n. 164, Parigi, dicembre 1991, pp. 16

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n. 164, Parigi, dicembre 1991, pp. 16
Michel Bourel, Giulio Paolini, contemplateur donc, in “Art press” (edizione francese),
n. 164, Parigi, dicembre 1991, pp. 16-22.
MB: Nel marzo 1991 lei ha pubblicato Contemplator enim, un libro a carattere programmatico e nello stesso tempo
una presa di posizione radicale. Il libro si apre con la dichiarazione “Mai più una mostra”, giustificata, come lei
scrive, dalla decisione di concentrare l’attenzione sul lavoro entro le quattro pareti dell’atrio d’ingresso della sua
abitazione, per compiervi sette “navigazioni” senza meta. Come è nato questo libro?
GP: Anzitutto devo dire che la stesura dei sette capitoli e la realizzazione delle sette illustrazioni sono state
piuttosto impegnative. La motivazione è stata dettata non tanto da una ragione specifica, quanto dall’umore
o meglio da una condizione, non solo mentale (razionale, teorica), ma anche psicologica. Ho cercato di mantenere
un equilibrio tra gli argomenti, le cose che volevo dire e una certa distanza che comunque volevo preservare.
“Mai più una mostra” è un’affermazione radicale: una presa di distanza rispetto alle manifestazioni, alle occasioni
e alle sedi che da sempre sono i luoghi di comunicazione dell’artista, ma che oggi hanno acquisito una tale
importanza da rischiare di compromettere la libertà di essere o non essere un artista. È a questo proposito che ho
voluto dare voce al mio umore, senza peraltro sapere esattamente cosa volessi dire con questo libro. Volevo fare
qualcosa che non fosse direttamente legato al mio lavoro, qualcosa che appartenesse a me, ma che per
estensione appartenesse all’artista e al paesaggio turbolento con cui il mio (il suo) lavoro si trova confrontato.
MB: In uno dei suoi testi, come per accentuare la neutralità dell’artista, ha dichiarato che lo spettatore è il primo
a vedere l’opera. Ma non vi è una contraddizione tra la soggettività di Contemplator enim e questo ritiro da una
scena artistica che privilegia anzitutto la figura dell’artista?
GP: Da quando lavoro come artista (e non solo da quando faccio mostre), le condizioni sono molto cambiate.
Ho sempre cercato di mantenere l’atteggiamento di spettatore nei confronti del paesaggio dell’arte. Forse, come
artista, non ho mai lavorato... D’altronde, sono sempre stato attirato da ciò che chiamiamo “arte”, da quella cosa
che (almeno a me) dà l’impressione di essere inattuabile: l’impressione di una cosa che non saremo mai
veramente in grado di realizzare e che possiamo solo tentare di capire. Ascoltarla, metterla in scena, mi attira
molto più che produrre qualcosa di nuovo. D’altro canto, è impossibile non fare. Pur senza affermare “ho fatto
questo quadro ed è assolutamente nuovo” – cosa che non direi mai – avrò sempre l’urgenza e la necessità di
toccare qualcosa che mi dia questa impressione. Per esempio, guardare un soggetto antico, poi rievocarlo e fare
qualcosa che vada ad aggiungersi a tutto ciò che chiamiamo arte. Non solo a ciò che esiste, ma anche a tutto ciò
che possiamo immaginare. È in questo senso che nei testi di Contemplator enim mi abbandono alla dimensione
psicologica. C’è un certo pudore a includersi nella lista dei produttori di oggetti d’arte. Salvo che, anche senza
volerlo, si finisce sempre per esserci; c’è sempre qualcuno che ti dice: “Attenzione, ci sei comunque!”. Ma almeno,
l’artista, da parte sua, dovrebbe astenersi dal dichiarare la sua appartenenza a questo orizzonte.
MB: Fin dall’inizio lei chiama in gioco questioni relative all’arte, alla sua storia e alla sua percezione. Il quadro,
il telaio, la cornice, la visione prospettica. Ma con questo ritiro in uno spazio intimo che rivela l’io, compreso l’io
dell’artista, non afferma invece qualcosa di nuovo?
GP: In realtà mi ritrovo da sempre – forse oggi più che mai – lungo un percorso (la linea tra me e l’opera) che mi
conduce verso la costruzione, la definizione dell’opera, ma nello stesso tempo anche verso la sua catastrofe e la
sua scomposizione. Ne sono costantemente consapevole: la visione e la sparizione dell’opera quali obiettivi da
raggiungere sono due elementi essenziali della mia personalità.
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MB: La visione e la sparizione non trovano un riscontro anche nella fotografia, intesa come registrazione di una
situazione precaria o di una finzione? Una cosa esistita che non esiste più, ma di cui la riproduzione conserva una
traccia oggettiva.
GP: Considero la fotografia un miracolo. Mi dà la riproduzione autentica di ciò che vedo e nello stesso tempo mi
permette una distanza rispetto al problema della riproduzione. Possiedo la realtà non come autore dell’immagine,
ma come testimone di uno sguardo critico sul reale: per me, la fotografia guarda la realtà in modo critico e non
soggettivo. Questo mi dà il grande vantaggio di non dover riprodurre il reale e soprattutto di poter manipolare
questa realtà riprodotta – riproduzione della riproduzione – giocando sulla pelle della carta, togliendo
o aggiungendo delle parti, producendo un trompe-l’œil giustificato, comunque fedele all’occhio che ha visto il reale
per me: l’obiettivo dell’apparecchio fotografico.
MB: Da sempre lei è sedotto dai dispositivi necessari alla creazione di immagini (prospettiva, fotografia, geometria,
storia, mitologia, filosofia) e interviene all’interno di questi dispositivi.
GP: Non ho mai utilizzato una fotografia scattata in prima persona. Direi che “sbattezzo” la fotografia, la sottraggo
alla sua finalità primaria. La fotografia è un documento che annulla il tempo e mette in relazione istanti distinti.
Restituisce il momento originario, ma può assumere anche un altro significato.
MB: In un primo tempo, lei è dunque sempre spettatore?
GP: È l’atteggiamento che ho assunto fin dall’inizio. L’impulso che mi spinge a fare è determinato dall’urgenza di
raggiungere l’opera, non dalla curiosità di manipolare l’immagine. Vi è un’urgenza nella possibilità implicita
all’immagine di essere sempre guardata da capo, di essere guardata ogni volta al presente.
MB: Lei ha parlato anche di “catastrofe”: opere come Rialto (1990) o come Hic et nunc (1991), presentata a Rivoli,
parlano della catastrofe dell’arte, della pittura?
GP: Nella mia condizione di artista ho la cognizione di vivere secondo due polarità: fare e disfare. Non vorrei
attribuire al concetto di catastrofe né tanto meno a quello di costruzione una valenza assoluta. Non intendo la
catastrofe in un’accezione drammatica – ciò implicherebbe una presunta “buona salute” del concetto di opera d’arte –
né credo si possa concepire l’opera in base a un codice positivo e stabile. Tra i due estremi, vedo piuttosto
la possibilità, paradossale, di un assoluto, estraneo sia all’uno sia all’altro, ma consapevole dei limiti di entrambi gli
opposti. Proprio per questa ragione, non ho mai sottoscritto un manifesto o una petizione, né affermato certezze
o proclamato verità. Sono costantemente alla ricerca di qualcosa di possibile, nella speranza di poter “vedere”.
MB: Nel 1984, in Il luogo della rappresentazione, lei ha scritto: “L’artista e l’opera sono complementari, non
consequenziali. Così, come per l’opera sarà essenziale, per dirsi esistente, cogliere lo sguardo che la rivela (sia
esso dell’autore o dello spettatore), allo stesso modo all’artista è necessaria, a prova della sua stessa salvezza,
la scoperta di qualcosa (l’opera) che gli consenta di guardare. Per questo, dicevo, sono le opere ad avermi
pensato e non viceversa. L’artista non pensa, è un naufrago, superstite dello scampato pericolo che è l’approdo
stabilito nell’opera.”
GP: Sono ormai trent’anni che mi confronto con queste due polarità: definizione / costruzione e coscienza della
catastrofe. Fino alla metà degli anni Settanta avevo più fiducia nella prima: verificavo le possibilità, già definite,
dell’opera. Ho capovolto l’attenzione quando in Mimesi ho collocato, uno di fronte all’altro, due calchi di gesso,
quando cioè ho iniziato a coinvolgere lo spettatore, e a volte perfino l’opera stessa, in una messa in scena.
Concentrandomi sul concetto di arte, sulla storia della visione, ho preso coscienza della fragilità di tutti i concetti
di creazione dell'immagine.
MB: In Hic et nunc, la Zattera della Medusa di Géricault (la storia del naufragio e quella del quadro) è una metafora?
GP: Ho utilizzato innumerevoli citazioni: tutte le mie opere, se non sono citazioni dirette, contengono almeno l’eco
di qualche cosa d’altro, del passato o del futuro. In Hic et nunc metto in scena la Zattera della Medusa come
veicolo del destino implicito al quadro. Non si tratta di un riferimento alla scena rappresentata, quanto al fatto che
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la scena raffigurata nel dipinto è la trasparenza stessa del quadro: un’opera gigantesca, illimitata, coraggiosa, una
sorta di sfida alle dimensioni di un quadro. Ho approfittato della trasparenza fra il soggetto (la scena
rappresentata) e la presenza (il telaio) per farne un’unica cosa: presentare la superficie del quadro come simbolo
dell’esistenza precaria di questo quadro. Il telaio del quadro di Géricault ricostruito in grandezza al vero evoca la
zattera in equilibrio instabile. La tela è un elemento iconografico di questa scena: diventa l’acqua, il mare.
Il cavalletto, fuori scala rispetto all’opera, proietta invece un raggio di luce che mette a fuoco il punto centrale
dell’altra opera esposta, Contemplator enim. Vi sono quindi due momenti contrapposti: Hic et nunc, un’opera molto
presente, realizzata in situ, che invade lo spazio, e Contemplator enim, in cui l’illusione del disegno prospettico
orienta il nostro sguardo oltre la superficie del muro, verso lo spazio virtuale che si apre al di là del piano
dell’immagine. Le due opere costituiscono due forme (due forze) che si guardano. Il fascio di luce le pone in
relazione e interroga l’esistenza dell’opera, c’è qualcosa di anteriore al nostro sguardo – qualcosa che l’ha
preceduto – e qualcosa ancora a venire: siamo nell’attesa oppure nella sparizione.
MB: In Rialto, esposto allo Studio Barnabò a Venezia nel 1990, tutto è sospeso, le due tele inclinate sono
rovesciate l’una rispetto all’altra: per lo spettatore desideroso di guardare i quadri è una situazione di disagio.
Il catalogo della mostra riproduce alcuni studi ispirati al dipinto di Giovanni Bellini, Fortuna inconstans (o Allegoria
della barca della fortuna), e a diversi progetti per la ricostruzione del ponte di Rialto. Il ponte reale e il ponte
formato dai due quadri suggeriscono un’evidente analogia.
GP: II ponte è l’eco del luogo: l’opera è stata presentata a Venezia. Al centro dell’ambiente, all’altezza dello
sguardo, un oggetto è capovolto, raddoppiato e in equilibrio precario. Ed è proprio il nostro sguardo che in questo
caso sostiene il dispositivo. Tutto – dal cavalletto, alla tavolozza, ai fogli sparsi che recano il titolo, la data e la
firma – è tenuto in equilibrio da questo momento centrale. Allo stesso modo, anche negli studi per questo lavoro
l’elemento principale è il centro, segnato da una sfera di cristallo, la sfera della Fortuna.
MB: Per quale ragione ha scelto proprio questo dipinto del Bellini?
GP: Sono attirato dalla sfera trasparente, mobile. Una sfera di cristallo che tramite la sua trasparenza e mobilità
deforma e perturba la visibilità pura.
MB: Potrebbe descrivere i lavori esposti alla Galleria dell’Oca a Roma nel maggio scorso?
GP: Il primo lavoro è costituito da una lastra di plexiglas, forata al centro, in modo da essere trafitta da una matita,
la quale è orientata verso un’altra matita, delineata nel disegno di una mano intenta a segnare il centro del
quadrante di un orologio sul polso di un’altra mano. Il titolo, Meridiana, si riferisce alla misura del tempo,
rappresentata dall’orologio nel disegno, ma anche alla matita come meridiana che fissa l’istante del contatto.
Il secondo lavoro si compone di una tela sospesa alla parete, che riporta il disegno di un’inquadratura spaziale,
al centro della quale ho applicato un disegno accartocciato dell’atrio d’ingresso della mia abitazione (si tratta
del medesimo disegno prospettico utilizzato in Contemplator enim, presentato al Castello di Rivoli). Sulla parete,
un disegno prosegue le diagonali della prospettiva delineata sulla tela e inscrive alcuni frammenti del disegno
accartocciato. In questo caso, mi interessava l’ambiguità tra gli elementi materiali in aggetto e l’illusione del
disegno prospettico.
MB: Perché il titolo di questo secondo lavoro è Non toccare?
GP: Nel libro Contemplator enim termino l’ultimo capitolo con la frase: “Così esce di scena l’autore. L’opera
è altrove, non si tocca”. L’opera è una sorta di rappresentazione che è inutile toccare e cercare di capire.
MB: Le tavole del libro presentano l’immagine di uno spazio abitativo personale, dal momento che si tratta
dell’atrio d’ingresso del suo appartamento. L’autore, l’artista, tuttavia, è assente, sono presenti soltanto le opere.
GP: Mi premeva scegliere questo spazio piuttosto che quello del mio studio, poiché volevo mettere in scena
qualcosa che mi appartenesse, ma che non fosse legato allo spazio operativo professionale. D’altronde, nulla
è visibile, eccetto il muro e gli elementi che costituiscono delle visioni, delle apparizioni virtuali. Sono elementi
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chiaramente estranei all’ambiente, inseriti nell’immagine fotografica. Per esempio, ho approfittato della presenza
di due porte e dello spazio tra di esse per immaginare di ritrovarvi il dipinto di Velázquez Las Meninas e riproporre
l’enigma posto da quel quadro. Nel vano di una delle due porte si trova l’immagine di una tela vergine, nel ruolo
dell’immagine dello specchio dipinto da Velázquez.
MB: Persino in questo spazio privato non può fare a meno di mettere in scena l’arte: Velázquez, un’incisione
antica di una piazza di Torino o ancora una sua opera precedente, L’ospite. Lo spazio non può rimanere vuoto?
GP: Uno spazio mi stimola sempre (e di spazi diversi ne ho conosciuti tanti: gallerie, musei...) a immaginare cosa
vi potrebbe accadere, cosa potrebbe accogliere, come potrebbe essere “decorato”. Il mio ruolo non si esaurisce
nella volontà di “decorare” lo spazio, ma, al contrario, nell’urgenza di immaginare e visualizzare la possibilità
di “decorarlo”. Attraverso la memoria e l’immaginazione modifico lo spazio, senza però negarlo né interpretarlo,
ma semplicemente trasformandolo nel teatro di un’evocazione.
MB: In tutto questo traspare una concezione dello spazio che richiama i dipinti di De Chirico. Lo spazio inteso
come luogo d’attesa della rappresentazione. In questo teatro, la pittura è l’evento atteso?
GP: Ho sempre pensato che il quadro, come pure lo spazio reale, per essere guardato, per costituire l’essenziale
della nostra visione, debba trasformarsi in un teatro. L’obiettivo è di assistere a qualcosa che renda visibile una
superficie, un volume che di solito non guardiamo. Siamo coscienti che dopo aver visto, ci sarà la sparizione.
È la regola della possibilità stessa di guardare.
MB: Nel suo lavoro non c’è anche una lotta contro la sparizione?
GP: A volte ricorro alla trasparenza delle immagini per trattenere qualcosa che un giorno sarà ricoperto da qualche
cosa d’altro. Quando rappresento l’orientamento dello sguardo, cerco di creare una resistenza al passaggio dello
sguardo e quindi di rendere solidali lo sguardo e l’oggetto della visione. In Liber veritatis (1979) c’è la descrizione di
uno sguardo determinato dal soggetto che genera il quadro, ma il personaggio raffigurato, intento a guardare, tiene in
mano dei frammenti della riproduzione di un altro lavoro, presente nella medesima esposizione. Il mio lavoro è simile
a un’impalcatura, in cui elementi identici o affini sono utilizzati in situazioni e a livelli diversi. Potrei tracciare un
parallelo tra De pictura (1979) e Contemplator enim (1991): in entrambi i casi lo spazio rappresentato è impraticabile,
poiché il personaggio guarda il fronte dell’unica tela rovesciata che noi, spettatori, non possiamo vedere. Noi non
siamo lì, non possiamo vedere, ma qualcun altro lo fa per noi. Il personaggio è rappresentato in scena.
MB: Ma l’opera non esclude lo spettatore?
GP: Lo esclude, ma nello stesso tempo ne fa il proprio soggetto. Di fronte alla rappresentazione di una
rappresentazione siamo esclusi, ma al contempo siamo presenti come testimoni di un assoluto. È il vantaggio di
ciò che non può essere interpretato. Quando non siamo convocati a vedere, abbiamo l’illusione di essere gli unici
a guardare qualcosa che diventa così intoccabile. Ed è proprio questa la frustrazione stessa della percezione.
In L’occhio e lo spirito Merleau-Ponty scrive: “La visione non è una certa modalità del pensiero, o presenza a sé:
è il mezzo che mi è dato per essere assente da me stesso, per assistere dall’interno alla fissione dell’Essere,
al termine della quale soltanto mi richiudo su di me. I pittori l’hanno sempre saputo”.
MB: Questa citazione ha un valore programmatico per lei?
GP: È una riflessione che mi ha colpito. Il pittore è colui che ha visto per gli altri. Non ruba la visione a nessuno,
ma, al contrario, desidera offrirla agli altri. Vuole offrire la visione allo spettatore nella misura in cui ritiene possibile
definirla.
(traduzione dal francese: M. Disch)
Ripubblicato in Giulio Paolini. La voce del pittore - Scritti e interviste 1965-1995, a cura di M. Disch, ADV Publishing
House, Lugano 1995, pp. 255-262.
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Versione originale
MB: Vous avez, en mars 1991, publié un livre Contemplator enim. A la fois programme et prise de position assez
ferme : « Plus d’exposition » écrivez-vous, ayant décidé de vous concentrer sur votre travail entre les quatre murs
de l’entrée de votre appartement, pour sept « navigations » sans but. Comment ce livre est-il arrivé ?
GP: D’abord il faut dire qu’écrire ces sept petits chapitres et exécuter ces sept illustrations, m’a demandé
beaucoup d’énergie, de concentration et de temps. Plus qu’une raison, c’est l’humour qui m’y a poussé, ou plutôt
une condition qui ne serait pas seulement mentale (rationnelle, théorique) mais en fin de compte psychologique.
J’ai fait dans ce livre tout mon possible pour garder un équilibre entre les arguments, les choses que je voulais
dire, et la distance que je voulais garder à leur sujet. « Plus d’exposition », est une expression radicale mais aussi
une prise de distance vis-à-vis des manifestations, des occasions et des lieux qui sont depuis toujours les lieux de
communication de l’artiste, mais qui ont pris aujourd’hui tellement d’importance que cela risque d’ôter la liberté
d’être ou de ne pas être artiste. C’est là où j’ai essayé d’introduire cet humour, même si je ne savais pas
exactement ce que je voulais dire avec ce livre. Je cherchais quelque chose qui ne soit pas tellement centrée sur
ce que je veux faire, quelque chose qui m’appartienne à moi, et qui, par extension, appartienne à l’artiste et au
paysage turbulent, spécifique que mon (son) travail trouve devant lui.
MB: Dans un de vos textes, comme pour accentuer la neutralité de l’artiste, vous déclariez que le spectateur était
le premier à voir l’œuvre. N’y a-t-il pas contradiction entre la subjectivité présente dans Contemplator enim et
ce retrait d’une scène artistique qui privilégie beaucoup la figure de l’artiste ?
GP: Depuis que je travaille comme artiste (et pas seulement depuis que je fais des expositions), les conditions ont
beaucoup changé. J’ai toujours gardé l’attitude d’être moi-même un spectateur du paysage de l’art. Peut-être
n’ai-je pas travaillé comme artiste ? Par contre j’ai toujours été attiré par ce qu’on appelle l’art, cette chose qui
donne, au moins a moi, l’impression, qu’on ne peut le faire, qu’on ne peut pas vraiment le produire mais
seulement être là pour le comprendre. Le comprendre, l’arranger, m’attire plus que produire du nouveau. D’un
autre côté, c’est impossible de ne pas en faire. Sans dire : « Je fais ce tableau et il est absolument nouveau » – ce
que je ne dirais jamais – j’aurai toujours l’urgence et la nécessité de toucher quelque chose qui me donne cette
impression. C’est peut-être regarder quelque chose d’ancien, puis l’imaginer à nouveau et produire alors quelque
chose qui va s’ajouter à tout ce qu’on appelle art.
Pas seulement ce qui existe mais tout le potentiel imaginable à ce propos. C’est en cela que je m’abandonne dans
cet écrit à la dimension psychologique. Il y a une pudeur à se mettre dans la liste des producteur d’objets
artistiques. Sauf que, sans le vouloir, on s’y retrouve et qu’il y a toujours quelqu’un pour vous dire : « Attention
vous y êtes quand même ! ». Mais il ne faut pas que l’artiste lui-même affirme appartenir à cet horizon.
MB: Il me semble que depuis le début votre travail touche à des points qui concernent l’art et son histoire, sa
perception. Le tableau, le châssis, le cadre, la vision perspective. En vous retirant dans un espace intime qui
révèle le moi, y compris le moi de l’artiste, n’affirmez-vous pas quelque chose de nouveau ?
GP: En fait, je me retrouve depuis toujours, mais peut-être plus encore aujourd’hui, sur un parcours (une ligne
entre moi et l’œuvre) qui me porte vers la construction, la définition de l’œuvre, et en même temps vers la
catastrophe et la décomposition de cette œuvre. J’en suis constamment conscient; ces deux éléments, la vision
et la disparition de l’œuvre comme objectif à atteindre, sont essentiels à ma personnalité.
MB: La photographie, utilisée dans de nombreux travaux, qui enregistre une situation précaire, une fiction aussi,
n’est-elle pas un équivalent de la vision et de la disparition ? Une chose a existé qui n’existe plus mais dont on
a une trace, distanciée, dans la reproduction.
GP: Je considère la photographie comme un miracle. Elle me donne la reproduction vraie de ce que je vois et en
même temps elle me permet ultérieurement une distance vis-à-vis du problème de la reproduction. Je possède
la réalité, non comme auteur de l’image, mais comme témoin d’un regard critique sur la réalité : pour moi la
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photographie regarde déjà la réalité d’une façon critique et non pas d’une façon subjective. Cela me donne
le grand avantage de n’avoir pas à reproduire la réalité et surtout de pouvoir manipuler cette réalité reproduite –
reproduction de la reproduction – en jouant sur le grain du papier, en enlevant ou en rajoutant des parties,
en produisant un trompe-l’œil justifié qui reste fidèle à l’œil qui a vu la réalité pour moi : l’objectif de l’appareil.
MB: N’avez-vous pas été toujours séduit par les dispositifs (perspective, photographie, géométrie mais aussi
histoire, mythologie, philosophie) nécessaires à la fabrication des images ? Vous intervenez à l’intérieur de ces
dispositifs.
GP: Jamais je n’ai utilisé une photographie prise par moi-même. La photographie je la débaptise, je la détourne de
son but premier. Elle est un document qui déplace le temps, qui met en relation des instants différents. Elle donne
le moment originel mais elle peut prendre une autre signification.
MB: Dans un premier temps, vous êtes donc toujours spectateur.
GP: C’est une attitude depuis le début. Je prends une initiative à cause de l’urgence à parvenir à ce qu’on appelle
œuvre, jamais à cause de la curiosité pour la manipulation de l’image. Il y a une urgence dans la possibilité pour
l’image d’être regardée à nouveau, d’être regardée au présent.
MB: Vous avez aussi parlé de catastrophe : des œuvres comme Rialto (1990) ou Hic et nunc (1991), présentée
à Rivoli, ne parlent-elles pas d’une catastrophe, celle de l’art, de la peinture ?
GP: Je reconnais vivre, dans ma condition d’artiste, selon deux polarités : faire et défaire. Je ne veux pas attribuer
au concept de catastrophe, et encore moins à celui de construction, une valeur de proposition définitive. Je ne
donne pas une signification dramatique à la catastrophe, qui impliquerait la « bonne santé » du concept d’œuvre
d’art, comme je ne suis pas convaincu qu’il soit possible de construire l’œuvre selon un code positif et stable.
Entre ces deux convictions, je pose une relativité qui est la possibilité paradoxale d’un absolu, car celui-ci n’est
confié ni à l’une ni à l’autre de ces valeurs mais tient compte de ces deux limites. Pour cela, je n’ai jamais signé de
manifeste, de pétition, ni affirmé de certitudes, proclamé des vérités. Je suis toujours à la recherche de quelque
chose de possible à mes yeux, espérant mettre mes yeux dans le monde.
MB: Vous avez écrit en 1984, dans Le lieu de la représentation : « L’artiste et l’œuvre sont complémentaires, non
séquentiels. Pour l’œuvre, il est essentiel, pour qu’elle existe, de saisir le regard qui la révèle – peu importe que ce
soit le regard de l’auteur ou le regard du spectateur ; de la même façon, pour l’artiste, pour sa sauvegarde à lui,
est nécessaire la découverte de quelque chose (l’œuvre) qui lui permette de regarder. C’est pourquoi, comme
je l’ai dit, ce sont les œuvres qui m’ont pensé, et non vice versa. L’artiste ne pense pas : c’est un naufragé,
rescapé des dangers qu’il a évités en décidant d’aborder l’œuvre ».
GP: Pendant trente ans, les deux polarités : définition-construction / conscience de la catastrophe ont existé, mais
j’ai eu plus de confiance dans la première jusqu’au milieu des années soixante-dix. Au début, je vérifiais les
possibilités, déjà définies, de l’œuvre. J’ai renversé mon attention quand j’ai placé face à face les deux plâtres de
Mimesi et quand j’ai fait entrer l’observateur, et parfois l’œuvre elle-même, dans une mise en scène. En me
concentrant sur le concept d’art, sur l’histoire de la vision, j’étais conscient de la fragilité de toutes les conceptions
de fabrication de l’image.
MB: Dans Hic et nunc, le Radeau de la Méduse de Géricault (l’histoire du naufrage et celle du tableau) n’est-il pas
une métaphore ?
GP: J’ai fait beaucoup de citations ; toutes mes œuvres, si elles ne sont pas des citations, contiennent du moins
des échos de quelque chose d’autre, du passé ou du futur. Dans Hic et nunc je mets en scène le Radeau de la
Méduse comme porteur du destin implicite du tableau. Il ne s’agit pas d’une référence à la scène représentée
mais au fait que la scène représentée dans le tableau c’est la transparence même du tableau : une œuvre
gigantesque, illimitée, courageuse, une sorte de défi à la mesure d’un tableau. J’ai profité de la transparence entre
le sujet (la scène représentée) et la présence (le châssis) pour faire une seule chose des deux : présenter
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la surface du tableau comme un symbole de l’existence précaire de ce tableau. En reconstruisant, aux dimensions
de l’original, le châssis du tableau de Géricault, je donne à voir le radeau que la peinture représente dans un
équilibre dangereux. La toile, elle, devient un élément iconographique de cette scène : elle devient l’eau, la mer.
Le chevalet, lui, n’est pas à l’échelle du travail, mais un rayon de lumière en émane qui vise et illumine le point
central de l’autre œuvre exposée, Contemplator enim. II y a ainsi deux moments : Hic et nunc qui est une œuvre très
réelle, très présente, faite sur le lieu, qui envahit l’espace et Contemplator enim qui est une projection à l’intérieur du
mur. C’est une simulation due au dessin perspectif qui nous emmène au-delà du mur. Les œuvres sont deux formes
(deux forces) qui se regardent. La lumière les relie et pose la question de l’existence de l’œuvre : il y a une chose
antérieure à notre regard et une chose qui va advenir, nous sommes ou dans l’attente ou dans la disparition.
MB: Dans Rialto exposé au Studio d’arte Barnabò à Venise en 1990, tout est suspendu, les deux châssis sont
sens dessus dessous : c’est l’inconfort pour le spectateur qui veut regarder les tableaux. Le livre qui décrit l’œuvre
montre des collages, des études, réalisés à partir du tableau de Giovanni Bellini, Allégorie de la Fortune
changeante ou Mélancolie, et à partir de différents projets de construction du pont du Rialto. L’analogie est là,
entre le pont réel et le pont formé par les deux tableaux.
GP: Le pont est l’écho du lieu. Cette œuvre était présentée à Venise. Un objet se renverse, se dédouble et se tient
en équilibre au milieu de l’espace – à la hauteur exacte de notre regard. C’est notre regard qui, ici, soutient le
dispositif et donne à la toile la possibilité de rester dans l’espace. Tout, le chevalet, la palette, les papiers qui
volent et qui portent le titre, la date et la signature, est tenu par ce centre, comme le centre est l’élément central
des études. Il y a la fixation d’un point central qui est une sphère, celle de la Fortune.
MB: Pourquoi avez-vous choisi ce tableau de Bellini ?
GP: Parce qu’en ce moment je suis attiré par une sphère transparente, mobile. Cette sphère de cristal, par sa
clarté et sa mobilité, déforme et perturbe la visibilité pure.
MB: Pouvez-vous décrire les travaux que vous avez exposés à la Galleria dell’Oca à Rome en mai dernier ?
GP: Il y a deux travaux. Le premier est un carré de plexiglas percé au centre d’un trou dans lequel j’ai fixé un
crayon dont la pointe s’ajuste sur celle du crayon représenté dans un dessin de mains en train de se dessiner.
Son titre est Meridiana : il renvoie à la fois à la mesure du temps représentée par la montre du dessin et au crayon
comme méridienne qui fixe l’instant de la rencontre. Le deuxième est fait d’un carré de toile fixé au mur : j’ai
dessiné une surface vue en perspective sur laquelle j’ai collé un papier froissé qui reproduit la perspective de
l’entrée de mon appartement, la même que j’ai utilisée en grand au Castello di Rivoli. Des morceaux de papier
sortent de la toile et sont placés sur le mur dessiné selon un prolongement de la perspective. C’est l’ambiguïté
entre ce qui avance et ce qui recule, entre le dessin et les matériaux, qui dans ce cas m’intéresse.
MB: Pourquoi le titre de ce travail est-il Non toccare ?
GP: Dans Contemplator enim, je termine le dernier chapitre par « Ainsi l’auteur quitte la scène. L’œuvre est
quelque part intouchable ». L’œuvre est alors une sorte de représentation qu’il est inutile de toucher et de
chercher à comprendre.
MB: Cet ouvrage que vous évoquez contient la représentation d’un espace habité, subjectif puisqu’il s’agit
de l’entrée de votre appartement, mais l’auteur, l’artiste, est absent et seules les œuvres sont présentes.
GP: J’ai pris grand soin de choisir cette pièce et non l’atelier ; j’ai voulu mettre quelque chose qui m’appartienne
mais en dehors de l’espace opératoire professionnel. Cependant rien n’est visible, sauf le mur et les éléments qui
constituent des visions, des apparitions dans cet espace, et qui ne sont pas vraiment là. On sent bien qu’ils sont
ajoutés à la représentation photographique de l’espace. Par exemple, j’ai profité de la présence de deux portes et
de l’espace entre elles pour imaginer gratuitement, pour un instant, que l’on pouvait trouver là le tableau de
Velázquez, Les ménines, et proposer à nouveau l’énigme posée par ce tableau. Sortant de la porte, il y a l’image
d’une toile vierge comme image du miroir peint par Velázquez.
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MB: Même retiré dans cet espace privé, il faut que vous y fassiez rentrer l’art : Velázquez, une gravure ancienne
d’une place de Turin, une de vos œuvres anciennes comme L’ospite. L’espace ne peut-il pas rester vide ?
GP: Pour moi, l’espace (et j’ai connu beaucoup d’espaces différents : galeries, musées...) est là pour laisser
imaginer qu’il va se passer quelque chose, qu’il va être décoré, et cela depuis toujours. Je suis là pour dire : je ne
peux pas « décorer » cet espace mais, par contre, il y a nécessité pour moi d’imaginer et de rendre visible la
possibilité de la décoration. A travers la mémoire et l’imagination, je veux rendre l’espace différent ; cela ne veut
pas dire le nier, ni l’interpréter, mais en faire le théâtre d’une évocation.
MB: Dans tout cela, il y a une conception de l’espace qui renvoie aux tableaux de De Chirico. L’espace est un lieu
d’attente de la représentation. Dans ce théâtre, la peinture n’est-elle pas l’événement attendu ?
GP: J’ai toujours pensé que le tableau comme l’espace réel, pour être regardé, pour constituer l’essentiel de notre
vision, doit se transformer en quelque chose que je peux nommer théâtre. L’objectif est de pouvoir assister
à quelque chose qui va rendre visible une surface, un volume que l’on ne regarde pas d’habitude. On est
conscient qu’après avoir vu, il va y avoir disparition. C’est la règle de la possibilité même de regarder.
MB: Dans votre œuvre, n’y a-t-il pas une lutte contre la disparition ?
GP: J’ai parfois recours à la transparence des images afin de garder quelque chose qui sera un jour recouvert par
quelque chose d’autre. Quand je représente la direction du regard, c’est peut-être pour créer une résistance au
passage de notre regard et donc pour rendre solidaire le regard et l’objet de la vision. Dans Liber veritatis (1979),
il y a la description d’un regard conditionné par le sujet qu’ordonne le tableau, mais dans les mains du personnage
qui regarde il y a un morceau de la reproduction d’un tableau qui est dans la même exposition. Mon œuvre est
comme un échafaudage : des éléments identiques ou proches sont utilisés dans des situations et à des niveaux
différents. Je peux faire un parallèle entre De pictura (1979) et Contemplator enim (1991) : dans les deux cas,
l’espace représenté est impraticable parce que la figure regarde la surface du seul tableau retourné que nous,
spectateur, nous ne pouvons voir. Nous ne sommes pas là, nous ne pouvons pas voir mais quelqu’un le fait pour
nous. Le personnage est représenté dans la scène.
MB: L’œuvre n’est-elle pas exclusion du spectateur ?
GP: En même temps elle et en fait le sujet. Devant la représentation, vous êtes exclu mais aussi présent comme
témoin d’un absolu. C’est l’avantage de ce qui ne peut être interprété. Vous avez l’illusion, alors que vous n’êtes
pas convoqué à voir, d’être le seul à voir ce quelque chose qui est représenté, donc intouchable. C’est là
la frustration même de la perception. Merleau-Ponty écrit dans L’œil et l’esprit : « La vision n’est pas un certain
mode de la pensée ou présence à soi : c’est le moyen qui m’est donné d’être absent de moi-même, d’assister du
dedans à la fission de l’Être, au terme de laquelle seulement je me ferme sur moi. Les peintres l’ont toujours su ».
MB: Cela a-t-il valeur de programme ?
GP: Cette réflexion m’a beaucoup touché. Le peintre est celui qui a vu pour les autres. Il n’enlève pas la vision aux
autres, il veut au contraire la leur donner. Il veut donner la vision au spectateur comme il croit possible qu’elle soit
définie.

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