita della soddisfazione per le possibilità di conciliazione in rapporto all’orario di lavoro, ma tale aumento è esclusivamente attribuibile ai miglioramenti dei valori espressi dalle donne. Figura 1. Occupati che dichiarano che gli orari di lavoro si conciliano non molto bene o per niente bene con gli impegni familiari o sociali, donne e uomini, anni 2000 e 2010 Fonte: elaborazioni su dati European Foundation for the Improvement of living and Working Conditions - European Working Condition Survey, 2010 Come evidenziato, un elemento fondamentale per la comprensione dei meccanismi di equilibrio tra tempi di lavoro e di non lavoro, è la lettura delle modalità con cui sono articolati gli orari di lavoro. 6 A tal proposito risulta utile confrontare i dati sull’entrata e l’uscita dal lavoro con orario fisso, con il numero medio di ore lavorate a settimana. In linea generale si sottolinea una tendenziale fissità dell’entrata e dell’uscita nei luoghi di lavoro, nonostante si registri una diminuzione nel tempo: nella media UE a 15 paesi la quota di persone che ha un orario fisso è passata dal 64,9% del 2000 al 61,5% del 2010. Se invece consideriamo il tempo di lavoro settimanale, notiamo che tra il 2000 è il 2010 nell’Europa a 15 l’orario di lavoro si è ridotto di circa un’ora e la diminuzione si è registrata sia per le donne, sia per gli uomini. Per approfondire questi temi è utile raffrontare la loro articolazione a livello nazionale disaggregando i valori rispetto al genere (Figura 2 e Figura 3). In primo luogo si evidenzia che sono più le donne degli uomini a lavorare con orari rigidi; tale dato è sostanzialmente dovuto alla maggiore presenza della componente femminile nelle professioni di natura impiegatizia che per natura generalmente prevedono orari fissi in entrata ed in uscita. Allo stesso tempo è anche evidente che le donne lavorano meno ore dei colleghi maschi, anche con differenze ampie; si discostano i Paesi Scandinavi, la Francia ed il Portogallo che hanno scostamenti negli orari settimanali di lavoro limitati considerando i due generi. La lettura congiunta delle due figure (Figura 2 e Figura 3) evidenzia inoltre che a una minore rigidità negli orari di lavoro è spesso associato anche un numero più basso di ore lavorate a settimana; al contrario i paesi meno flessibili sono anche quelli in cui maggiormente fissi sono gli orari di entrata e di uscita dal posto di lavoro. E’inoltre possibile delineare un quadro in cui la rigidità dell’orario dei lavoro caratterizza in modo particolare alcuni paesi. In particolare tale mancanza flessibilità si delinea in Portogallo ed in Spagna, con la differenza che nel primo è decisamente più elevato il numero di ore lavorato dalle donne che, tra l’altro poco si discosta da quello che si registra per gli uomini. Emerge, inoltre, una maggiore flessibilità oraria nei contesti in cui in linea di massima si lavora meno. L’Italia, sia per la componente maschile, sia per quella femminile si mostra abbastanza in linea con la media UE a 15 paesi. La differenza tra i generi nell’orario di lavoro settimanale è, al contrario tra le più basse in Portogallo, Finlandia, Svezia e Danimarca; in particolare in Finlandia si registrano le più minori percentuali di persone che lavorano con orari fissi in entrata ed in uscita. 7 Figura 2. Donne che lavorano con orari fissi e numero medio di ore di lavoro a settimana, anno 2010 Fonte: elaborazioni su dati European Foundation for the Improvement of living and Working Conditions - European Working Condition Survey, 2010 e Eurostat, 2008. Figura 3. Uomini che lavorano con orari fissi e numero medio di ore di lavoro a settimana, anno 2010 Fonte: elaborazioni su dati European Foundation for the Improvement of living and Working Conditions - European Working Condition Survey, 2010 e Eurostat, 2010. Per meglio comprendere il tema dell’articolazione degli orari di lavoro, si ritiene opportuno affiancare un’analisi sui meccanismi con cui sono stabiliti gli orari di lavoro in rapporto alle diverse tipologie contrattuali di lavoro (Tabella 1). Tale approfondimento è stato proposto allo scopo di verificare se alle forme contrattuali “atipiche” corrisponda una minore rigidità dell’orario di lavoro, 8 caratteristica che in linea generale viene considerata positivamente legata proprio alla flessibilità contrattuale. A questo scopo è stata utilizzata la domanda “Come vengono stabiliti i suoi orari di lavoro?” contenuta nel questionario dell’EWCS, considerata come “rivelatrice” delle possibilità da parte del lavoratore di intervenire sulla definizione degli orari di lavoro4. Per la media UE15 oltre il 66% dei lavoratori ha poche possibilità di decidere i propri orari di lavoro; solo Danimarca, Olanda e Svezia mostrano un dato inverso, considerando che per oltre il 50% dei lavoratori è possibile adattare i propri tempi di lavoro o, anche, definirli personalmente. In Spagna, al contrario, sono quasi sempre le organizzazioni a stabilire in modo perentorio gli orari di lavoro (79,5%). Considerando le informazioni relative alle diverse forme contrattuali si denotano apprezzabili differenze. La possibilità di stabilire autonomamente i propri orari di lavoro è ovviamente maggiore nel caso dei lavoratori autonomi (86% nella media UE15). La libertà di scelta dei lavoratori autonomi si ritrova anche osservando le caratteristiche specifiche dei paesi. La media europea a 15 paesi mostra anche che per i dipendenti con un contratto a tempo indeterminato sono più alte le possibilità di intervenire sulla scelta dell’orario di lavoro, rispetto ai dipendenti con altre forme contrattuali. Il legame (teorico) tra la flessibilità di un contratto e quella dell’orario non è sempre verificato. Se in Italia i dipendenti con altro accordo hanno maggiore possibilità dei loro colleghi a tempo indeterminato di decidere gli orari di lavoro, in Danimarca, ad esempio accade il contrario. In altre realtà, invece non emergono differenze plateali considerando le due tipologie contrattuali. 4 Nelle elaborazioni sono state accorpate alcune modalità: “Sono stabiliti dalla società/organizzazione con nessuna possibilità di cambiarli” con “Si può scegliere tra diverse forme di articolazione dell’orario di lavoro definite dalla società/organizzazione” e “Entro certi limiti, si possono adattare i propri orari di lavoro (es. orario flessibile)” con “Lei stesso/a stabilisce interamente il suo orario di lavoro”. 9 Tabella 1. Regole con cui sono stabiliti gli orari di lavoro, anno 2010 (valori percentuali) AT “Sono stabiliti dalla società/organizzazione con “Entro certi limiti, si possono adattare i propri orari nessuna possibilità di cambiarli” e “Si può scegliere di lavoro (es. orario flessibile)” con “Lei stesso/a tra diverse forme di articolazione dell’orario di lavoro stabilisce interamente il suo orario di lavoro” definite dalla società/organizzazione” Dipendenti: Dipendenti: Dipendenti: Dipendenti: contratto a Lavoratori contratto a Lavoratori altro Totale altro Totale tempo autonomi tempo autonomi accordo accordo indeterminato indeterminato 68,7 69,2 21,4 63,1 31,3 30,8 78,5 36,9 BE 72,7 79,9 11,5 64,4 27,3 20,0 88,5 35,6 DE 69,2 72,7 21,8 64,7 30,9 27,3 78,2 35,4 DK 49,7 62,4 9,3 47,7 50,3 37,6 90,6 52,3 EL 95,5 91,1 6,3 63,5 4,5 8,9 93,7 36,6 ES 91,6 87,3 7,0 79,5 8,4 12,7 93,0 20,6 FI 56,4 61,0 11,7 52,2 43,6 38,9 88,3 47,8 FR 78,4 78,5 21,5 70,8 21,7 21,5 78,5 29,2 IE 78,8 85,9 16,8 70,7 21,2 14,1 83,2 29,3 IT 84,1 78,0 10,8 67,5 15,9 21,9 89,2 32,5 LU 74,4 64,3 9,1 65,6 25,6 35,7 90,9 34,4 NL 50,3 59,1 9,3 45,7 49,7 40,9 90,7 54,3 PT 95,3 88,0 10,9 78,5 4,7 11,9 89,0 21,5 SE 46,8 47,6 11,6 43,3 53,2 52,4 88,4 56,6 UK EU15 EU27 77,4 75,1 77,6 79,3 77,8 79,0 12,9 14,0 12,2 68,7 66,7 67,7 22,6 24,9 22,4 20,8 22,1 21,0 87,1 86,0 87,8 31,3 33,3 32,4 Fonte: elaborazioni su dati European Foundation for the Improvement of living and Working Conditions - European Working Condition Survey, 2010. Le risultanze dell’indagine dell’EWCS mostrano inoltre che le donne occupate in Europa hanno minori possibilità di adattare gli orari di lavoro o di sceglierli, rispetto alla componente maschile dell’occupazione. Nella UE a 15 la quota di donne che più o meno può intervenire sulla determinazione dei tempi di lavoro è del 34%, mentre quella degli uomini è del 37,4%. Se si analizza la distribuzione delle possibilità di scelta rispetto ai raggruppamenti professionali5, emerge che la categoria in cui è maggiore la facoltà del lavoratore di determinare gli orari è quella degli High-skilled clerical (gli impiegati altamente qualificati), con una percentuale del 52,4 nella media UE15; segue il gruppo degli High-skilled manual che, solo nel 30,8% dei casi può incidere sulle modalità orarie di lavoro. Le altre due tipologie professionali (Low-skilled clerical e Low-skilled manual) sono invece quasi sempre soggette alle scelte dell’organizzazione in termini di orario di lavoro. Queste informazioni permettono di comprendere meglio per quali ragioni la componente femminile ha maggiori difficoltà nella definizione autonoma degli orari di lavoro; le donne, infatti, 5 Le tipologie professionali sono state costruite secondo la seguente aggregazione: 1) High-skilled clerical: Legislators, senior officials and managers e Professionals; 2) Low-skilled clerical: Technicians and associate professionals, Clerks, Service workers and shop and market sales workers; 3) High-skilled manual: Skilled agricultural and fishery workers, Craft and related trades workers; Low-skilled manual: Plant and machine operators and assemblers, Elementary occupations, Armed forces. 10 continuano ad essere segregate sia professionalmente, sia verticalmente (Cnel, 2010) e dunque risultano meno presenti proprio nella categorie più “alte” in cui risultano maggiori le possibilità di intervenire sui tempi di lavoro. La rigidità che maggiormente accompagna l’articolazione degli orari di lavoro delle donne, rende in molti casi preferibile il ricorso al part-time quale ultimo strumento di conciliazione. Per concludere l’analisi dei tempi di lavoro in Europa, si ritiene utile offrire una lettura delle diverse possibilità che i lavoratori hanno di usufruire di una o due ore di permesso per occuparsi di questioni personali o familiari (Figura 4)6. La lettura dei dati permette di evidenziare che circa il 35% dei lavoratori ha difficoltà nel prendere qualche ora di permesso e tale difficoltà è superiore per le donne. I lavoratori svedesi hanno meno difficoltà di tutti gli altri di assentarsi dal lavoro, con valori molto al di sotto della media UE a 15 paesi; anche Olanda e Danimarca permettono di prendersi con facilità qualche ora off, ma a differenza della Svezia mostrano una differenza nei valori confrontati rispetto al genere. Come abbiamo detto l’Italia è caratterizzata da una certa mancanza di flessibilità nei tempi di lavoro, ma tele rigidità sembra in parte mitigata da una maggiore possibilità di prendere una o due ore di permesso, anche se per le donne tale possibilità è inferiore rispetto agli uomini. Figura 4. Occupati che dichiarano di avere abbastanza o molte difficoltà nel prendere un permesso (una o due ore) per occuparsi di questioni personali o familiari, donne e uomini, anno 2010. Fonte: elaborazioni su dati European Foundation for the Improvement of living and Working Conditions - European Working Condition Survey, 2010. 6 Allo scopo di semplificare e sintetizzare la lettura dei dati, sono state scelte ed accorpate due delle quattro modalità relative al quesito del questionario EWCS “Lei direbbe che per lei riuscire a prendere una o due ore di permesso durante l’orario di lavoro per occuparsi di questioni personali o familiari sia…”. Le due modalità considerate sono: “Abbastanza difficile” e “Molto difficile”. Le altre possibilità di risposta al quesito erano: “Per niente difficile” e “Non troppo difficile”. 11 Alcune risposte italiane alla conciliazione: il part-time, i permessi e il telelavoro. Dal 1992 al 2007 in Italia sono aumentate le quote di persone che lavorano la sera e la notte, la domenica ed il lavoro su più turni; sempre in questo lasso di tempo è cresciuta la percentuale di donne che lavora 48 ore o più a settimana (Simonazzi, 2009). Considerando anche le ore di lavoro domestico e di cura, le donne italiane continuano ad essere più impegnate degli uomini, ma tale impegno non beneficia di migliori occasioni di flessibilità, inoltre, più degli uomini hanno contratti di natura precaria e spesso, quando lavorano a tempo parziale, non lo fanno per loro scelta (Istat, 2011c). Va inoltre sottolineato che per le fasce d’età 15-24 anni (soprattutto per le donne) e 65 e più è diminuito nel tempo l’orario di lavoro settimanale, con un’ulteriore penalizzazione delle donne nelle fasce centrali d’età in cui si tende ad investire di più sul fronte lavorativo, ma anche su quello riproduttivo che porta con sé nuove esigenze di conciliazione. In teoria, per il gruppo dei prime age workers, in cui molti hanno figli piccoli, esistono interessanti meccanismi di flessibilità oraria finalizzati alla conciliazione tra responsabilità familiari e professionali, ma queste pratiche non hanno un’adeguata copertura economica, il ché rende le politiche poco efficienti (Simonazzi, 2009). In questa seconda parte del contributo si analizzeranno, pertanto, alcune forme del legame tra articolazione del tempo di lavoro e conciliazione familiare. Si fa in tal senso riferimento al concetto di “conciliazione condivisa” in cui non vi è una visione settoriale delle responsabilità e del lavoro di cura e sono ridefiniti i ruoli nell’ambito delle famiglie, così come i servizi offerti ai nuclei e l’organizzazione del lavoro (Piazza, 2010). In questo senso i contesti di analisi sono: i congedi parentali (con un’apertura ai padri), l’offerta di servizi per l’infanzia (Bergamante, 2011b, Borra 2006; Frey, 2002; Jaumotte, 2003; Bertoncin e Haim, 2010) e la flessibilità e la rimodulazione degli orari e dei modi di lavoro. Nel 2000, in risposta agli stimoli forniti dall’Unione Europea, l’Italia ha introdotto la legge 8 marzo n. 53/20007 con l’obiettivo di favorire l’equilibrio tra tempi di lavoro, di cura, di formazione e di relazione. Con questa legge si è tentato per la prima volta di affrontare il tema della conciliazione, coinvolgendo più soggetti e riunendo più dimensioni. Sostenendo ad esempio la maternità e la paternità con l’introduzione del diritto individuale al congedo parentale del padre; sperimentando servizi per territori accessibili, cioè affidando ai comuni il compito di coordinare e armonizzare i tempi e gli orari delle città; finanziando nuovi modelli di organizzazione del lavoro e proponendo, quindi nel complesso, un operazione multiforme che avrebbe coinvolto diversi soggetti sociali, le istituzioni, enti pubblici e privati, i sindacati e le associazioni di categoria. 7 Legge 8 marzo 2000 n. 53 “Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città”, successivamente modificata dall’art. 38 della Legge 18 giugno 2009, n. 69. Cfr. L. 53/2000 http://www.parlamento.it/parlam/leggi/00053l.htm 12 La L. 53/2000 è stata successivamente modificata dall’art. 38 della Legge 18 giugno 2009, n. 69, in cui, tra l’altro, si tenta di riconsiderare le politiche di conciliazione come politiche del lavoro e, pertanto, si incoraggia il sistema produttivo a investire su questo aspetto (Riva, 2010). Negli ultimi anni, tuttavia, si è diffusa l’opinione che questa legge pur essendo molto innovativa sia rimasta, per diversi aspetti, incompiuta (Riva, 2010; Visentini, 2010). In particolare l’art. 9 della Legge, che ha introdotto la possibilità di sostenere economicamente le aziende che sviluppano sistemi sperimentali di rimodulazione dei tempi di lavoro o danno vita a percorsi formativi per il genitore che rientra al lavoro dopo il congedo, ha avuto alcuni problemi nell’implementazione e i finanziamenti stanziati sono stati scarsamente utilizzati dalle aziende (Del Boca e Visentini, 2010; Gottardi e Piazza, 2009; Riva, 2010). L’articolo 9 prevede contributi a fondo perduto per le organizzazioni8 che per facilitare la conciliazione lavoro-famiglia dei dipendenti, presentino progetti per introdurre la flessibilità degli orari e dell’organizzazione del lavoro. I progetti finanziabili possono prevedere l’utilizzo di diversi dispositivi utilizzabili anche congiuntamente: il telelavoro, la banca delle ore, l’orario flessibile in entrata e in uscita, l’orario concentrato, la flessibilità dei turni, i piani formativi e infine dispositivi previsti di recente, come i servizi salva-tempo, i voucher o le convenzioni con strutture di accudimento per minori o anziani. L’esiguità dei progetti aziendali finanziati in questi anni9 (Natoli, 2005; Gobbi, 2009) può essere ricondotta a diversi fattori: alle difficoltà mostrate dalle imprese nell’utilizzare questo strumento e nel presentare progetti finanziabili (Natoli, 2005); al requisito obbligatorio della stipula di un accordo sindacale, vissuto soprattutto dalle piccole imprese, come una forzatura e un’intrusione (Bassanini e Madami, 2007); alla lunghezza dei tempi con cui viene concesso il finanziamento, che produce una sorta di effetto scoraggiamento nelle imprese (Visentini, 2010); allo scarso interesse mostrato nei confronti del problema (Riva, 2010), orientamento diffuso soprattutto nelle piccole aziende in cui si preferisce rispondere ai bisogni di conciliazione familiare con una contrattazione individuale informale, piuttosto che attraverso interventi organizzativi (Bassanini e Madami, 2007). Tuttavia, nonostante i progetti presentati e finanziati siano pochi, alcune delle esperienze prodotte nel territorio italiano sono state particolarmente innovative ed efficaci, ed hanno restituito una dinamismo, soprattutto in alcune regioni (Emilia Romagna, Piemonte, Lombardia, Toscana e Veneto) da tenere presente e studiare con attenzione. In questo contesto è inserito il recente accordo sulle “Azioni a sostegno delle politiche di conciliazione tra famiglia e lavoro (firmato da Governo e Parti sociali a marzo) che insiste 8 Prima della modifica del 2009, l’art. 9 era rivolto solo agli enti privati iscritti al registro delle imprese. Dal 2000 al 2008 sono stati presentati 1223 progetti e ne sono stati finanziati 683, circa il 50%. Cfr. Gobbi D., Conciliare famiglia e lavoro: un aiuto dai fondi Articolo 9 della Legge 53/2000, in Focus Isfol, numero 2009/2 dicembre, 2009. 9 13 sull’attuazione dell’art.9 della L. 53/200 e ribadisce, tra l’altro, l’importanza della flessibilità, con espliciti riferimenti al regime orario, al lavoro part-time, al telelavoro ed alla flessibilità individuale (o banca delle ore). Quanto al part-time va sottolineato che tra il 2000 ed il 2010 si è registrata una crescita della percentuale di lavoratori con questa forma contrattuale, ma tale aumento ha per lo più riguardato la componente femminile dell’occupazione (Tabella 2). Considerando le aree geografiche di appartenenza, notiamo che la percentuale di part-time femminile è salita un po’ ovunque; al contrario per gli uomini è scesa in tutte i territori, tranne che nel Nord-Ovest. Questo forte aumento del lavoro a tempo parziale per le donne, è sicuramente anche conseguenza della crisi economica che ha contribuito alla riduzione delle occasioni di lavoro con orario a tempo pieno. Negli ultimi anni, infatti è aumentata l’incidenza del part-time involontario (Istat 2011b) che se pur superiore per gli uomini, rappresenta un aspetto molto rilevante dell’occupazione femminile che ne fa anche maggior ricorso. Tabella 2. Occupati a tempo parziale per genere e ripartizione geografica, anni 2000 e 2010 (valori percentuali) Ripartizioni geografiche 2000 (a) Uomini 2010 Donne Totale Uomini Donne Totale Nord-ovest 5,2 23,6 12,8 5,4 29,7 15,7 Nord-est 5,6 26,3 14,0 4,5 29,6 15,1 Centro 7,6 27,2 15,3 6,1 30,3 16,3 Mezzogiorno 7,5 22,2 12,2 6,0 26,5 13,2 Italia 6,5 24,6 13,4 5,5 29,0 15,0 Fonte: elaborazioni su dati Istat – RTFL 2000 e RCFL 2009. (a) Dati ricostruiti. Il part-time, comunque, come detto è (se volontario) uno dei principali strumenti di conciliazione e la scelta di utilizzarlo è quasi sempre legata ad esigenze di cura. L’indagine Isfol-Plus 200810 permette di confrontare tra i generi le ragioni della scelta di lavorare con orario ridotto. Il 73,2% delle donne afferma di scegliere il part-time per dedicarsi ai figli, mentre per gli uomini tale ragione è presente solo nel 21,5%. Circa 3 uomini su 10 dichiarano, però, che in futuro chiederanno all’azienda di poter lavorare con orario ridotto per avere più tempo libero. 10 La rilevazione Isfol-PLUS, che attualmente è alla sua quarta edizione, è un’indagine con cadenza periodica già condotta negli anni 2005, 2006, 2008. La rilevazione è di tipo campionario e coinvolge in ogni occasione circa 40.000 individui. Il campo d’osservazione è rappresentato dalla popolazione residente in Italia con età compresa tra 18 e 64 anni. In particolare le seguenti fasce di popolazione non vengono incluse nella popolazione di riferimento: gli uomini inattivi (esclusi studenti e pensionati da lavoro) tra i 18 e i 64 anni, le donne inattive tra i 40 e i 64 anni (esclusi studenti e pensionati da lavoro), gli studenti uomini con più di 29 anni, le studentesse con più di 39 anni, i pensionati da lavoro con meno di 50 anni. La rilevazione è effettuata attraverso la somministrazione di un questionario strutturato con tecnica di tipo Cati. Il dettaglio massimo delle stime è la regione. I dati utilizzati per questa analisi fanno riferimento al 2008. 14 Nella costruzione di sistemi di conciliazione, è però opportuno considerare il ruolo giocato dalla dimensione del tessuto produttivo; al crescere della dimensione d’impresa è maggiore la quota di persone cha ha un contratto part-time, aspetto, questo anche legato alla maggiore sindacalizzazione dei lavoratori e, dunque, alle possibilità di contrattare strumenti di flessibilità. Utilizzando i dati dell’indagine Isfol-Ril 200711 è possibile analizzare le motivazioni principali per cui le aziende utilizzano i contratti part-time. Le aziende di grandi dimensioni indicano più delle piccole che il contratto a tempo parziale nasce dalle richieste dei lavoratori. Nelle imprese con un numero ridotto di addetti si registrano più alte percentuali di ricorso al part-time per ragioni organizzative e produttive, rispetto alle grandi aziende. Tali indicazioni sembrano mostrare una certa disponibilità delle imprese a tener conto delle esigenze dei lavoratori (Bergamante, 2011c), ma è anche vero che uno degli effetti prodotti dalla congiuntura economica è stato quello di incrementare il part-time involontario e riferito soprattutto all’occupazione femminile (Istat, 2011c). Abbiamo già evidenziato che in Italia le donne hanno ancora quasi sempre il ruolo principale di care-givers, ma tale condizione, unità alla rigidità dei tempi di lavoro, produce ulteriori difficoltà in termini di conciliazione e pone le donne in una posizione di svantaggio all’interno del mercato del lavoro (Simonazzi, 2009). Sulla base della III Indagine sulla Qualità del Lavoro dell’Isfol del 201012 è possibile però identificare le situazioni ed i contesti in cui la flessibilità è invece maggiormente presente. In primo luogo gli orari flessibili caratterizzano più chi lavora da solo o in sedi con pochi dipendenti, o le aziende oltre i 200 dipendenti. Per quanto riguarda le fasce d’età si sottolinea che più flessibili risultano gli orari degli over 55 e dei giovani dai 15 ai 29 anni. Tale aspetto è fortemente in contrasto con le esigenze di conciliazione che sono spesso legate alla cura dei figli e per lo più concentrare nelle fasce centrali d’età. Considerando le diverse forme contrattuali emerge inoltre che ad avere un orario maggiormente flessibile sono i lavoratori autonomi, seguiti da collaboratori, dai dipendenti a tempo determinato e da quelli a tempo indeterminato. In tal senso sembrerebbe essere 11 I dati utilizzati nell'analisi empirica sono ottenuti dalla Rilevazione sulle Imprese e Lavoratori (RIL) condotta dall'Isfol per l'anno 2005 e 2007 su un campione rappresentativo di imprese del settore extra-agricolo. In particolare le due indagini RIL per il 2005 e il 2007 sono realizzate per mezzo di questionari somministrati ad un campione rappresentativo delle società di capitali e società di persone operanti nel settore privato extra-agricolo. Il questionario raccoglie informazioni sulle caratteristiche di impresa, sull'organizzazione aziendale, sulla composizione dei lavoratori e sulle caratteristiche delle relazione industriali, tra cui l'incidenza della retribuzione integrativa e la presenza dei sindacati. Il dataset è costituito da un campione sezionale di 21.728 imprese nel 2005 e di 24.450 imprese nel 2007. La dimensione longitudinale del campione riguarda invece 12.144 imprese, che sono presenti in entrambe le rilevazioni. 12 La III Indagine sulla Qualità del Lavoro condotta dall’ Isfol nel 2010 ha come universo di riferimento i soggetti, di età non inferiore ai 16 anni, appartenenti alla categoria degli occupati (persone che hanno svolto, in una settimana prestabilita, un qualsiasi tipo di lavoro remunerato, autonomo o alle dipendenze). La popolazione assunta come rappresentazione è quella fornita dall’Istat con la RCFL 2010. La III indagine sulla qualità del lavoro è stata svolta tramite tecnica CATI. La dimensione del campione si attesta su 5.000 unità, dimensione compatibile con le risorse disponibili e soddisfacente sul piano della precisione delle stime. La III Indagine sulla Qualità del Lavoro indaga su una molteplicità di aspetti che possono concorrere a definire la qualità del lavoro e trae spunto dalle “European survey on working conditions”, dell’European Foundation for the Improvement od Living and Working Conditions. Il questionario elaborato, pur ispirandosi ampiamente allo strumento utilizzato nell’indagine europea. 15 verificata l’ipotesi della minore rigidità oraria per quelle figure che per regime contrattuale sono considerate flessibili, ma soprattutto per i lavoratori che hanno l’autonomia della gestione dei propri tempi di lavoro. Ancora una volta, però, le fasce centrali d’età, che corrispondono generalmente al momento di creazione di una famiglia, sono quelle che poco beneficiano di una flessibilità in termini di tempo di lavoro. In linea generale, però, sia gli uomini, sia le donne dichiarano di riuscire a conciliare abbastanza bene il lavoro con gli impegni domestici, la cura dei figli, degli anziani e con gli impegni extralavorativi. In particolare, però le donne sono sempre più soddisfatte degli uomini, forse perché rassegnate rispetto alle possibilità offerte. E’ dunque interessante comprendere se però al lavoro con orari flessibili, corrispondano migliori possibilità di conciliazione. Per quanto riguarda gli impegni domestici e la cura dei figli si evidenzia che la soddisfazione per le situazioni di conciliazione aumenta soprattutto per le donne se l’orario è flessibile; sulla cura degli anziani e sugli impegni extralavorativi la flessibilità oraria non sembra incidere in modo sostanziale. Tale lettura può essere ulteriormente estesa, considerando che esiste un legame tra la soddisfazione per gli orari di lavoro e il livello di conciliazione relativo agli aspetti della vita privata e, in particolare alla cura dei figli. Se, come evidenziato, il mercato del lavoro in Italia non è particolarmente flessibile dal punto di vista dell’orario di lavoro, sembra opportuno approfondire il tema considerando le possibilità di assentarsi per qualche ora dal posto di lavoro, intese come estrema ratio di risposta alle esigenze di elasticità dei tempi di lavoro. Sempre facendo riferimento alla III Indagine sulla Qualità del Lavoro dell’Isfol del 2010, si nota che circa il 66% dei lavoratori occupati può decidere con facilità quando prendere un permesso (Tabella 3). Gli uomini, però sembrano avere una maggiore facilità rispetto alle donne; il 6,6% delle donne, infatti dichiara di non poter prendere permessi, a fronte del rispettivo 5,3% degli uomini. Un altro dato interessante è che al crescere della fascia d’età di appartenenza, cresce anche la possibilità di prendere permessi senza difficoltà; la maggior facilità si riscontra per gli occupati dai 55 anni in su (70%), la minore per i più giovani dai 15 ai 29 anni (64%). Inoltre è più facile usufruire di permessi nelle aziende no profit o nelle onlus, mentre sembra molto difficoltoso chiederli in un’organizzazione pubblica. Sempre sul lato aziendale si evidenzia che è ovviamente più facilitato chi lavora da solo o chi sta in organizzazioni di piccole dimensioni; le situazioni di maggiore rigidità sii riscontrano per gli occupati in sedi aziendali da 16 a 49 persone. 16 Tabella 3. Possibilità di usufruire di permessi durante l’orario di lavoro per genere, anno 2010 (valori percentuali) Genere Può decidere quando prendere un permesso Uomo Totale Donna Sì, con facilità 68,5 62,4 66,0 Sì, ma con difficoltà 26,3 31,0 28,2 5,3 6,6 5,8 100,0 100,0 100,0 No Totale Fonte: elaborazioni su dati Isfol – III Indagine sulla Qualità del Lavoro, 2010. Abbiamo precedentemente detto che le forme contrattuali “atipiche” sono quelle per cui maggiori sono le possibilità di usufruire di un orario flessibile in entrata ed in uscita. Risulta a questo punto opportuno analizzare la possibilità di ricorrere a permessi in rapporto alle diverse tipologie contrattuali (Tabella 4). In questo caso si conferma la libertà di decidere i propri tempi di lavoro per i lavoratori indipendenti (ma anche per coloro che hanno un contratto a tempo indeterminato). Al contrario i lavoratori a tempo determinato ed i collaboratori hanno maggiore difficoltà degli altri ad usufruire di permessi. In particolare va sottolineato che nel 20% dei casi ai collaboratori non è consentito prendere un permesso, il ché stona decisamente con la forma contrattuale. Tabella 4. Possibilità di usufruire di permessi durante l’orario di lavoro per tipologia contrattuale, anno 2010 (valori percentuali) Può decidere quando prendere un permesso Sì, con facilità Sì, ma con difficoltà No Totale Dipendenti a tempo indeterminato 63,2 Tipologia contrattuale Totale Dipendenti a tempo Collaboratori Indipendenti Altro determinato 56,0 51,1 80,4 72,7 66,0 32,0 34,6 28,9 15,4 9,2 28,2 4,8 9,4 20,0 4,2 18,1 5,8 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 Fonte: elaborazioni su dati Isfol – III Indagine sulla Qualità del Lavoro, 2010. La possibilità di usufruire di permessi ha un legame con la facilità di conciliare i diversi aspetti della vita non lavorativa. In particolar modo incide molto sulla soddisfazione relativa alle possibilità di conciliare il lavoro con la cura dei figli (soprattutto per gli uomini), ma soprattutto con gli impegni extralavorativi. Nel tema dell’articolazione degli orari di lavoro è infine opportuno inserire il concetto di telelavoro, da più parti considerato un utile strumento per il miglioramento delle condizioni di lavoro e dei meccanismi di work-life balance. Il telelavoro è una forma di lavoro che, attraverso specifiche tecnologie, consente ai lavoratori di svolgere i propri compiti ed attività a casa o in altre sedi o uffici della struttura aziendale. In Italia, nonostante sia piuttosto esiguo il numero di telelavoratori, 17 sono state realizzate alcune esperienze interessanti che, comunque, hanno per lo più interessato le occupate madri. (Simonazzi, 2009). Già nell’ambito della Strategia Europea per l’Occupazione, il Consiglio Europeo ha invitato le parti sociali a creare intese, con l’obiettivo di modificare l’organizzazione del lavoro, anche attraverso accordi sulla flessibilità. Nel 2002 è nato a tale scopo l’Accordo-quadro europeo sul telelavoro che delinea alcuni punti cardine oggetto di attuazione da parte dei singoli paesi. Tali punti generali riguardano le modalità di impiego dei telelavoratori, con l’idea di garantire loro gli stessi livelli di protezione delle persone che lavorano continuativamente nei luoghi aziendali. Nell’Accordo il telelavoro viene definito come “una forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell’ informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa, che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa”13. In Italia, nel 2004, è stato siglato un accordo che recepisce le indicazioni dell’intesa europea sul telelavoro, trasferendone le indicazioni a livello nazionale14. L’accordo italiano identifica il contesto di riferimento per la regolazione del telelavoro, lasciando ampio spazio alla contrattazione collettiva ed individuale. Per le organizzazioni private, la gran parte degli accordi già stipulati a livello settoriale, mette l’accento sul carattere volontario del telelavoro e sul mantenimento di tutti i diritti del telelavoratore rispetto a quanto stabilito da leggi ed accordi collettivi per gli occupati che lavorano nelle sedi aziendali. Nel settore pubblico (in cui la materia è oggetto di contrattazione collettiva) sono invece regolati, se pur a livello generale, alcuni aspetti quali il compenso, i diritti dei telelavoratori e le condizioni di lavoro. In Italia decisamente scarsa risulta la produzione di dati sulla diffusione e le caratteristiche del telelavoro. Si può far riferimento ai dati Istat derivanti dalle indagini sull’uso del tecnologia dell’informazione e della comunicazione condotte nelle imprese di oltre 10 dipendenti, ma in tal senso il telelavoro riguarda gli impiegati che passano parte del proprio tempo di lavoro non nei luoghi di lavoro principali, ma in uffici esterni o a casa e utilizzano computer ed altre attrezzature che legano il telelavoratore all’ufficio principale. Un’altra utile fonte di dati sul telelavoro è l’indagine Isfol-PLUS15 che rende disponibili informazioni aggiuntive sulle caratteristiche delle persone che telelavorano. Secondo quanto dichiarato dagli intervistati, solo il 4,3% delle aziende prevede contrati di telelavoro (Tabella 5) e la dimensione aziendale ha un ruolo di primo piano. Nelle aziende più grandi, infatti, sono infatti maggiori le percentuali di accesso ai contratti di telelavoro, dato questo ovviamente collegato alla maggiore disponibilità di tecnologie, ma anche 13 Una traduzione italiana dell’Accordo è scaricabile dal sito www.unife.it/ateneo/organiuniversitari/.../accordo_quadro_eu_2002.pdf. 14 L’accordo italiano è consultabile al link: http://centri.univr.it/tea/accordo_telelavoro2004.pdf.; per ulteriori informazioni si veda http://www.eurofound.europa.eu/eiro/2007/12/articles/it0712049i.htm. 15 Per maggiori informazioni sull’indagine si veda la nota n. 10. 18 all’elevata presenza di specializzazioni funzionali che, perdendo il carattere di trasversalità che spesso si ritrova nelle piccole aziende, rende più semplice lo svolgimento delle attività fuori dai luoghi di lavoro. Tabella 5. Occupati che dichiarano che la propria azienda prevede contratti di telelavoro per numero di addetti, anno 2008 (valori percentuali) L’azienda prevede contratti di telelavoro Numero di addetti Fino a 15 Da 15 a 50 51 e oltre Totale No 91,3 89,6 85,4 88,9 Si 3,0 3,6 6,3 4,3 Non saprei 5,7 6,9 8,3 6,9 100,0 100,0 100,0 100,0 Totale Fonte: elaborazioni su dati Isfol-Plus, 2008. Il telelavoro è una modalità di organizzazione dei tempi molto sentita dai lavoratori e molti sono i casi (13%) in cui gli occupati dichiarano che in futuro chiederanno tale forma contrattuale se l’azienda lo prevederà. Sempre secondo i dati Isfol-Plus 2008, circa il 7% degli occupati svolge la propria attività con la forma del telelavoro. E’ inoltre interessante approfondire le potenzialità di utilizzato, considerando la parte dell’attività lavorativa che potrebbe svolgersi fuori dai classici luoghi di lavoro (Figura 5) e, che dunque potrebbe, in parte contribuire al miglioramento delle condizioni di work-life balance. In primo luogo si evidenzia che l’11,6% degli occupati dichiara che oltre il 76% del suo lavoro potrebbe essere svolto in un luogo diverso da quello dell’ufficio. In secondo luogo c’è un quasi 17% di dipendenti che sostiene di poter telelavorare su gran parte della propria attività. Se si considerano i dati disaggregati rispetto al genere, emerge chiaramente che il lavoro delle donne, più di quello degli uomini, potrebbe essere svolto in “altri” luoghi. Ben il 25,9% delle occupate potrebbe utilizzare la modalità di telelavoro per quasi tutta l’attività (sommando le fasce 51%-75% e dal 76% in su). Le maggiori potenzialità di utilizzo del telelavoro per le donne, sono in parte spiegate dalla presenza di una segregazione verticale della componente femminile che notoriamente si traduce in una maggiore presenza nelle professioni di natura esecutiva, rispetto a quelle a carattere gestionale (Rustichelli, 2010). Teoricamente il telelavoro è più facilmente applicabile a professioni che comportano responsabilità e coordinamenti complessi e che dunque molto più frequentemente sono prerogativa maschile. 19 Figura 5. Percentuale dell’attività lavorativa che potrebbe essere svolta con il telelavoro per genere, anno 2008 (valori percentuali) Fonte: elaborazioni su dati Isfol-Plus, 2008 Riflessioni conclusive Le analisi proposte hanno mostrato che le donne continuano ad essere penalizzate sul fronte della rimodulazione degli orari in ambito lavorativo perché madri (o madri potenziali) e in quanto poco presenti in posizioni e professioni che per loro natura sono caratterizzate da una maggiore flessibilità. A livello europeo è comunque evidente che un ruolo fondamentale è giocato dai modelli organizzativi che dominano i sistemi produttivi dei singoli paesi che, tra l’altro, hanno un deciso legame con le possibilità di scegliere i tempi di lavoro da parte degli occupati o, al contrario, con la tendenza da parte delle aziende di imporre i tempi di lavoro in modo perentorio. Sull’altro fronte si trova il sistema di welfare che a volte riesce a rispondere alle esigenze di conciliazione, anche offrendo servizi, mentre in altre è meno generoso e non in grado di sostenere l’offerta di lavoro e di sostenere esigenze di cura. Da una parte troviamo, dunque, paesi in cui risulta elevata la partecipazione femminile al mercato del lavoro, vi è un’ampia diffusione dei servizi per l’infanzia (soprattutto per i bambini fino a 3 anni) anche con orario full-time e la flessibilità degli orari di lavoro riesce a rendere compatibili la sfera familiare e quella professionale. In queste realtà territoriali le forme di protezione ed il welfare sono molto generosi e sono orientati da modelli con una natura piuttosto universalistica che non privilegia dunque un genere rispetto all’altro. In questo contesto prendono vita modelli organizzativi che considerano la conciliazione come un’esigenza “condivisa” dai generi e tendono a riflettere la visione universalistica sul fronte dei sistemi produttivi. 20 In altre realtà territoriali si assiste ad un rovesciamento del modello in cui l’attività e l’occupazione femminile sono più basse, i servizi per l’infanzia non sono particolarmente diffusi ed il welfare non è né generoso, né per tutti. In questo quadro, in cui si delinea una pesante assenza di sostegni, la componente femminile adatta modi e tempi di lavoro in risposta al modello dominante del malebreadwinner, secondo le necessità di conciliazione. All’interno di questa cornice, i sistemi organizzativi delle aziende che puntano sulla flessibilità, se presenti, riescono ad intervenire solo in parte sui meccanismi di conciliazione. La cultura organizzativa svolge quindi un ruolo importante poiché, finché la flessibilità ed in particolare gli strumenti come il part-time, saranno considerati prerogativa femminile nel mondo del lavoro, non si farà altro che confermare le disuguaglianze di genere piuttosto che modificarle. Su questi aspetti si inserisce il fattore “dimensione aziendale” che può sensibilmente incidere sui meccanismi di flessibilità oraria o sul telelavoro che sono ancora poco diffusi, ma quando presenti ed a regime, mostrano ricadute positive sulla partecipazione delle donne al mercato del lavoro. L’Italia sembra piuttosto caratterizzata da una “flessibilità in emergenza”, in cui si ricorre più facilmente ai permessi come surrogato di una bassa flessibilità degli orari di lavoro. Ma tele situazione è, anche in questo caso, legata alla dimensione delle organizzazioni produttive. Nelle imprese con un elevato numero di lavoratori, infatti, risulta maggiormente possibile l’incontro tra le esigenze di conciliazione dei dipendenti, grazie ad una diversa possibilità di modulazione degli orari di lavoro. Allo stesso tempo però bisogna tener presente che il tessuto produttivo italiano è costituita da imprese di piccole dimensioni in cui è anche spesso più difficile tendere all’applicazione di strumenti di conciliazione e l’esperienza dell’attuazione dell’art. 9 della L.53/2000 lo ha in parte testimoniato. E’ per queste considerazioni che è opportuno riflettere su questo tema nella definizione di pratiche di conciliazione e politiche di sostegno all’occupazione femminile, nel tentativo di individuare modalità di adeguamento dei meccanismi di supporto esistenti alle realtà produttive più rigide. Se in alcuni contesti europei si registra la presenza di un legame virtuoso tra la maternità e l’occupazione, in Italia tale relazione non risulta affatto verificata e, ovviamente, a farne le spese sono i tassi di fecondità che rimangono al di sotto della “soglia di rimpiazzo” (Oecd, 2011). Il basso sostegno alle esigenze di cura dell’infanzia e alle famiglie sono ancora aspetti che fortemente caratterizzano l’Italia e che, come ampiamente dimostrato, rendono l’innalzamento dell’occupazione femminile un obiettivo piuttosto complesso da raggiungere. Infine, vi sono gli effetti della crisi finanziaria ed economica. In un periodo di congiuntura la flessibilità è vista, infatti, soprattutto come un importante strumento che permette ai datori di lavoro di adattarsi alle mutevoli circostanze economiche. E’ quindi importante mantenere alta l’attenzione 21 su questi aspetti e fare in modo che, nonostante i cicli economici poco favorevoli, i miglioramenti auspicati nel work-life balance non si interrompano e quelli raggiunti vengano mantenuti. Bibliografia Aaberge R., Del Boca D., Colombino U., Ermish J., Francesconi M., Pasqua S., Strøm S. (2005), Part II, Labour market participation of women and fertility: the effetc of social policies, in Boeri T., Del Boca D., Pissarides C., Women at Work. An economic perspective, Oxford, Oxford University Press. Addabbo T., Favaro D. (2010), Salario di riserva e attività potenziale, in Pistagni R. (a cura di), Perché non lavori? I risultati di una indagine sulla partecipazione femminile al mercato del lavoro, Isfol – I libri del Fondo Sociale Europeo, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino Industrie Grafiche ed Editoriali. Altieri G. (2007), Uomini e donne moderni. 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